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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

AMERICAN STYLE Novità dall’officina italiana

di Pier Mario Fasanotti er favore, fate attenzione al paragrafo che riporto qui di seguito: «La voce namenti? Che sostanzialmente sono questi: 1) Millenni di storia letteraria ci hanno Si della radio era un’eco lontana e lei - pistola in pugno, arma bassa sul intimidito, condizionandoci e inducendoci all’imitazione per inseguire una quaregistra baricentro del corpo, sguardo vigile, passi brevi e veloci - raggiunlità spesso altissima; 2) La convinzione dura a morire che la scrittura sia se la palizzata color crema che cingeva solo il lato posterioun atto solipsistico e non comunicazione con i lettori; 3) La scelta del la tendenza in certi re della villetta». Per il ritmo serrato e per l’assenza di compiatema diaristico anche quando le vicende che si vogliono narranostri autori ad attestarsi cimento linguistico para-poetico, verrebbe da pensare imre meriterebbero solo due chiacchiere al bar; 4) La mai neta un livello internazionale: sia mediatamente a un autore americano. Errore. A scrita distinzione tra poesia e prosa, col risultato che la severe è Donato Carrisi, classe 1973, con una già conda, nell’intento di presentarla come autorevonella scelta dei temi, che nello stile, che brillante (vista l’età) carriera di sceneggiatore per le, risulta infarcita di pseudo-versi, di lirismo decanel numero di copie vendute. Forse perché dente, di sentimentalismo da boudoir; 5) La snobberia Canale 5 (Nassirya-Prima della fine) e per Rai 1 (Era di certi recensori e critici che coniugano alte tirature a bassa mio fratello, miniserie thriller). Ora sta per uscire il suo primo ormai liberi da condizionamenti qualità letteraria: chi vende milioni di copie, a meno di essere straromanzo, Il suggeritore (Longanesi, 462 pagine, 18,60 euro). Si beletterari, critici niero e pubblicare da Einaudi o da Adelphi, è visto con estrema diffidenve d’un fiato. Come appunto i romanzi di John Grisham, Scott Turrow, e poetici... za, quasi come un mercenario della penna. Michael Connelly: tutti imperniati sulla trama senza trascurare lo scavo psicologico dei protagonisti e dei comprimari. Domanda, che deriva non solo dalla continua a pagina 2 lettura del romanzo di Carrisi: gli italiani si sono finalmente liberati da alcuni condizio-

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Giustizia di Sergio Valzania Honeychild Coleman ai confini dell’inosabile di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Hajdari, un sufi prestato alla realtà di Filippo La Porta

San Paolo, la voce della rivoluzione di Maurizio Schoepflin “Via col vento” settant’anni dopo di Anselma Dell’Olio

Le lacerazioni di Ipoustéguy di Marco Vallora


american

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style

I “made in Italy” che vanno a ruba all’estero di Filippo Maria Battaglia popolano a Istanbul come a Taiwan, ma sono apprezzati anche Oltralpe. Hanno una fisionomia ben definita, e non è affatto detto che in madrepatria riscuotano lo stesso successo che incassano all’estero. Nel Belpaese, c’è una rosa di autori, non così ristretta, che riesce a vendere meglio fuori confine che in Italia. Il primo della lista fa il nome di Giulio Leoni. Ha 57 anni, è nato a Roma, si è laureato in linguaggi della poesia visiva e ha scritto, tra l’altro, quattro romanzi, qui da noi pubblicati da Mondadori (I delitti del mosaico, I delitti della luce, La crociata delle tenebre, I delitti della medusa) che a certe latitudini hanno letteralmente sbancato. Protagonista? Un eccentrico Dante Alighieri, alle prese con un’infinità di gialli irrisolti, tutti ambientati «tra Due e Trecento, perché è un periodo che mi affascina, per tanti aspetti». «È questa un’epoca - ha spiegato Leoni - in cui si incrinano le grandi potenze che hanno retto sin lì il mondo, in cui esplodono feroci conflitti religiosi, in cui si assiste all’inizio di un grande processo di globalizzazione e di rivoluzione economica». Ma Leoni non è il solo. Un’altra scrittrice che stravende fuori patria è Silvana De Mari, una laurea in medicina, un trascorso come chirurgo. Nel 2000 ha deciso di dedicarsi alla scrittura: Salani, che ci ha creduto sin dall’esordio, si ritrova adesso un’autrice che con cinque libri (L’ultima stella a destra della luna, La bestia e la bella, L’ultimo orco, L’ultimo elfo, Gli ultimi incantesimi) nel genere fantasy non ha nulla da temere rispetto ad altri suoi parigrado dell’Europa continentale. La penultima fatica, datata 2004, è sbarcata (in ordine sparso) nella penisola scandinava, Sud America, Spagna, Francia, Giappone, Tailandia, Stati Uniti, Canada e in un’altra ventina di paesi. La diretta interessata spiega il suo successo con la convinzione che «il fantasy sia sempre stato un linguaggio universale. Come diceva Tolkien, noi parliamo non di lampadine ma di fulmini. Aveva ragione: le lettere che mi scrivono i

