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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Una nouvelle vague letteraria (ma non solo)

ALLA RICERCA DELLA FELICITÀ di Pier Mario Fasanotti er ragioni planetarie dell’economia, ma non solo per quelle, siamo Stati Uniti, Barack Obama. Il quale non ha fatto esplicito riferimento a entrati in un’epoca dalla durata imprevedibile, che certamente quanto pur c’è nella Costituzione americana, ossia il diritto alla feliLa crisi non è beata e non ha la leggerezza del sogno e del progetcità, ma si è appellato all’orgoglio del suo popolo, alla sua capato. Inoltre, come qualcuno ha recentemente osservacità di riscattarsi, di rialzare la testa, riconoscendo il dovere incalza, gli allarmi to, la tanto temuta terza guerra mondiale non è scopdi un’etica di serenità economica e sociale. Dall’altro risuonano. Ma non piata ufficialmente, ma ha già causato, de facto, versante, quello religioso, Papa Benedetto XVI non si esaurisce l’aspirazione si stanca di additare il recupero, il rafforzamilioni di morti, quindi è naturalmente in atmento o la riscoperta, dei valori fondato, in una frastagliata geografia di lutti e di a un Eden un tempo negato ma mentali che ci permettono di definirci non violenze. Tutto questo sul fondale più perinon per questo irraggiungibile. Ecco solo uomini, ma uomini giusti. La letteratura, il coloso che possa mai esistere: il timore che il perché nei romanzi si torna cinema, e più sgangheratamente la televisione (quelterrorismo sia piaga dilagante, alla pari con l’allarla più seria, che è anche la più rara) indagano sui risultagamento delle zone di povertà e di peste emotiva. Si ripea parlare di amore e ti della nostra ricerca di felicità. tono gli allarmi, ma anche nuove invocazioni per una vittoria di speranza… pacifica sia individuale che collettiva. Sostanzialmente sono di due continua a pagina 2 ordini. Uno laico, e l’ultimo esempio l’ha dato il neo presidente degli

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Identità di Sergio Belardinelli Il pop esistenzialista di Antony Hegarty di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Icaro, il buio e la sete di luce di Roberto Mussapi

Cent’anni fa nasceva Simone Weil di Maurizio Schoepflin Quel “Dubbio” nato per contestare Bush di Anselma Dell’Olio

I sopravvissuti del Nouveau Réalisme di Marco Vallora


alla ricerca della

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segue dalla prima A volte con tono leggero, ma emotivamente pregnante, come con il ritorno in auge dei musical, genere che pareva relegato alla Broadway di decenni fa, a volte con pellicole che scavano sul bisogno di ognuno di noi di avere «un giardino felice», e magari di allargarlo fino a ospitare i più tristi o disperati della Terra. Appena uscito è il romanzo di Vito Bruno, già finalista al Campiello nel 2000, intitolato Il ragazzo che credeva in Dio (Fazi editore). È la storia di Carmine che decide di farsi prete e, sia pure tra i dubbi che scuotono il suo credo perché in strettissimo contatto con i gironi infernali della quotidianità, e continua a lottare perché la speranza non s’allontani o diventi un fantasma ridicolo. Lo fa con Alena, montenegrina costretta a prostituirsi, ma alla fine disponibile a ridiventare padrona di sé e del proprio destino. Sarebbe lungo l’elenco dei romanzi che oggi affrontano il tema dell’amore. Inevitabile attirare l’attenzione solo su alcune ultime novità editoriali. Come per esempio l’opera intimistica del francese Philippe Besson (Come finisce un amore, Guanda). Certo, il titolo non è in apparenza un inno alla gioia, ma questa pur c’è e si colloca alla fine di un percorso doloroso e necessario compiuto da una donna coraggiosa che non esita a porre sotto l’impietosa lente d’ingrandimento errori, delusioni, rimpianti, aneliti, aspettative e sogni. All’insegna dell’amore, questa volta familiare, è il best seller francese di Fiorente Noiville, La donazione (Garzanti): vicenda di una madre e di una figlia divise dal silenzio e dal dolore, ma unite da un impellente desiderio di amore e di serenità.

È possibile leggere o rileggere la storia dell’umanità dal punto di vista della felicità? La risposta è positiva se si legge un bellissimo saggio edito dalla Garzanti, intitolato appunto Storia della felicità e scritto da Darrin M. Mahon, docente all’università della Florida. Un’opera che parte dall’assunto kantiano secondo il quale «il concetto di felicità è talmente indeterminato che, per quanto tutti desiderino la felicità, nessuno riesce a esprimere in maniera chiara e coerente ciò che desidera in concreto». Insomma, la felicità assomiglia proprio all’Euridice del mito greco, che ci sfugge dalle braccia quando ci giriamo per afferrarla e scompare appena le diamo un’occhiata. In questo senso non avrebbe affatto torto Hegel quando affermava che «la storia non è il terreno in cui cresce la felicità, e i periodi gioiosi sono come delle pagine bianche». Difficile - ma non impossibile - districarsi in una materia così volatile, facendo nostro il credo di Freud, ossia che la felicità è essenzialmente un criterio soggettivo. Il padre della psicoanalisi si accostava al concetto di compassione, cioè di partecipazione emotiva alle sofferenze e alle preghiere degli altri. Diceva così: «Per quanto possiamo inorridire di fronte a certe situazioni - quella di uno schiavo sulle galere antiche, di un contadino durante la Guerra dei Trent’anni, di una vittima della Santa Inquisizione, di un ebreo alla vigilia di un pogrom - è però impossibile per noi immedesimarci con queste persone». Sarà pure insensato, come accennava Freud, essere felici o credere di poterlo essere un giorno, è certo che il fiume carsico della storia mondiale è fatto di acqua che va nella direzione della serenità. E continua ad andarci, malgrado in certi punti sia vergognosamente rosso di sangue. Una tensione, questa, su cui si soffermò il filosofo americano William James, contemporaneo di Freud. Il movente «segreto» di

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

Hanno detto… Ho commesso uno dei più grandi errori che l’uomo possa commettere: non sono felice. Essere felice dovrebbe essere un dovere, ma raramente viene rispettato. J.L. Borges *** La felicità appartiene unicamente ai somari e agli idioti. È una fortuna che siamo infelici. J. Amado *** Quando mi capita di ridere, di scherzare, di giocare, allora mi sento un uomo. Plinio il giovane *** Tutto quello che è divertente nella vita o è immorale, o è illegale, o fa ingrassare. P.G. Wodehouse *** Ogni guadagno, ogni avanzamento dell’uomo è pareggiato da equivalenti perdite in altre direzioni, restando invariato il totale di ogni possibilità di felicità umana. E. Montale *** La vera gioia? È cosa severa. Seneca *** Ogni forma di felicità è una forma di innocenza. M. Yourcenar *** Quello che si chiama felicità nel senso più stretto corrisponde all’improvviso appagamento di bisogni accumulati e per sua stessa natura può esistere soltanto come fenomeno episodico. S. Freud

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Chi non ama le donne, i l vino e il canto, pazzo è davvero e degno di compianto. attribuito a M. Lutero *** Non vergognarti della felicità, portala in trionfo. A. Porta *** La felicità umana non si ferma mai in uno stesso luogo. Esiodo *** La felicità di ognuno è costruita sull’infelicità di un altro. I. Turgenev *** L’arpa soprattutto, i giochi e i canti ama Apollo; dolori e pianto spettano all’Ade. Stesicoro *** E con selvaggia freschezza, con vigore/mi soffiava in viso la felicità. A. Achmatova *** Si può prendere la felicità/per la coda come un passero. L. Sinisgalli *** La felicità è composta di disgrazie evitate. A. Karr *** Felicità, ti ho riconosciuta solamente/al rumore fatto quando te ne andasti. R. Radiguet *** Capita di rado la gioia/ come un tintinnio di primavera al mattino. S. Esenin *** La felicità più bella, più giusta è stare sano; la più dolce è, come vuole la natura, l’avere un amore. Epigramma di Delo

felicità

ogni uomo è questo, sempre questo. Affacciarsi su questo fiume perennemente in piena anche in periodi di spaventosa siccità morale e materiale implica inevitabilmente il viaggio intellettuale, tra le varie concezioni morali o filosofiche o semplicemente dettate dal costume. Consapevoli, come affermava Thomas Carlyle, che la ricerca della felicità ha sempre un lato oscuro, che è «un’ombra di noi stessi». È addirittura sfiancante l’elenco delle storie e delle leggende attorno alla felicità. Creso, re di Lidia, credeva di essere l’uomo felice per eccellenza perché aveva i magazzini pieni di ricchezze. Ma ci credeva davvero? Pare di no, visto che chiamò a corte il saggio Solone per indagare sulla fondatezza del suo stato emotivo. E Solone smontò il suo teorema dicendogli che l’uomo più sereno del mondo era un certo Tello, un ateniese il cui figlio era caduto in battaglia nel fiore degli anni. Chi muore da giovane è caro agli dei. E ancora più caro a chi l’ha generato. Creso non ci crede, tratta Solone come un cretino e lo caccia via. Il mito si conclude con il crollo del fragile regno, anche per la pressione dei Persiani. Anche, ma non solo.

Se Solone potrebbe apparire un sempliciotto del pensiero, occorre soffermarci su quanto aggiunse: «A molti gli dei hanno mostrato un lampo di felicità solo per sottrarglielo alla fine». Sicuramente una certa concezione greca - i morti sono felici - è lontana da noi contemporanei (fanatici islamici esclusi). Semmai ci è più vicino quanto ci ha rimandato Esiodo in Le opere e i giorni: felice e fortunato (eudaimon te kai olbios) è colui che conosce e rispetta le festività, evita le trasgressioni e «fa il suo lavoro senza offendere gli immortali». Vien fuori il daimon, una sorta di potere occulto, una forza che guida gli uomini laddove non è possibile indicare un altro «agente». Poi vennero le lucide argomentazioni sulla virtus da parte del filosofo romano Seneca. Poi venne la visione cristiana dell’uomo come figlio di Dio e a lui legato. Una rivoluzione intellettuale e spirituale. Anche se i fili della continuità sono rintracciabili, perché mai recisi del tutto. Il testo biblico parla dell’Eden perduto, della colpa di Adamo ed Eva, dell’espiazione eterna fino al giorno della palingenesi. I testi greci, soprattutto quelli delle tragedie, indagavano sull’infelicità come male endemico. Le tragedie ateniesi del V secolo raramente includono un lieto fine, semmai rotolano su esseri apparentemente innocenti che vengono stritolati da ciò che in alcun modo si può controllare. C’è la Hybris, c’è la Follia. L’elemento imponderabile che può costruire la felicità ha un riscontro anche lessicale. Il termine inglese happyness ha come radice il middle english e l’antico norvegese happ che significa caso, fortuna, ciò che capita. Lo stesso termine francese bonheur contiene l’antico heur, ossia fortuna. In tedesco abbiamo Gluck, che si usa ancora per significare sia la felicità sia la fortuna. E questo «caso» non si allontanerà mai dai personaggi shakesperiani. E nemmeno dalla tentazione di Einstein di pensare che la vita e l’universo siano frutto di «un colpo di dadi». Se gli illuministi cominciarono a pensare alla felicità come a qualcosa di raggiungibile in quanto ricompensa di un determinato comportamento, per i cattolici la via alla felicità attraversa l’essere solidali col prossimo, il sacrificio, la dedizione, la carità, il non disgiungimento da Dio. Su questo eterno sentiero è da millenni che milioni e milioni di persone si mettono in viaggio, non importa il loro credo. Il ritmo del loro passo è caparbio in tutte le latitudini.

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parola chiave

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IDENTITÀ l problema dell’identità, comunque lo si affronti, è sempre un problema intricato. Lo è per i filosofi ma ancor più, specialmente oggi, lo è per gli storici e gli scienziati sociali. In che cosa consiste infatti l’identità di una cultura, di un popolo, di una nazione? Che cosa intendiamo di preciso quando, poniamo, all’estero, diciamo di essere «italiani»? E ancora: che cosa intendiamo comunicare quando, conversando con qualcuno a Milano, diciamo di essere «romagnoli» o «marchigiani»? A queste domande si può rispondere in molti modi, variamente articolati e complessi, alla base dei quali sta anzitutto una realtà geografica, qualcosa cioè di ben definito, sul quale però sappiamo che si sono sedimentati usi, costumi, istituzioni, diciamo pure: una cultura e un carattere, non ugualmente definibili con la stessa precisione. Del resto questo vale anche per le persone. Quante volte ci è capitato di guardare addirittura i nostri figli e di pensare che, al di là del loro aspetto fisico, sul quale certamente non ci sbagliamo, conosciamo poco o nulla di loro, in ogni caso molto meno di quanto vorremmo conoscere?

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Dunque l’identità. Nessuno può negare che, dicendoci «italiani», «romagnoli» o «marchigiani», noi alludiamo, non soltanto a una «espressione geografica», bensì a un certo modo di essere e di pensare, a una storia e a una cultura, che più o meno intensamente sentiamo nostre e ci caratterizzano. L’odierna società complessa, stante la sua crescente e a volte esasperata individualizzazione, rende invero tutto questo sempre più difficile; tende a indebolire i legami con una determinata tradizione storico-culturale, incrinando qualsiasi senso di appartenenza comunitaria. Ma non ne vanifica certo l’importanza. Anzi, appare ormai sempre più evidente come proprio da questo radicamento comunitario dipenda la riuscita delle nostre vite individuali, la nostra capacità di essere autonomi e liberi. A questo proposito considero assai significativo il fatto che i grandi rivolgimenti socio-politici connessi alla caduta del Muro di Berlino, il fenomeno delle migrazioni di massa, la cosiddetta globalizzazione, quindi la contaminazione crescente cui oggi sono sottoposti i popoli e le culture, stiano riconferendo attualità alla riflessione sull’idea di nazione, quale riserva di senso e di appartenenza in una società democratica sempre più spaesata e anomica, ma pur sempre desiderosa di salvaguardare la libertà e la dignità degli individui - di tutti gli individui, anche di coloro che provengono da culture diverse. Questo fatto sta a testimoniare non soltanto l’imprescindibile rilevanza socio-culturale in senso molto largo della tematica dell’identità, ma rappresenta anche una sfida a declinare tale tematica in modo nuovo. Se nelle società del passato l’identità sociale e individuale poteva essere espressa dalla coesione, dalla stabilità, quindi anche da una certa chiusura ri-

Nell’odierna società complessa occorre sapersi relazionare continuamente con ciò che è “altro” senza perdere la consapevolezza di ciò che siamo. Bisogna tenderci il più possibile verso l’esterno senza spezzare i legami con la nostra storia

Flessibili come un elastico di Sergio Belardinelli

Aperto ma non relativista, attento all’individuo ma anche ai legami sociali, curioso della novità ma non ostile alla tradizione: il cristianesimo, così prezioso per l’edificazione delle liberaldemocrazie, è in grado di dare una straordinaria flessibilità spetto a tutto ciò che non rientrava entro i suoi rigidi confini, oggi l’identità (quindi anche l’identità nazionale) deve farsi flessibile, aperta e, in quanto tale, permeabile verso l’esterno, diciamo pure, inclusiva nei confronti dell’altro, ma anche capace di fronteggiare, senza aggressività (e senza nazionalismi), quello che sembra essere uno dei pericoli più seri sia per gli individui che per le comunità: la frammentazione, il diffuso relativismo culturale e la tendenza a generare conflitti irriducibili. Si tratta pertanto di un’identità sempre in fieri, sottoposta a continue sollecitazioni e della quale occorre conoscere bene i punti più delicati, ossia

più rigidi, sui quali sappiamo che, se si tira troppo, è facile che si producano lacerazioni, così come i punti più resistenti, ossia più flessibili, ai quali eventualmente attingere l’energia necessaria a ricreare equilibrio. In altre parole, sia sul piano individuale che su quello sociale, occorre sapersi relazionare continuamente con ciò che è «altro», senza perdere la consapevolezza di ciò che siamo; occorre tenderci il più possibile verso l’altro, senza spezzare i legami che abbiamo con noi stessi, con la nostra storia e la nostra tradizione. L’elastico, dunque: ecco la metafora ideale per esprimere l’identità in una società complessa.

