01_24

Page 1

Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Anselma Dell’Olio

M

Il film di Gus Van Sant sul politico gay americano

IL PARTIGIANO

MILK

ilk di Gus Van Sant racconta gli ultimi otto anni del primo politico americano apertamente omosessuale, Harvey Milk. Uscito in autunno negli Stati Uniti, la storia della carriera politica e dell’assassinio del consigliere comunale di San Francisco ha raccolto una raffica di osanna dai critici. Gli elogi più rispettosi sono stati per il cast, in particolare per l’Harvey Milk di Sean Penn. Già candidato per i Golden Globes, vinto per fortuna da un superbo Mickey Rourke in The Wrestler, nessuno dubita che Penn avrà la nomination all’Oscar. La carriera di Van Sant si divide tra film confezionati per il grande pubblico e quelli indipendenti a basso costo che lo hanno lanciato. Drugstore Cowboy è uscito nel 1989, anno che ha visto emergere talenti notevoli come Spike Lee (Fa’ la cosa giusta) e Steven Soderberg (Sesso, bugie e videotape). In concorrenza con loro, il film di Van Sant ha vinto a sorpresa i premi sia per il film sia per la sceneggiatura della National Society of Film Critics. My Own Private Idaho (1991) torna alla tematica gay degli esordi (Mala Noche), il marchio dei suoi film personali, con la storia di due marchettari, uno ricco e uno squattrinato. River Phoenix vince la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia, e Reeves è preso sul serio come attore per la prima volta, dopo le commedie che gli hanno dato la notorietà (Bill and Ted’s Excellent Adventure). Il regista inaugura il filone tradizionale e lancia la carriera americana di Nicole Kidman con To Die for (1995) su una carrierista della tv disposta a uccidere chi le ostacola l’ascesa. Dopo vari insuccessi fa il botto al botteghino con Good Will Hunting, genio ribelle (1997); i protagonisti, Matt Damon e Ben Affleck, vincono l’Oscar per la sceneggiatura. Segue il bizzarro rifacimento scena per scena di Psycho di Hitchcock, un mezzo fallimento che dice di aver fatto «perché nessun altro lo debba fare».

continua a pagina 2

È stato osannato dalla critica ma in realtà sembra assolvere solo al compito di creare consensi alla causa omosessuale. Legittimo, purché il conformismo politico non voglia chiamare capolavoro un’opera di propaganda un po’ banale

9 771827 881301

90124

ISSN 1827-8817

Parola chiave Cibo di Gennaro Malgieri Kitty, Daisy & Lewis alle radici del rock di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Alessandro Parronchi la fine e l’eternità di Francesco Napoli

Riscopriamo Valitutti di Giancristiano Desiderio Stieg Larsson un caso editoriale di Pier Mario Fasanotti

La Zecession di Auchentaller di Marco Vallora


il partigiano

pagina 2 • 24 gennaio 2009

segue dalla prima

dida tre volte a consigliere comunale e perde, ma quando vengono ridisegnati i collegi elettorali, e ogni quartiere elegge i propri rappresentanti, finalmente vince. Solo dopo la vittoria, l’establishment gay, rappresentato dagli editori di Advocate, storica rivista omosessuale, lo accetta, dopo averlo respinto, rifiutando di sostenerlo politicamente perché troppo sfrontato e anticonformista. Milk lega con il sindaco George Moscone, e all’inizio anche con Dan White (bravissimo Josh Brolin), un consigliere sposato e conservatore, che il film lascia intendere sia un gay coperto e confuso. Dopo un accordo politico con lui che Milk tradisce, White è in difficoltà, si dimette e poi cerca di farsi reintegrare, senza successo. Un giorno va in Comune e uccide prima Moscone e poi Milk. Il film finisce con la manifestazione oceanica dopo gli assassinii, e con i disordini e le furiose proteste seguite alla mite condanna comminata a White, che dopo soli cinque anni uscirà di galera.

Alla ricerca di un altro Good Will Hunting gira Finding Forrester, film di discreto successo su un giovane e povero giocatore di basket nero, scoperto scrittore promettente da un celebre autore recluso (Sean Connery) modellato su J.D. Salinger. A questo punto (un critico malizioso dice per fare penitenza dopo i film girati per vile denaro), tra il 2002 e il 2006 sforna quattro film «da festival»: Gerry su due amici (Matt Damon e Casey Affleck) che s’inoltrano nel deserto dove si perdono senza acqua né cibo, che provoca più sbuffi che consensi; Elephant, che vince la Palma d’oro sia per il film sia per la regia al Festival di Cannes, sul massacro in un liceo, sulla scia della tragedia di Columbine; Last Days, sugli ultimi giorni del musicista suicida Kurt Cobain, e Paranoid Park, su un teen-ager dedito allo skateboard che uccide per sbaglio una guardia notturna. Il lirico incanto con il quale Van Sant coccola visivamente il biondissimo, efebico sedicenne, dà brividi pari solo a quelli provocati dalla spaventosa fine del povero vigilante, di puro orrore. Il film è stato accolto molto bene dai critici, e un manipolo l’ha inserito nei dieci migliori film dell’anno.

Con la storia di Harvey Milk, Van Sant combina per la prima volta il tema gay con un cinema che più di routine non si può immaginare. La sceneggiatura è decente, ma non il capolavoro di cui si è letto. Si snocciola intorno alla registrazione fatta da Milk con il suo testamento politico, «da diffondere solo nel caso della mia morte per assassinio». L’idea è buona, oltre che autentica, ma non straordinaria. È una versione più ganza del solito trucco dei film biografici: inizio sul letto di morte del protagonista, che rivede davanti agli occhi i momenti importanti della sua vita prima del trapasso. Inizia nel 1970, quando Milk, un assicuratore poco appetitoso di mezz’età in giacca e cravatta, incontra sulle scale della metropolitana di New York un giovane angelo hippy di nome Scott (James Franco, sosia di James Dean). Il ragazzo dice che non frequenta quarantenni, e Harvey risponde «bene, abbiamo fino a mezzanotte». Nella scena successiva i due, a letto, gustano insieme una torta di compleanno, il quarantesimo di Milk. Scott rappresenta la generazione di omosessuali che se ne frega di nascondersi, e guarda con sufficienza chi lo fa ancora. In un lampo Harvey molla tutto, diventa cappellone con la barba e il codino, e si trasferisce con Scott a San Francisco, che si definisce «la Parigi del West». All’inizio degli anni Settanta, il quartiere intorno a Castro Street è in rapida trasformazione: da cattolico, irlandese e conservatore diventa il quartier generale della libertà gay, popolato da omosessuali che sono usciti dall’armadio sbattendo la porta. Milk apre un negozio di macchine fotografiche, ma quando cerca di farsi accettare dall’associazione commercianti della zona, è respinto con sdegno. È l’inizio del suo risveglio politico. Diventa attivista e organizza il movimento militante, si can-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

milk

MILK GENERE BIOGRAFICO

DURATA 128 MIN. PRODUZIONE USA 2008 DISTRIBUZIONE BIM REGIA GUS VAN SANT INTERPRETI SEAN PENN, EMILE HIRSCH, JOSH BROLIN, DIEGO LUNA, JAMES FRANCO

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Sopra alcune immagini del film di Gus Van Sant

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

Come film partigiano va benissimo: mira a sollevare indignazione per la discriminazione subita dai gay: allora la questione controversa era il tentativo di cacciarli dall’insegnamento scolastico (la Proposizione 6 di cui si parla nel film), oggi è quella di voler impedire il matrimonio gay paritario (la Proposizione 8 su cui si voterà in California). L’unica critica negativa scovata, del Los Angeles Times, sbuffa che solo per questo il film acquista interesse, altrimenti sarebbe un film troppo convenzionale per meritare l’attenzione; eppure Milk ha ricevuto tante e tali lodi, che si resta perplessi. In quanto al cast, Brolin a parte, i pur bravi attori hanno dato il meglio di sé altrove, anche perché l’arco dei personaggi non è ben sviluppato. La conversione di Milk alla militanza politica è repentina; a James Franco è richiesto di essere bello e poco altro. Né si riesce a capire cosa ci trovi Milk nel successore del normalissimo Scott, un latino instabile e semi-demente recitato da un Diego Luna (splendido nel trascurato Mr. Lonely di Harmony Korine) allo sbaraglio. Penn è stato straordinario in tanti altri film, come Dead Man Walking, Carlito’s Way e Mystic River. Il vero Harvey Milk sembrava meno effeminato e più prorompente di come lo interpreta Penn, ma questo è il meno. Non si richiede la fotocopia, ma una figura con il soffio della vita. Per molti ha funzionato; per noi no, pur avendo un debole per i film biografici, così difficili da realizzare. A eccezione di Brolin, molti personaggi, come quello di Emile Hirsch (Into the Wild, Alpha Dog), ci sono meccanicamente perché esistevano nella realtà, ma non prendono vita: sono poco più che manichini con trucco e parrucco anni Settanta che assolvono dei compiti e basta. E il film, con un certo automatismo, assolve il suo di compito: fomentare indignazione per le ingiustizie subite dai gay, e creare consensi per le loro cause. Tutto legittimo, evviva la democrazia, ma ci si ribella al ricatto del conformismo politico che induce a chiamare capolavoro un corretto, poco sorprendente, piuttosto banale film di propaganda politica.

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it Web: www.liberal.it Anno II - n° 4


MobyDICK

parola chiave

iente ha attratto la mia fantasia di bambino più d’una tavola ricca e ben apparecchiata. Sono rimasto sempre affascinato dalla quantità e dalla varietà di alimenti che la Provvidenza mi metteva a disposizione. Una festa per gli occhi e non solo.Tuttavia non mi sono mai lasciato andare al piacere di immaginarne i sapori, bastandomi la visione di quell’assieme di piatti ad appagare i miei sensi. Probabilmente il dato estetico prevaleva sull’essenza dei cibi stessi, ma nessuno mi toglierà mai dalla testa che una mensa ha un valore per se stessa, indipendentemente da ciò che la compone. La qualità delle vivande, naturalmente, è strettamente connessa, se non prevalente, sulla tavola imbandita, ma è la mente a eccitare il palato e non il contrario. Infatti, tutto, dai colori ai profumi, mi si rivela ancora oggi come l’apparizione fantastica della gratuità del dono. E indubbiamente il cibo, per quanto non cada dal cielo, ma costi fatica e sudore, è pur sempre un «regalo» che non a caso in ogni epoca è stato considerato come tale da chi ha avuto a che fare con l’imprevedibilità delle stagioni e dunque con l’incertezza gravante sul raccolto dei frutti della terra. Il cibo continua perciò ad avere per me (e credo per tanti altri) connotazioni spirituali, se così posso dire, che poche altre cose materiali riescono a trasmettermi. Sarà perché a esso associo ancora la preghiera-ringraziamento che la mia bisnonna prima e poi mia nonna e poi ancora mia madre (e oggi mia figlia) recitavano prima di assumere i pasti principali; sarà per l’abbondanza che non è mai mancata nella mia casa e per la quale sono stato educato alla riconoscenza verso Dio; sarà per la natura stessa degli alimenti che suscitano un puerile entusiasmo al punto da dissipare o alleviare le preoccupazioni; fatto sta che di fronte al cibo non riesco a pensare ad altro che alla vitalità della natura e alla sacralità del corpo che si smuove e assume quasi una dinamicità diversa rispetto a tutte le altre occasioni.

N

Ma il cibo, i profumi della cucina, l’affaccendarsi attorno ai fornelli di donne giovani e anziane, la frenesia nel cercare e comprare i prodotti necessari per preparare quanto stabilito, per quanto dimenticati nel frastuono contemporaneo e nel meccanismo consumistico, hanno comunque caratterizzato, e per quel che mi riguarda ancora caratterizzano, giorni particolari dell’anno. La solennizzazione «profana» delle feste è legata, infatti, ai pranzi e ogni festa è segnata da un pranzo speciale nel quale si rinnovano tradizioni, riti, usi, costumi e si esprimono sensibilità di genti diverse abituate a utilizzare i prodotti della loro terra per festeggiare attorno a una tavola possibilmente in compagnia di parenti e amici. Non credo di essere il solo a provare una vera e propria emozione dinanzi a pietanze ben fatte e costruite talvolta «magicamente», esteticamente esaltanti; ma anche davanti a pasti frugali, non per questo meno saporiti e ricchi di rimandi a ricordi, la sensazione è la medesima. Per un motivo molto semplice: il cibo è l’elemento più vicino alla nostra natura umana. Esso serve per farci vivere e noi lo abbiamo, dalla notte dei tempi, onorato non semplicemente cuocendolo per nutrirci, ma cucinandolo per godere del nutrimento stesso che altrimenti avrebbe soltanto una funzione fisiologica. È quasi un atto d’amore che compiamo ogni volta che ci accostiamo a esso. Quasi sempre senza saperlo e perciò, il più delle volte, non ne apprezziamo il senso. Talvolta lo disprezzia-

24 gennaio 2009 • pagina 3

CIBO La tavola è un altare laico sul quale s’affollano gesti lievi e misurati che la tradizione ha consacrato. Davanti a vivande sontuose o a pasti frugali si compie un rito ancestrale e ogni pietanza viene custodita dal corpo come una reliquia