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segue dalla prima Un altro recentissimo «caso» è il romanzo Il gioco estremo (Fanucci editore, 517 pagine, 19,50 euro) di Adriano Casassa. Ricorda molto Ken Follet e Le Carrè, come stile e andamento. L’autore s’era rivolto a Carlo Feltrinelli. A ricordare il suo esordio è Sergio Fanucci, fiuto notevole per i dattiloscritti: «Con Carlo siamo ottimi amici. Una sera dopo una cena assieme, mi confermò, pur essendo amico di Casassa, che la sua casa editrice non pubblica thriller. Anche se di buona qualità. Ho deciso di pubblicarlo io, credendoci molto: il lancio si è tradotto in 27 mila copie di prima tiratura, 100 mila euro spesi in pubblicità, copertina stampata in cinque colori, materiale promozionale sofisticato.

Il romanzo di Adriano è entusiasmante, trama perfetta per un film, avvincente e coinvolgente. Si pone sul panorama italiano come “un libro avanti” perché riesce a coniugare una scrittura bilanciata ed efficace con un plot inedito e originale. Oggi debbo constatare che il livello di scrittura è notevolmente migliorato, quindi la selezione per certi versi è più complicata. Rimane il fatto che io mi diverto tantissimo nelle vesti di editor». Cresce altresì il numero degli agenti letterari che prestano attenzione all’atmosfera internazionale dei romanzi loro proposti. Molti obiettano all’esordiente di turno: «Buona la prosa, ma il quadro generale resta provinciale. Come faccio a venderlo all’estero?». Diagnosi che però in certi casi è discutibile, visto che alcuni (pochi per la verità) autori italiani so-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

lettori italiani trattano gli stessi temi di quelle che mi scrivono dagli altri paesi. La frase “mi sono identificato con Yorsh perché i miei compagni non ne vogliono sapere di me”, ad esempio, mi è stata scritta in più di una lingua. Mentre la leggevo, mi sono ricordata della mia infanzia: a causa del lavoro di mio padre ogni paio di anni andavo in una nuova scuola, in una nuova città. Una formidabile carriera come diverso, quello di cui i compagni non ne vogliono sapere. Ecco perché ho scritto diYorsh. Ed ecco perché con questa storia sono riuscita a consolare i diversi e gli scomunicati dall’altra parte del mondo». Oltralpe, invece, amano libri un po’ più sofisticati: oltre al fenomeno Milena Agus, inizia a essere apprezzato anche Andrea Vitali: La figlia del Podestà (Garzanti), uscito in Francia con il titolo La Folie du lac per i tipi di Buchet Chastel, è stato molto ben accolto dalla critica e pare se la si stia cavando piuttosto bene anche con le vendite. Per uno che ha incentrato le proprie storie sul lago di Bellano, non è niente male. Ed è forse la prova definitiva della brillantezza del narratore lombardo.