La tradizione religiosa (cristiana) costituisce un elemento particolarmente importante di questa identità a elastico, certamente aperta ma non relativista, attenta all’autonomia individuale ma anche ai legami sociali, capace di valorizzare le novità senza essere indifferente né ostile alla tradizione, e per questo tanto preziosa per le nostre liberaldemocrazie. Il cristianesimo, in altre parole, è in grado di dare all’elastico una straordinaria flessibilità. L’idea della trascendenza, la particolare escatologia cristiana, la stessa Chiesa, nel momento in cui entrano nella storia di un popolo e di una nazione, istituiscono una sorta di tensione costante in tutta la realtà. Di fronte al Dio di Abramo e di Gesù Cristo, nessun ordine del mondo, se così si può dire, è più lo stesso. E nonostante i fraintendimenti che possono esserci stati in proposito nel corso dei secoli, oggi pare abbastanza evidente che abbiamo a che fare con un ordine sempre attento alle distinzioni (le cose di Cesare e quelle di Dio), sempre «perfettibile», sempre sollecitato a una «novità» che, di per sé, non ammette irrigidimenti né sul piano della vita individuale, né su quello della vita sociale.

Proprio per questi motivi, riconducibili in ultimo alla trascendenza di Dio, nella quale si esalta peraltro la trascendenza dell’uomo, quale sua dimensione costitutiva, il cristianesimo non è ipostatizzabile in nessuna delle forme secolari che sono più o meno riconducibili alla sua forza vivificante, né può essere considerato una «religione civile» in senso proprio. Chi pensa alla religione civile pensa non a caso a una religione secolarizzata, capace di offrire legami, simboli, sentimenti civici e di appartenenza, attorno ai quali costruire una vera comunità, diciamo pure, una vera nazione. Ma il cristianesimo è un’altra cosa. Pur essendo indubbiamente anche un importantissimo fattore di identità e di appartenenza «civica» (anche nazionale), il suo obbiettivo primario è un altro; è quello di far conoscere la parola rivelata da Dio per la salvezza di tutti gli uomini. La sua incidenza come fattore di «civilizzazione» non è dunque perseguita direttamente, alla maniera della cosiddetta «religione civile», ma diventa una sorta di benefico effetto collaterale, qualcosa cioè che scaturisce soprattutto dalla sua capacità di essere fedele a se stesso, al mistero della croce e della risurrezione di Gesu Cristo. Per inciso, faccio notare che questo è il motivo di una certa irriducibile ambivalenza del rapporto tra cristianesimo e vita civile, del fatto cioè che i cristiani sono (o dovrebbero essere) «nel mondo», senza essere «del mondo»; ambivalenza che ha fatto da propulsore alla preziosa differenziazione tra religione e politica, senza la quale non avremmo mai avuto una cultura liberale e democratica del tipo che si è sviluppato in Occidente e che, sebbene oggi sembri che lo si voglia dimenticare, costituisce un po’ il nostro grande privilegio.


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cd

musica Antony Hegarty MobyDICK

pop sì, ma esistenzialista di Stefano Bianchi

ero diplomazia, da parte del critico musicale del tabloid britannico The Sun, che nel 2005 lo definisce «un travestito nato a Chichester, nel West Sussex, ma che ha trascorso gran parte della sua vita in California e ora risiede a New York». Antony Hegarty, alle provocazioni c’era già abituato: troppo facile snobbare le sue canzoni, ironizzando su un’omosessualità intrappolata in un corpo ingombrante. Quell’anno, però, a fare giustizia c’è I Am A Bird Now, il suo secondo disco dopo Antony and the Johnsons del 2000. In copertina, l’immagine di Candy Darling, la drag queen della Factory di Andy Warhol che si era illusa di diventare una gran diva del cinema. Antony, al contrario, non si illude di compiacere più di tanto le platee. E non elemosina facili applausi. Gli basta che la sua voce non finisca nell’oblìo e che Lou Reed non smetta di volerlo accanto a sé in concerto, facendogli rivisitare la sua Perfect Day e Candy Says, dei Velvet Underground. A volerle cercare, ci sono tracce di Nina Simone e di Bryan Ferry nella sua voce/strumento. Ma sono dettagli, giacché il canto spirituale e al tempo stesso carnale di questa vulnerabile e solitaria creatura inglese cresciuta nel mito di Boy George (cui ha dedicato nel 2005 la canzone You Are My Sister, omaggio ironico al comune status di gay dichiarati), non si svende alle facili catalogazioni. Tanto più adesso, che The Crying Light ha tutti i crismi del disco di culto. Questa volta, in copertina, c’è una fotografia di Kazuo Oh-

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no, il maestro giapponese della danza Butoh che nel 2006 ha festeggiato cent’anni di vita. Antony, lo venera. E come lui, riesce a spingersi oltre il tempo e i generi. Kazuo Ohno lo faceva muovendosi ipnoticamente, lui lo fa con la sua voce ipnotica. Che è un dono divino, costantemente in primo piano. Mentre la musica, eseguita dai Johnsons, è un prezioso sottofondo cameristico. The Crying Light, incentrato sull’interiorità e sul respiro profondo della natura, distilla le atmosfere più care al cantautore dividendosi tra sinfonie minimali (Her Eyes Are Underneath The Ground; The Crying Light), sublimi orecchiabilità a un’incollatura dalla sperimentazione (One Dove; Daylight And The Sun), una cabarettistica giocosità «pop» come Kiss My Name, lo straniante «mantra» di Dust And Water, lo struggente melodramma di Everglade sottolineato da maestose orchestrazioni. La elasticizza, Antony, quella benedetta voce di cristallo che si fa crooning e poesia, maschile e femminile, tutto e il contrario di tutto. In Epilepsy Is Dancing, la fa volteggiare fra le smagliature di un valzer. Dentro Aeon, pizzicata dall’arpeggio d’una chitarra elettrica, la immerge nel soul pensando a Otis Redding. E pensa al blues, quando mette il suo canto crepuscolare al servizio di scarni contrappunti pianistici (Another World). È già un classico, The Crying Light. Del pop esistenzialista. Antony and the Johnsons, The Crying Light, Rough Trade/Spin-Go!, 18,50 euro

in libreria

mondo

riviste

IN MEMORIA DEL SIGNOR G.

IL FESTIVAL DI WRIGHT 2009

SEI COVER PER CAT POWER

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onfrontarsi con lui imponeva, impone, onestà intellettuale; la scelta di preferirsi persona piuttosto che maschera. E non è mai facile accettare chi ci mette di fronte alle nostre finzioni, trasformandosi in uno specchio capace di mostrare esattamente chi e come siamo dentro».A settant’anni dalla sua nascita, Dalia Gaber ricorda così la straordinaria personalità del padre in Gaber, Giorgio, il signor G. Raccon-

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inì con un deficit di 125 mila sterline e l’eco trentennale dell’ultima grande esibizione di Jimi Hendrix, con gli strepiti degli abitanti dell’Isola, non avvezzi a tanto clamore, e lo strascico leggendario della fine di un’epoca. Il Festival di Wright del 1970 è rimasto un tabù inaccessibile fino al 2002, ma pur non avendo raggiunto i fasti documentati in Message to love, dal 2002 ha sa-

i sono fuoriclasse che si permettono il lusso di riservare pezzi da novanta in uscite minori». Così, Elena Raugei, presenta su «ilmucchio.it» Dark End Of The Street, ultimo brillante extended play di Cat Power. La cantautrice americana sciorina trenta minuti di genuina passione musicale con apparente nonchalance. Contro l’abituale pitoccheria con cui anche sommi artisti

Uscito il libro a cura di Andrea Pedrinelli che raccoglie interventi di amici e artisti su Gaber

I Prodigy apriranno l’edizione prevista in giugno nell’isola del mitico rockmeeting del 1970

Un extended play della cantautrice americana con “materiali di riporto” di alta qualità

tato da intellettuali, amici, artisti (Kowalski, 251 pagine, 13,00 euro). Curato da Andrea Pedrinelli, il volume è un’antologia di interventi in memoria dello chansonnier milanese. Da Maurizio Costanzo a Morgan, da Vincenzo Mollica a Eugenio Finardi, viene rievocata la vena ironica e surreale dell’artista, il lascito poetico e aguzzo che i suoi testi teatrali affidano a tempi così pragmatici e rudi, destinato a perdersi in rivoli flebili. Franco Battiato, che per lui curò Polli d’allevamento, è amaro: «non poteva immaginare che nel giro di qualche anno tutto quello che lui ha combattuto (l’inciviltà, l’incompetenza, il pressappochismo, il delinquere come filosofia di vita) sarebbe diventato per mezza Italia un sano obbiettivo, finalmente raggiunto».

puto mantenere buon seguito e dignità artistica. Per l’edizione del 2009, prevista per giugno, sono stati scelti come apripista i Prodigy, che sfrutteranno l’esibizione sull’isolotto britannico per presentare alcuni brani del nuovo album Invaders must die. A completare la giornata inaugurale anche Ting Tings, Pendulum e Basement Jaxx. Rese note le tariffe, pass con campeggio a 140 sterline a persona, e venti in meno senza pernottamento, vige ancora il più stretto riserbo sugli ospiti delle due serate conclusive. Pare certo, invece, che come nella scorsa edizione, parte del budget verrà impiegato per ridurre l’impatto ambientale del Festival nella verdissima isola.

smerciano i propri materiali di riporto, le sei cover che compongono l’ep di Charlyn Marie Marshall, stupiscono per l’apparente svagatezza con cui sanno raggiungere picchi emotivi di assoluto valore. Registrate a margine del precedente Jukebox, spirano da un retroterra polveroso e fumogeno, le brezze cristalline di Dark end of the street e It Ain’t Far e poi I’ve Been Loving You Too Long (To Stop Now) di Otis Redding, che pur lontana dalle radici musicali dell’artista, profuma di ispirata maturità. I pastosi arrangiamenti della Dirty Delta Blues Band legano l’eterea voce della Marshall a una nuova temperie sonora. Quella che abbiamo di fronte, è un’elegante signora della musica.

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zapping

LA STRATEGIA DI CARBONI: ribellarsi ma non troppo di Bruno Giurato a musica può sempre essere ribelle. È sempre latente questa grande potenza che può avere» dichiara Luca Carboni al sito internet del Foglio. Ci viene da commentare con un Nientedimeno! E subito andiamo a controllare il suo ultimo disco, che si intitola appunto Musiche Ribelli, titolo finardiano per una raccolta di cover (Battiato li avrebbe definiti Fleurs) degli anni Settanta o giù di lì. Brani storici. Il sentore acre della ribellione. Coscienza e incoscienza sociale dagli zingari felici in piazza, vino da supermercato e qualche spinellino qua e là. E tutto ciò da Luca Carboni nientedimeno, il cantore blasé degli anni Ottanta bolognesi, quello famoso per i pezzi soft come Farfallina e Fragole buone buone (con un fenomenale assolo di sax di Lucio Dalla sotto falso nome). Dunque procediamo nell’ascolto (anzi nell’audizione, come direbbe Alessandra Mussolini a proposito dell’ultima discussa canzone di Gino Paoli) del disco. Ed è un’audizione illuminante, perché capiamo la segreta strategia di Carboni. Luca vuole che la grande potenza latente della musica ribelle resti latente. Che non si manifesti. Le sue interpretazioni, anche quella della Musica ribelle finardiana, hanno la tipica grinta carboniana del tizio che si è appena alzato dal letto e non ha ancora preso il caffè. Ora certi stortazzi e malignazzi potranno insinuare che il disco di Carboni è la palata di terra definitiva sull’arco ribelle sessantottin-settantasettino, ma noi ce ne guardiamo. Nonsiamai. Noialtri abbiamo capito il gioco sottile di Luca. Questo disco è un braciere dove i tizzoni ardenti (e ribelli) stanno sprofondati sotto la cenere. Molto ben nascosti.