Mangiare? È una preghiera di Gennaro Malgieri

Il cibo ha un’anima per chi la sa scorgere che rimane comunque riposta nella gioia che crea anche in chi non la sa riconoscere. Serve per farci vivere, per questo fin dalla notte dei tempi lo abbiamo onorato di significati che vanno ben al di là della funzione fisiologica mo addirittura poiché il consumo cui siamo dediti, al punto di non accorgercene più, non lo rende appetibile prima all’anima e poi ai sensi. Lo trangugiamo, secondo stili e modelli di vita barbari che al tempo dei barbari «storici» non sarebbero stati neppure concepiti. E quantità ingenti le gettiamo nella spazzatura perché non sappiamo fare i conti con la nostra ingordigia. Ecco come una parte di noi finisce per essere offesa dalla nostra insensibilità, dalla voracità, dall’avidità cui abbiamo devoluto una parte considerevole della nostra animalità. Ma il cibo, frutto di fatiche sudori dolori amori pianti, resta sempre e comunque in attesa di soddisfare il nostro bisogno elementare e sostenerci. Non mi pare ci sia altro al mondo che abbia questa funzione, al di là dell’immaterialità cui pure

dovremmo dedicare più spazio nella nostra quotidianità. Per quanto su di esso s’imbastiscano immorali speculazioni e si giochino partite criminose al punto da farlo mancare a centinaia di milioni di esseri umani ogni giorno in qualche parte della Terra, il cibo è il primo canto all’Inconoscibile anche da parte di chi non crede, poiché il risultato del lavoro che arriva sulla tavola ad acquietare il tormento e a lenire le pene non può che essere una forma di consacrazione laica dalla quale, paradossalmente, il vino che si fa sangue e il pane che si fa carne sono gli elementi del sacrificio eucaristico secondo i cristiani e secondo i pagani erano i doni primari che si offrivano agli dèi. Le messi e gli animali sono stati - e presso alcuni popoli lo sono ancora - nutrimento degli uomini e simboli di gratitudine

alle divinità. In questo legame sacrale c’è l’essenza del cibo il quale è anche il tramite comunitario che riunisce attorno al desco famiglie ed estranei, contribuendo in modo decisivo a creare le condizioni di una pace o, quantomeno, di una tregua negli affanni della giornata. Inconsciamente, forse, noi amiamo il cibo, al di là delle sue stesse caratteristiche, perché esso esorcizza la morte facendo vincere la vita. La povertà di una tavola è come un rito funebre. Ma basta poco, perfino il più povero dei piatti, perché si accenda un fragile speranza ben sapendo che poi andrà delusa e bisogna ricominciare daccapo. Nelle Sacre Scritture, nel Vangelo, nell’Edda di Snorri, nella Bhagavad Ghita, nel Corano il cibo, il nutrimento, la condivisione degli alimenti sono protagonisti di percorsi iniziatici e di canti solenni o sommessi che rimandano alla religiosità del soddisfacimento del bisogno primario a restare in vita.

C’è qualcosa di nascosto, «segreto», e forse in questo ho rinvenuto il suo fascino al punto di mangiare con gli occhi, come mi si rimprovera affettuosamente qualche volta, nella tavola colma di ogni bene che non ho mai saputo raccontare fino a quando non mi sono trovato in un campo di profughi saharawi nel deserto meridionale algerino. Lì, davvero c’era poco di cui sfamarsi. E la miseria, le malattie, gli occhi sgranati di decine di bambini penetrarono dentro di me al punto da assaporare il latte di cammella e mangiare pochi datteri insieme con qualche rozzo ma saporitissimo dolciume condividendo la gioia di farlo con chi neppure immaginava che, in via del tutto eccezionale, quel giorno, quella sera ci sarebbe stato un banchetto in onore di chi aveva portato loro poco o niente, forse soltanto un po’di comprensione. Davanti a me, mentre il sole calava, si allargavano profumi intensi che non avevo mai sentito. Il capo del villaggio, macilento e gioviale, aveva ammazzato un grasso montone da consumare insieme con lo stupito occidentale dopo aver reso grazie ad Allah. E ci furono peperoni piccanti, e lattughe non so da dove arrivate e il cocomero più rosso e zuccheroso mai assaggiato a fare di quel pasto il più ricco e indimenticabile che io abbia mai consumato. Gli occhi dei bambini saharawi erano luminosi come non li ho visti mai più e dalle donne fasciate da vestiti sgargianti prorompeva una bellezza assolutamente indescrivibile, una sensualità viva, attraente, ipnotizzante, tale da far dimenticare che su quei corpi si esercitava quotidianamente la sofferenza, la fatica di vivere. In quei cibi consumati in allegria, con un griot venuto da chissà dove, forse dal Mali, che accompagnava le sue storie cantate con una kora, ritrovai lo spirito di una koiné che nel mio vecchio Occidente avevo perduto. Da allora non ho mancato mai una volta di levare il calice, cercando di non farmene accorgere, al cibo dei poveri che è il più saporito, benedetto dalla fatica e dalla privazione, ma quanto delizioso al palato non meno che allo spirito. Il cibo è così: ha un’anima per chi la sa scorgere e per chi non ne è capace rimane riposta nella gioia che crea, nel privatissimo mondo di sensazioni che, comunque, trasfigura tutti noi che ne beneficiamo in piccoli sacerdoti di un rito antico quanto è antico il mondo. La tavola è un altare laico sulla quale s’affollano gesti lievi e misurati che la tradizione ha consacrato, una sorta di riti ancestrali dedicati alla cura umile di una pietanza sapendo che il corpo la custodirà come una reliquia. Mangiare, insomma, è una preghiera. Come l’ultimo pasto di Gesù.


MobyDICK

pagina 4 • 24 gennaio 2009

cd

musica

Kitty, Daisy & Lewis alle radici del rock di Stefano Bianchi e gli chiedi chi erano i Beatles, ti ridono in faccia. Per loro, il pop non è mai esistito. E quando su eBay comprano strumenti d’epoca tipo banjo, steel guitar, xylofono e ukulele, corrono dai genitori (papà, Graeme Durham, è un ingegnere del suono; mamma, Ingrid Weiss, era la batterista punkettara delle Raincoats) per convincerli d’aver fatto ottimi affari. Per non dire di Camden Market e Portobello, dove hanno messo a punto il loro look impomatato: cravatte sgargianti, camicie hawaiane, mocassini bicolori,

S

calze a rete, fouseaux, stilosissimi top. I londinesi Kitty, Daisy e Lewis Durham, hanno rispettivamente 15, 20 e 18 anni. Anziché ascoltare Franz Ferdinand, Coldplay o Duffy, impazziscono per l’analogico, la fedeltà che più bassa non si può, la puntina che ogni tanto s’incanta sul microsolco. In buona sostanza, ragionano di musica come se avessero il triplo della loro età. E caspita, se si emozionano quando ascoltano Louis Armstrong, schioccano le dita al ritmo swing e rhythm & blues di Louis Prima, ballano ogni volta che ruggisce il sax di

Louis Jordan! Il disco di debutto si chiama come loro (Kitty, Daisy & Lewis), omaggia i gloriosi Sun e Chess Studios di Memphis e Chicago, indietreggia allegramente alle radici del rock. Filologia ai massimi livelli: registrata con apparecchiature vintage a Kentish Town, nello studio di famiglia. Con papà e mamma, ovviamente, compiaciuti. E pronti a sostenere la sezione ritmica, ogni volta che i figliol prodighi si esibiscono dal vivo tra un frenetico rockabilly e Buonasera signorina in stile Las Vegas, un ondeggiar di ciuffo a banana e uno svolaz-

zar di gonne Fifties. Avevano un’età da Zecchino d’Oro, quando per la prima volta stregarono la platea intonando Folsom Prison Blues di Johnny Cash. Eccezion fatta per i due brani composti dal trio, vale a dire lo scintillante Buggin’ Blues intonato da un Lewis nei panni di Elvis e l’esotismo da cartolina lounge dello strumentale Swinging Hawaii, l’album vola su rivisitazioni di pezzi anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta firmati Muddy Waters, Canned Heat, Sonny Boy Williamson, Dallas Frazier, Louis Jordan e compagnia roots-rock, blues, country & western, swing. Acerbi? Macché. Prestate doverosi ascolti a Kitty e Daisy, mentre arpionano Going Up The Country con tanto d’armonica a bocca, piano e contrabbasso, per poi «tropicaleggiare» fra le percussioni e la sdrucciolevole chitarra di Honolulu Rock-A Roll-A. E I Got My Mojo Working? Un gioiello di blues, servito ad hoc dai nostalgici monelli. Mean Son Of A Gun? Un rockabilly col cuore in mano. Hillbilly Music? Nervature country, banjo assortiti e l’imberbe Lewis in stato di grazia. Bello pimpante come le sorelline, che non perdono l’occasione d’accarezzare e graffiare Mohair Sam con le loro voci nasali. E plasmare Ooo Wee a colpi di swingante jazz. Bene, bravi, bis. Come vinile comanda.

Kitty, Daisy & Lewis, Sunday Best/Family Affair, 21,90 euro

in libreria

mondo

riviste

IL BREVIARIO DI CARTESIO

SUGIMOTO FORMATO U2

PUCCINI E LA TECNOLOGIA

«N

on moltiplicare gli elementi più del necessario, non considerare la pluralità se non è utile, e non fare con più ciò che si può fare con meno». Il principio metodologico, noto come il rasoio di Occam, calza alla perfezione alle otto note che compongono l’immensa complessità della musica. Ai canoni matematici del francescano Guglielmo, si ispirano anche le importanti escursioni teoriche

U

na lingua di terra di foggia lunare, tagliata a metà da un cielo di barbara vuotezza. Tinteggiature scarne dalle cromie patibolari, che oscillano in un grigiore surreale. L’immagine di Hiroshi Sugimoto, fotografo giapponese che griffa la cover del nuovo album degli U2, consacra l’orizzonte infinito e l’eternità dei sogni, che sopravvivono a dispetto del reale e delle meschinerie individuali, nel

A

Musica e matematica fluiscono da un’unica fonte. I pensieri del filosofo su numeri e suoni

L’artista giapponese firma la copertina del nuovo album in uscita il 16 febbraio

Su “Musica” un editoriale di Stephen Hastings sul rapporto tra il musicista e la discografia

del Breviario di musica di Cartesio (Passigli editore, 144 pagine, 12,00 euro). Una gradevole lettura che sospinge sino ai prodromi dei numeri primi, dove musica e pensiero matematico fluiscono, nell’accezione tenneryana, da un’unica fonte. Facilitato dalla brillante introduzione di Luisa Zanoncelli, lo snello e arguto fraseggio cartesiano delinea le linee fondamentali del pensiero matematico, sottraendo per una volta la musica ai nuvoloni postmoderni che ne hanno fatto una disciplina consumistica, a portata di clic.Tramite la matematica, la musica di Cartesio si riscopre prima di tutto come forza fondativa, mistica della luce che si scompone, a più basse frequenze, in suono.

deserto della contemporaneità. Una pausa di riflessione, a metà fra vita vissuta e vita pensata, coronata dall’omonimo simbolo dell’interruzione, reso celebre dai comandi analogici degli apparati video sonori, posto dall’artista giapponese a metà fra cielo e terra. No Line on the Horizon, ennesimo crack annunciato di Bono e compagni, si presenta ancora una volta intenso e disperato, lirico e possente, come nell’abituale universo immaginifico della band. Un lavoro complesso e a tratti difficile che vedrà la luce il 16 febbraio, ma già battezzato dal primo singolo estratto, Get on your boots, su tutte le radio da lunedì scorso. Undici tracce che scalderanno questo lungo cogitabondo inverno.

con quella sfolgorante del grammofono. Già agli inizi del Novecento, il compositore conformò infatti la durata delle sue arie a quella dei dischi a 78 giri, e gli ultimi venticinque anni della sua vita videro fiorire di incisioni diverse centinaia di arie e tre opere complete (Bohème, Tosca e Butterfly in lingua inglese). Un Puccini capace di fiutare l’aria dei tempi e il potenziale delle nuove tecnologie, di comporre in modo squisito senza rinunciare al sogno di essere amato da una platea più ampia possibile. Inclinazioni che spingono l’artista a mostrare grande apprezzamento per l’avvento degli apparecchi radiofonici che, sette anni dopo la sua morte, avrebbero cominciato a diffondere le sue opere.

150 anni dalla nascita di Giacomo Puccini, Musica (www.rivistamusica.com) omaggia la carriera del maestro con un editoriale di Stephen Hastings. Lontano dalla liturgia incensatoria tipica degli anniversari, gaudiosi per gli occhi ma insoddisfacenti per il palato, lo studioso sceglie di esplorare la discografia pucciniana alla luce di un interessante binomio: la fortuna dell’autore in parallelo


MobyDICK

24 gennaio 2009 • pagina 5

zapping

Per un Sanremo futurista ABOLIAMO LE CANZONI di Bruno Giurato ui la situazione anche musicale, sissignori, è disperata ma non seria. Perciò ci serve un rimedio adeguato e per una volta serio. Si sta parlando di Sanremo, naturalmente, e di un Sanremo che non è come gli altri. O meglio apparentemente sì, perché si porta dietro il suo solito carico di polemiche come se ci si trovasse in una stagione normale. Ma in fondo no, nonostante tutto sarà un Sanremo diverso. Innanzitutto mancherà il Dopofestival, che l’anno scorso, diretto da Elio e le storie tese, è stato una delle più belle trasmissioni del palinsesto italiano, e infatti Bonolis l’ha subito ammazzato. E poi è un Sanremo che viene fuori nell’anno delle celebrazioni futuriste. Perciò la nostra modesta proposta, che a questo punto sembra l’unico modo per rilanciare la spompatissima manifestazione è un Sanremo futurista. Visto che le canzoni sanremesi sono la quintessenza della nostalgia per un’Italia che non c’è più, guardiamo finalmente avanti, siamo futuristi. Aboliamo le canzoni. Abbiamo Bonolis, abbiamo la De Filippi, avremo qualche attrice Usa. Non ci possiamo accontentare? E poi le canzoni fanno calare l’audience, dicono a volte cose strane a proposito di amici gay che guariscono (e poi i pasdaran del bignamino d’etica si arrabbiano), e poi le nuove proposte si emozionano perché devono cantare dal vivo (e dove siamo? a XFactor, eccheddiamine), e poi ci sono i «padrini» (Paoli, Jovanotti, eccetera) che scrivono i le canzoni ma sul palco non ci vanno, in stile «vai avanti tu che a me mi viene da ridere». Molto meglio un bel Sanremo senza canzoni. Un Uomini e donne sul palco dell’Ariston. Un Senso della vita con i fiori.