no apprezzati all’estero proprio per le peculiarità italiane. La nostra provincia, così densa di storie intrecciate e di atmosfere, affascina gli stranieri. Si veda il caso di Andrea Camilleri (siciliano), di Andrea Vitali (Lago di Como) e Giuseppe Pederiali (emiliano, apprezzatissimo in Germania). O di altri proposti coraggiosamente da Elvira Sellerio. Certo, tutto dipende dall’opera di scouting degli editori, molti dei quali bisogna ammetterlo - abdicano alla loro missione di scopritori affidandosi alla lettura delle classifiche dei più venduti in Usa, Francia, Germania (un po’ meno a dir la verità, ed è un peccato), Spagna (paese vivacissimo e prolifico, oggi) e Gran Bretagna. Un esempio di «scoperta» riguarda Marco Buticchi, autore di best seller con Longanesi. I suoi primi libri li aveva pubblicati presso un piccolo editore ligure. Mario Spagnol, patron della Longanesi, si accorse che vendevano moltissimi ed erano esauriti in poche settimane. Risultato: lo ha ingaggiato. Di Buticchi ricordiamo Le pietre della luna (150 mila copie vendute in Italia), Memorah (uguale successo del precedente), Profezia ( in due mesi esaurite tre ristampe), La nave d’oro, L’anello del re e Il vento dei demoni. Buticchi, laureato in Economia ed ex trader petrolifero in una multinazionale, iniziò con Il cuore del poeta, pubblicato a proprie spese e tirato in mille copie. Furono lui e la moglie a provvedere alla distribuzione, nella zona di La Spezia. Mille copie vendute immediatamente, poi la soddisfazione di vincere premi internazionali. Il caso Buticchi è suonato come uno «sdoganamento» di romanzi che non fanno il verso a Proust. E magari scrit-

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

ti da chi Proust, o Joyce, lo conoscono assai meglio degli altri. Il pericolo maggiore è infatti l’orecchiare una grande opera e sentirsi incatenati a una missione che ha i contorni (e il contenuto) della retorica, che è sempre a braccetto con l’arroganza.

Dietro romanzi molto leggibili ma per nulla sciatti nella scrittura c’è sempre un’accurata ricerca storica. Una pratica che è di marca anglosassone e fino a qualche tempo fa veniva snobbata dai narratori nostrani, alcuni dei quali convinti di avere nella propria memoria, un po’ da cortile d’infanzia, gli ingredienti tali da appassionare il pubblico. A proposito di documentazione storica, vale la pena di segnalare i libri di Valeria Montali (Rizzoli), scrittrice esperta di Medioevo. L’ultima sua opera è intitolata Il manoscritto dell’imperatore. In alcuni casi chi si occupa di trame storiche è superiore ai colleghi stranieri, spesso inesatti. Mi riferisco a Thomas Harris, creatore di Hannibal Lecter, lo psichiatra-cannibale del Silenzio degli innocenti: nel suo romanzo ambientato a Firenze e ispirato alle vicende del «mostro» di Scandicci, compaiono numerosi errori. Idem per Grisham quando ha voluto ambientare un thriller a Bologna: non basta sapere che lì si mangiano tagliatelle e tortellini. Un altro autore destinato a ripetere il suo primo successo è Paola Barbato, impostasi con Bilico (Rizzoli), una trama perfetta per i registi americani. Non a caso una grande casa di produzione ne ha acquisito i diritti. La sua seconda prova, Mani nude, è all’altezza della prima.Tratta dei combattimenti clandestini, tra incubi e sadismo.

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parola chiave

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GIUSTIZIA e la giustizia appartiene a Dio, il problema della giustizia è invece proprio dell’umanità. Si deve dire che esso nasce con lei, prima non esiste. In natura tutto ciò che accade è privo di connotazione etica. Succede e basta, ogni evento è sufficiente a giustificare se stesso. Non si possono giudicare né si possono condannare i fenomeni fisici o i comportamenti degli animali; si assume che in quanto è accaduto niente avesse alternative, che ogni gesto ferino o evento naturale si manifesti senza essere stato preceduto da una scelta consapevole e quindi sottoposta a valutazione morale. Quindi al di fuori della società umana il problema della giustizia non esiste neppure, le leggi della fisica e l’istinto animalesco sono le regole in base alle quali accadono gli eventi. Prima della comparsa dell’uomo sulla terra non esisteva alcun ambito di scelta: per la pietra non ci sono alternative a quella di cadere a terra e per gli animali l’essere preda o cacciatore è una condizione esistenziale che non prevede alcuna elaborazione o premeditazione.