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classica

Otello e Don Carlo visti dal backstage di Jacopo Pellegrini li ultimi, immancabili appuntamenti operistici in lo, Posa, Elisabetta) travolti dai decibel di maturi potenti Italia sono stati, chi non lo sa, due titoli di Verdi, subdoli e cattivi (Filippo II, Eboli, l’Inquisitore). A parte il fatOtello all’Opera di Roma e Don Carlo alla Scala di to, però, che anche ai soccombenti occorrono talora morMilano. Dopo averne parlato sul giornale in sede di dente e ampiezza (Posa nel Duetto con Filippo, Elisabetta in presentazione, vorrei tornare ora sull’argomento, così da of- «Tu che le vanità»), due caratteristiche di cui sia Jenis sia la frire a chi legge qualche spunto di riflessione in più per for- Cedolins sono privi, occorrerebbe poi una man salda in gramarsi un’idea sull’accaduto. In realtà, dell’Otello non vi rac- do di raccogliere i diversi elementi sotto un unico ombrello. conterò nulla. Nell’unica data in cui mi era possibile assiste- È proprio quel che non s’è avuto alla Scala. Diversamente re allo spettacolo l’ufficio stampa aveva esaurito gli accredi- dall’inaugurale Tristano dell’anno passato, dove Barenti, e con cordialità gentile ma ferma mi fu risposto «nisba!». boim e Chéreau seppero rinserrare le fila d’un cast non Gran successo e lodi incondizionate per Muti e per Desde- memorando, in Don Carlo Gatti e il regista-scenografo mona, il soprano Marina Poplavskaya. Non ho ragione di dubitarne e ne sono lieRiccardo Muti tissimo, vorrei soltanto spendere una paha diretto l’”Otello” roletta d’elogio per l’orchestra del teatro di Roma all’Opera capitolino: forse non un modello di disciplina, certo però neanche quell’accozzaglia di sprovveduti miracolati da un gesto dell’illustre bacchetta, di cui s’è udito parlare da più parti. Quanto al Don Carlo, ha occupato colonne e colonne, dedicate ora all’avvicendamento del protagonista ora alle aspre contestazioni subite alla prima da quasi tutti gl’interpreti, e in particolare dal direttore Daniele Gatti. Intanto, la questione del tenore sostituito: Stuart Neill, previsto in alcune repliche, a poche ore dall’inaugurazione prende il posto di Giuseppe Filianoti, che critici e cronisti hanno comunque udito nell’anteprima per i giovani. A nessuno è sfuggito lo stadio poco felice attualmente attraversato dalla sua voce: perché dunque, intervenire solo all’ultimo? Molti hanno criticato questa soluzione, che io, vi- Braunschweig hanno mancato l’obiettivo. Molti bei moceversa, credo dettata da un’astuzia non priva d’ingegno: menti, ma non l’unità e continuità del discorso tanto più con il cambio in extremis la dirigenza del teatro ha tentato necessarie quanto meno omogenei risultano, come in que(e almeno parzialmente è riuscita) di rendere accetto al log- sto caso, i singoli ingredienti musicali. Cupo, notturno, gione un doppio corretto e partecipe sul piano canoro, ma struggente negli abbandoni lirici dei dialoghi amorosi, con impresentabile su quello fisico. Se così non fosse, beh allo- Gatti lo spartito patisce improvvisi cali di tensione e inspiera l’episodio certificherebbe per l’ennesima volta l’imperi- gabili scollamenti buca-palcoscenico. Sul quale la poetica zia dell’ufficio casting alla Scala. Giacché i problemi di Fi- spartana e razionalizzante (pressoché tutti i luoghi dell’alianoti erano palesi fin dall’inverno-primavera scorsi. D’al- zione sono scatole) perseguita da Braunschweig cozza di tra parte, l’intera compagnia del Don Carlo prestava il fian- quando in quando coll’inerzia e la prevedibilità di movico a censure e discussioni, specie per la disomogeneità del- menti (Auto da fe’) e gesti, sempre coi costumi d’epoca, che le forze in gioco. Contrapporre voci di natura lirica, morbi- imporrebbero ben altri comportamenti. Se nel ’500 un sudde e fresche (più sulla carta, peraltro) a voci imperiose (nei dito, per giunta Grande di Spagna, avesse osato sedersi difatti, purtroppo, lise) poteva rivelarsi scelta drammaturgica nanzi alla regina, come fa Posa, altro che un favore, il taefficace, i giovani deboli idealisti e votati alla sconfitta (Car- glio della testa gli avrebbero riservato.

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jazz

L’eredità di Slam Stewart raccolta da Bonaccorso di Adriano Mazzoletti on tutti coloro che si occupano oggi di jazz conoscono Slam Stewart. Lo ricordano sicuramente i vecchi contrabbassisti che avevano una vera e propria venerazione per quel grande solista che tanto suonò e incise con Art Tatum e Benny Goodman. In Italia negli anni Quaranta due musicisti, Carlo Milano e Luigi Simeone, riuscirono a imitarlo assai fedelmente. Poi, negli anni successivi, Slam Stewart che aveva anche preso parte alle prime incisioni di Charlie Parker, cadde nell’oblio. Ma cosa aveva di straordinario questo contrabbassista che colpì così tanto alcuni suoi colleghi soprattutto italiani? Per la prima volta nel jazz un contrabbassista eseguiva degli assolo con l’arco doppiandoli con la voce all’ottava superiore. Non si era mai ascoltato nulla di simile. Oltre che con Tatum e Goodman lo si poteva sentire nelle incisioni in duo con il chitarrista e cantante Slim Gaillard. «L’idea di eseguire con la voce le frasi che

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suonavo con l’arco - ha raccontato lo stesso Stewart - mi venne ascoltando il violinista Ray Perry che suonava con Lionel Hampton. Lui doppiava i suoi assolo all’ottava inferiore, io feci lo stesso, ma all’ottava superiore». Quell’idea ebbe successo e per oltre dieci anni Slam Stewart fu uno dei contrabbassisti più richiesti. In seguito apparvero altri stili e soprattutto altri contrabbassisti e la stella di quel geniale musicista tramontò. Di lui non si sentì più parlare. Negli anni Settanta e Ottanta fece qualche fugace apparizione nei festival estivi, soprattutto quelli organizzati da George Wein che aveva per lui una vera e propria venerazione. Stewart è scomparso da oltre vent’anni, ma oggi un altro giovane musicista italiano ha raccolto, unico al mondo, quel messaggio e incredibilmente esegue i suoi assolo nello stile che fu di Slam Stewart. Il suo nome è Rosario Bonaccorso, siciliano residente in Liguria, che collabora stabilmente non solo con i migliori musicisti di jazz, da Stefano Di Battista a Benny Golson, ma presta la sua opera a cantanti di mu-

sica leggera come Lucio Dalla e Gino Paoli, con i quali si è esibito in ogni parte del mondo. Musicista di grande talento, lo si può ascoltare in una recente incisione con il suo quartetto nel disco Travel Notes. Con lui oltre alla tromba americana Andy Gravish e il batterista Nicola Angelucci, un altro musicista italiano fra i migliori del panorama odierno, Andrea Pozza. Fra gli undici brani presenti nel cd, tutti di sua composizione, sono da segnalare R.B, un assolo di contrabbasso che lo pone molto in alto fra gli specialisti di questo strumento, e Crazy Day, But the Blues Will Save Us, altra esecuzione particolarmente riuscita, eseguita con enfasi da Andy Gravish e dallo stesso Bonaccorso nel suo omaggio a Slam Stewart, attraente sul piano melodico e ricca di swing. Ma è tutto il disco a rivestire un interesse particolare in virtù di un legame, nella sua modernità, con la grande tradizione del jazz. Rosario Bonaccorso, Travel Notes, Parco della Musica/Egea, 15,90 euro

Slam Stewart


libri Solitudine è… MobyDICK

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narrativa di Pier Mario Fasanotti

aranno in molti a ricordare, se non altro per averne vista la riduzione cinematografica, quel conturbante romanzo di William Trevor intitolato Il viaggio di Felicia. Libro che ha reso celebre anche in Italia il narratore irlandese considerato «il più grande scrittore vivente di racconti in lingua inglese» (citazione del New Yorker). Nelle settimane scorse ho segnalato con entusiasmo i racconti (Einaudi) di Alice Munro, canadese, quindi considero squilibrata la classifica e anche un po’ odiosa se applicata al mondo delle lettere. Rimane il fatto che Trevor è un grande maestro. In un genere sul quale le case editrici italiane scommettono solo a patto che gli autori siano stranieri: peccato, perché i narratori nostrani, visto il clima editoriale, non sono proprio incoraggiati a cimentarsi nella prosa breve, anzi vengono stoppati prima ancora che raggiungano la zona gol, tanto per continuare la metafora calcistica. Tornando a Trevor, la sua ultima raccolta conferma, senza petulanti o pedisseque ripetizioni, i temi a lui cari: la solitudine dell’uomo, il torbido che alberga nell’anima di chiunque, il legame forte e ambiguo che esiste tra prevaricatore (o carnefice) e vittima, «il non detto» che si fa tormento interiore, il passato che continua ad allungare le sue ombre, talvolta devastanti, nel nostro presente. Il titolo originario dei racconti puntualmente editi da Guanda è Cheating at Canasta (Barando a Canasta). Nella presentazione italiana s’è preferito, giustamente a mio avviso, Uomini d’Irlanda. In ogni caso, si tratta di due distinti racconti. Il tema del gioco a carte ci porta all’Harry’s Bar di Venezia, dove il signor Mallory, uomo di mezza età «abbronzato, con gli occhi azzurri e l’aspetto del viaggiatore stanco», mantiene la promessa svagatamene fatta alla moglie Julia che, aggredita dalla perdita della memoria, lo aveva implorato così: «Qualunque cosa accada giochiamo sempre a carte». Mallory ricorda la donna malata cui cadevano di mano le carte e lui barava per do-

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narle il sorriso. Anni dopo torna nel luogo preferito della coppia, è solo, ascolta una conversazione di americani, marito e moglie, poi s’azzarda a fermarli con un gesto: un modo per riagganciare la realtà, propria e altrui, e far tornare a galla quanto gli diceva Julia, ossia che «la vergogna non è negativa, né l’umiltà che è un suo dono». Mallory si scusa, riceve un’istantanea manifestazione di solidarietà, che rende meno soffocante e stralunata la sua solitudine di viaggiatore ed ex coniuge. Tutto giocato da Trevor con una delicatezza che oggi ha rari paragoni. L’atmosfera si fa inquietante nel racconto La figlia della sarta. Cahal, giovane meccanico d’auto, accompagna due turisti spagnoli a visitare una Madonna piangente. Per 50 euro non rivela che è solo una leggenda truffaldina. Durante il percorso sente la macchina che sbatte contro il corpo di una bambina in camicia da notte, figlia d’una donna sola (e strana) che vive appartata. Non si ferma. Il ricordo di quel che potrebbe essere stato un incidente mortale lo insegue mischiandosi ai suoi ambigui sogni erotici, finché la madre della bimba gli promette un perdono e pace a patto che lui la vada a trovare. La donna, frequentatrice di bar, ridipinge la sua casetta e pianta fiori. Trevor a questo punto descrive l’ansia di Cahal, la torbida attrazione che prova per la donna che ha preso a vestirsi di nero, diventando più attraente, la forza che lo spinge ai confini del lutto ma anche di un piacere che ha profili vagamente pericolosi. L’appuntamento resta sospeso nell’aria, certo è che sarà questo, non importa se realizzato o no, a diventare cardine di un’angoscia interiore. Che è crescente e foriera di radicali cambiamenti. Ad attraversare tutti i racconti di Trevor è la sensazione, acuta e dolente, di un destino che non rinuncia mai a piantarsi dinanzi alle nostre porte. Quelle nascoste.

barare a canasta all’Harry’s bar

William Trevor, Uomini d’Irlanda, Guanda, 197 pagine, 15,00 euro

riletture

L’armi canto e ‘l valor del grand’eroe

di Giancristiano Desiderio li ex studenti del liceo classico ricorderanno meglio di altri ex studenti - ma si può essere per davvero ex studente? - il libro di epica classica. Quel testo che racchiudeva i poeti greci e latini e, primi fra tutti, Omero e Virgilio, quindi l’Iliade, l’Odissea e l’Eneide. Ogni tanto, navigando nei libri, libretti, libroni, libracci della mia biblioteca di famiglia - che pensate, mica si naviga solo in Internet - salta fuori qualche testo del passato remoto: primi del Novecento, anni Quaranta, Signorelli editore, Corpus Scriptorum Latinorum Paravianum, libri illustrati, disegni d’autore, estratti, traduzione, note a piè di pagina. Uno spettacolo. Mi fermo a leggere di Achille, Ettore, Adromaca, gli inevi-

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tabili interventi di Apollo, Athena e gli altri dèi che si divertono a scompigliare - bello questo verbo - le azioni degli uomini. La lettura dei poemi classici è confinata al periodo della scuola, quando poi si diventa ex non si leggono più, mentre è proprio questo il momento migliore per rileggere Omero e Virgilio: «Arma virumque cano, Troiae qui primis ab oris/ Italiam fato profugus Laviniaque venit litura…» che nella traduzione di Annibal Caro suona: «L’armi canto e ‘l valor del grand’eroe/ che prima da Troia, per destino, a i liti d’Italia e di Lavinio errando venne» e continua «e quanto errò, quanto sofferse, in quanti/ e di terra e di mar perigli incorse,/ come il traea l’insuperabil forza/ del cielo, e di Giunon l’ira tenace» e con dura e sanguinosa guerra fondò la sua città, la nostra

città «e gli suoi dèi ripose in Lazio». Chi volesse oggi rileggere l’epica classica forse non saprebbe bene neanche dove andare a pescare i libri. Non i poemi di Omero e Virgilio, bensì proprio quei libri che si chiamano antologie. Non è facile trovarne una ben fatta, con buone traduzioni, illustrata, note leggibili e, insomma, capace di portare per mano il lettore come Virgilio fece con Dante. Volendo darvi un suggerimento, vi segnalo l’ottima antologia di Mario Geymonat - figlio di Ludovico, il filosofo del neopositivismo - che si intitola proprio così Pagine di epica classica ed è stata pubblicata da Zanichelli (io ne ho un’edizione del 1993 che mi è stata donata proprio dall’autore, naturalmente Geymonat non Omero). La ricchezza di questa antologia è impagabile per-

ché oltre a i tre classici dei classici ci sono anche Esiodo e la Teogonia, Apollonio Rodio e le Argonautiche, Ennio e gli Annali, Ovidio e le Metamorfosi, Lucano e La guerra civile e ancora pagine di Stazio, Claudiano, Nonno di Panopoli. Agli autori si devono aggiungere i traduttori: Vincenzo Monti, Ugo Foscolo, Giovanni Pascoli, Salvatore Quasimodo, Luca Canali, Guido Paduano. Le traduzioni moderne hanno un vantaggio: il lettore non deve fare lo sforzo di abituarsi alla lingua, ai significati e ai suoni, e si ritrova subito trasportato nelle vicende dei mortali e degli dèi. Il Pelìde Achille avrà qualcosa da dire a noi uomini del XXI secolo? E «quell’uom di multiforme ingegno»? Diceva Leopardi: «Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia».