Q

teatro

Il dubbio di Shanley dopo l’11 settembre di Enrica Rosso vero, tutte le strade portano a Roma. Ma Il dubbio di John Patrick Shanley, per la regia di Sergio Castellitto, ci ha impiegato parecchio tempo ad arrivarci. Da poco meno di una settimana lo spettacolo, che nella passata stagione ha sbancato i botteghini di mezza penisola italiana, ha debuttato al teatro Valle ben rodato e pronto a proseguire nella sua corsa. Il testo che nel 2005 valse al suo autore tre riconoscimenti importantissimi, tra cui il Premio Pulitzer, ci viene presentato nell’adattamento per il teatro di Margaret Mazzantini, autrice seguitissima e pluripremiata nonché moglie del regista avvezza a condividerne le imprese (suo il fresco di stampa Venuto al mondo, edito da Mondadori, già recensito su queste pagine). Siamo nel 1964, in una parrocchia nel Bronx. L’America sotto shock è appena rimasta orfana di J. F. Kennedy. Due fondamentalmente i poli intorno a cui si dipana la storia: due religiosi, diversi per età, sesso, posizione. Due servi di Cristo che fanno i conti con la loro imperfetta umanità messi all’angolo dal sospetto che partorisce mostri. Il confronto fra i due, dovuto a un diverso modo di intendere la compassione cristiana, genera una situazione incresciosa che deflagrerà lasciando sul campo solo perdenti. Un accavallarsi di temi difficili, scomodi: dall’accusa di pedofilia a un giovane e appassionato prete, alla discriminazione razziale. Una storia scabrosa e coinvolgente che riporta alla mente episodi di cronaca tristemente noti. Perfettamente incastonata nel momento storico che stiamo vivendo (la sera del debutto romano ha coinciso con l’insediamento di Barak Obama alla Casa Bianca) ci viene servita come un thriller psicologico in cui a ogni scena i duellanti sono posseduti dalla loro necessità di non soccombere, perdendo a volte di vista il vero senso della carità. L’implacabile direttrice della scuola parrocchiale, Suor Aloysia, vede un’encomiabile Lucilla Morlacchi calata in un ruolo spigoloso che non dà tregua, ma che l’attrice gestisce con grandissima perizia. A lei si contrappone il Padre Flynn fortemente voluto da Stefano Accorsi

È

(tutta l’operazione parte infatti dal suo desidero di portare in Italia questo testo). La sensazione è che la situazione in scena non sia equa e che l’attore di cui tutti apprezziamo la bravura al cinema, perfetto nel rendere la fisicità del personaggio, debba ulteriormente scandagliare l’animo di questo religioso per trovarne le ragioni profonde e fare sue le emozioni che lo portano a iniziare il sermone domenicale con il toccante: «Che cosa facciamo quando non ci sentiamo sicuri?» (la stesura del testo americano è datata 2002, anno successivo alla strage dell’11 settembre). C’è

poi un terzo personaggio, affidato alla luminosa Alice Bachi, preposto ad ammorbidire l’impatto tra i due litiganti, e un significativo intervento, che apre nuovi orizzonti alla storia, è egregiamente condotto da Nadia Kibout. La scena, un efficace contenitore di design firmato da Antonella Conte, si veste e sveste quel poco che basta a connotare l’ambiente, privilegiando l’uso dello spazio nella sua totalità. La nitida regia di Sergio Castellitto scandisce il susseguirsi delle scene evidenziando una scelta di ritmo cinematografico in cui i passaggi di tempo o di luogo sono rafforzati da una colonna sonora vintage conforme al periodo dell’ambientazione. Luci d’impatto di Raffaele Perin.

Il dubbio, regia di Sergio Castellitto, Teatro Valle fino all’8 febbraio, info: 06 68803794 - www.teatrovalle.it

jazz

“Autumn in New York” con lo stile di Tom Harrell di Adriano Mazzoletti ra le multiformi attività del Parco della Musica di Roma, se ne è recentemente aggiunta un’altra, una nuova etichetta discografica dallo stesso nome. Con una quindicina di dischi già pubblicati, la Parco della Musica si avvale della possibilità di registrare i molti musicisti ingaggiati per i concerti all’Auditorium. È il caso del gruppo italiano del trombettista Tom Harrell che il giorno successivo al concerto del 12 aprile dello scorso anno, è stato nuovamente riunito per l’incisione di un disco pubblicato con il titolo The Auditorium Session. Il quintetto, con il sassofonista e arrangiatore Maurizio Giammarco, il chitarrista Fabio Zeppetella, Dario De Idda al basso e Fabrizio Sferra alla batteria, conferma in queste incisioni - otto brani originali e un standard (il celebre Autumn in New York di Vernon Duke arrangiato da Giammar-

F

co) l’eccellente impressione data nel corso del concerto. Harrell è uno dei pochi solisti ad avere una spiccata personalità che lo induce a non uniformarsi a quanto troppo spesso il jazz oggi propone. Musicista lirico e introverso, ma anche capace di inflessioni e accenti che «vocalizzano» il suo discorso, s’impose come una delle voci più interessanti da quando, nel 1983, incontrò il sassofonista Phil Woods con cui iniziò un lungo e importante sodalizio. In precedenza aveva anche collaborato con alcune importanti figure: Woody Herman, Horace Silver, Bill Evans, George Russell, con cui aveva elaborato il suo stile.Fra i suoi partner spiccano Giam-

marco e Zeppetella. Musicisti fra i più interessanti dell’ormai vasto panorama del jazz italiano. L’assolo di Giammarco al sassofono soprano in Autumn in New York è di infinita delicatezza. Una notizia che sarà accolta con piacere dagli appassionati e collezionisti, soprattutto romani, riguarda l’apertura del centro

musicale Blue Jazz che Roberto Manganini ha inaugurato al 59 di via delle Fornaci, a due passi da Piazza San Pietro. Era diverso tempo che Roma era rimasta senza un centro altamente specializzato dove poter trovare oltre alla novità anche incisioni rare e di importazione. Non solo dischi - il negozio ha una bella collezione di vinili a 33 e 45 giri che stanno prepotentemente tornando in auge ma anche libri e riviste ormai introvabili. Luogo di ritrovo per chi desidera tenersi informato ma anche per gli irriducibili collezionisti e ricercatori che possono, in sale apposite, ascoltare con tutta tranquillità le loro piccole o grandi scoperte. Harrell-Giammarco-Zeppetella-DeiddaSferra,The Auditorium Session, Parco della Musica


narrativa

ervono 42 anni al protagonista dell’ultimo romanzo di Giorgio Montefoschi, Le due ragazze con gli occhi verdi, per compiere in maniera definitiva, e drammatica, la sua educazione sentimentale. Pietro, infatti, è un giovane adolescente quando si affaccia, con timidezza, alle prime pagine del romanzo, che data l’inverno del millenovecentocinquantasei. Arriva presto l’estate e Pietro con la sua famiglia - la madre Giulia, il padre Guido, la sorella Livia e il nonno Cesare - passa dalla casa ai Parioli di Roma alla casa al mare di Nettuno. Il tempo si avvicenda con la sua morbidezza e ottusità, l’inverno con le improvvise tramontane gelate, le primavere pungenti e luminose, le estati roventi e gli autunni languidi. Un avvicendamento che annovera opere e giorni, che fa leggere in controluce ciò che di fondo anima questo romanzo: il rapporto tra natura e cultura. Una relazione non propriamente dialettica, ma strutturata su di un intreccio insolubile e costantemente sorvegliato dal narratore. Torniamo alla trama. Pietro passa parte dell’estate con il nonno Cesare, al quale tributa un amore assoluto, leggendo e commentando l’Odissea. L’improvvisa morte del nonno apre la strada alla lacerazione dei sentimenti che sarà la costante, e il filo rosso, della vita del protagonista. Il 1956 è il primo blocco di un romanzo quadripartito per epoche, che chiuderà nel 1989. Ogni decennio Pietro subirà un lutto, contrappunto al suo incessante bisogno d’amore, e al vitalismo naturale delle rigenerazioni costanti del tempo. Pietro è un

S

libri Montefoschi MobyDICK

pagina 6 • 24 gennaio 2009

uomo destinato alla scissione, la forte attrazione per la famiglia e la stabilità da una parte, un destino che gli consegna il tarlo dell’infedeltà dall’altra (sarà prologo il burrascoso matrimonio dei genitori). La famiglia, l’amore, il tradimento e la fedeltà, la morte sfilano e hanno l’importanza che nella narrativa di Montefoschi conosciamo, su Roma protagonista e scenario, la minuta analisi dei rapporti tra marito e moglie, tra fratelli, tra amanti. In quella ostinazione, che per gli scrittori si definisce ossessione, di rappresentare la realtà guardandola quanto più vicino possibile, nelle sue pieghe più ordinarie (e straordinarie), la vivisezione implacabile dell’interno borghese di memoria moraviana. Perché quell’ossessione, quelle minuziose descrizioni delle strade, della mutevolezza del clima, delle case e delle sue suppellettili, del cibo e della sua ritualità? «Sulla tavola, sopra la tovaglia candida, c’erano già i piatti di portata con il melone tagliato a fettine e il prosciutto, i pomodori ripieni di riso, gli asparagi bolliti, il formaggio. Al centro, fra la brocca dell’acqua e la bottiglia appannata del vino un ciuffo di roselline bianche debordava». Montefoschi compie lo sforzo che ogni scrittore sente come il proprio obiettivo, quello di stare più vicini al mondo, di saper ascoltare e vedere, di aderire alla vita. Per quest’adesione, all’apparenza ovvia, servono il rigore e la misura, ma anche il disincanto di fronte al dolore e alla perdita.

la vita vista da vicino di Maria Pia Ammirati

Giorgio Montefoschi, Le due ragazze con gli occhi verdi, Rizzoli, 358 pagine, 19,50 euro

riletture

Quell’amore non corrisposto per lo scopone di Leone Piccioni d eccoci a un Cardarelli più pungente e - possiamo dirlo, (anche se non ci sfugge un po’ l’ironia) - più cattivo. Al seguito di Cardarelli c’era una persona che voleva entrare nella sua cerchia e lo chiamava Maestro. Un giorno Cardarelli si voltò verso di lui e gli disse: «Non mi chiami Maestro perché lei non ha imparato assolutamente niente da me». Negli anni ai quali ci riferiamo lavorava a Roma un giornalista di grande simpatia e ingegno, Vincenzo Talarico, e gli faceva fortemente la corte. Sapendo che Cardarelli amava giocare a scopone, riuscì a mettersi in coppia con lui e giocare. Alle prime mosse di Talarico, Cardarelli tacque, poi si rivolse a lui e gli disse: «Lei, Talarico, coltiva per lo scopo-

E

ne un amore non corrisposto». Cardarelli giustamente amava molto Tarquinia, la sua patria. Un giorno decise di portare Zavattini a vederla. Mentre il treno andava, al finestrino Zavattini indicava sempre somiglianze tra la sua terra e quella che Cardarelli gli mostrava; finché arrivarono all’improvvisa e stupenda visione di quel mare. «Se mi dice ancora una volta che quello che sta vedendo l’ha già visto prima da qualche parte, vada a prenderselo nel culo!». Flaiano raccontava un episodio molto divertente che riguardava Cardarelli che in estate si affacciava alla finestra per seguire il lavoro che nel cortile stavano eseguendo due imbianchini. Uno era in cima alla scala e l’altro sotto (è un episodio che è stato ripreso tale e quale da Fellini in un film). Nel silenzio, ogni tanto

l’operaio che stava sul terreno chiamava: «A Marcè». E l’altro: «Che c’è?». «Vattela a pijà nder culo!». La cosa si ripeteva e il povero imbianchino che stava in alto veniva mandato continuamente a quel paese. Cardarelli e Talarico facevano spesso colazione insieme. Bisogna dire che Talarico aveva un volto sfigurato con un occhio molto più alto e l’altro molto più basso. Durante il pranzo, Radio Londra comunicò che nella guerra d’Africa era caduta Tobruk. Talarico se ne andò. Dopo poco un fascista si avvicina minaccioso a Cardarelli e gli chiede: «Come ha saputo che è caduta Tobruk se il nostro bollettino non lo dice?». Rispose Cardarelli: «È passato di qui Talarico e gliel’ho letto negli occhi!». La battuta forse più memorabile di Cardarelli nasce quando viene a sapere che certi suoi amici che vive-

vano, mi pare, nelle Marche erano morti in un incidente. Due fratelli, tutti e due morti. Cardarelli che aveva avuto da loro anche qualche prestito (il poeta era sempre senza una lira) aveva simpatia per loro e ne parlava bene. Quando seppe della morte, decise di farsi portare da un amico in macchina fino alla casa dei fratelli Conti. Capitò proprio mentre erano da poco iniziate quelle tremende pratiche che precedono il funerale: con la fiamma ossidrica gli operai avevano cominciato a chiudere le bare. Compunto e meditabondo Cardarelli assistette a tutta la cerimonia fino a quando le casse non furono completamente chiuse. Allora disse: «Ora si può ben dire che i Conti sono saldati!». «Non nasce in me pensiero ove non sia dentro scolpita la morte» (Michelangelo).