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La questione della giustizia sorge con l’affacciarsi dell’uomo nel creato, ed è connessa in modo inestricabile con la facoltà di scegliere che gli si riconosce connaturata, almeno sul piano delle motivazioni. Ciascuno di noi verifica nella quotidianità l’esistenza di una rete di dubbi e di alternative di fronte alle quali siamo posti con insistenza. Non si tratta sempre di questioni etiche, ma siamo dominati dall’impressione che le nostre scelte siano in grado, abbiamo la forza di determinare il futuro, di modificarne il corso nel bene o nel male, e che siamo insieme padroni e responsabili di ogni azione. Nello stesso tempo, fin dall’inizio della riflessione dell’uomo sul proprio agire gli è apparsa con tragica evidenza la distanza che esiste fra il fine desiderato delle proprie azioni e l’esito storico al quale esse pervengono. È allora che sorgono, almeno in nuce, la teoria ottimistica dell’eterogenesi dei fini, in base alla quale ogni gesto viene accolto e rimodellato nel grande disegno di Dio che gli attribuisce comunque un segno positivo, e quella disperata, fondante il pensiero greco classico, in base alla quale ogni essere umano è prigioniero di un destino al quale gli è impossibile sfuggire, per quanti sforzi faccia, che lo condanna a un esito obbligato del suo agire, di solito diverso da quello desiderato e il più delle volte oscuro. Un’eco potente di questa visione si scorge ancora nella concezione protestante della predestinazione, esposta nel De servo arbitrio di Lutero. La sproporzione fra la miseria dell’uomo e la grandezza di Dio induce il propugnatore della riforma a dubitare che le intenzioni e gli atti del primo possano incidere su di un progetto del quale il secondo è padrone assoluto. In questa visione il giudizio sembra esse dato prima ancora che gli eventi accadano, visto che essi non sono liberi, ma par-

Dietro alla difficoltà umana di concepire ciò che è giusto, si raccolgono tutti i problemi da affrontare per ottenere un sistema di rapporti corretti e condivisi tra i cittadini. Perché nessuna società può prescindere dall’esercizio formalizzato del giudizio

La bilancia e il limite di Sergio Valzania

Le contraddizioni che viviamo quotidianamente ci obbligano a riflettere sulla pretesa che il diritto sia giusto, piuttosto che accontentarsi del fatto che sia equo, attraverso un meccanismo formale riconosciuto da tutti. Pena l’avverarsi di quel “Summum jus, summa iniuria” che Cicerone definiva trito proverbio te integrante della creazione. Ma anche le teorizzazioni meno responsabilizzanti, religiose, sociologiche, psicoanalitiche o meccanicistiche, non arrivano mai a sostenere che una società umana possa prescindere dall’esercizio formalizzato del giudizio. Semmai il problema si pone nel momento dell’esecuzione della pena, la cui funzione non riusciamo più a immaginare come retributiva, ossia sacrificale, restauratrice di un ordine del co-

smo che l’evento profanatore ha intaccato. Quando non si crede più nell’esistenza di un ordine complessivo del reale, ogni accanimento nei confronti di un reo, pur abominevole, svela il suo volto macchiato di sadismo. In senso speculare, a stretto rigore, neppure Dio, che pure è il signore della giustizia, come ricorda il cardinal Martini che ha dedicato diversi testi alla riflessione su questo carattere proprio della divinità, può porsi la questione nei ter-

mini nei quali l’uomo è costretto a farlo. Ogni atto di Dio è giusto. Persino la sua ira veterotestamentaria, il suo accanimento vendicativo con il popolo di Israele nei momenti dell’infedeltà o l’abbandono del pio Giobbe nelle mani del tentatore sono giusti per il solo fatto di appartenergli.