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storia

Perché Stalin appoggiò la nascita d’Israele? di Enrico Singer talin amico degli ebrei? Addirittura uno dei padri d’Israele? La tesi è stupefacente. Koba il terribile, lo spietato regista delle grandi purghe e dell’arcipelago dei gulag che inghiottirono la vita di dieci milioni di persone (quasi un milione gli ebrei), il dittatore che ordinò la chiusura di tutte le ultime istituzioni culturali ebraiche rimaste, comprese 750 scuole in cui ancora s’insegnava in yiddish, impartì effettivamente l’ordine al suo ministro degli Esteri di allora di votare «sì» alla nascita dello Stato d’Israele il 29 novembre del 1947 all’Onu. «Vede questa mano? È quella che ho alzato per appro-

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fumetti

vare la risoluzione 181 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite», diceva Andrej Gromyko ricordando quel giorno. Senza spiegare, tuttavia, quali erano state le ragioni di quel voto. Ci prova adesso un libro, Perché Stalin creò Israele di Leonid Mlecin. Mlecin è un giornalista russo, già vicedirettore del quotidiano Izvestija, conduttore di importanti trasmissioni televisive, storico per passione, che ha ricostruito il percorso di quella decisione attraverso centinaia di documenti segreti e ormai declassificati. «Gli amici ai quali ho chiesto di leggere il manoscritto di questo libro - scrive Mlecin - mi hanno consigliato di trovare un titolo diverso perché non fu Stalin, ma la maggioranza

degli Stati membri dell’Onu, a creare Israele. Io, però, sono certo che, se non fosse stato per Stalin, difficilmente lo Stato ebraico avrebbe visto la luce in Palestina». È questo il punto di partenza del libro che cerca di dare risposte documentate a tre domande-chiave: perché Stalin volle lo Stato d’Israele, quali erano i suoi progetti per il Medioriente, perché la politica sovietica ha poi cambiato così radicalmente indirizzo fino a considerare Israele un nemico da combattere. In sintesi - come notano anche Luciano Canfora ed Enrico Mentana nella prefazione e nell’introduzione - Stalin non era mosso da simpatia per gli ebrei, ma era convinto che la nascita di uno Stato ebraico avrebbe creato

seri fastidi alla politica araba della Gran Bretagna. Già quando Golda Meir arrivò a Mosca come primo ambasciatore d’Israele e fu accolta da una folla di trentamila ebrei russi festanti, Stalin tornò alla linea dura. Questo libro, certo, non basta da solo per comprendere la questione ebraica nella storia dell’Urss ai tempi di Stalin - testi importanti sono Lo stalinismo di Roy Medvedev o La guerra di Stalin contro gli ebrei di Louis Rapoport - ma ne svela senz’altro un tassello interessante finora rimasto chiuso negli archivi del Kgb. Leonid Mlecin, Perché Stalin creò Israele, Sandro Teti editore, 200 pagine, 17,00 euro

Gengis Khan e Archimede vanno alla guerra di Andrea Mancia ltre il tempo, oltre le guerre, la sapienza è il vero patrimonio dell’uomo». Sono queste le parole pronunciate da Marco Tullio Cicerone sulla tomba di Archimede - che concludono lo splendido volume di fumetti (disegnati da Sergio Toppi e sceneggiati da Roberto Genovesi) dedicato alla vita del conquistatore mongolo Gengis Khan e, appunto, all’inventore greco (oltre che matematico, astronomo e fisico) Archimede di Siracusa. Non è un caso, però, se nella maggioranza delle tavole che danno vita al libro, sia proprio la guerra a recitare il ruolo di assoluta protagonista. Lo scontro vittorioso contro l’Impero Cinese è naturalmente - il leitmotiv dell’avventurosa biografia di Temujin, poi diventato Gengis Khan, il leader che riuscì prima a unificare la «nazione mongola» e poi a conquistare la maggior parte dell’Asia Centrale, della Cina, della Russia, della Persia, del Medio

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Oriente e dell’Europa orientale, dando vita, anche se per breve tempo, al più grande impero conosciuto dalla storia umana. Il fumetto creato dal tratto caratteristico e personalissimo di Toppi e arricchito dai brillanti testi di Genovesi racconta solo una parte della vita del Gran Khan mongolo (si ferma proprio dopo la vittoria contro i cinesi), ma regala al lettore una storia dalla forza espressiva potente. Più lungo il capitolo dedicato ad Archimede, di cui vengo-

società

no narrati soprattutto i geniali tentativi di difesa dell’amata Siracusa contro l’assedio dell’esercito e della flotta di Roma. In questo caso la guerra è apparentemente una protagonista secondaria, ma è proprio nelle scene di battaglia che emerge prepontentemente lo stile inconfondibile del disegno di Toppi, che dal 1966 (anno del suo esordio per il Corriere dei Piccoli) a oggi ci ha regalato pagine inconfondibili nella storia del fumetto italiano. In Archimede, però, c’è anche spazio per la scienza: dalla meccanica alla fisica, con un prevedibile accenno all’idrostatica (Eureka!). Una dimostrazione - non la prima, da parte di Toppi e Genovesi, che già nel 2006 avevano creato una splendida biografia a fumetti di Federico II di Svevia - che non è affatto impossibile fondere con intelligenza divulgazione e divertimento. Anche in Italia. Sergio Toppi, Roberto Genovesi, Gengis Khan - Archimede, Alessandro Editore, 72 pagine, 19,90 euro

Alla riconquista di un mondo perduto di Riccardo Paradisi a fantascienza è stata, ed è ancora, una letteratura considerata minore. Un genere di nicchia, utile, per il suo linguaggio narrativo improntato al sapere scientifico, come strumento didattico in grado di accostare il lettore alle innovazioni della tecnica. Al limite si è attribuito alla fantascienza il ruolo profetico di anticipazione dei cambiamenti che interverranno nel nostro avvenire o quello eversivo di denuncia sociale attraverso una rappresentazione ambientata nel futuro delle condizioni del presente. A guardarle bene però queste letture della fantascienza sono riduttive, mi-

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nimaliste. La funzione più genuina delle science fiction, come scrive infatti Antonio Scacco nel suo Critica pedagogica della fantascienza è quella di ricucire lo strappo fra la cultura umanistica e quella scientifica. Secondo questo angolo visuale la fantascienza tenderebbe più a costruire che a demolire, più a integrare che a dividere: «Il suo contributo più sostanzioso non consiste tanto nell’anticipazione di scoperte e invenzioni, quanto piuttosto nell’integrazione umanizzante tra scienza e uomo, nella realizzazione di un umanesimo scientifico». È la stessa tesi sostenuta da Lino Adami, uno dei massimi scrittori italiani di fantascienza: «Viviamo -

scrive Adami - in un mondo dove la tecnica impera sovrana e ci costringe tutti all’incomodo ruolo di apprendisti stregoni. La lettura di un romanzo di science fiction ha il potere di riconciliarci momentaneamente con gli oggetti in mezzo a cui viviamo estraniati. Consente al lettore la riconquista di un mondo perduto». D’altra parte la fantascienza, schiudendo nuovi orizzonti alla dimensione del possibile, potrebbe essere percepita come un sostituto moderno delle antiche fiabe, racconti ad alto coefficiente mitico-simbolico funzionali a trasmettere conoscenze psicologiche profonde a ogni nuova generazione. Aiutandola ad accettare le sfide della vita, i traumi che la vita

comporta, la sopportazione del dolore, del distacco, dell’insicurezza e dell’ignoto che il futuro, accanto alle sue promesse positive, riserva a ognuno di noi. Per questo «Tutta la science fiction - come spiegava Robert Heinlein nel 1957 nel corso di una conferenza tenuta all’Università di Chicago - prepara la gioventù a vivere e sopravvivere in un mondo di perenne mutamento, insegnando che il mondo cambia. Più in particolare la fantascienza sottolinea il bisogno di libertà di pensiero e l’ansia di conoscenza». Antonio Scacco, Critica pedagogica della fantascienza, The Boopen Editore, 170 pagine, 10,00 euro

altre letture La più efficace

presentazione al libro di Marco Niada La nuova Londra (Garzanti, 304 pagine, 17,50 euro) è dello stesso sindaco londinese Boris Johnson: «Marco Niada ci guida alla scoperta della nuova Londra, tracciando una inedita mappa - a volte indiscreta - dei personaggi, dei locali, dei luoghi oggi più curiosi e vitali. È una città complessa ma semplice da vivere, che impone al mondo intero il suo stile, le sue creazioni, le sue mode. Niada individua gli ingredienti del rilancio della città, e non nasconde le contraddizioni di una società multietnica e i rischi della crisi finanziaria: ma Londra - aggiunge il suo sindaco - ha dalla sua milioni di talenti, questa volta ancora più aperti al mondo, che la rendono speciale e inaffondabile». Se lo dice lui che è il sindaco non c’è da credergli sulla parola. Ma conoscendo Londra e leggendo il libro di Niada, Boris Johnson non dice qualcosa di troppo lontano dalla verità.

Esiste una cultura dello sport? A questa domanda risponde in un libro pubblicato da Armando editore La cultura dello sport (240 pagine, 19,00 euro) il più autorevole esponente della Volkskunde tedesca Hermann Bausinger, che dimostra l’ampio ruolo costitutivo che lo sport gioca nelle istituzioni, nelle interazioni sociali e nelle biografie personali. Volano non solo economico e sociale, lo sport è uno strumento straordinario per sviluppare l’immaginazione dei popoli e, come diceva anche Konrad Lorenz, per fare molta economia di violenza fisica. Due pregi fra gli altri consigliano la lettura del breve volume di Riccardo di San Vittore Lo sterminio del male (Il leone verde, 128 pagine, 9,00 euro). L’originale discorso sulla contemplazione lontano da un facile e banale dualismo misticheggiante anzitutto. Riccardo propone infatti un’azione contemplativa che assume l’intera realtà umana (ratio e affectio) e orienta verso Dio e i valori eterni sia la ragione sia gli affetti umani, le virtù e le passioni, lo spirito e il corpo. L’opera si gusta inoltre per la sua sapienza biblica. Stupisce la mirabile capacità di cogliere le profondità e le innumerevoli suggestioni del testo sacro. Due figure dell’Antico Testamento - il passaggio del mar Rosso e l’arrivo nella terra promessa - diventano allegorie ricche di sfumature per descrivere il peregrinare dell’uomo che, attraverso la cogitatio e la meditatio, conduce alla quiete perfetta della contemplazione.


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ritratti

SIMONE WEIL IL BREVE E INTENSO CAMMINO DELLA PENSATRICE FRANCESE CHE NASCEVA CENT’ANNI FA. DAL MAGISTERO DI ALAIN, ALLA CAUSA OPERAIA E ALLE RIFLESSIONI SUL LAVORO, ALL’APPRODO VERSO CRISTO E L’ASSOLUTO

Simone della Croce di Maurizio Schoepflin imone Weil, della quale il 3 febbraio ricorre il primo centenario della nascita, può essere a buon diritto considerata una delle figure più interessanti della filosofia del Ventesimo secolo. Se, a giudizio di alcuni, l’appellativo stesso di filosofa non si attaglia perfettamente a questa donna dalla personalità inquieta e complessa, ancora più discutibile è il considerarla a pieno titolo una filosofa cattolica. In realtà, la Weil sino alla fine della sua vita non volle entrare ufficialmente a far parte della Chiesa di Roma; questo suo rifiuto fu da lei stessa motivato in almeno un paio di lettere, nelle quali affermava che ciò che l’aveva spinta a optare per questa scelta era la volontà di non appartenere a nessun gruppo, neppure alla Chiesa cattolica, in quanto a suo parere l’istinto di aggregazione ha la capacità di cancellare il pensiero morale. Non ancora definitivamente chiarita rimane la veridicità della notizia secondo la quale ella avrebbe ricevuto il battesimo in articulo mortis.Tale questione è stata ampiamente dibattuta, in particolare in Italia, dove la querelle ha continuato a rimanere viva; anzi, le biografie italiane più aggiornate hanno perseverato nel negare questo evento. Di recente, però, in occasione di un importante congresso tenutosi a Teramo per iniziativa del «Centro Ricerche Personaliste», il Professor Eric O. Springsted dell’Università di Princeton ha posto fine alla vexata quaestio, riportando i contenuti di una sua personale conversazione con Simone Deitz, amica e compa-

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ri atteggiamenti che le resero difficili i rapporti con gli altri. Fu una persona intransigente oltre ogni limite, scostante, quasi allergica al contatto fisico, dotata di un’intelligenza lucidissima capace di mettere alle corde qualsiasi interlocutore. Fin da piccola aveva manifestato un vivissimo desiderio di apprendere e studiò con notevole profitto, mostrando una particolare predilezione per il latino e il greco. Per due anni fu discepola del filosofo Alain (pseudonimo di Èmile-Auguste Chartier), che la influenzò profondamente: in una rivista da lui diretta, Simone pubblicò il suo primo scritto. Afflitta ben presto da vari seri malanni che l’accompagneranno per l’intera breve esistenza, la Weil insegna in un liceo e comincia a sentire come sua la causa operaia: si impegna attivamente nei movimenti sindacali della sinistra e nel 1932, durante uno sciopero, è addirittura tratta in arresto. Il concetto e l’esperienza concreta del lavoro rappresenteranno il filo conduttore delle sue riflessioni e della sua vita: le prime esperienze al fianco degli operai saranno infatti assolutamente decisive anche per la maturazione del suo pensiero. Nella visione weiliana il lavoro è inteso come l’incarnazione dell’essenza umana, che, attraverso di esso, dovrebbe esprimersi ai livelli più elevati. Nel 1932 si indirizza verso una critica del marxismo, del quale condanna le dottrine economiciste e collettiviste, e del ruolo dell’Unione Sovietica. Nel 1933 incontra e intervista Trotzki, che è ospite a casa sua; l’anno seguente, lasciato

Ebrea di nascita è considerata una filosofa cattolica, benché la sua religiosità non abbia i tratti dell’adesione a un credo definito. Ma la “vexata quaestio” riguardo al battesimo ricevuto sul letto di morte si è di recente risolta gna della Weil a NewYork e Londra, nella quale questa gli aveva raccontato di essere stata proprio lei ad aver impartito a Simone il battesimo sul letto di morte, dopo averle chiesto se si sentiva pronta ad accettare il sacramento e aver ricevuto una risposta pienamente e inequivocabilmente affermativa.

Tale versione dei fatti era stata sostenuta dal domenicano Joseph-Marie Perrin, grande amico della Weil, che aveva costantemente affermato che ella era stata battezzata in punto di morte da una sua amica, in un letto d’ospedale, con l’acqua del rubinetto. In merito a tale evento Nazareno Fabbretti, studioso della filosofa parigina, annota: «Il suo breve, intenso, appassionato cammino di vita e di pensiero verso l’assoluto, verso Cristo, non a caso ha avuto il crisma di una radicale povertà di segni esteriori: la stanza di una clinica, l’acqua di un rubinetto, una battezzante laica». A questo proposito si può aggiungere che non v’è dubbio che la figura e l’opera weiliane risulterebbero incomprensibili senza fare riferimento al messaggio evangelico e all’esistenza stessa della Chiesa: in tal senso, appaiono assai significative le seguenti parole di Thomas Stearns Eliot secondo il quale nell’atteggiamento della Weil «non v’è traccia di protestantesimo: per lei la Chiesa cristiana è tout court quella romana». Simone Weil vide la luce a Parigi in un’agiata famiglia ebrea; rivelò fino da giovinetta alcuni aspetti del carattere e va-

l’insegnamento, fa l’operaia in un’industria pesante per otto mesi, sperimentando varie realtà, tutte molto dure: le presse in una fabbrica elettrica, le fonderie in una fabbrica metallurgica e infine la fresa negli stabilimenti della Renault. Una volta licenziata, accetta persino di soffrire la fame pur di condividere appieno le condizioni dei disoccupati. Molto importanti e appassionate sono le riflessioni che tale esperienza susciterà in lei e che verranno affidate allo scritto La condizione operaia. In questi anni le sue meditazioni sono percorse da un cupo pessimismo e da un senso di profonda angoscia. Attraversa fasi di depressione e si rifugia ogni tanto presso i genitori, che, sempre molto comprensivi, la accolgono e la conducono varie volte all’estero, per cercare di distrarla e confortarla. Una significativa parentesi fu rappresentata da un viaggio in Portogallo: in un semplice villaggio lusitano Simone partecipa alla festa del Patrono insieme alla povera gente del posto; più tardi, ricordando questo evento, annota: «Là ebbi a un tratto la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi e che gli schiavi non possono fare a meno di aderirvi, e io con loro». Qualche tempo dopo, nella primavera del 1937, la Weil vivrà un altro momento di profondo turbamento: si trovava ad Assisi e in questo luogo tanto suggestivo, come ella stessa racconta, in una piccola chiesetta «qualcosa di più forte di me mi costrinse, per la prima volta nella mia vita, a mettermi in ginocchio».