MobyDICK

24 gennaio 2009 • pagina 7

società

Ecco come siamo al supermercato

di Gabriella Mecucci opo aver letto questo libro non riesco più a parlare al cellulare mentre mi sto avvicinando a una cassa di un supermercato». Perfino la super sofistica Segolene Royal è stata catturata da Le tribolazioni di una cassiera di Anna Sam. Il racconto sferzante e autoironico arriva anche in Italia dopo aver spopolato in Francia. L’autrice è una ventottenne bretone che mette in ridicolo tutte le nevrosi di quella vasta e variegata umanità che va a far spesa in un supermarket. Prima la Sam ha fatto un blog che in quattro e quattr’otto ha raggiunto quota 120 mila fre-

«D

letteratura

quentatori, poi - visto il successo - lo ha tradotto in libro ed è diventato un best seller. Adesso si accinge a conquistare il mondo. Il libro inizia con una mamma che tiene per mano il figlio all’uscita di un supermercato e indicando la cassiera, gli dice: «Lo vedi che fine puoi fare se non studi». La Sam mette in fila, uno dietro l’altro tutti i luoghi comuni su un lavoro certo non esaltante, che ti costringe a sentire ottomila bip al giorno e a ingaggiare un vero e proprio combattimento con ogni sorta di cliente. C’è quello che bisticcia con la moglie perché lo becca sul telefonino e gli ordina di acquistare le banane: «No e poi no - risponde - ormai sono arrivato alla cassa, me lo potevi dire pri-

ma». C’è quello che ci prova e invita a cena la cassiera con aria galante, mentre lei solleva l’ennesimo articolo da registrare: in un giorno sposta quasi 800 chili di oggetti. C’è quello scaltrissimo che con varie manovre cerca di non aspettare il suo turno per pagare: supera le vecchiette azzoppandole, oppure lascia il suo carrello davanti alla cassa e va a fare la spesa mentre la fila si gonfia di persone e di rabbia. Poi ci sono gli affezionati della battuta cretina: «Che sconto mi fa visto che sono un simpaticone?», subito dopo vengono le diverse strategie dei ladri da supermercato e le risse di quelli che strillano: «Pago io, no questa volta tocca a me». Insomma, una serie di gag esila-

ranti nel corso delle quali vengono fuori tutte le meschinità, le sciocchezze, le volgarità, le nevrosi del cliente solo o di quello che fa la spesa per la famiglia. E naturalmente la condizione drammatica e insieme ridicola della cassiera. In Francia ce ne sono 170 mila e le prime acquirenti di questo libro scoppiettante sono state loro. Poi sono venuti gli altri: le diverse risme di clienti che hanno riso, leggendolo, delle loro scempiaggini. Adesso tocca a noi italiani guardarci alla specchio del supermercato: chissà se ci divertiremo come i francesi? Anna Sam, Le tribolazioni di una cassiera, Corbaccio, 177 pagine, 12,60 euro

Il Novecento delle contraddizioni

di Nicola Fano l Novecento è passato da pochissimo - all’apparenza - ma è lontanissimo: altri sono gli stili, la fretta, la complessità di questo Terzo millennio. È il primo effetto che scaturisce dalla lettura di Qualcosa del passato, una raccola di saggi critici di Raffaele Manica appunto dedicati alla letteratura (ma non solo) del Novecento. Sono testi nella quasi totalità già editi singolarmente, sicché non è una riflessione organica: eppure una certa idea del secolo si intuisce. Ed è quella della «contraddizione», che può essere letta anche come contiguità di temi e discipline diverse, di alto e di basso, di popolare e letterario. In una

I

esordi

parola: di avanguardia e tradizione. Manica parte da Leopardi e dal passaggio dall’Ottocento al Novecento e poi si dilunga in una galleria di personaggi che hanno segnato di sé il corpo pulsante del secolo scorso, ossia quello che va dai tempi del fascismo a quelli della ricostruizione post-bellica. Il tratto comune è quello della contaminazione, dunque, che si esplica nelle idee ma anche nei generi. L’estetica e il teatro per Bontempelli; la musica colta e il teatro popolare per Fedele D’Amico; la letteratura e il biografismo per Garboli... Insomma: un secolo che parte con la contrapposizione fra Marinetti e Ungaretti e scivola sul binomio Baldacci-Siciliano. Sono solo alcuni dei tantissimi oggetti

del volo critico di Manica. La realtà è che - secondo il critico - il Novecento è il secolo che più di qualunque altro si è posto il problema di riflettere su se stesso, sulle proprie «finalità ideologiche» e

sui propri «limiti estetici». Il secolo delle contraddizioni e della storia, insomma, e delle contraddizioni della storia, tanto intrisa di utopie e di sangue. Tuttavia, il secolo della nostra formazione - lo dfinisce con affetto Manica - e con il quale occorre continuare a fare i conti: per sapere che cosa valga la pena portare del passato nel futuro. Ecco, con questa urgenza Manica ha compilato il suo catalogo e in margine a ogni nome e a ogni titolo ha fornito le sue ragioni critiche. Ecco perché, malgrado la sua programmaticità, è un libro con il quale bisogna fare i conti. Raffaele Manica, Qualcosa del passato, Gaffi, 490 pagine, 16,50 euro

Il viaggio di Ruth e Osea per svelare l’Enigma di Angelo Crespi on si può riassumere. Questa è la prima considerazione che mi è venuta leggendo Il lupo, romanzo d’esordio di Davide Brullo. Per cui in questi mesi di decantazione tra le bozze avute, per amicizia, in anteprima e lo stampato, ho dovuto rispondere, a chi mi chiedesse conto del libro, in modo piuttosto vago.Va letto. Questa la seconda considerazione, poiché trattasi di una storia-non-storia bellissima che nella pagina finale trova sua perfetta realizzazione. Una non-storia ambientata in un non-tempo che potrebbe essere l’evo risalente agli albori della civiltà o quello futuro che ne decreterà la scomparsa. Un non-tempo che proprio per il suo essere fuori dal tempo acquista quella dimensione mitica così rara nella letteratura contemporanea. Se dovessi tentare un paragone, pur sommario, dovrei rifarmi a La strada di Cormac McCarthy. Solo che nel

N

magnifico esito dello scrittore americano, la narrazione del viaggio di un padre e di un figlio alla fine del mondo viene compiuta per sottrazioni linguistiche, quasi in una icastica ricerca della parola ultima. Mentre nel caso altrettanto vitale di Brullo procede per accatastamento metaforico, tanto che il senso esplode in una prosa quasi poetica in cui appunto la metafora e l’allegoria ne diventano le figure retoriche predominanti. Nonostante la riconosciuta grandezza di Brullo come poeta, tra quelli dell’ultima generazione, in questo caso però non assistiamo né al «secondo mestiere» del lirico che si cimenta per svago o divertissement con la prosa, né all’inutile barocchismo linguistico che appesantisce i pur meritori esiti di un Busi o di un Moresco. Piuttosto siamo di fronte all’uso di una lingua dai forti echi biblici o delle grandi narrazioni mitologiche, funzionale a distruggere la banalità della produzione midcult che ammorba le librerie. Il viaggio di un bambino e

di una bambina (Ruth ed Osea), attraverso il mondo in consunzione, accompagnati da un lupo diventa così metaforico viaggio attraverso il bene e il male. E il lupo più che un semplice simbolo del male, come sembra, è più vasta allegoria della paternità e della tradizione che sostiene o fagocita ogni uomo e ogni donna nel suo personale viaggio che è la vita. E anche il cambio repentino di prospettiva finale, quando il lettore è costretto a immedesimarsi con gli occhi della bestia, è sorprendente capovolgimento del senso naturale che attribuiamo alle cose. E anche l’ultima pagina quando scopriamo che l’unico essere a sopravvivere è la vipera, e anzi la vipera tra le sue spire tutto comprende, uccide e fa rinascere, siamo comunque lontani dall’aver risolto l’enigma che da sempre ci accompagna e che Brullo lascia tralucere. Davide Brullo, Il lupo, Marietti 1820, 118 pagine, 12,00 euro

altre letture Delio Cantimori è stato uno dei principali intellettuali italiani del Novecento che ha vissuto con entusiasmo e lucida adesione la parabola del fascismo. Fascista romagnolo, di tradizione mazziniana e repubblicana, poi marxista (iscritto al Pci dal 1948 al 1956) fu generazionalmente estraneo alla tradizione politicoculturale liberale. Nel 1939 Gioacchino Volpe diede a Cantimori l’incarico di scrivere una storia del partito nazista che portò a termine nel 1942 col titolo Il movimento nazionalsocialista dal 1919 al 1933. Il testo, riscoperto frammentato presso due diversi archivi, viene ora ripresentato a cura di Paolo Simoncelli col titolo Cantimori e il libro mai edito. Il movimento nazionalsocialista dal 1919 al 1933 (Le lettere, 150 pagine, 18,00 euro). Scritto da Cantimori mentre maturava o era già maturata la sua adesione al comunismo, il volume illustrava allusivamente le origini socialiste e rivoluzionarie del primo nazismo liquidate nel ’34 con la notte dei lunghi coltelli. Che cosa diventa una vita il cui ritmo è scandito dalla dipendenza dall’eroina? Una non vita, un’esistenza che non ha più nulla di dignitoso e umano. Canile centrale (0111edizioni, 112 pagine,11,60 euro) opera prima dello psicologo Andrea Degiovanni è un romanzo breve che descrive la discesa nel girone infernale della tossicodipendenza di un ragazzo nella Bologna dei nostri giorni. Una narrazione cruda che mette in scena la semplificazione dell’esistenza provocata dalla gestione della sfera affettiva da parte di una sostanza che getta i personaggi in preda a un’anonimia devastante. Oggetto di esaltazione nelle fasi di crescita borsistica e denigrazione nelle fasi di crisi, il mondo della finanza è ciclicamente percorso da oscillazioni che toccano picchi di euforia o di panico. La crisi in corso è stata causata dalla proliferazione di strumenti sempre più sofisticati: dai cosiddetti derivati agli hedge funds, alle cartolarizzazioni di ogni sorta. Per fornire risposte a tali problemi la teoria economica è chiamata oggi a tenere presente che il comportamento degli attori finanziari è condizionato da aspetti decisivi di carattere sociale, quali fiducia e reputazione. Forme di regolazione che aprono interessanti prospettive di integrazione fra teroia sociologica e teoria economica indagati da Antonio Mutti in Finanza sregolata (Il Mulino, 110 pagine, 11,00 euro).


MobyDICK

pagina 8 • 24 gennaio 2009

LA STRADA INDICATA CINQUANT’ANNI FA DAL PROVVEDITORE PIÙ GIOVANE DELLA STORIA D’ITALIA, ALLIEVO DI GENTILE E DI CROCE, È QUELLA DA SEGUIRE PER TENTARE DI FAR RINASCERE LA SCUOLA NEL NOSTRO PAESE. I CUI PROBLEMI, GIÀ PROFETICAMENTE INDICATI DAL FINE UMANISTA DI BELLOSGUARDO, SONO AUTENTICI PROBLEMI DI LIBERTÀ

Riscopriamo Valitutti di Giancristiano Desiderio alvatore Valitutti va riscoperto, forse addirittura scoperto. Chi oggi ai vertici nazionali e locali (i dirigenti) della scuola non dico s’ispira al suo lavoro, ma conosce il suo pensiero? L’università degli assenti è il titolo di uno dei molti libri del fine umanista (altro che ministro!) di Bellosguardo: ma, oggi, è proprio Valitutti a essere assente nella scuola italiana e, forse, proprio nel momento storico in cui la sua opera più avrebbe senso, oltre che l’opportunità di dare nuova vita intellettuale e morale alla scuola, alle scuole. Salvatore Valitutti, infatti, non fu solo un ottimo ministro e un profondo conoscitore della realtà storica e legislativa italiana, ma fu anche e soprattutto l’uomo politico e di cultura che seppe interpretare i problemi della scuola come autentici problemi di libertà.Valitutti, il provveditore più giovane della storia d’Italia, allievo di Gentile e di Croce, era una sorta di riepilogo della vita culturale e civile della nazione. Attraverso la scuola pensava l’Italia e attraverso l’Italia pensava la scuola. Il libro al quale si sentiva più affezio-

S

De Sanctis. Un’opera vasta che attende di essere studiata e storicizzata per riprendere a svolgere la funzione di arricchimento dello spirito e delle intelligenze come le compete. Un lavoro che mi auguro possa giungere al più presto, ma che non è il compito di questo capitoletto. Qui ci si vuole soffermare su un solo concetto che Valitutti riteneva essere il cuore del suo lavoro intellettuale e morale: la scuola come espressione di libertà. Nell’epoca industriale prima e post-industriale poi la scuola non è più solo scuola per i dirigenti, bensì scuola per tutti. Scuola per tutti significa che hanno bisogno della scuola non solo i dirigenti o coloro che aspirano a esserlo, ma tutti coloro che lavorano.

La nostra è l’epoca della formazione continua. Ma la scuola aperta a tutti non può essere una scuola unica. Se lo fosse sarebbe un controsenso. La scuola aperta a tutti è la scuola che prova a dare a ognuno secondo i suoi meriti, le sue capacità, le sue inclinazio-

Nel 1973 sosteneva l’urgenza di una scelta tra uno Stato pedagogo e un sistema in cui lo Stato rinunciasse alla sua autorità regolativa sulla scuola. “Quello che non si può fare, senza irreparabili danni - avvertiva - è non scegliere” nato - lo dice lui stesso in una lettera all’amico Michele Melenzio - era Scuola e libertà del 1973. La scuola italiana è pensata e ri-pensata come mezzo e come fine dell’auto-valore o valore in sé, la libertà appunto.