È piuttosto lo sguardo dell’uomo che osserva il suo agire a essere limitato, a non riuscire a comprendere la giustizia di Dio, dato che non dispone di quella pienezza di comprensione capace di formulare una valutazione perfetta di tutto l’esistente, di ogni più segreto recesso dell’animo di ogni essere pensante, di tutto il passato e di tutto il futuro, che riesca a conciliare in ogni istante tutte le variabili in gioco per risolverle in un atto di amore. L’uomo non capisce perché è condannato al limite, che costituisce uno dei sensi possibili della natura del peccato originale, mistero complesso della giustizia divina, colpa riscattata prima dell’inizio dei tempi, eppure sempre attiva nello svolgere un ruolo che la nostra mente non è in grado di comprendere interamente. Resta l’evidenza del fatto che il giudizio dell’uomo insegue questo o quell’aspetto di una questione, senza riuscire a realizzare una sintesi univoca di tutte le sue componenti. Dietro a ogni giudizio si agitano concezioni diverse della giustizia, che si fondano ora sull’egualitarismo, ora sulla meritocrazia, sulla retribuzione o il rispetto di necessità diverse. Tutte concezioni concorrenti e difficilmente conciliabili della giustizia che incontriamo in maniera paradigmatica quando ci poniamo la questione apparentemente semplice su come debbano essere tagliate e distribuite le fette di una torta. Devono essere tutte uguali, o qualcuno si merita quella più grande in base al maggior lavoro svolto o semplicemente a una taglia maggiore? Shalamov, nei sui racconti dai lager stalinisti della Kolima, ci spiega che nei campi di concentramento, dove vengono distribuite razioni da fame uguali per tutti, i più robusti non sopravvivono a lungo, a vantaggio dei mingherlini. Non si salva il più forte, ma chi consuma di meno. Dietro a questo limite umano nel concepire, e nell’attuare, la giustizia, si raccolgono tutti i problemi che la società attraversa nello sforzo di realizzare un sistema di rapporti corretti e condivisi fra i cittadini. Si tratta di contraddizioni che viviamo quotidianamente e che ci obbligano a riflettere sull’opportunità di pretendere che il diritto sia «giusto», piuttosto che accontentarsi, secondo la tradizione giuridica anglosassone, di un sistema equo che si sforzi di rispettare gli interessi in gioco attraverso un meccanismo formale riconosciuto da tutti. Lasciando a Dio la giustizia e confessando che si tratta di un ambito che gli appartiene e che l’uomo non può pretendere di invadere. Pena l’avverarsi di quel Summum jus, summa iniuria che Cicerone stesso definiva trito proverbio.


musica Honeychild Coleman MobyDICK

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cd

ai confini dell’inosabile di Stefano Bianchi orpresa d’inizio anno. Mi recapitano un d. Sulla copertina, una ragazza nera dai capelli cespugliosi. Stile Angela Davis. Musicalmente (ipotizzo) ci sarà un bel funky. Nulla di nuovo sotto il soul, ovviamente. In attesa che si rifaccia viva Macy Gray, ecco la black vocalist di turno che ruggisce per elemosinare qualche applauso. Nelle note biografiche, leggo che Greg Tate della rivista Vibe l’ha paragonata a Björk e a Miriam Makeba; e Teresa Wiltz del Washington Post, ascoltandola con cura, ha tirato in ballo le doti interpretative di Kate Bush e di SarahVaughan, regina del be-bop. Mica bruscolini. L’etichetta che le appiccicano addosso:

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avant-electro-dub. Passo oltre, per non confondermi le idee. La signorina Coleman, vengo poi a scoprire, deve il soprannome Honeychild a un amico d’infanzia nel Kentucky. E una volta approdata a New York, dopo aver strimpellato la chitarra in metropolitana ha fatto la deejay e ha messo su una rockband. Rifocalizzo l’etichetta: electro (sottogenere della musica elettronica, con tanto di giri di basso e campionamenti vocali) e dub (sottogenere del reggae giamaicano). Garantito (penso) dovrò sorbirmi i soliti, asettici suoni cavalcati da un’ugola costruita in laboratorio.Tanto vale decidersi e ascoltare Halo Inside (come la Luna), che Ho-