Trascorre la Pasqua del 1938 tra i benedettini di Solesmes, rimanendo affascinata dalla bellezza del canto e della liturgia, e proprio qui, nel novembre, ha luogo una terza illuminazione, della quale parla come di «un momento in cui, per la prima volta, il Cristo è venuto e mi ha presa». Mentre i suoi mali si aggravano, medita a lungo e profondamente sull’amore di Dio. La Weil narrerà le proprie esperienze mistiche soltanto a due persone, una delle quali è il già ricordato padre Perrin, conosciuto nel 1941, da lei subito eletto a guida spirituale e destinatario di lettere particolarmente toccanti. Del 1941 sono le Meditazioni sul Padre Nostro; seguiranno vari scritti ancora sul tema, per lei centrale, dell’amore di Dio. Tornata da un viaggio negli Stati Uniti, Simone lavora a Londra presso la radio della resistenza francese e si dedica alla stesura di una vasta opera rimasta incompiuta, nella quale affronta la questione del lavoro, considerandola decisiva nell’epoca contemporanea e dimostrandosi duramente critica sia nei confronti del capitalismo che del comunismo. Chiari risultano comunque, pure in quest’ultimo scritto, i fondamenti religiosi delle sue teorie antropologiche e sociali. Al lavoro di fabbrica, secondo la Weil, manca un elemento assolutamente essenziale, ovvero la libertà, esercitando la quale l’uomo può esprimere il rapporto tra il pensiero e l’azione: al centro del lavoro non devono dunque esserci la produzione, il rendimento, le cose, ma l’essere


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Da sinistra: Simone sugli sci (1935); a Baden Baden (1921); al liceo Fénelon (1922-23); in abiti indiani intorno al 1933; una pagina autografa dal terzo volume dei Quaderni; il lasciapassare rilasciato a Londra nel 1943; col fratello a Knokke-le-Zoute (1922); a Marsiglia con Jean Lambert (1941)

Intransigente oltre ogni limite, la condivisione dell’infelicità è stata la sua tensione morale e la sua testimonianza. Scriveva: “Se l’evangelo omettesse ogni cenno alla resurrezione del Cristo, la fede mi sarebbe più facile...” umano con tutte le sue potenzialità che egli ha il diritto di utilizzare ed esprimere liberamente.

A Londra la salute di Simone declina irrimediabilmente, anche a motivo del suo totale disinteresse per essa: ricoverata nel sanatorio di Ashford, nel Kent, vi si spenge il 24 agosto del 1943. Riguardo alla personalità della Weil, Paola Ricci Sindoni ha affermato quanto segue: «Condividere la pesantezza della vita (malheur), la sua intrinseca infelicità, la sua oscura contraddizione, è stata la tensione morale del suo pensiero e la sua inoppugnabile testimonianza». Ponendosi di fronte al dolore e alla sofferenza che caratterizzano la condizione umana, la Weil propone riflessioni dalla tonalità decisamente religiosa: «Dio quaggiù - si legge in una sua opera - non può esserci completamente presente, a motivo della carne. Ma nell’infelicità estrema può essere quasi completamente assente da noi. Questa è l’unica pienezza possibile per noi sulla terra. Per questo la croce è la nostra unica speranza». Come si è detto, la religiosità weiliana non ha i tratti dell’adesione a un credo ben definito: essa è piuttosto una sorta di fede filosofica in cui si mescolano elementi propri di varie tradizioni (platonismo, cristianesimo, religioni orientali).Tuttavia non è mancato chi, come padre Nazareno Fabbretti, ha visto nell’esistenza di Simone un «intenso, appassionato cammino di vita e di pensiero verso l’Assoluto, verso Cristo». La pensatrice

francese ha avuto con il cristianesimo un rapporto molto travagliato, di vicinanza critica e sofferta. La sua riflessione ruota per lo più intorno al tema della Croce. Ella riconosce nell’uomo una costitutiva infelicità, che anche la liberazione dall’oppressione sociale non è in grado di eliminare: tale infelicità è propria di chi prova l’assenza di Dio e non vede alcuna luce nella sua vita, non scopre alcun senso nella propria sofferenza, nessuno scopo nell’umano affaccendarsi senza sosta. L’infelice è distante da Dio perché Dio stesso nel momento della creazione si è allontanato dal creato affinché questo potesse esistere. «La creazione - scrive la Weil - è, da parte di Dio, un atto non di espansione di sé, bensì di limitazione, di rinuncia. Dio con tutte le sue creature è qualcosa di meno che Dio da solo. [...] Con l’atto creatore ha negato se stesso, come Cristo ci ha ordinato di negare noi stessi». Così, per sconfiggere l’infelicità, l’uomo deve distruggere il proprio io; tale annullamento si ha nella sofferenza, nell’umiliazione, nella sopraffazione subita, e ci assimila a Cristo. Nella Croce, dove Dio è apparentemente assente, si rivela invece la massima presenza del Divino. Proprio la debolezza di Dio esercita sulla Weil una grandissima forza di attrazione. In Lettera a un religioso ella scrive: «Se l’evangelo omettesse ogni cenno alla resurrezione del Cristo, la fede mi sarebbe più facile. La Croce sola mi basta. La prova per me, la cosa veramente miracolosa, è la perfetta bellezza dei racconti della passione. [...] È questo che ci ha

costretto a credere». E ancora, sempre sulla medesima lunghezza d’onda, annota: «Talvolta, anche mentre recito il Padre nostro oppure in altri momenti, Cristo è presente in persona, ma con una presenza infinitamente più reale, più toccante, più chiara più colma d’amore della prima volta in cui mi ha presa. [...] Nei miei ragionamenti sull’insolubilità del problema di Dio non avevo mai previsto questa possibilità di un contatto reale, da persona a persona, quaggiù, fra un essere umano e Dio. [...] D’altronde né i sensi né l’immaginazione avevano avuto la minima parte in questa improvvisa conquista del Cristo; ho soltanto sentito, attraverso la sofferenza, la presenza di un amore analogo a quello che si legge nel sorriso di un volto amato».

Il mistero di Dio avvolse Simone Weil e le sue meditazioni su esso sono di una profondità spesso stupefacente come testimoniano le seguenti toccanti parole: «Appena Dio vuol trarla [la coscienza dell’uomo] alla luce, l’uomo fugge, scompare lontano da Dio, lo dimentica e si prepara a una unione adultera con la carne. Dio cerca l’uomo con pena e fatica e arriva a lui come a un mendicante. Egli seduce la carne per mezzo della bellezza e ottiene così accesso all’anima, ma la trova addormentata. Un tempo limitato è concesso all’anima per risvegliarsi. Se si sveglia un attimo prima che questo termine spiri, riconosce Dio e lo sceglie, sarà salva».


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tv

ccorre talvolta scrivere col cuore e con la pancia. Parole ruvide, se volete. Per dire che cosa? Questo: siamo un paese di imbecilli. Oppure ricorro a una formula più morbida con il subdolo aiuto dell’interrogativo: ci stanno prendendo per scemi quelli della televisione? Nel «paese» ci infilo ovviamente anche i giornalisti, categoria alla quale appartengo da decenni. Un esempio, che ha a che vedere con la tv, proviene dalla pressante (sic!) esigenza di chiedere a un sarto (la parola stilista io non la uso) un parere sulla nuova first lady degli Stati Uniti il cui sorriso tigresco in questi giorni ha inondato il piccolo schermo. Abbiamo appreso che il sarto Roberto Cavalli ha dato il suo placet a Michelle Obama: «La trovo radiosa perché rappresenta un nuovo futuro di speranza e di cambiamenti». Grazie di cuore, avevo le idee confuse. Evidentemente mi manca quello strumento critico che sono le forbici, il metro, il gesso con cui segnare pences sugli abiti e il graziosissimo sorriso di chi dice «ah, con quell’abito sei un amore». Si vede che il new deal americano dipende molto dall’abito color oro (we trust in gold, evidentemente) della neo inquilina della Casa Bianca. Abbiamo altresì appreso che il signor Cavalli «è fuggito nella sua casa di New York»: chi non ha un appartamento a Manhattan pare proprio un «un barbone» come si dice a Milano, con disinvoltura social-razzista di una città involgarita. E ora veniamo al cabaret da tre soldi, o da tre palle e un soldo come si usava dire nei vecchi Luna Park, offertoci dalla televisione guardona. Mi riferisco ovviamente al Grande Fratello, pacchianeria di Canale 5 e Sky. La prima ragione dello sconforto deriva dai risultati di un sondaggio Internet: la grande maggioranza degli italiani ha giurato di seguire (con piacere, se si

L’Italia guardona O

tra balli e scollature

web

FACEBOOK: ISTRUZIONI PER L’USO

games

IL RITORNO DEGLI STREET FIGHTERS

video scarta l’ipotesi di un masochismo di massa) la trasmissione, solo il 21 per cento afferma di non provare interesse, mentre il 18 per cento afferra il telecomando solo dopo essersi informato su chi c’è davanti all’occhio guardone in stile Tinto Brass, il regista delle chiappe. Circola poi la maliziosa e sgranata foto d’una carnosa esuberanza: per la prima volta al Grande Fratello c’è stato il topless. Tale Federica ha mostrato il seno alle sue compagne. Ognuno sul banchetto da ambulante mette quel che possiede e crede «er mejo di sé», altri talenti non s’inventano. Del resto ha fatto scalpore la notizia della messa all’asta di una foto (giovanile) della cantante Madonna che mostra il seno. Per fortuna e qui riabilito la mia categoria - un giornalista ha osservato che questa non è una notizia, tantomeno uno scoop. Alle ghiandole mammarie noi italiani siamo avvezzi grazie alla tv, che è diventata una vetrina di scollature audaci (son di moda, lo so bene). Seguono pregnanti dibattiti sul passaggio di gusto dal petto anoressico a quello generosissimo di Sophia Loren. Ma quando mai i maschi si sono allontanati dalle rappresentazioni erotico-oniriche della tabaccaia di Amarcord? E poi c’è Ballando con le stelle 2009 (Rai 1). Con la straordinaria e vezzosa comparsa di Emanuele Filiberto di Savoia, con quella faccia da profumata retrovia mondana e l’aria, pure lui, d’essere contento di una sola cosa: esserci. Dopo tanti articoli d’impronta costituzionale, dopo dibattiti parlamentari sul diritto degli ex regnanti sabaudi di tornare nella Penisola, oggi abbiamo questo modesto e imbarazzante risultato. L’erede di chi «ha fatto» l’Italia danza sull’Italia della balera televisiva. Viene da rivalutare i Borboni di Napoli. E se fossero stati meglio i loro mandolini? (p.m.f.)

dvd

LA PAROLA A BETTINO CRAXI...

I

scriversi a un gruppo, promuovere un appello, stringere nuove amicizie o postare in bacheca. La febbre di Facebook continua a salire, ma nonostante il costante vocio nei tg e nei forum, scarseggiano i manuali d’accesso per sfruttare al meglio le caratteristiche del social network più famoso del pianeta. Veloce, pratica, corredata di elementari screenshot e suddivisa in brevi lezio-

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opo il grande lustro degli anni Novanta, e il rapido oblio coinciso con la fine del millennio, ritornano i nerboruti combattenti di Street Fighters che hanno animato uno degli arcade più amati dai trentenni di oggi. Attesi sulle console più diffuse per il 20 febbraio, il cast di lottatori rimane invariato. Blanka, Chun-li, Ryu e Honda, dovranno però vedersela con mostruosi campioni nuovi di zecca

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nove anni dalla sua scomparsa, mentre continua a far discutere in absentia, Bettino Craxi riprende la parola in un documentario di Paolo Pizzolante. Prodotto dalla Fondazione Craxi, La mia vita è stata una corsa ha per molti il torto di non approfondire le vicende giudiziarie nelle quali fu coinvolto il leader socialista, e il pregio di restituire all’immaginario, specie a quello dei giovani, la ruvi-

Una guida al social network più famoso del mondo. Per i neofiti ma anche per i più navigati

Nuove spettacolari prestazioni agonistiche per i lottatori che spopolarono negli anni Novanta

A nove anni dalla scomparsa il documentario di Pizzolante in cui il leader socialista si racconta

ni, la guida che propone mondoinformatico.it aiuta neofiti e meno avvezzi a configurare la propria pagina personale al meglio, consentendo di districarsi con facilità nella partecipazione a gruppi, nella promozione di personali iniziative e nella compilazione dei propri dati sensibili. Non mancano inoltre approfondimenti per i più navigati, e tools aggiuntivi per i più esigenti. Compleanni, impegni e test di ogni genere e forma, accompagnano vecchi e nuovi adepti di Facebook in una ridda di possibilità che aiutano a mantenere salde relazioni virtuali e non, inclusi i gossip più svariati, tipici di ogni comunità che si rispetti.

come Abel, Crimson Viper e Rufus, e nella home edition anche con Cammy, Dan e Rose. Se la squadra che vince non si cambia, il piacchiaduro si ripresenta però con features di combattimento molto originali. Oltre al Focus Attack, vecchia conoscenza dei giocatori nella versiona cabinata, Street Fighters propone due nuovi status agonistici: la Super e l’Ultra Combo, che spingeranno l’atleta di turno a sfoderare spettacolari attacchi. Grafica prossima al fumetto interattivo, espressioni e movenze non lontane dall’humour manga, e forte impatto audiovisivo nei momenti clou, fanno dell’ex gioco 2d per eccellenza, un’operazione nostalgica che scaraventa nel futuro.

dezza polemica e la preveggenza di Craxi su molti temi che ancora oggi scuotono l’Italia: il malaffare come costume politico condiviso, i missili delle superpotenze, gli eccessi di un mercato belluino che affama le categorie più deboli. Accompagnato dalle testimonianze di Felipe Gonzaléz, Mario Soares e altri esponenti del Garofano, il documento si sofferma anche sull’invasione sovietica dell’Ungheria. Un fatto che, per Bettino Craxi, segnò nel 1956 la definitiva svolta anticomunista. Ben montato e dotato di brio narrativo, La mia vita è stata una corsa riannoda le fila di un passato che ancora oggi, potato o taglieggiato, è molto più complesso di questo presente frenetico e liquidatorio.


cinema ubbio, o meglio il suo autore, John Patrick Shanley, si è corazzato contro eventuali e giustificate accuse di mistificazione sin dal titolo. Alla fine si resta perplessi per la totale assenza di risoluzione drammatica della questione che sembra essere al centro del film: Padre Flynn, parroco di Saint Nicholas, è colpevole o no di pedofilia? Le accuse che gli sono mosse da suor Aloysius sono fondate o frutto di una mente corrosa da un bieco conservatorismo? Dopo gli scandali sessuali che hanno travolto la Chiesa cattolica americana, mettere al cuore del dramma la questione dell’abuso sessuale di preti sui minori è almeno incandescente. Alla fine del film, tratto dalla commedia premiata con il Pulitzer (in questi giorni in scena, per la regia di Sergio Castellitto, al Teatro Valle di Roma, vedi Mobydick del 24 gennaio, ndr), viene la certezza (il dubbio, no) che la pedofilia è solo uno specchietto per le allodole, messo lì per attirarci nella trappola della curiosità pruriginosa. Suor Aloysius (Meryl Streep in versione Grand Guignol), preside di una scuola nel Bronx, ha le sue ragioni per diffidare del parroco: usa la penna biro che lei ha bandito (è il 1964 e solo la stilografica assicura la salvezza dell’anima e una corretta acculturazione); inoltre padre Flynn prende troppo zucchero nel tè, mentre lei ne fa a meno, e si è perfino dimenticata di tirarlo fuori dopo la Quaresima. «Allora non deve essere stato un grande sacrificio», chiosa il prete, facendosi odiare sempre di più. Suor James (Amy Adams, lontana dagli splendori di Junebug, sembra un topino ansioso) è reclutata come spia dalla preside dragonessa: quel Flynn potrebbe essere un tipo che corrompe i ragazzi. Presto la giovane religiosa trova pane per i denti affilati della superiora. Vede padre Flynn riporre una maglietta nell’armadietto di Donald Miller, dodicenne chierichetto e unico studente nero della scuola. In più, dopo un colloquio privato con il sacerdote, Donald torna in classe, stordito e confuso, e con l’alito che sa di alcol. Quando James riferisce tutto ad Aloysius, la Streep la trasforma in un Torquemada carnevalesco deciso a bruciare il supposto depravato.