Il pensiero di Valitutti, del professore, del giornalista, del polemista, del direttore, del conferenziere, del politico, del parlamentare Valitutti, è davvero tutto da scoprire. E da scoprire nei suoi molteplici aspetti: filosofici, pedagogici, legislativi, etici, politici, storici, sociologici. Per rendersene conto basterebbe gettare anche solo un rapido sguardo alla sua bibliografia: L’ambiente sociale del bambino italiano, La rivoluzione giovanile, Il Quinto Stato, Difesa della scuola, Introduzione alla dottrina dello Stato, La riforma di Francesco

ni, le sue aspettative. La scuola aperta a tutti e per tutti è una scuola che non fa selezione tra i giovani scegliendo alcuni e eliminandone altri, ma è una scuola che distribuisce a tutti in modo vario secondo meriti, capacità, inclinazioni. La scuola italiana è una scuola che assolve a questo compito? Soprattutto: la scuola italiana, organizzata e diretta dallo Stato, può assolvere a questo compito? Lo Stato-pedagogo - come si esprime Valitutti - è in grado di rispondere ai bisogni e alle esigenze di una società aperta in cui la scuola è e deve essere aperta a tutti? Quando Valitutti rifletteva su questi problemi di scuola e di libertà si era negli anni Sessanta (anche se il libro è del 1973) e già all’epoca i problemi della scuola in Italia apparivano allo sguardo lungimirante di Valitutti nella lo-

anticipazioni


MobyDICK

24 gennaio 2009 • pagina 9

ro ineludibilità. Tentare di lenire il «grave malessere» con i consueti rimedi - notava Valitutti - significa pretendere di applicare i classici pannicelli caldi. E continuava: «La prima indifferibile scelta che bisogna effettuare riguarda le premesse giuridico-istituzionali del sistema, entro il quale si deve collocare la scuola, per restituirle la piena funzionalità, in ordine ai suoi fini di cultura e di educazione. Stare a discutere se si debba oppure no seguire questo o quell’indirizzo nel modificare gli ordinamenti, i programmi e gli esami, è vano e illusorio e ha il solo effetto di ritardare la scelta anzidetta e perciò di aggravare le condizioni di malessere di cui già soffre la nostra scuola. La scuola è fra soli due sistemi: non ne esiste un terzo. O si sceglie il sistema che fa dello Stato l’autorità regolativa della scuola in ogni suo momento, o si sceglie il sistema in cui lo Stato rinunzia alla sua autorità regolativa in senso tecnico-scolastico. Quello che non si può fare, senza irreparabili danni, è non scegliere, pur se noi lo facciamo già da alcuni anni, rinviando il conto dei danni alle venienti generazioni». Quello che non si doveva fare è stato fatto e oggi ne raccogliamo gli «irreparabili danni».

Dunque, da una parte abbiamo lo Stato-pedagogo che statizza l’educazione, l’insegnamento, l’istruzione, i metodi, in una sola parola: l’anima. Questo tipo di scuola statale, che nella sua forma più riuscita e civile gioca tutte le sue carte sull’autorità del sigillo dello Stato e sulla sua selezione, è finita e in suo luogo è sorta una stranissima scuola statale che non si fonda sull’autorità ma sul lassismo, non sulla selezione ma sul demerito, non

sull’educazione ma sul pedagogismo, non sulla docenza ma sul sindacalismo. È la distruzione della vecchia scuola, ma non la nascita della nuova; è la terza via che Valitutti sconsigliava di imboccare perché inesistente ma dannosissima. Qual è l’altra scuola? Qual è l’altro sistema scolastico? È quello in cui lo Stato non interviene nella scuola «con statuizioni di carattere tecnico-didattico aventi valore generale». È la scuola la cui ragion d’essere non è lo Stato ma la libertà intellettuale e morale: «Il sistema tollera e anzi richiede interventi statali e in generale pubblici, non solo in forma di contributi finanziari, per l’aiuto ai giovani meritevoli privi di mezzi e per promuovere lo sviluppo di determinate ricerche scientifiche, ma anche nella forma della istituzione diretta di proprie scuole. Lo Stato, e in generale gli enti pubblici, si astengono solo dall’intervenire per imprimere il proprio sigillo sui titoli di studio, rilasciati da scuole dipendenti o indipendenti, conferendo loro valore legale. Perciò, in tale sistema, i titoli di studio, rilasciati da scuole non statali, non hanno valore legale. Il non intervento dello Stato, per imprimere valore legale ai titoli di studio, è la condizione e la causa della più ampia libertà delle scuole, le quali non sono costrette ad attenersi ad alcuna regola, preventivamente e uniformemente stabilita per il contenuto e i metodi degli studi». Se lo Stato non detta regole e non è la regola, le scuole non si devono riconoscere per forza in un ordinamento e devono auto-ordinarsi e auto-regolarsi. Le scuole sono autonome non per modo di dire, ma sono autonome in quanto devono dettare a se stesse la regola e la legge per fare scuola come meglio credono e ri-

Le scuole sono chiamate a fare scuola, non a rilasciare carte di valore giuridico. Solo così acquisterebbero un valore effettivo sul campo, secondo le loro forze, la loro qualità, l’autorevolezza e la consistenza degli insegnanti

Il libro a scuola italiana è finita da quarant’anni, da quando si chiuse il sistema scolastico che risaliva ai due massimi filosofi del Novecento italiano, Gentile e Croce, ma non se ne costruì uno nuovo. La scuola contemporanea è solo distruzione della vecchia scuola e non la costruzione di una nuova scuola. La vecchia scuola si basava su un sistema di selezione che avveniva all’ingresso: chi si iscriveva al liceo poteva proseguire gli studi, chi si iscriveva agli istituti professionali no. Superato storicamente questo sistema scolastico con la scuola di massa - cosa che è avvenuta in tutto il mondo - occorreva pensare e formare una nuova scuola con un nuovo sistema di selezione. Nel tempo, invece, si è realizzato un sistema ipertrofico e burocratico in cui regna su tutti il Diploma. Siamo, dunque, dove eravamo quarant’anni fa: è finita la vecchia scuola gentiliana, ma non c’è una nuova scuola. Il libro di Giancristiano Desiderio La scuola è finita (liberal Edizioni), dal quale è stato tratto il capitolo dedicato al magistero di Salvatore Valitutti proposto in queste pagine, partendo da questa analisi storica mette in luce i paradossi, i problemi, le inconcludenze di una scuola che ormai altro non è che assistenza sociale, tanto per i professori quanto per gli alunni. Il rilancio della scuola, secondo Desiderio, tanto nella pratica quanto nella teoria, passa oggi in Italia attraverso la «scuola libera». Esige dunque il superamento dell’ordinamento della «scuola di Stato» e l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Se non si imbocca con coraggio questa strada, ogni riforma scolastica non potrà non essere che un motore che gira in folle.

L

tengono. Le scuole sono chiamate a fare scuola e non rilasciando più carte dal valore giuridico acquistano un valore effettivo sul campo in relazione alle loro forze, alla loro qualità e, naturalmente, alla consistenza e autorevolezza reale degli insegnanti.

Le scuole che non rilasciano carte legali sono anche scuole che non gestiscono esami con valore pratico-legale: «Gli esami per l’abilitazione all’esercizio professionale, per le professioni, per le quali nel pubblico interesse si ritiene di richiederla, e gli esami di concorso a posti di pubblico impiego sono esami extrascolastici». Non competono alle scuole. A tali esami - che non possono non essere rigorosi, altrimenti crolla tutto il sistema della scuola libera - possono partecipare anche candidati che non hanno frequentato scuole. Ma se si è impreparati a che serve presentarsi a degli esami quando sono rigorosi e quando vi partecipano candidati che sono stati preparati frequentando studi seri in scuole ricercate dagli studenti e dalle famiglie proprio per la loro qualità e capacità di ben educare e preparare? La strada indicata da Valitutti cinquant’anni fa è la strada da seguire per provare a far rinascere la scuola in Italia. Un’altra strada non c’è o, meglio, le altre strade sono già state percorse e ci hanno condotti alla fine della scuola. Quando la scuola finisce non c’è altro modo per ricominciare se non quello di credere e investire nelle libere iniziative. Sempre che le istituzioni libere e democratiche conoscano ancora lo spirito di libertà che vive nel petto degli uomini come volontà di essere liberi.


MobyDICK

pagina 10 • 24 gennaio 2009

libri

Il successo postumo della trilogia dello scrittore svedese

Il caso Larsson di Pier Mario Fasanotti on un tono più pubblicitario che critico, l’equilibrato settimanale francese Nouvel Observateur ha scritto dell’ultima stella del firmamento giallistico mondiale: «Entrate nel mondo di Stieg Larsson e non vorrete più uscirne!». Pur col difetto dello slogan, la frase contiene due elementi, uno da condividere e l’altro no. Il primo: si parla giustamente di «mondo» perché il narratore svedese ne costruisce uno, a tutto tondo. L’affresco copre l’intera volta, spesso con una precisione maniacale per i dettagli. Ma Larsson non se ne preoccupa, anche perché scrive tomi da settecento pagine. Il fiato è da maratoneta, non da scattista. E il suo è un «mondo» che avvolge il lettore, soddisfacendo quindi un’esigenza ben nota ai compratori di libri (in larghissima percentuale donne), ossia quella di abitare per qualche giorno o qualche mese in un’enorme villa con tante stanze, dove in-

C

quant’anni, stroncato da un cuore affaticato da una vita non proprio salutare. Larsson era giornalista e prima di cimentarsi nella narrativa aveva scritto saggi politici. È abilissimo nel fare ricerche ed è preciso laddove s’addentra nel mondo tecnologico, informatico e giuridico.

È in corso una non si sa quanto garbata battaglia legale per i diritti: la sua compagna di vita (ma non ufficialmente moglie) rivendica giustamente qualcosa essendogli stata vicina per decenni e, come tutte le donne degli artisti, lo ha incoraggiato e aiutato. Nella sola Europa Larsson ha fino a oggi venduto più di otto milioni di copie. In Italia è l’editore Marsilio a far conoscere la sua opera. Le ristampe non si contano più. Si parla di «scrittore culto», tradotto in 25 lingue. Il primo romanzo, Gli uomini che odiano le donne, è comparso in Svezia nel 2005, un anno dopo la morte

È l’ultima stella del firmamento giallistico mondiale. Morto a cinquant’anni, non ha visto la sua ascesa iniziata nel 2005. Tra i critici c’è chi lo disprezza e chi lo osanna. Tradotto in 25 lingue, per i lettori è uno scrittore di culto contrare personaggi e situazioni gli uni diversi dagli altri, e non sostare in piccoli appartamenti della fantasia narrativa dove magari è intenso l’odore del vissuto, ma alla fine le porte si chiudono alle nostre spalle troppo bruscamente. Il secondo punto: non è assolutamente scontato che non si voglia uscire da questo «mondo». A volte si ha proprio il desiderio di sottrarsi all’avviluppamento di questi polipi per paura di soffocare, oppure di andarsene lontano preferendo, usando una metafora pittorica, fissare il volto del Cristo del Mantegna piuttosto che perdersi tra i colori della Battaglia di Anghiari. Rimane il fatto che Stieg Larsson, scomparso per infarto prima di vedere, o addirittura intuire, il successo planetario della sua trilogia poliziesca, è diventato un caso. E come tale divide i lettori, figuriamoci i critici. Per essere precisi, i suoi libri non sono tecnicamente polizeschi, semmai thriller con scavo psicologico: la sua non è una caccia al ladro, è piuttosto una foresta fatta di bene e di male a forma di alberi parlanti. Larsson consegnò all’editore i dattiloscritti, noti come Millennium Trilogy, e morì subito dopo a soli cin-

dell’autore, mentre in Italia è uscito due ani dopo. Seguono La ragazza che giocava col fuoco e, da poco in libreria, La regina dei castelli di carta. Vanno a ruba. Chi acquista il secondo o il terzo volume ha voglia di andare alla fonte di un congegno narrativo che contempla un complotto, varie indagini e un intrico di misteri. Un’ulteriore spinta alle vendite, e alla notorietà di Larsson anche tra chi non è lettore abituale, sarà data dal film tratto dal suo primo romanzo: la prima è prevista per il 22 febbraio. La regia è del danese Niels Arden Oplev. Lo slogan usato per il lancio della pellicola è assai impreciso, ma di effetto: «Un film che è un incrocio tra il Codice da Vinci e le avventure di James Bond nell’era del computer». Sicuramente il romanziere avrebbe storto il naso. Ovvio affermare che comunque sarebbe soddisfatto del grande successo. Nella corrispondenza (che si può leggere nel sito della casa editrice Marsilio) tra lui e la sua pignolissima editor, Eva Gredin, lo scrittore si dice molto convinto del progetto narrativo. E aggiunge di aver trovato una formula originale, imperniata su due protagonisti dai tratti ben definiti e accattivanti per il largo pubblico. Ossia il giornalista Mikael Blomkvist, che risorge dalla sfortuna con uno scoop di rilievo e nello stesso tempo pericoloso, e la giovane Lisbeth Salander, «strega» sexy, psicologicamente disturbata, d’intelligenza superiore. A tutto ciò si aggiunga una buona dose di furbizia: colpi di scena ben calibrati, scene sado-maso, amori lesbici, coppie che più aperte di così si muore (non a caso siamo nella Svezia della tolleranza sessuale anche entro le mura coniugali). Larsson usa la sua professione di reporter per scandagliare ambienti e situazioni reali. La sua invenzione è un impasto di cose viste e sentite, anche molto da vicino. Nel 1995 si disse turbato dalla morte di cinque giovani a Stoccolma, mandati all’altro mondo da estremisti di destra. Si battè contro il razzismo fondando la rivista trimestrale Expo e girando il mondo come conferenziere. Per la sua esperienza «in campo» fu contattato da Scotland Yard, della quale divenne consulente. Se nei suoi romanzi si parla abbondante-

mente di minacce di morte, questo è dovuto ancheal fatto che Larsson stesso fu preso di mira, possibile bersaglio di rappresaglie. Tra le sue righe traspare sempre il senso dell’insicurezza sociale, tema rovente in Svezia ma non solo lì. Larsson è uno degli ormai tanti scandinavi ad avere successo nel genere giallo (ma non solo in questo). Si pensi a Peter Hoeg, a Henning Mankell, ad Arnaldur Indridason (un raffinatissimo scrittore islandese) e a Hakan Nesser. Dalla Scandinavia è arrivata aria fresca (scusate l’involontario gioco di parole), che ha confermato che esistono, eccome, scrittori che elevano il genere poliziesco a letteratura medio-alta.