neychild Coleman ha inciso col contributo del batterista Matteo Dainese e le ospitate di disc jockey a la page quali The Mad Professor, NatureBoy Jim Kelly e DJ Olive. Rimango lì, di stucco. La voce, anzitutto. Che osa l’inosabile. Björk e Sarah Vaughan, mi paiono i paragoni più calzanti. In sintesi: mille sfumature, più quel retrogusto jazzy che non guasta mai. Le canzoni, 12, sono l’opposto del preconfezionato. Il merito, oltre alla 1960’s surf guitar ben giostrata da Honeychild, va al sapiente utilizzo di basso, batteria, pianoforte e violoncello. Chitarra, drumming e basso, sono i protagonisti del pezzo d’apertura Callus. Ed è già un bel

sentire. Confermato da tutto il resto, che vede la cantante volteggiare nelle atmosfere di Inside (Trois), oscillando fra Cure e Cocteau Twins (sottolineato: New Wave anni Ottanta); raggomitolarsi, grintosa, nei panni di Alanis Morissette (Friend); fare l’evanescente in December, l’acustica (da classica ballad) in Molasses e la rockeuse in Never Goin Home Again. La «negritudine», miss Coleman la svela in sporadici casi: quando il drum & bass incontra con sale in zucca il rhythm & blues (Torch Song) e quando vola metaforicamente nel cuore della Giamaica per plasmare il ragamuffin di Orange,Your Idea Of Time e (in maniera più sperimentale) Grow A Tree. Eppoi, apprezzata la vena dub, le interferenze elettroniche e il trip-hop che sottintendono Headlock; metabolizzate le suggestioni cameristiche di Halo Inside, non mi resta che sollecitarvi a prendere nota: Honeychild Coleman. Non solo per il 2009. Anche per il futuro. Honeychild Coleman, Halo Inside (come la Luna), Matteite/Venus, 15,00 euro

in libreria

mondo

riviste

IGGY POP, PROTAGONISTA PERFETTO

LLOYD COLE REVIVAL

U2, ANTICIPAZIONI SUL NUOVO ALBUM

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i sono libri che sembrano scritti apposta per essere trasformati in sceneggiature cinematografiche. Iggy Pop. Lust for life (Arcana, 443 pagine, 28,00 euro), sembra in effetti già pronto per la macchina da presa. Di certo nella vita del signor James Jewell Osterberg junior compaiono parecchi episodi che farebbero la felicità di qualunque sceneggiatore a corto di idee, ma bisogna ammettere che Paul

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utti gli appassionati di rock che oggi viaggiano verso i quarant’anni lo ricordano con gratitudine, perché Lloyd Cole fu uno dei pochissimi artisti capaci, insieme ai Jesus e Mary Chain, di pubblicare un disco interamente suonato con le chitarre a metà degli anni Ottanta, quando il timone della musica sembrava definitivamente passato ai sintetizzatori e al pop plastificato di

scirà a marzo, ma trattandosi del nuovo disco degli U2 l’attesa sta già rendendo famelica la stampa specializzata. A battere tutti sul tempo è stata l’edizione americana di Rolling Stone, che ha appena pubblicato un lungo reportage realizzato in Irlanda, dove la band sta ultimando No line on the horizon. Avendo potuto commentare con i membri della band i brani del-

Un’altra biografia dell’artista firmata da Paul Trynka: sembra una sceneggiatura già pronta per un film

Inediti, brani poco noti e varianti in quattro cd che raccolgono l’opera del leader dei Commotions

Un reportage dedicato al gruppo che sta incidendo in Irlanda “No line on the horizon”

Trynka, autore di una nuova biografia (dopo quella firmata a quattro mani da Valentini e Lunati, Iggy Pop. Cuore di Napalm), ha saputo raccontare le avventure del leader degli Stooges con grande scioltezza narrativa e un talento non comune nel ricreare situazioni e ambienti. Non si pensi comunque che questa sia di un’operazione realizzata a tavolino per compiacere l’illustre cantante.Trynka non ha passato sotto silenzio i momenti più imbarazzanti della vita di Iggy Pop, e ha criticato duramente il periodo di appannamento creativo che bloccò l’artista per buona parte degli anni Ottanta, quando sembrava che le attrattive dello show business l’avessero definitivamente allontanato dalla musica.