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Revolutionary Road prometteva bene. Tratto dal romanzo di culto di Richard Yates, ambientato negli anni Cinquanta, il film vanta la regia di Sam Mendes (Era mio padre, Jarhead, American Beauty), regista teatrale prestato al cinema e marito della protagonista, e la rimpatriata della coppia Leonardo di Caprio-Kate Winslet, insieme per la prima volta dopo Titanic. È la storia di April e Frank Wheeler, lui reduce della seconda guerra mondiale, lei attrice fallita. Da giovani sposi si promettono di essere «meravigliosi nel mondo», ma come milioni di coppie con sogni di gloria nel dopoguerra, finiscono nella villetta di periferia con pratino, due bambini, Frank impiegato nella stessa azienda dove il padre ha consumato la vita, April casalinga colta e disperata. Lui fa il pendolare con NewYork, sprezzante verso il lavoro (macchinari per uffici) e si scopa la segretaria. Lei propone di trasferirsi a Parigi, città magica da lui conosciuta e amata durante la guerra. Hanno buoni risparmi, lei ha trovato un ottimo impiego come segretaria all’ambasciata americana, e Frank sarà libero di «esprimersi». Lui obietta con non ha alcun talento specifico, ma lei insiste che è l’uomo più geniale che abbia mai conosciuto, e se solo avrà il tempo per studiare e trovarsi, diventerà un grande: in che cosa, lo scoprirà. Dopo un primo periodo di felicità alla prospettiva di un nuovo inizio, a Frank è offerta una promozione importante: un ingente aumento e un posto di punta nel nuovo campo dei computer. Lui è lusingato e anche sollevato, come i suoi più cari amici, che avevano preso la nuova avventura come un rimprovero e un abbandono. April non vuole rinunciare a Parigi, e un’inaspettata gravidanza rende tutto più complicato. Inizia tra loro un duello che finisce malissimo. Nominato all’Oscar per art direction, costumi e attore non protagonista, sono queste le ragioni per vedere il film: perfetti costumi e arredi d’epoca e un sorprendente Michael Shannon. L’attore è una scoperta nel ruolo di uno psicotico Grillo Parlante che scoperchia le ambizioni velleitarie di April e il terrore di Frank di essere svirilizzato come mantenuto, per poi scoprire di non avere nulla da esprimere. Sono splendidi le giacche e i pantaloni con le pinces di Di Caprio; ma dopo l’innovativa serie Mad Men, ambientata nello stesso periodo e nella sua seconda stagione su Cult Tv di Sky, il film non aggiunge nulla e dà di meno. Rifare tale e quale un’epoca ampiamente sviscerata altrove e nella Mistica della femminilità di Betty Friedan, senza che trapeli dalla regia un qualcosa che illumina il presente, rende il film un reperto elegante e vuoto. Friedan scrisse della malattia senza nome delle donne come April, istruite, preparate, e cacciate tra pannolini e fornelli, che esprimono la massima ribellione con un grembiule con la battuta in corsivo Per questo mi sarei laureata?. Invece di tifare April, o di compatire la coppia, parteggiamo per Frank. La Winslet è in stato d’angoscia perenne; Di Caprio ha la fortuna di una parte più articolata, con una gamma di emozioni maggiore, che mette a frutto con rara perizia, ma la coppia è mal assortita: a undici anni da Titanic lei sembra troppo matura per lui, questione fisica e non anagrafica. Il film si segue bene, anche se ogni tanto si siede, ma alla fine la meticolosa messa in scena resta sterile, come il dramma dei Wheeler, e non sappiamo cosa farcene.

Elogio del dubbio in funzione anti-Bush

La vittima sarebbe Donald (Joseph Foster II), il sensibile, isolato adolescente afroamericano, che padre Flynn ha preso sotto la sua ala protettiva. Grazie alle interferenze della preside, Flynn è costretto a rivelare che il ragazzo beveva il vino della messa: ecco spiegato lo stordimento e il colloquio. Ora è costretto a cacciarlo dal corpo dei chierichetti, invece di correggerlo in privato. La preside continua a credere che sia stato il prete a insidiare Donald e convoca sua madre per aizzarla contro Flynn. La signora Miller (Viola Davis) la manda educatamente a quel paese. (Merita l’Oscar la superba Davis, tanto più perché ha di fronte la Streep che gigioneggia paurosamente.) Svela che il marito picchia il ragazzo perché troppo «in quel modo» (leggi effeminato), che l’interessamento di Flynn offre sostegno e vantaggi culturali al figlio che altrimenti non avrebbe. Non intende compromettere il suo futuro facendo scoppiare uno scandalo sessuale. Per lei sono più temibili il ghetto e le percosse del padre delle eventuali e mai provate carezze di Flynn per il suo ragazzo «diverso». Aloysius non demorde e dice a Flynn di aver indagato sul suo passato: non solo ha cambiato tre parrocchie in cinque anni, e

di Anselma Dell’Olio

Totale assenza di risoluzione drammatica nel film sul presunto sacerdote pedofilo tratto dalla commedia di John Patrick Shanley. Scritta per demolire le certezze granitiche dei neo-con. E Di Caprio-Winslet non sono più una coppia all’altezza di “Titanic” Dio solo sa perché, ma la superiora della scuola precedente le ha spifferato «cose» sul suo conto. Hoffman è bravo, come sempre. In due brevi scene, ci fa capire la condiscendenza dei sacerdoti a quel tempo (e pure ora), dominus incontrastati delle gerarchie parrocchiali. Le suore li servivano con deferenza, vivevano in maniera riservata e morigerata, mentre i preti con loro erano prepotenti, pranzavano a bisteccone e indulgevano in conversazioni mondane. Ma nemmeno il conflitto tra modernità e conservazione, o l’ineguaglianza di genere nella Chiesa di Roma, sono i veri soggetti di Shanley, che ci titilla con sfuggenti accenni in merito. Basta ascoltare l’intervista che l’autore ha concesso a Charlie Rose

per fugare ogni dubbio sulle sue intenzioni. La storia nasce dal suo rigetto per Bush e la guerra in Iraq. Afferma compiaciuto che era arcistufo delle persone con certezze assolute, dello scontro tra le delicate incertezze liberal e le granitiche convinzioni dei neo-conservatori, dunque ha scritto un monumento al dubbio. Ecco chiarito la grossolana e consunta manipolazione del film. Forse con un’attrice più elegante e sfumata come protagonista (a Broadway era l’impareggiabile Cherry Jones), Dubbio sarebbe stato meno confuso. Per fortuna l’eccellente doppiaggio italiano ci risparmia il grottesco accento del Bronx della Streep, un assalto alle orecchie nella versione originale.


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poesia

Icaro, il buio e la sete di luce di Roberto Mussapi

Icaro adolescente se ne stava col padre, e ignaro di maneggiare l’oggetto del suo pericolo ridendo afferrava le piume sollevate da un soffio d’aria o ammorbidiva con le dita la cera bionda, rallentando con questi giochi il progetto paterno. Finito il lavoro Dedalo si mise in equilibrio tra le due ali, muovendo l’aria si sollevò dal suolo. Poi le adattò al figlio dicendo «Icaro mi raccomando devi volare a mezza altezza, non troppo basso dove l’acqua del mare ti appesantisce le ali, non troppo in alto dove il fuoco le brucia. Vola tra l’uno e l’altro limite. Non osservare Beonte o Elice o la spada sguainata di Orione: compi il tragitto dietro la mia guida». Lo istruisce al volo e gli adatta alle spalle le ali estranee. Nel farlo e parlando si inumidirono di pianto le guance rugose e tremarono le mani paterne. Donò al figlio quei baci, che mai più avrebbe dato, e sollevandosi sulle ali vola col cuore in pena per chi lo segue, come un uccello che fa uscire dall’alto nido i suoi piccoli. Lo esorta a stargli dietro, gli insegna l’arte rischiosa agitando le ali, ma guarda volgendosi quelle del figlio. Un uomo che pescava con la tremula canna li scorse, o un pastore appoggiato al bastone o un aratore all’aratro, ne furono attoniti credendoli dei capaci di percorrere le vie del cielo. E ormai a sinistra appariva Samo sacra a Giunone, - dietro erano rimaste Delo e Paro e a destra Lebinto e Calimne ricca di miele, quando il ragazzo fu preso da entusiasmo nel volo ardito trascurò il padre guida e rapito dall’ebbrezza del cielo diresse sempre più in alto il suo volo. La vicinanza del sole cocente ammollisce le cere che profumate tengon connesse le ali, le scioglie, Icaro agita le braccia senza far presa mancando il remeggio, e mentre la sua bocca invoca il padre la chiude l’onda cerulea che da lui prese il nome. E il padre sventurato che più non è padre «Icaro, dove sei, dove sei, Icaro!» chiama, «In quale parte del cielo dovrei cercarti?». E continuava a chiamare «Icaro!» e vide sulle onde le penne, maledisse la propria arte e ricompose in un sepolcro il corpo. E dal giovane sepolto trasse il nome la terra. Publio Ovidio Nasone Da Metamorfosi, libro VIII, 200-235 (Traduzione di Roberto Mussapi)

ominide divenne un essere bipede a causa del suo sguardo: teso, in avanti, verso l’orizzonte, inappagato di volgere in basso. Alzando il capo, guardando oltre, nacque l’ominide eretto. Fu la spinta verso l’orizzonte, quella muoverà l’Ulisse di Dante all’ultimo viaggio, fatale, a farci bipedi, e da quel momento lo sguardo dell’uomo si portò al cielo. Quello era l’estremo orizzonte, lì i greci immaginavano vivere gli dèi, lì tutte le grandi religioni antiche intuirono la manifestazione prima o originaria del divino. Il sogno di volare, di farsi simili a uccelli, coincide con il desiderio di leggerezza, di consustanzialità con l’aria: sintomo di volontà di ascesi, di spiritualità, che può però trascendere, mutandosi in superbia. Il volo in cielo sul cocchio trascinato da draghi eruttanti fiamme del Dottor Faustus di Marlowe, è la sfida luciferina all’ordine divino. Ma esistono altri voli, segnati da errore, non da superbia. Come quello di Icaro, preda del brivido d’assoluto, incauto, incosciente, ma innocente nella sua baldanza. Difficile non bruciarsi le ali, se noi siamo mossi dal fuoco e guardiamo naturalmente in alto, verso il sole. Accadde a Icaro, leggendaria figura del mito, resa immortale nelle pagine delle Metamorfosi di Ovidio, dove animali, dèi, montagne, fiumi, interagiscono nella nascita di una fiaba totale, una lettura favolosa del mondo. Icaro era figlio di Dedalo, l’ingegnere che aveva costruito a Creta il Labirinto. Il re aveva ordinato di edificare quell’edificio immenso e pieno di cunicoli, buio, da cui era impossibile uscire, per rinchiudervi un mostro, il Minotauro, dal corpo umano e taurino, nato dalla relazione adultera della regina Pasifae, sua moglie, con un toro. Il mostro era la prova dell’adulterio e faceva orrore. Allora il re Minosse commissionò a Dedalo la costruzione di un edificio dove il Minotauro potesse occultarsi e nello stesso tempo sopravvivere, una costruzione in cui a chiunque fosse impossibile orientarsi, dove né il mostro né altri potesse trovare via d’uscita. Ispirandosi al movimento del fiume Meandro, in Frigia, che serpeggia con correnti imprevedibili e ora avanza ora indietreggia, muovendo alcune delle sue correnti verso il mare e altre verso l’opposta direzione da cui hanno origine, Dedalo costruì innumerevoli percorsi in cui chiunque si sarebbe perso. Lui stesso riuscì a uscirne a stento, e fu immediatamente esiliato, per evitare che potesse svelare a qualcuno il segreto del progetto.

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Dedalo aveva nostalgia di Creta, e, precluso il ritorno per terra e per mare, pensò che nessuno avrebbe potuto impedirgli di raggiungere la sua amata isola librandosi nell’aria. Dispose penne di uccelli di crescente grandezza, che poi fissò nel mezzo con spago, alla base con cera. Dopo averle in tal modo saldate le incurvò leggermente, per imitare la forma delle ali vere. Icaro gli girava intorno, divertito, disturbando allegro il lavoro del padre, che quando ebbe finito l’opera, provò a librarsi su un paio di quelle ali, e battendole rimase sospeso in aria. A quel punto diede al figlio le altre due, aiutandolo ad applicarle, ma soprattutto ammonendolo a non commettere errori che sarebbero stati fatali. Era determinante volare a mezza altezza, perché muovendosi troppo in

basso l’umidità del mare avrebbe appesantito le penne, mentre levandosi troppo in alto il calore del sole avrebbe sciolto la cera che le connetteva. «Vola tra il mare e sole, non distrarti a guardare Boote o Elice, e la spada sguainata di Orione. Vienimi dietro, ti farò da guida». Mentre diceva queste parole finendo di accomodargli le ali, gli occhi gli si inumidirono, accarezzò la spalla del figlio, lo baciò, poi si levò in volo. Si mise davanti e sempre col capo voltato controllava il volo del ragazzino, invitandolo a seguirlo senza lasciarsi distanziare, consigliandogli il modo migliore per battere con regolarità le ali. Il volo procedeva rapido e teso, avevano già lasciato a sinistra Samo, città sacra a Giunone, e Delo, e Paro, a destra Lebiunto e Calimne, quando il ragazzo cominciò a provare una strana ebbrezza, preso dal brivido della sospensione nel cielo e da un improvviso desiderio di velocità e ascesa. Un impulso irresistibile lo spingeva verso l’alto, verso la luce e lo splendore del sole, accelerando salì, abbandonando la rotta tracciata in aria dal padre. La vicinanza del sole ardente che lo esaltava ammorbidì la cera profumata che connetteva le penne, che in breve si sciolse gocciolando in mare, e Icaro si trovò ad agitare in cielo le braccia nude, un attimo e precipitò in mare, urlando per chiamare il padre, ma l’urlo si spense nelle acque azzurre che dal suo presero allora il nome.