Guardando sempre più a Nord di Roma, si pensi all’inglese John Banville, e ad alcuni ottimi danesi. Il caso Larsson, con grande gaudio dell’ufficio stampa della Marsilio (si parli d’un libro, anche male, ma se ne parli: marketing intramontabile!), ha innestato alcune polemiche. O perlomeno delle divisioni di giudizio. Ha detto la sua Carlo Fruttero, dall’alto della sua esperienza di scrittore, critico, uomo di (immensa) cultura. Sarà forse per il carattere torinese, che spesso è severo e stizzoso, sarà perché in fondo non accetta (e chi lo accetta, poi?) l’avanzare dell’età, fatto sta che Fruttero ha sparato ad altezza uomo. Dice di aver parzialmente letto il primo romanzo e di averlo abbandonato «per noia». Ed ecco la sua raffica micidiale: «A me sembra scritto non col computer, ma dal computer. È come se la macchina producesse direttamente questa brodaglia, un pezzetto di carota, una buccia di patata, e su tutto un certo colore verdino. Insomma, mi ricorda le antiche minestre che pare servissero nei collegi dei bambini poveri, tanti anni fa. È una prosa senza scrittura, le stesse mestolate della stessa roba, una dopo l’altra». Fruttero già due anni fa si distinse in occasione del Premio Campiello vinto da Mariolina Venezia. Si mostrò acido e anche poco signorile (con le colleghe donne) dicendo che la sua era roba da televisione. L’aggravante fu un’ammissione: non l’aveva letto. Peccato, dottor Fruttero, invecchiare con così tanta acrimonia. Per il critico Giovanni Pacchiano, Larsson «ha la sapienza della costruzione: è molto attento ai personaggi, nessuno dei quali è solo sbozzato. Li sa inserire in un progetto che è sempre ad ampio respiro». Se uno segue in effetti la tribolata vita di Lisbeth, non può non seguirla sempre. Anche in una stanza d’ospedale (come nel terzo e ultimo romanzo) e augurarsi che quella pallottola nel cranio…


tv

video

MobyDICK

24 gennaio 2009 • pagina 11

I déjà vu H del commissario

o scritto, la scorsa settimana, che le grandi reti televisive colmano il vuoto programmatico ricorrendo ai comici, qualcuno eccellente, altri medio-scadenti. Bisogna fare un’aggiunta dopo la comparsa di alcune presunte novità. Al vuoto si sta rimediando anche con il ricorso alle serie poliziesche. Nostrane. Le quali, quando vanno bene, fotografano il paese che noi siamo: pettegolo, bonaccione, intrigante, sentimentale, assolutorio, intuitivo, spesso disorganizzato. In questo si fa centro. Ma di qui a parlare di buoni telefilm ce ne vuole, soprattutto con la concorrenza, altamente professionale, dei prodotti americani forniti da Sky. I soggetti e la sceneggiatura italiani fanno più pensare a una commedia poliziesca che non a thriller veri e propri. Nulla di male, basta che non si contrabbandi questo genere investigativo-familistico per autentici gialli. Su Rai 1 ha fatto la sua apparizione il commissario Manara, che di nome fa Luca, un meridionale che ha lavorato febbrilmente a Milano e si ritrova in un paese della Maremma «dove un bar aperto alle nove di sera fa pensare all’ultimo dell’anno». Manara, interpretato da Guido Caprino, è il classico trentenne, bello, brusco, corteggiato dalle donne. Ecco, qui di seguito, gli stereotipi che non fanno decollare la nostra fiction gialla. C’è sempre un ispettore imbranato, goffo, che addirittura si lascia picchiare da un testimone, così trasparente nella sua timidezza da essere bersaglio di frizzi e lazzi a proposito della sua (mancata) frequentazione di donne. La mancanza di sex appeal è grave peccato nella geografia «machista» italica. C’è sempre una vice che è innamorata del capo, efficiente, permalosa, alla fine arrendevole anche per merito della zia, la classica mammona italiana che regala consigli

Manara

web

games

saggi e consola. Nel caso specifico abbiamo un’attrice come Roberta Giarrusso, bella e procace (pure disinvolta ma non sempre credibile in scena), forse fin troppo secondo gli schemi ammuffiti della polizia d’un tempo. C’è sempre una cameriera che urla, con le mani sulle guance e lo sguardo atterrito, dinanzi al cadavere ritrovato. C’è sempre un graduato paziente e ironico (il bravo Bruno Gambarotta con il suo marcatissimo accento torinese). C’è il medico legale che, oggi per par condicio, è donna. Non solo: è alta, rossa di capelli, assai piacente. C’è sempre lo sguardo di un personaggio che ci porta facilmente - un po’ troppo - a intuire la soluzione della vicenda. C’è sempre un duello gitano di occhiate e battute tra donne - la poliziotta e il medico legale che paiono entrambe uscite da una copertina di Vogue - per contendersi i favori del bel commissario. C’è sempre una zoomata sul petto più o meno villoso o palestrato dell’indagatore, assieme all’ammicco della perpetua che lo ospita. C’è sempre un padre che vive in solitudine e abbraccia la figlia colpevole che sale sull’auto della polizia (e adesso, pover’uomo?, verrebbe da dire). L’altro rimedio al vuoto è la serie Il bene e il male (sempre Rai 1), con il poliziotto triste interpretato da Gianmarco Tognazzi. Questi non sorride mai, è una maschera di tormento interiore. Che esagerazione. Si fa confusione, all’inizio, a decifrare la sua mappa sentimentale. Ridondanti le considerazioni tardoromantiche e filosoficamente sbiadite sul destino del mondo, sulla cattiveria della gente, sul ruolo di chi deve far giustizia. C’è poi una Torino che fa da sfondo: indubbiamente bella, ma offerta con un montaggio di immagini che abbiamo già visto nei serial francesi. E con migliori risultati scenici. (p.m.f.)

dvd

CRESCE IL POPOLO DELLA RETE

ASPETTANDO “RESIDENT EVIL 5”

SULLE ORME DI GESÙ

S

ballottati dai venti di recessione, avviliti da una crisi senza precedenti, le umane genti sembrano voler rimboccarsi le maniche, e avvicendare il proprio broker con il proprio browser. Secondo i dati in possesso di Tns global, società autorevole e punto di riferimento per le ricerche e le analisi di mercato, la crisi ha sospinto sempre più navigatori nelle acque placide della rete. Una scelta d’eva-

Q

ualità grafica oltre ogni immaginazione, effetti audio video agghiaccianti e giocabilità di sconsiderato impatto. Il nuovo capitolo del più famoso survival horror della Capcom, Resident Evil 5, si presenta così agli appassionati, nella versione demo che sarà rilasciata lunedì prossimo 26 gennaio. Un teaser che contiene già in nuce le rivoluzionarie prerogative di gioco annunciate per

P

Dati diffusi da “Tns global” registrano percentuali in aumento nei collegamenti. Anche in Italia

Il nuovo capitolo della saga degli zombi più famosi al mondo in un demo. A marzo esce il gioco

Il film di Basso sull’itinerario evangelico in Terra Santa, in una contemporaneità senza appello

sione, apparentemente, che però significa soprattutto desiderio d’informazione e stato di massima allerta. Specie in America, dove il 30% degli intervistati dichiara di trascorrere in rete il proprio tempo libero, alla ricerca di notizie economiche, ispirazione professionale e dati aggiornati sulla Grande depressione del terzo millennio. Il primato spetta tuttavia ai cinesi, che in coincidenza con la crisi hanno visto lievitare la percentuale di utenti internet fino al 44%. Significativo rimbalzo anche per il popolo internettiano della Penisola, che complici le bad news superano persino lo share statunitense, con il 31% di utenti impegnati a sfogliare pagine web nel tempo libero.

il nuovo capitolo della saga degli zombie più famosa nel mondo. Modalità cooperativa per due giocatori, chat voce per l’interazione on line e poi armi e personaggi nuovi di zecca, accompagneranno i più impazienti fino alla dead line, è il caso di dire, del 13 marzo, quando il gioco verrà messo in commercio in versione integrale per i possessori di Xbox 360. A completare la suspense, ci sono sempre le orde di Majini contagiosi, piccoli rompicapo per dare respiro alla furia cieca dell’azione, e il supporto dell’intelligenza artificiale. La lotta al bioterrorismo di Chris Redfield stavolta riparte dall’Africa, dove ad attenderlo c’è un nuovo partner di gioco, il misterioso Sheva Alomar.

dato alla limpida prova d’attore di Valerio Binasco, il cammino del nazareno muove in una contemporaneità senza appello, in cui il fragore della guerra ha tacitato le parole di pace e fratellanza, e le bombe e l’orrore hanno disertato una terra arida che pure un tempo generò un nuovo mondo. Scrittori, musicisti, madri e studenti affiorano dalla polvere come fiori rari, miraggi che balenano, per poi tornare inghiottiti nel silenzio di un cammino che pare aver smarrito la meta. Del viaggio erratico, apparentemente indefinito ma segnato da una volontà imperscrutabile, sembra dire Basso, pare non sia rimasto più nulla, duemila anni dopo la venuta di Cristo.

resentato due anni fa nella sezione Ici & ailleurs del Festival di Locarno, Il viaggio di Gesù di Sergio Basso ripercorre l’itinerario evangelico intrapreso dal Messia nei luoghi della Terra Santa. Un lembo di terra che duemila anni dopo, sulle orme dei pellegrini che ne calcano i sentieri, e dei raid infiniti che ne macchiano i confini, appare stretto tra insanabili contraddizioni. Affi-


MobyDICK

pagina 12 • 24 gennaio 2009

poesia

Parronchi, la fine e l’eternità ppena due anni orsono Alessandro Parronchi, dopo una lunga vita vissuta tra poesia e opere d’arte delle quali è stato eccellente interprete critico, si spegneva dopo aver attraversato l’intero Novecento italiano. Nato infatti nel 1914 da una famiglia di notai fiorentini, Parronchi alimenta la sua vivace intelligenza, da subito mostratasi incline all’universo dei classici, nella ricca biblioteca famigliare. Non studio matto e disperatissimo ma una vita segnata dalla prematura scomparsa del padre che lo porta a meditare sul senso della giovinezza, dell’amore e della morte, interrogativi che saranno uno dei leitmotiv del suo lavoro poetico. Entra nell’alta società culturale nella Firenze della seconda metà degli anni Trenta quando, giovane laureato in Storia dell’arte, prende a frequentare i salotti letterari dove incontra Carlo Bo, Macrì e Contini, e poi Montale, Betocchi, Luzi, Gatto e Ottone Rosai, «l’ultima luce che resiste» come scrisse. Collabora alle riviste che portavano avanti la poetica dell’Ermetsimo: Il Frontespizio, di ispirazione cattolica, Letteratura e Campo di Marte di Gatto e Pratolini. La poesia ermetica si muoveva verso un’idea di arte pura, facendosi interprete di una cultura che tendeva alla parola assoluta e allontanandosi dall’ideologia fascista ormai non più sopportabile con il discrimine imposto dalle leggi razziali del ’39. La ricerca era tutta volta a dare una sistematicità ideologico-culturale a un asse fondato sull’irregolare Dino Campana e i grandi Ungaretti e Montale, in Italia, Baudelaire prima e Mallarmé, con i suoi esiti più propriamente surrealisti, poi.

A

In questo contesto Parronchi si è sempre mostrato più in consonanza con certa ortodossia luziana, per l’inesauribile ricerca d’infinito, moto destinato a rimanere sospeso, non essendo possibile conciliare la constatazione di una vita destinata alla fine con l’aspirazione a un’esistenza eterna. Per questa via il poeta giunge a negare la morte, la storia, si avvicina alla fede religiosa ma il problema rimane e lo stato di sospensione tra finito e infinito diventerà un altro motivo ricorrente della sua corposa produzione in versi. Produzione che lui stesso riordina e snellisce vistosamente in una significativa autoantologia nel 1998, Diadema, e nella cui prefazione segnala i debiti verso i grandi dell’Ottocento, Leopardi e Baudelaire, oltre l’importante magistero del Luzi di Avvento notturno, ricordando anche come «sempre più la dimensione giusta della scrittura, sia in versi che in prosa, mi è sembrata quella che più strettamente aderisse alla realtà». La fase più intensa ed espressivamente riuscita non appartiene al suo primo libro, I giorni sensibili (1941), forse ancora troppo legato a reminiscenze letterarie e probabilmente ancora vissuto in parallelo all’attività, questa

di Francesco Napoli

A VITTORIO Ho rispettato la quiete del tuo studio. Erano là a fissarmi i tuoi occhi. Li vedevo assorti nel lavoro ardere dietro un apparente velo di tristezza... Dietro, era la gioia. E i miei si chiusero. Non una di queste cose mi seguì, nel breve viaggio che feci verso le ombre, non una, ma, ricordo, strane immagini d’abbandono, e pensieri importuni che venivano a riprendermi. Dopo filtrò più luce, ed era ancora Milano, la tua stanza, l’Italia che mai più grande e leggera è di quando risale a Lecco per le valli, e io mi dicevo: si slargherà il suo cielo su noi e sempre più lievi ombre saremo al suo perpetuo schiarire Alessandro Parronchi in Diadema

sì subito in grande evidenza, di un Luzi o di un Bigongiari, oltre che di Carlo Betocchi, quasi un maestro in ombra dell’ermetismo fiorentino, e ricordato con colma gratitudine a distanza di anni in versi di struggente e amicale passione: «Così, il tempo ingannando/ l’attività mi ha preso/ e con sé giorno dopo giorno mi trascina./ Quand’ecco apro un giornale e leggo/ le poesie di Betocchi “diarietto invecchiando”» (Grazie, Betocchi).

È all’altezza del secondo dopoguerra, in particolare a principiare da Un’attesa (1949), che Parronchi avviò nella sua opera una profonda revisione nel senso di una semplificazione che nel 1952, con L’incertezza amorosa, sembra giungere al traguardo più alto. Scossa da incontri e partecipazioni umane è la stessa vena che poi si ritroverà con ancora più ammirevole nitore nelle sue raccolte successive. Alessandro Parronchi sembra cogliere la necessità di una svolta all’ermetismo che però non fosse quella neorealista propugnata con certa enfasi da Quasimodo e abbracciata con sincero trasporto da Alfonso Gatto. Decisivo allora diventa il lungo sodalizio con Vittorio Sereni, una corresponsione intellettuale che dura oltre quarant’anni partendo sin dal 1941. Avviata una stretta relazione tra i due subito dopo l’incontro avvenuto a Firenze agli inizi degli anni Quaranta, c’è anche un intenso «colloquio» epistolare, raccolto in Un tacito mistero qualche anno fa da Giovanni Raboni, a dimostrare la stretta relazione tra i due, nutrito, soprattutto nei primi anni, da un fitto scambio di opinioni e di visioni da cui emergono numerose affinità e una sorprendente condivisione nella ricerca espressiva. Parronchi si distinse ben presto dalle linee dell’ermetismo, anche nelle sue nuance fiorentine, per un personale gusto della bellezza siglata da eleganze neoclassiche e appena turbata da trasalimenti della memoria. E Sereni? Senza dubbio il poeta di Frontiera è stato il maggior artefice, e allo stesso tempo raffinato interprete, del superamento dell’ermetismo, fungendo quasi da trait d’union tra i poeti, e amici, fiorentini, e quanto di nuovo andava emergendo tra anni Cinquanta e inizi Sessanta. Per una di quelle singolari coincidenze di cui la storia letteraria è piena e che a distanza di anni assumono peculiare rilievo, Parronchi e Sereni segnano il loro contemporaneo esordio proprio nel 1941, un fulgido inizio condiviso negli intenti di rinnovamento della poesia italiana, più tenacemente perseguiti da Sereni, un segno di un’amicizia sentita e grata che spinse Parronchi a ricordare in nostalgici e sognanti versi quell’amico lontano e uno degli incontri, anche se sempre più radi, nella «quiete» dello studio di Sereni a Milano dove «Erano là/ a fissarmi i tuoi occhi./ Li vedevo assorti nel lavoro/ ardere dietro un apparente/ velo di tristezza... Dietro era la gioia».


MobyDICK

24 gennaio 2009 • pagina 13

il club di calliope

specchio lacero riflesso carambolano ombre colli irti nel divenire sbilenco quartiere latino d’attese consunte in occhi di bue modigliani non tornerà al tempo e le parigi del mondo annegano in storie riscritte senza respiri di sangue né alito d’aria che vive

UN POPOLO DI POETI Si sparge nel bagliore Estivo questo desiderio Il lungo ferito amore Passerà mi dice il freddo Vento che sibila vicino Al mio cuore, ma il canto È lontano ora dal mio Grande fiore. Franco Nellini

Andrea Manzi Missili, missili ancora in questo squallido cielo Dove tutto è più caldo, dove tutto è più gelo. Anche oggi s’ode un rombo ormai lontano, spero in un temporale ma è un altro aeroplano. Porta tante bombe ognuna su ogni casa a dare altri morti a quella città già rasa.

JEAN-YVES MASSON, LA VOCE AFFIDATA AGLI ANGELI in libreria

di Loretto Rafanelli l francese Jean-Yves Masson è un traduttore di grande valore (da Yeats a Hofmannsthal, da Luzi a Mussapi), ma è pure critico ed eccellente poeta, e di questa ultima attività possiamo ora conoscerne gli esiti grazie al libro Stanze della notte e del desiderio (a cura di Marco Vitale, Jaca Book, 256 pagine, 18,00 euro). Egli ritiene che la scrittura poetica sia «…sempre artefice/ di un cerchio inaccessibile, dall’infinito

I

sera». Masson è poeta con una forte vocazione spirituale, un po’ alla Luzi per intenderci, ma non rifiuta neppure il legame con il mondo: «…Pure, nella vertigine/ andavo in cerca della terra amata». Dio e gli angeli nella sua visione sono qui in noi e con noi nelle città dell’inquietudine, perché: «Oltrepassare il mondo… è una menzogna./ La verità della luce i nostri occhi abita». Poesia ossimorica per ec-

In “Stanze della notte e del desiderio” cielo e terra si incontrano, dando vita a una poesia “alta”, radicata nell’esistente ma rivolta a Dio raggio», nella sottile convinzione che «la poesia non è la chiarezza perché la poesia non è la luce», infatti i suoi versi ci portano in un spazio complesso e labirintico. Poesie quindi a volte «incomunicabili» poste nella sorpresa e nel segreto, perché la «domanda creaturale» non sempre può avere una risposta. Semmai la voce Masson la affida all’angelo e contrariamente alla tradizione angelologica (da Dante a Rilke), lo fa parlare, cioè fa parlare coloro che possono fare a meno della parola perché già sanno dell’indicibile. Allora «i primi perfetti», mentre ci stanno accanto, invocati, dicono: «Ecco la luce della sera…/ saluta quel po’ di giorno che tra le mani tengo… ogni alba ha nelle mani la

cellenza quella di Masson, dove si incontrano cielo e terra, nella visione esistenziale di un radicamento che guarda a Dio, come già fu in Bigongiari. Il poeta francese ha scritto una poesia «alta», fortemente lirica, che tocca momenti di grande intensità, nel doloroso gioioso conflitto fra vita e morte, come quando dice, nella ricerca di una dimora o nell’invocazione di una preghiera: «Bisogna venire in segreto in un porto, e lì spiare/ il sangue degli arrivi e delle partenze, le grida/ cui niente renderà giustizia, poi partire,/ partire, inventare le rotte che rifaranno la terra… Infine, davanti a un po’ di terra giungerai/ a inginocchiarti…/ ringraziando…/ per questo istante…».

È morta tanta gente in quel paese là, è morta già sperando nel futuro di Allah. Un futuro di pace, senz’armi, né bombe né più morti con un po’ più di fame ma con tanti risorti. Ancora si combatte anche laggiù nella trincea tra sangue, morti ed urla, è ormai solo epopea. Ma, falsi amici del popolo, ignari dei dolori al tavolo della morte, stan seduti i gran signori. Sognano la pace ma fanno la guerra sognano la giustizia ma seminano miseria non è utopia, non si sono ancora accorti che è solo pazzia. E intanto, tra macerie, sangue, fumo ed urla guardando lì lontano, si scorge una figura. È una vecchia madre dal cuore duro e forte che cerca il suo bambino rapito dalla morte. Francesco Milillo Cielo di Gaza

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


MobyDICK

pagina 14 • 24 gennaio 2009

mostre

è un’immagine, a mezzo tra schizzo e affiche abbozzata, sintetica, che potrebbe appunto «sintetizzare» magnificamente la figura di Auchentaller: un vecchietto gobbo, calvo, occhialuto, con redingote tipica da Herr Professor, un po’tipo professor Unrat dell’Angelo Azzurro, che si appoggia a un palo brullo, portandosi le mani, a pagodina, alle orecchie. Cercando d’auscultare meglio una melodia (quella del Moderno) che non riesce a percepire, a inquadrare. Sopra di lui, al vertice del palo, quasi volesse fuggirsene dal foglio, sta una Undine sommaria e un poco pienotta, con lunghi capelli da silfide stanca, odalisca che adagiata su di un rigo musicale, che invece capiamo essere il groviglio di fili elettrici che fuoriesce dal palo, suona una sorta di lira (o meglio di violino a mezzo seno) che non è più uno strumento, ma un paraffo sciolto di ornamenti puri, gomitolo ventoso, che potrebbe anche invadere il foglio. Ma chi era questo Auchentaller, «secessionista ai confine dell’Impero», come bene suggerisce questa mostra curata da Roberto Festi che, nata a Gorizia, passata ora a Bolzano, sta per salpare a Vienna, addirittura per il Ludwig Museum (che bell’orgoglio sciovinista, una volta tanto: un ruscello che sgorga in Italia e poi sfocia a Vienna, invece che sempre il contrario. O meglio, nessun rapporto reciproco). Auchentaller, certo, i sfrucugliatori di cataloghi o i pascolanti delle note a piè di pagina, finiscono poi di ricordarselo, come uno che sta sempre accanto ai nomi più importanti (nella sua fattispecie Klimt, von Stuck, Moser) e fa parte di quel mondo sommerso e satellitare d’artisti, fatalmente o ingiustamente minori, che si accomodano sempre e talvolta felicemente, nello scomodo divano riccioluto e decentrato che raccolgie i compagni di strada dal profilo più sfumato e degli eccetera eccetera, che accompagnano e ravvivano i percorsi autostradali più illuminati della castrante Storia dell’arte.Viottoli, affluenti, cerimonieri ed elemosinieri delle etichette imperialiste: e non solo il Nostro è un tassello ideale di quel gusto Jugendstil, che si forma intorno alla Secessione viennese ma ha tutte le carte in regola per una tardiva rianimazione, se non proprio riesumazione, essendosi «seduto» a pieno diritto, accanto ai protagonisti della Zecession viennese e al tavolo del gusto via via imperante (letteralmente subentra al posto di Olbricht, in un’importante commissione artistica). Ma è continuamente accanto a Moll, Endell, Obrist, Orlik, Roller, lo scenografo dell’Opera, sotto il dominio di Mahler.

C’

arti

partiti) lui che ha esposto accanto a Segantini, Van der Velde, Hoffmann, Klimt, e che anzi ha «raccontato» graficamente tutta la battaglia dello «scandaloso» Klimt contro l’Accademmia ammuffita (immagini di serpentidraghi ormai inscheletriti, che gettano miserande fiamme-sputo che non hanno più alcuna energia) forse fa l’errore capitale di ritirarsi dalla Capitale musiliana, nel momento più delicato. Quando sta nascendo la Wiener Werkstatte, che certamente avrebbe saputo sfruttare il suo talento proteiforme d’artista totale, capace di toccare tastiere diversissime, come bene illumina questa mostra. Che vaga da schizzi veloci a sapide caricature, da ritratti molto Jugend ad affiches giapponesizzanti, da illustrazioni per Rilke a decorazioni in Ver Sacrum, da moderne fotografie pro-pittura (con tagli degassiani) a monili e fibbie di gusto, germinalmente, Liberty (conosce bene anche Mackintosh, i Quattro di Glasgow, e forse Lalique). Ma la sua vita è una sorta di romanzo alla Svevo: prima accetta i dickat del padre, poi quelli della moglie volitiva e del suocero autoritario, che lo ama, lo vezzeggia ma lo vessa (per lui disegna una delle prime Stanze di Musica, molto Opera d’Arte Totale di stampo wagneriano, ove si occupa di tutto, dalle specchiere al progamma musicale, che diventa fregio ornamentale. Prova generale mancata di una celebre Sala 1902 alla Secessione, «Gioia Scintilla divina», ispirata alla Pastorale di Beethoven, che non sfigura nei progetti accanto alla più celebre e visionaria stanza di Klimt). La verità è che viene «richiamato» quasi militarmente nella Grado decentrata, ove la moglie ha avviato una nuova «avventura», turisticoterapeutica, con la Pensione Fortino, aperta come una elegia di Duino sul mare «infinito» davanti la veranda (e ospiti illustri, che vanno da Thonet a Ricordi). E il pittore lì a rimpiagere Vienna e fare da principe consorte. Certo non doveva avere un carattere troppo solido, se scriveva alla moglie, a proposito del destino del Fortino: «Ho paura se penso a quando verrà il momento in cui dovrò dire la mia e prendere partito. Da un lato volontà, energia, aspirazioni, dall’altra un povero pittore incerto e intimidito». Non è vero, ovviamente, se si guarda postumamente l’opera di questo lettore di Nietzsche e fratello di Klimt, che si credeva uno scarafaggio di Kafka. Ma con decorazioni sontuose.

Auchentaller

l’avventura di un grande “minore” di Marco Vallora Certo, lui che nato a Vienna da un industriale setaiolo borghese, che lo obbliga a studiare architettura (però lui esplode e si «ritira» a Monaco, a farsi influenzare dalle dissonanze mitologiche d’un von Stuck, come bene tradisce l’affiche da cui siamo

Josef Maria Auchentaller (1865-1949), Bolzano, Galleria Civica, info 0461-857090

diario culinario

Assaporando l’Asia nelle strade di Roma di Francesco Capozza

Q

uesta settimana, il lettore di Mobydick non ce ne vorrà, abbiamo deciso di lasciare il consueto tracciato della cucina italica, per fare un viaggio tra alcune cucine asiatiche capitoline. Roma, la nostra onestà intellettuale non può esimerci dall’ ammetterlo, non è particolarmente vitale in tal senso. Rispetto a Milano, per esempio, è possibile individuare un numero più esiguo di ristoranti cinesi o giapponesi ortodossi e affidabili. Tuttavia, anche nella capitale, abbiamo individuato alcuni esponenti di quelle civiltà culinarie a noi lontane che propongono dei piatti eseguiti con rigore e senza strizzare l’occhio a quella fin troppo facile fusion. Proporre una cucina etnica in Italia è da sempre impresa assai ardua. Da noi, infatti, rispetto all’Inghilter-

ra, alla Francia, per non parlare degli Usa, la cultura gastronomica per tutto ciò che supera i confini nazionali è quasi assente o, se c’è, è abituata a proposte raffazzonate e spesso inesistenti nei Paesi d’origine. Per descrivere l’italiano medio, potremmo prendere in prestito una pungente frase di Fëdor Dostoevskij: «Un essere che si abitua a tutto. Ecco, credo, la migliore definizione dell’uomo». Proviamo, però, a darvi qualche indirizzo particolarmente affidabile, sperando di suscitare la curiosità per alcune cucine davvero affascinanti. Ci sentiamo, per esempio, di consigliarvi di assaggiare (qualora non lo aveste già fatto) la cucina thailandese, fatta di profumi e sapori a noi sconosciuti, ricca di frutta e spesso piccante, è una gustosa variante alla cucina cinese. A Roma, a nostro avviso, il miglior ristorante Thai è l’Isola Puket in via di Villa Chigi, nei

pressi di viale Somalia. Solo qui potrete trovare la zuppa di pesce spatola con latte di cocco e lemongrass o l’anatra alle spezzie Thai. Il conto, in questo ristorante, difficilmente superererà i 20 euro. Per gli amanti della cucina giapponese, la scelta diventa molto più ardua. Negli ultimi anni, infatti, abbiamo assistito alla nascita di numerosissimi locali che propongono Sushi e Sashimi, con varianti spesso pecoreccie. Oltre agli arcinoti Rokko in via Rasella e Hamasei in via della Mercede, vogliamo consigliarvi Ginza Gold, aperto da pochi mesi su via Barberini. Oltre ai classici della cucina giapponese, questo ristorante si contraddistingue per la presenza della Teppan Niaki, una grande piastra rovente (intorno alla quale è possibile sedersi), dove vengono cucinate indistintamente pietanze di carne o di pesce. Il valore aggiunto di Ginza Gold è l’ambiente: raffi-

natissimo e molto Glam. Anche questo indirizzo, rispetto ad altri di analoga proposta, si mantiene entro una cifra ragionevole: sui 35 euro. Qualora, invece, foste incuriositi dalla cucina indiana - altro Paese molto interessante per le sue tradizioni culinarie vi consigliamo di provare Jaipur in via San Francesco a Ripa, una traversa di viale Trastevere. Qui (e solo qui a nostro giudizio) è possibile gustare delle Samosa così leggere e fragranti come solo a Londra ci è capitato di assaggiare. Ottime anche tutte le pietanze cotte nel tradizionale forno Tandoori. Anche qui, come sopra, non spenderete più di 25 euro a persona.