Il povero padre, che ormai non era più padre, lo invocava, chiedendo ad alta voce dove fosse andato, ma quando vide le penne galleggiare sulla superficie quieta del mare lo chiamò ancora, per l’ultima volta, maledicendo la propria arte e quel volo. La storia di Icaro non conosce metamorfosi, il corpo precipita in mare inesorabilmente, definitivamente. Riemergerà, affogato, solo per essere tumulato sulla spiaggia

dell’isola antistante, da quel giorno Icaria, nel mare omonimo. Come ogni mito, quello di Icaro rappresenta in forma di favola, racconto, un aspetto della natura umana. In questo caso la furia felice, entusiasta dell’adolescente, la sua innocente ma pericolosa incoscienza. Nulla di malvagio, nel giovane che si leva in volo con ali costruite di penne. Ma l’inesperienza, la mancanza di controllo tipiche della sua giovane età, lo conducono a una rovina rapida e inesorabile. Dalla costruzione del Labrinto alla fuga in volo, la tragedia del padre Dedalo sembrano evocare l’antico e originario dramma dell’uomo e tra il buio e la sete di luce.


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il club di calliope DEI NAUFRAGHI LIBERIANI

I cicli di luce erano scolpiti nel frantumato lembo di vita quando dal porto africano partirono verso la terra della grande civiltà. Ma il mare divenne un reticolato per la misera piroga, un abisso di lutti. E nei loro occhi scomparvero le notti e le forti braccia si trovarono piegate sulle rocce. L’acqua trascinava a riva sorrisi mangiati dal sale e la libertà fu sugli scogli raggrumata come nome di fango e non come terra di madre. D’ebano si dice di loro, un colore pietoso questo mattino.

UN POPOLO DI POETI Acqua di fonte la vita che è santa come il cielo, piena di Dio, del luogo suo infinito che è l’anima dei popoli, la ragione segreta delle cose la speranza che il colore del mare si consegni a noi nella più tenera specie, l’amore. Giacomo Vertini

Se la guerra è la vittoria dei forti che si fanno

Loretto Rafanelli da Tempo dell’attesa (Jaca Book)

lotta perenne io credo che sia sensibile alla vita la debolezza dei mistici, l’amore per gli animali

QUEL CHE ARISTOTELE PENSAVA DI OMERO in libreria

di Francesco lo sguardo sereno del bimbo.

di Giovanni Piccioni a Poetica di Aristotele (Piccola Biblioteca Einaudi Classici, a cura di Pierluigi Donini), un frammento di ventisei brevi capitoli, è uno dei testi fondamentali del pensiero filosofico occidentale, ha influenzato la cultura dell’Europa moderna, dal Rinascimento italiano fino a tutto il ‘700 e resta un riferimento per ogni teoria estetica e per la drammaturgia europea. Introduzione alla letteratura greca, sag-

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per il secondo tale concetto ha un significato negativo (una copia inferiore all’originale), confermato dalla condanna della poesia contenuta nell’ultimo libro della Repubblica, per Aristotele imitare significa scegliere e interpretare l’essenza del reale, che sfugge alla percezione immediata. Privata dei dettagli accidentali, l’esperienza si rivela nella sua autenticità. È così che la poesia supera la storia, che narra anche ciò che è secon-

La “Poetica” a cura di Pierluigi Donini. Attualità di un testo fondamentale per l’Occidente, punto di riferimento dell’Europa moderna gio di critica letteraria, nucleo di una teoria estetica, a distanza di quasi due millenni e mezzo contiene giudizi ancora attuali (ad esempio sull’Edipo re di Sofocle o sulla drammaticità di Omero). Il testo è in sostanza una monografia sulla tragedia, forma poetica perfetta, cui l’epica resta subordinata. Quanto alla lirica, essa tratta soggetti di interesse individuale; epica e tragedia invece di valore universale. Per Aristotele in natura si esprime una potenzialità che tende a realizzarsi nel migliore dei modi, e la Poetica rientra in tale concezione finalistica. Il dramma consiste nel racconto: alle sue esigenze il poeta deve attenersi. Sia per Aristotele che per Platone, l’arte e la poesia sono forme di imitazione. Se

dario. Ogni storia tragica fa proprio il sommo universale: il raggiungimento della felicità, della buona fortuna, della prosperità. Nonostante il suo razionalismo, per Aristotele le emozioni sono parte della tragedia e dell’epica. Si tratta della pietà e della paura. La prima va a chi soffre la cattiva sorte, la seconda nasce in rapporto a quanto accade a un personaggio che sentiamo simile a noi stessi. Infine la catarsi, concetto assai dibattuto. Il curatore del volume ritiene che la tragedia agisce su e con emozioni purificate nel corso dell’educazione giovanile e si richiama al libro VIII della Politica. La catarsi sostituisce alla pietà e alla paura la saggezza, virtù dell’anima razionale che orienta l’uomo nella ricerca della felicità.

Alessandro Volti

Il male, come un sogno inesprimibile, un ronzio quotidiano nelle orecchie. Devo pensare, che ogni tempo ha il suo male, non posso pensare di vivere per morire lentamente, come acqua che s’inquina di particelle sempre più spesse, o anima che ha paura a respirare, tagliente lama, tagliata sezione di gola che si fora, e allora sanguina. Respirare Tommaso Meozzi

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

omanda. Pensate sia possibile, credibilmente, dedicare una retrospettiva seria del Nouveau Réalisme francese (dopo quella indimenticabile al Centre Pompidou nel 2007, curata da un’esperta come Cécile Debray) che si avvale però di un solo, piccolo, spaesato monocromo Blue Klein, che naviga sulla scala Gardella del Pac, e per di più programmaticamente limitata al dopo 1970, anno simbolico che, come sanno tutti i cultori del movimento francese, sancisce la fine ufficiale stabilita quasi notarilmente dal gruppo, e officiata dal cuoco-post dada Daniel Spoerri? Cena che sancì la diaspora dell’accolita d’amici, che avevano deciso di scapparesene ognuno per la propria strada, fuga sintetizzata in una cemiteriale affiche, che ha titolo appunto: L’Ultima Cena, banchetto funebre del Nouveau Réalisme e che appunto vediamo in mostra. Un macabro scherzetto all’italiana? Uno sgambetto alla filologia? La responsabilità se la assume arditamente Renato Barilli, che nel catalogo Silvana così giustifica questo «oltraggio» postumo al movimento, uno degli ultimi grandi movimenti, insieme alla Pop Art e all’Arte Povera, pussa via inconfrontabile Transavanguardia, di questo nostro ultimo secolo infelice e azzoppato: «Il 1970 senza dubbio ha significato la cessazione di un procedere in comune, di una stretta collaborazione, ciascuno dei protagonisti da quel momento ha preso una propria strada, le occasioni di incontro e di collaborazione si sono rarefatte. Eppure non per questo i singoli esponenti della prima fase sono venuti meno alle coordinate cui avevano aderito, questa è la tesi di fondo che mi spinge a celebrare la preveggenza di Pierre anche nella fase post Settanta». Pierre, va da sé, è Pierre Restany, il critico pirotecnico, che si fece «milanese», come Stendhal, e che trapiantò da Parigi a Milano l’esperienza del Nouveau Réalisme (negli anni giusti, però) grazie all’entusiasmo d’un gallerista avvertito e pioniere, come il Guido Le Noci dell’Apollinaire. E poi la protrasse, nell’esperienza di critico per Domus (lettere alla figlia di Giò Ponti, nelle vetrine) e di D’Ars. Vero dunque che non smise di seguire i «suoi» artisti tra i prediletti, ma è difficile ipotizzare se mai avrebbe sposato

D

Un’opera di Deschamps e, al centro, una di Mimmo Rotella

Il Nouveau

Réalisme nel polmone d’acciaio di Marco Vallora

questa tesi, cioè di «prolungare» artificialmente, con polmone d’acciaio, il movimento, dopo la morte statuita dagli artisti stessi (obiezione di Barilli: «in qualche misura, lo stesso grande patron, il mentore e capofila dell’operazione, obtorto collo, dovette sottiscrivere, accettare quel duro passo», quello appunto della morte ufficiale, avendo comunque firmato pure lui il manifesto dell’Ultima Cena). Avrebbe poi sottoscritto pure questa scelta di mantenere artatamente in vita-post il movimento «sino a oggi» e controfirmato la tesi che «c’è stata una diaspora, ma, si parva licet, quasi nel senso in cui gli apostoli hanno portato il verbo di Cri-

arti

sto in aree diverse della carta geografica, ma con sostanziale rispetto del messaggio ricevuto»? Verifichiamone i risultati, riguardando la mostra. Senza una presenza degna di Klein, che effettivamnete muore nel 1962 e dunque non poteva che esser evocato in memoriam (ma è possibile fare una mostra sul Manierismo se sei costretto, da una data-capestro, ad espungere Pontormo o Rosso Fiorentino?) e cacciando via Martial Raysse perché, cattivo ragazzo, prende una strada troppo pop, tutto viene sblilanciato a favore di Raymond Hains, che la fa qui da padrone e almeno lui si ricorda di Klein, in effige ironica, da Accademico con feluca, e soprattutto a beneficio di Gérard Deschamps, che giunge sino al discutibile 2001 di Pacific Paradise, con skateboard accluso e scalpo, altro che pop-lichtensteiniano di riporto! Se Rotella e Dufrene, più o meno, si mantengono bene, anche nel proseguio dei decenni, ahimé sappiamo che cosa di discutibile abbia smerciato Niki de Saint Phalle, dopo i suoi rivoltosi shooting Paitings anni Sessanta, con mal digeribili mammozzi, smaltati e specchiati, stile Capalbio: vedi Save the qui l’imperdonabile Rinocheros, d’aeroporto. Né va granché meglio con l’ex-consorte Tinguely, presente qui con una macchina tardona, un po’sguaiata e gridata di colori, e una collaborazione avventizia con la bad pittura surrealoide di Milena Palakakina: ma che cattivo connubbio! E se, di nuovo ahimé, sappiamo come il pur grande Arman, vedi qui la geniale installazione di carrelli da supermercato o l’efficace Poubelle de Mimmo, sia finito nelle spire malefiche di certe aste televisive di cui sentiamo anche qui il pericoloso effluvio, ci si domanda di nuovo se sia giusto evocare la grandezza di Cèsar, soltanto con un buon esempio d’Omaggio a Morandi, una tarda flaccida Espansione e un’infilata, un po’ ripetitiva, di auto inscatolate, la cosidetta Suite milanese. E infine: Christo resiste davvero, soltanto attraverso i suoi pur bellissimi disegni coniugali, senza troppi ricordi, però, dei suoi oggetti imballati (se qui, anzi, denuncia la sua discendenza dada dal Lautréamont di Man Ray, con omaggio a Le Noci)? Diciamo pure che la mostra si redime soprattutto nella stanza tutta nera di feticci ferrosi di Daniel Spoerri, che conferma la sua invidiabile vitalità. Che dire: e se i «nouveaurealistes» non avessero intelligentemente preventivato la loro pre-morte, il loro stesso declino? Giusto svegliarli?

Il Nouveau Réalisme dal 1970 a oggi, Milano, Pac, fino all’11 febbraio

diario culinario

Il genio di Vissani che non appare in tv

di Francesco Capozza e Gianfranco Vissani avesse seguito il monito di Abraham Lincoln «evita la fama se vuoi vivere in pace», probabilmente oggi sarebbe sconosciuto al grande pubblico ma osannato dai gourmet di tutto il mondo. E forse avrebbe fatto buona cosa, per sé e per noi golosi che spesso proviamo un senso di spaesamento quando ci capita di inbatterci nel suo faccione in televisione. Sgombriamo, però, il campo da ogni dubbio: il Vissani televisivo potrà essere burbero, antipatico, spesso saccente, apparentemente incolto, però ai fornelli (e certamente non a quelli improvvisati in uno studio tv) è il numero uno in Italia. Un fuoriclasse senza eguali che ha messo in piedi, in un angolo sperduto della campagna tra Todi e Orvieto, il più mirabolante e raffina-

S

to circo gastronomico che mente e gola umane possano immaginare. Ci sono voluti anni, esattamente 12 da quando, nel 1997, Il Vissani è diventato regno del solo Gianfranco. (Prima, infatti, condivideva le mura con Il Padrino, il ristorante ben meno estroverso dei genitori). Una villa nel verde, adagiata sulla riva del lago artificiale di Corbara, al cui interno si cela uno spettacolare teatro della felicità gastronomica a cui nessuno, neppure il più acerrimo detrattore, potrebbe resistere. Entri e si apre il paese dei balocchi: una grande sala, quella principale, con due ampie finestre sulla spettacolare (e costosissima, si dice valga oltre 2 milioni) cucina in cui operano 15 cuochi, una seconda sala ove gustare dessert, caffè, tè, tisane e sigari provenienti da ogni parte del pianeta. Poi la novità di quest’anno: una terza sala (prima arredata come quella princi-

pale), al cui centro è stato posizionato un unico grande tavolo da 16 coperti. È qui che Vissani, in un periodo di crisi economica come quello che stiamo attraversando, ha deciso di sfidare i colleghi superstellati proponendo tre giorni a settimana - martedì, giovedì e sabato - un menù per pranzo a soli 30 euro. Una cifra simile, per un appetizer, un piatto unico e un dolce (con acqua, un bicchiere di vino e caffè), è una vera e propria occasione che nessuno dovrebbe lasciarsi sfuggire. Il Vissani è un mondo parallelo in cui, almeno una volta nella vita, ogni amante del buon cibo dovrebbe mettere piede. Una famiglia, quella di Gianfranco, interamente impegnata a portare avanti un’azienda fantastica: dal figlio Luca, che officia in sala in modo impeccabile, proponendo con sapienza piatti e vini in abbinamento, alla sorella di Gianfranco, Paola, una delle migliori

pasticcere in circolazione (ma potremmo dire «maestra» della lievitazione, visti i meravigliosi pani che sforna quotidianamente), passando per la mamma, la moglie e qualche nipote. Inutile, tuttavia, citare dei piatti, troppo spesso il menù cambia a seconda dell’estro dello chef. Ricordiamo, però, con emozione, dei divertissement vissaniani che faranno saltare il lettore sulla sedia: la migliore pizza mai mangiata in vita nostra (fuoriprogramma in un giorno in cui la cucina sembrava ingolfata) e il più straordinario pollo allo spiedo che si possa immaginare. Un pasto completo da Vissani costa sui 160 euro, ma saranno i soldi meglio spesi della vostra vita.