Isola Puket, via di Villa Chigi 91, tel. 0686212664; Ginza Gold, via Barberini 53-57, tel. 0642011005;Jaipur, via san Francesco a Ripa 56, tel. 065803992


MobyDICK

24 gennaio 2009 • pagina 15

architettura

Nel cuore di Ortigia il tocco di Fidone di Marzia Marandola

nche per gli edifici storici, come per tutti i manufatti edilizi, l’uso attento e quotidiano è garanzia di conservazione; mentre i monumenti che, una volta restaurati, rimangono privi di nuove destinazioni di uso, sono condannati al rapido degrado. L’approccio al progetto architettonico in Italia risente fortemente della presenza di uno straordinario patrimonio storico e archeologico: è pertanto consueto per i progettisti affiancare al nuovo il restauro e la conservazione. Restauro e progettazione formano un binomio inseparabile, una condizione che se obbliga a misurarsi con vincoli stringenti, è spesso all’origine di risultati particolarmente originali e convincenti: se ne ha una convincente dimostrazione nei recenti interventi a Ortigia. Nel cuore antico di Siracusa, in un’area densa di storia, alla fine dell’Ottocento fu costruito il mercato coperto comunale, in un luogo che nel periodo greco arcaico era sacro ad Apollo. L’edificio è un parallelepipedo impostato su pianta trapezoidale con un’ampia corte centrale rettangolare di 26x16 metri, con portico colonnato e archi. Nel 1997 l’architetto Emanuele Fidone è

A

moda

incaricato del progetto di restauro e riuso del mercato che, ormai dismesso, dovrà accogliere il nuovo polo dei servizi turistici, collegato ai limitrofi resti del tempio dorico di Apollo. Il progetto di trasformazione ha interessato i due piani dell’edificio: il piano seminterrato con criptoportico e il piano rialzato che si sviluppa intorno alla corte centrale. Prima di predisporre nuovi assetti architettonici, è stato approntato il miglioramento sismico delle strutture esistenti e il restauro dei materiali costruttivi. Il

progetto fin da questa prima fase è stato caratterizzato da un meticoloso ripristino dei materiali lapidei e delle finiture, attraverso un sapiente lavoro artigianale svolto in cantiere da locale manodopera specializzata. Fidone ha ripristinato l’assetto murario dell’edificio del mercato, eliminando tramezzi e aggiunte varie e predisponendo un nuovo impianto spaziale derivante da piccole, quanto sapientemente nevralgiche inserzioni progettuali. La spazialità originaria dell’edificio è stata valorizzata al massimo,

mentre il riuso ha interessato la corte centrale, dove un lato del quadriportico è stato parzialmente tamponato per ricavarne una sala polivalente. La nuova parete di tamponamento è innalzata all’interno del portico, arretrata rispetto al colonnato, e disegnata con una filigrana sottile, raffinata e minimale, degna dell’eleganza di Franco Albini, il grande architetto milanese maestro d’elezione di Fidone. Questa parete è scandita ritmicamente da asole vetrate verticali, ritagliate proprio in corrispondenza delle colonne, mentre nella proiezione dell’intercolunnio sono incise le porte, che consistono in porzioni rettangolari di parete che, imperniate su un asse verticale, permettono la quasi totale apertura della sala sul cortile. Il volume Emanuele Fidone, Vincenzo Latina, Bruno Messina.«Restauri» Iblei illustra con disegni, descrizioni e foto questo elegante progetto, insieme a numerosi altri edifici e restauri del gruppo di progettisti siciliani nominati nel titolo.

Emanuele Fidone, Vincenzo Latina, Bruno Messina.“Restauri” Iblei, a cura di A. Cornoldi e M. Rapposelli, Il Poligrafo, 118 pagine, 23,00 euro

Il guardaroba per lui: glamour ma non troppo di Roselina Salemi arack Obama veste Canali: l’etichetta si è vista benissimo durante l’Election Day. Niente stranezze, ovvio, per un presidente americano. Abiti grigi o blu, fatti su misura. David Beckham veste Armani (ma ha un contratto, come Kakà). George Craig, degli One Night Only, ha sfilato per Burberry in tenuta new brit-rock, Jethro, il figlio del musicista australiano, ma anche attore e scrittore, Nick Cave, è salito in passerella per Costume National. Rifle invece ha scelto Marco Simoncelli che, in sella alla sua Gilera, ha ottenuto la vittoria finale del MotoMondiale 2008 classe 250. A corto di star hollywoodiane (Brad Pitt e George Clooney non si sono visti) , la moda maschile 2009 ha cercato le icone fashion, i testimonial delle nuove tendenze, tra sport e musica e, per il momento, vince David Beckham, anche se non è questa gran rivoluzione: già nel 2005 era stato promosso perfetta incarnazione dell’uomo metrosexual e, negli ultimi anni, ha dimostrato di avere più talento per la moda che per il calcio. Cesa-

B

re Paciotti gli ha dedicato una scarpa limited edition, esagerata, tutta in paillettes, con chiusura in oro o platino, prezzo su richiesta. Ma gli starebbero bene anche la giacca da smoking di pitone (8000 euro) creata da Pignatelli, il bomber in pelle termosaldata e i mocassini di coccodrillo Car Shoe, lilla magari. E insomma, chi si vuole bekhamizzare, avendo il fisico adeguato e anche una certa volontà, dovrà portare giacche di taglio slim, molto aderenti, camicie con il collo piccolo, cravatta stretta (di quelle che tutti hanno buttato via), metri di sciarpe morbide e leggere, capelli corti, ma non cortissimi, e barba appena accennata. Kakà invece, preferisce le giacche comode, le cravatte colorate di media larghezza, il collo della camicia un po’ più grande e, ammette, lui e la moglie si interessano poco di shopping. A corto di star hollywoodiane, può andar bene come icona fashion anche lo stralunato Pete Doherty, meglio conosciuto per il suo burrascoso legame con la modella Kate Moss, capofila di una generazione fra-

gile soltanto all’apparenza. Vestiti stropicciati, capelli arruffati, un pizzico di snobismo. Dopo di che, c’è poco altro. Il giaccone di Corto Maltese (Marina Yachting). L’ispirazione kennediana dei trench di Thom Browne, presentati al Pitti. Il ritorno del Borsalino (colorato, però), anche se a qualcuno piace di più la bombetta. La borsa per lui, molto grande, da portare a mano, o a tracolla, buona per l’ufficio e per il week-end, grigia o color cacao. I dettagli copiati dal mondo operaio: tute, ganci, cinture porta-attrezzi. È come se gli uomini, il glamour, non lo prendessero sul serio fino in fondo. Ha ragione Roberto Cavalli quando dice che non ci si può sbizzarrire più di tanto con il guardaroba maschile (e forse è non è un male). Esiste il forte sospetto che i lunghi cappotti di cachemire doppiati di volpe, che fanno tanto Aspen, non andranno a ruba. Una piccola crisi e tutti tornano conservatori. Sognando Beckham.

Due bozzetti della collezione Krizia Uomo


pagina 16 • 24 gennaio 2009

i misteri dell’universo

libri Timeo e Crizia di Platone sono ben noti per avere tramandato la storia di Atlantide, raccolta in Egitto da Solone, che vi si era recato per avere informazioni sul migliore sistema politico da adottare in Atene. Non possiamo riportare estensivamente il contenuto di questi libri, che hanno aperto dal tempo di Platone un dibattito ancora non chiuso sulla loro veridicità. Ricordiamo solo che un sacerdote di Sais, città del delta e centro di formazione sacerdotale, disse a Solone che l’evento più antico a memoria dei Greci, il Diluvio di Deucalione, corrispondeva all’ultima di tre grandi catastrofi, che, inframmezzate con altre minori, colpirono la terra a memoria degli Egizi. La più antica, risalente a 9.000 anni prima, verso il 9.500 a.C., era stata caratterizzata da uno tsunami globale che devastò il Mediterraneo e l’isola di Atlantide, al di là dell’Oceano Atlantico. Questa era centro di un potere politico e militare esteso da una parte dell’Atlantico verso isole e un continente che circondava il «vero mare», dall’altra in Europa sino all’Italia e in Africa sino all’Egitto. Nell’isola di Atlantide, «scomparsa» in quanto non più ritrovata perché l’oceano non fu più navigabile, esisteva una città speciale in una pianura irrigata e difesa da una catena di montagne dai «venti del Nord».

I

La localizzazione di Atlantide nella regione caraibica è stata proposta da vari autori, fra cui: il sottoscritto, Collins e uno studioso spagnolo del Settecento che l’aveva raccolta in Guatemala da indigeni che conservavano le antiche tradizioni. Chi scrive l’ha localizzata nell’isola di Hispaniola, chiamata dagli indigeni Quisqueya quando Co-

MobyDICK

ai confini della realtà

Ipotesi su

Atlantide di Emilio Spedicato lombo vi arrivò (per sterminare i circa tre milioni di abitanti in pochi anni, sottoponendoli a massacranti compiti di ricerca dell’oro e di lavoro nelle miniere, vedasi Bartolomeo de las Casas, Bernardino di Sahagun, e lo stesso Colombo che nel suo diario descrive come faceva marchiare a fuoco gli indigeni e li faceva sbranare dai cani se fuggivano…). Quisqueya significa in

Bretagna (Castellani), Helgoland (Spanuth), Isole Solovetsky (Bulloni) - e verso la metà del secondo millennio a.C., sostituendo gli anni platonici con mesi. Ma c’è chi, come il sottoscritto, accetta come essenzialmente corretta la data platonica, da associarsi alla fine dell’ultima glaciazione che ora è noto avvenne molto rapidamente, per probabile causa extraterrestre (impatto o

La sua scomparsa è da attribuire alla più antica di tre catastrofi risalente al 9.500 a.C., come riportato da Platone? O bisogna dar retta ai codici maya che fanno riferimento a una quarta catastrofe da collegarsi a certe affermazioni della Genesi? Breve storia di un enigma mai decifrato Taino, la perduta lingua degli indigeni, Madre di tutte le terre, un nome che si accorda con l’ipotesi che fosse stata il centro di una grande civiltà. Altre ipotesi su Atlantide, a parte chi ne considera la storia una parabola per sostenere tesi politico-morali, la collocano generalmente attorno all’Europa, sia nella regione mediterranea - Andalusia (Papamarinopoulos), Tunisia (Arecchi), Sardegna (Frau), Creta (Marinatos) - che nella regione atlantica -

passaggio ravvicinato). Collocare l’evento nella seconda metà del secondo millennio a.C., verso il 1.400 a.C., implica la scomparsa delle altre due catastrofi citate da Platone. Sino a non molto tempo fa sembrava che l’evento di Atlantide fosse il più antico a memoria di uomo, assunte come veritiere le affermazioni platoniche. Un problema nasceva però con i codici maya che ricordano anch’essi grandi catastrofi, ma quattro, non tre. Quale relazione al-

lora con quelle platoniche? Una catastrofe in più antecedente ad Atlantide, o una da inframmezzare alle altre? A questa domanda si può dare forse ora una risposta, tale da gettare luce su certe affermazioni della Genesi relative al primo «giorno» della creazione. Da un paio di anni si ha evidenza geologica di un impatto sul Canada occidentale di un asteroide di 2-3 km di diametro verso il 10.900 a.C. Evento della potenza di forse oltre un milione di megatoni, che ebbe come conseguenze il termine della cosiddetta civiltà di Clovis, caratterizzata da cacciatori specializzati nella caccia di mammuth, e un aggravamento delle condizioni climatiche noto come Younger Drias. Il vento caldissimo provocato dall’esplosione raggiunse le foreste americane a Sud della zona ghiacciata, bruciandole e lasciando uno strato di fuliggine e materiale parzialmente bruciato, noto come black mat, che chi scrive ha osservato nello Utah.

Ebbene la prima, e più antica, delle catastrofi di cui parlano i testi maya, è quella del fuoco, seguita da una età di forti venti (curiosamente i venti sono citati a proposito della città di Atlantide…). Dobbiamo quindi riconoscere una maggiore antichità dei testi maya, e lamentare ancora di più i molti codici bruciati da Diego de Lanza in un falò. E utilizzando un passo del Talmud dove si dice che un giorno della creazione corrisponde a mille anni, la storia di Atlantide si collocherebbe all’inizio del secondo giorno e la caduta dell’asteroide sul Canada all’inizio del primo giorno. E allora si potrebbe proporre che… Ma qui tenti di indovinare il lettore, in attesa di riprendere il discorso.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.