Ristorante Vissani Vocabolo Cannitello, Baschi, S.S. 448 Todi-Baschi Km. 6,600. Frazione di Civitella Del Lago 05023 (Tr) Tel. +39 0744 950 206


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architettura

Ecco perché non demonizzare Gallaratese, Corviale e Zen di Marzia Marandola l tema della residenza è tornato prepotentemente di attualità. Gallaratese, Corviale e Zen sono complessi residenziali che, a distanza di trent’anni dalla realizzazione, ricorrono ancora nei quotidiani: spesso evocati a sproposito, come esempi di una progettazione architettonica autoreferenziale e disumana. Fedeli al principio secondo cui è bene conoscere gli eventi che hanno portato alla realizzazione di un’opera, prima di giudicarne il risultato progettuale, vediamo rapidamente i tre casi e che cosa li accomuna. Il Gallaratese (1967-74) a Milano degli architetti Carlo Aymonino e Aldo Rossi; il Corviale (1973-81) a Roma del gruppo coordinato da Mario Fiorentino; lo Zen (1969-73) di Palermo di un gruppo di architetti con Vittorio Gregotti, sono opere d’autore per una committenza pubblica (gli ultimi due) o privata ma convenzionata (il primo). Gli architetti, tra i più famosi del tempo, hanno sperimentato in questi complessi residenziali formule innovative sotto il profilo tipologico e del rapporto tra residenza e città. Inoltre le tre esperienze sono accomunate da una vigorosa prefigurazione architettonica compatta e serrata, alternativa alla crescita edilizia, fatta di piccole costruzioni diffuse, che divorano grandi territori. Sono anni questi del grande impegno civile dei progettisti e queste opere, cariche di ideologia sociale, ne sono testimoni. Il complesso residenziale Gallaratese per 2400 abitanti, è promosso da una società che metterà sul mercato libero una parte degli appartamenti: ciò ha portato a volumi vivace-

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mente articolati, imperniati sullo spazio comune di un teatro all’aperto, sotto cui erano previste botteghe per l’intero quartiere. Gli edifici, disposti come dita di una mano, combinano una grande varietà tipologica, che va dal monolocale agli appartamenti duplex. Non ancora terminato l’edificio fu occupato e violentemente contestato per la sua modernità. Oggi, com-

pletamente privatizzato, è un comprensorio residenziale elegante ed esclusivo. Corviale è un complesso di edilizia economica che in un’unica unità residenziale lunga quasi un chilometro doveva accogliere 7.700 abitanti; al suo interno erano previsti i servizi e gli spazi di un quartiere: asili, scuole materne, botteghe, ambulatori, che non furono mai realizzati. Gli spazi inutilizzati vennero immediatamente occupati abusivamente, dando origine a vistosi scompensi sociali. Lo Zen è un aggregato di 18 insulae - unità di quattro corpi in linea di alloggi - disposte su tre file parallele, per 15.700 abitanti. Anche qui la mancata realizzazione di servizi essenziali, previsti impianti sportivi, uffici pubblici, laboratori artigianali, infrastrutture viarie, perfino parte dell’urbanizzazione primaria - ha compromesso la riuscita. Il quartiere è il tema anche di una canzone sarcastica di Edoardo Bennato del 1989 il cui ritornello è «Zona Espansione Nord - abbreviazione: Zen non c’è ragione no - progettazione all’avanguardia, somma espressione dell’urbanistica». La meticolosa ricostruzione di queste vicende è al centro del bel volume in cui Luca Monica presenta un utilissimo e inedito repertorio di immagini e un’antologia critica con saggi, tra gli altri, di Bottoni,Tafuri, Dal Co, Conforti e Gregotti.

Gallaratese Corviale Zen. I confini della città moderna: grandi architetture residenziali. Disegni di progetto degli studi Aymonino, Fiorentino, Gregotti, a cura di L. Monica, Festival dell’architettura di Parma, 215 pagine, 25,00 euro

Un disegno di Carlo Aymonino per il Gallaratese

archeologia

Ritrovata la tomba di Erode, monarca amico dei Romani di Rossella Fabiani pochi chilometri da Gerusalemme, l’archeologo Ehud Netzer ha fatto una scoperta straordinaria: la tomba di Erode il Grande. Un ritrovamento che getta una nuova luce su una delle figure più controverse della storia biblica: un crudele tiranno, capace di ordinare un crimine orrendo come la strage degli innocenti, ma anche una mente geniale in grado di creare capolavori architettonici la cui grandezza è tutt’ora testimoniata da rovine maestose. «Una del-

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le scoperte più importanti degli ultimi anni», così il professor Ehud Netzer dell’Istituto di archeologia dell’Università ebraica di Gerusalemme, definisce il ritorvamento avvennto dopo decenni di ricerche della tomba di Erode nel punto che era stato indicato dal suo contemporaneo, lo storico romano Giuseppe Flavio. Erode, ha confermato Netzer, era effettivamente sepolto nel suo palazzomausoleo di Herodion, sette miglia a sud di Gerusalemme. Ma non alle pen-

dici, come si era a lungo ritenuto, bensì in una posizione molto più elevata. Per il suo luogo di sepoltura il monarca (che con il sostegno attivo di Roma aveva regnato sulla Giudea dal 40 a.C. al 4 a.C.) aveva fatto preparare una stanza quadrata grande 10 metri per 10, a cui si accedeva mediante una scalinata larga ben 6 metri e mezzo. Il suo sarcofago, lungo quasi tre metri, era di una fattura squisita. Come mai è stato scoperto soltanto ora? Il professor Netzer ha affermato di averlo trovato ridotto in frantumi e ha ipotizzato che la distruzione non sia stata opera di ladri comuni. «Abbiamo trovato chiari segni di martellate», ha precisato. È probabile dunque, a suo parere, che la demolizione del prezioso sarcofago sia stata opera di ebrei che si erano ribellati all’occupazione romana negli anni 66-72 d.C.: gli anni della distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte dei legionari di Tito e dell’assedio della fortezza di Massada, sul mar Morto. Proprio il Tempio di Gerusalemme e Massada furono fra i progetti architettonici realizzati da Erode, un monarca molto attivo e privo di scrupoli. Sempre su suo ordine furono costruite le eleganti città di Cesarea (sulla sponda del mar Mediterraneo) e di Sebastia, in Samaria. Ma probabilmente il progetto che gli fu maggiormente a cuore fu ap-

punto lo Herodion. Era una collina artificiale, scrive Giuseppe Flavio, «con la forma di un seno femminile» da dove si dominava il deserto di Giudea fino al mar Morto. La circondavano torri di guardia rotonde e al suo interno c’era un palazzo magnifico rifornito di grandi quantità di acqua portata da una località distante. Per avere accesso alla sua residenza bisognava salire duecento scalini di marmo. La morte aveva colto Erode nel suo palazzo invernale di Gerico. Il corteo funebre percorse 24 miglia per raggiungere lo Herodion. Il monarca fu sepolto con la corona d’oro in testa e con lo scettro nella mano destra. Entrambi sono andati perduti. Gl scavi fatti dal professor Netzer hanno tuttavia riportato alla luce i frammenti di una elegante rosetta di pietra che adornava il sarcofago e un vaso. ll personaggio del re Erode il Grande è uno dei più affascinanti della storia ebraica, anche se il suo nome nei secoli è stato condannato senza appello dalla storiografia cristiana, per la macchia indelebile del terribile infanticidio collettivo. In realtà fu autore di una politica realisticamente accondiscendente all’occupante romano; politica che gli causò le critiche dell’oltranzismo ebraico (gli zeloti), decisamente refrattari all’eccessiva ingerenza e ai soprusi da parte dell’Urbe.


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fantascienza

l titolo di un suo racconto poco antologizzato, L’Angelo del bizzarro (1844), gli potrebbe essere applicato come sintomatico attributo: le ali dell’angelo sfiorano la realtà, la increspano, la modificano, ne fanno emergere le cose più strane e curiose, più bizzarre appunto. Così furono la vita e la narrativa di Edgar Allan Poe (Boston, 19 gennaio 1809 - Baltimora, 7 ottobre 1849) che per i suoi temi all’epoca inediti e innovativi non soltanto è all’origine della letteratura «americana», ma all’origine di molti «generi» letterari. Furono una specie di sofisticato «arabesco» che entrava e usciva dalla vita reale, e non per nulla Racconti del grottesco e dell’arabesco s’intitolava il libro che pubblicò nel 1840. Perfetto spirito aereo, sognatore, labirintico, onirico, anticonformista, antimoderno, sopra le righe, bizzarro appunto, Poe non poteva che nascere il primo giorno del segno dell’Acquario. E non poteva che attraversare una vita tormentata umanamente e psicologicamente, piena di problemi e drammi che ovviamente si riverberarono nel simbolismo di tutte le sue storie, nessuna esclusa. È incredibile che un’attività letteraria di appena tredici anni (il suo primo libro, pubblicato anonimo - autore era «un bostoniano» - fu di poesie: Tamerlano nel 1827) abbia potuto influenzare tanti scrittori americani ed europei, artisti e infine registi. Eppure è così, tanta fu la forza scardinante delle sue tematiche. La sua poetica si potrebbe sintetizzare in due suoi versi di Un sogno in un sogno (1845): «Non è tutto quel che vediamo o sembriamo/ un sogno in un sogno soltanto?». Tutto si riconduce a questo: l’irrealtà del reale, la sua struttura messa in gioco o in dubbio da un evento strano e/o terribile, gli abissi dell’animo umano che non possono essere del tutto sondati, l’ineluttabilità di eventi tremendi fisici e metafisici, l’impossibilità di sfuggire al Fato nonostante tutti i tentativi, le beffe che il Destino si fa di te, l’ossessione della morte. Il sogno che, spesso e volentieri, si trasforma in incubo. Non c’era stato nessuno prima di lui a esplorare le terre del «fantastico» in tutte le loro accezioni: non i romanzieri «gotici» inglesi come Walpole e la Radcliffe, non soltanto troppo prolissi ma spesso e volentieri troppo «naturalistici» nelle spiegazioni, né il tedesco Hoffmann ancora legato a uno stile classico e a tematiche fantastiche classiche.

I

Tutti quanti, in fondo, ancora troppo settecenteschi. Poe è di solito ricordato come fondatore del genere poliziesco «di indagine» con storie come I delitti della Rue Morgue (1841) e La lettera rubata (1845) il cui protagonista Auguste Dupin influenzerà lo Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle; e delle storie di terrore metafisico e psicologico come La caduta della casa Usher (1839), Il gatto nero (1843), Il cuore rivelatore (1843), ma anche Una discesa nel Maelstrom (1841). È da ricordare anche come il primo ad aver tentato una spiegazione «scientifica» (della scienza di allora) del sovrannaturale con Rivelazione mesmerica (1844) e Il caso del signor Valdemar

ai confini della realtà L’Angelo MobyDICK

del bizzarro nella terra del fantastico di Gianfranco de Turris

Nessuno prima di Edgar Allan Poe, nato duecento anni fa, le aveva esplorate in tutte le loro accezioni. Considerato il fondatore del genere poliziesco di indagine, tentò spiegazioni scientifiche del soprannaturale guardando anche al futuro. Tanto da immaginare un atterraggio sulla luna in pallone... (1845), e come uno dei primi autori che tentò di guardare nel futuro e alle estrapolazioni scientifiche con occhio disincantato e non certo «progressista»: in Mellonta tauta (espressione tratta dall’Antigone di Sofocle: queste cose potrebbero avvenire) del 1845, in Conversazione di Eiros e Carmion (1839) in cui descrive il mondo distrutto dal gas di una cometa, nella Straordinaria avventura di un certo Hans Pfall (1835) dove il protagonista arriva sulla luna in... pallone. Che uno scrittore abbia raggiunto un grado di caratterizzazione e di influenza postuma universalmente accettato, sta a di-

mostralo il fatto che il suo cognome si è trasformato in aggettivo: kafkiano, buzzatiano, borgesiano e così via. Anche poesco: e cosa s’intende con questo? S’intende un’atmosfera allucinata, torbida, oppressiva, personaggi traumatizzati e assediati da incubi, ambientazioni tenebrose e claustrofobiche (gallerie, prigioni, case decadenti, tombe, sotterranei), scenari sanguinosi e simbolici, viaggi e percorsi negli abissi e in lande desolate. Insomma, un universo simbolico in cui come in uno specchio si riflette l’interiore e l’esteriore, il dentro e il fuori. Ma dove anche non manca l’assurdo, il grottesco, la vendetta

che si rivela in una risata: si pensi a storie famose, che hanno ispirato molti inquietanti film in bianco e nero di Roger Corman, come Il pozzo e il pendolo (1843), La maschera della Morte Rossa (1842), Re Peste (1835), Metzengerstein (1832), Il barilotto di Amontillato (1846), Hop-Frog (1849), dove gli sfondi sono improbabili corti rinascimentali, castelli medievali, le carceri dell’Inquisizione, reami barbari, tra Spagna e Italia o in paesi indefiniti o in un Oriente onirico. Provato dalle sue vicende personali (le difficoltà economiche, l’alcolismo, la professione giornalistica dagli alti e bassi, ma in special modo la scomparsa prematura della giovanissima e amatissima moglie) Poe riversò i suoi presentimenti e le sue angosce, il suo stato d’animo e le sue elucubrazioni in racconti dove figure femminili, adorate ai limiti del feticismo, sono allo stesso tempo portatrici di morte e di terrore (Berenice, 1835; Morella, 1835; Ligeia, 1838); disturbato dalla vita cittadina già allora spersonalizzante scrisse L’uomo della folla (1840), una specie di ebreo errante; ossessionato da se stesso scrisse William Wilson (1840) sul tema del doppio; perseguitato dall’idea della morte incombente scrisse Le esequie premature (1844).

Un uomo in fuga da quanto lo circondava ma anche da sé, in fuga verso la salvezza o verso l’abisso? Non si può dare una risposta precisa e definitiva: se l’abisso è in varie forme presente per terra e per mare nei racconti, certamente diverso è l’unico romanzo che scrisse, Le avventure di Gordon Pym (1837), il complesso viaggio del protagonista alla scoperta dell’Antartide che si chiude in un modo enigmatico, con l’apparizione tra i ghiacci di una gigastesca figura bianca dai contorni indistinti: simbolo di morte, come sarà la balana bianca Moby Dick di Melville (1851), o di trasfomazione in qualcosa di migliore come nella sequenza ermetica NigredoRubedo-Albedo? (E il Nero, Rosso e Bianco non sono forse i colori che si ritrovano ossessivamente nelle sue storie?). Un romanzo che venne preso come diretta ispirazione da Jules Verne per La sfinge dei ghiacci (1897) e da H.P. Lovecraft, che ne fu anche originale esegeta e che lo considerava uno dei propri ispiratori, per Le montagne della follia (1936). Ovviamente, a causa di queste sue caratteristiche, Poe è stato oggetto dell’assidua attenzione di autorevoli psicanalisti e psicologi a cominciare da Marie Bonaparte per finire con Jacques Lacan, ma il freudismo (libido, Eros/Thanatos ecc.) non ci dice tutto e non spiega tutto. L’oscillazione di Poe fra razionale e irrazionale, scienza e metafisica, sogno e realtà, lucidità e delirio, serietà e beffa, fanno di lui un vero enigma, un grande e affascinante enigma che forse nessuno riuscirà mai a risolvere, nemmeno il Cavalier Dupin. E forse proprio l’irrisolto enigma del nucleo fondante della sua ispirazione ha fatto sì che l’influenza di questo scrittore sia stata fondamentale per tanti importanti autori dall’Ottocento sino ai nostri giorni, al di là delle etichette di «genere».


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