Duran Duran e Spandau Ballet. Dopo quel Rattlesnakes pubblicato con i suoi Commotions, l’artista inglese non riuscì più a raggiungere il successo. Ma non ha mai smesso di scrivere canzoni e il 30 gennaio, in occasione dei suoi 48 anni, darà alle stampe il box antologico Cleaning out the ashtrays, quattro cd che tra lati B, inediti e versioni alternative mettono in fila 59 brani. Sarà l’occasione per riascoltare un artista che, secondo la critica, fu in grado di suonare come dei Velvet Underground in versione country senza per questo sembrare ridicolo. Lloyd sta per dare il via a un tour europeo che purtroppo non toccherà l’Italia, dove il suo culto è sempre rimasto carbonaro.

l’album, il giornalista Brian Hiatt ha tentato una specie di recensione anticipata. Secondo Bono «in questo album puoi sentire quel che accade nel mondo fuori dalla finestra, come nella canzone Cedars of Lebanon, una ballata scritta dal punto di vista di un corrispondente di guerra». A proposito della title track The Edge ha invece spiegato che «il suo groove è nato da una improvvisazione in studio. È un pezzo di rock’n’roll nel 2009». La band ha poi ammesso di aver sperimentato l’elettronica nella canzone Tripoli, mentre quello che sarà probabilmente il singolo trainante, Crazy Tonight, «è la canzone più pop scritta dalla band dai tempi di The sweetest thing».

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zapping

LED ZEPPELIN 1 per non dimenticare di Bruno Giurato el tempo in cui la memoria è optional comodo comodo per specialisti del tempo liberato non fai in tempo a girarti che ti arriva una commemorazione. Tutti commemorano, tutti col ciglio umido. Viene il sospetto che si commemori così tanto per dimenticare meglio. Mi spiego. Il senso di sazietà che interviene dopo la commemorazione ci serve per scaricare la coscienza e non pensarci più. È un incasellamento del passato che ce ne libera. Facciamo come il satanesco, faustiano, Giudice, protagonista di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy: prendiamo nota delle cose per distruggerle. Sia come sia anche noi ci prendiamo di invidia, e dalle fratte rockettare che ci pertengono vogliamo commemorare qualcosa. E precisamente i quarant’anni dalla pubblicazione di Led Zeppelin 1, pietra miliare del suono elettrico, disco misto di ballate ed estasi elettriche uscito il 12 gennaio 1969. Figli del blues, i Led Zeppelin avevano capito che l’unico modo di rendere omaggio a una musica e a una cultura è rielaborarla a modo proprio. Led Zeppelin 1 è un disco che sarebbe piaciuto molto al maestro Sergej M. Ejzenstejn, che aveva teorizzato l’estasi delle forme. La chitarra di Jimmy Page parte dai temi, fraseggi e suoni del blues e li porta a un livello di incandescenza, di «uscita fuori da sé» che fa pensare alle avanguardie artistiche. Il tutto senza manifesti, senza l’enfasi sulla teoria delle avanguardie, invece parandosi dietro a quella etichetta di stupidità che è la parola rock ’n roll. Insomma, i Led Zeppelin commemoravano il blues rifacendolo a modo loro. E noi dal nostro angolino vogliamo commemorare i Led Zeppelin. Questa volta per non dimenticare. E senza Fabi Fazi.

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classica

Sofronitzky, lo zar di tutti i suoni di Pietro Gallina na novità da non perdere, nel mercato delle incisioni, ci giunge dal premio «Diapason d’oro» per un cofanetto della Brilliant Classics; esso contiene nove pietre preziose recuperate dagli Archivi Storici della Russia del formidabile pianista Vladimir Sofronitzky, ovvero nove dischi che riproducono soprattutto le sue registrazioni dal vivo degli anni Cinquanta, di Chopin, Scrjabin, Schubert, Liszt, Schumann, Beethoven e altri. Sofronitzki nacque nel 1901 a Pietroburgo, ma già nel 1903 la sua famiglia si trasferisce per un periodo a Varsavia, dove il piccolo Vladimir prende le prime lezioni di pianoforte. Poi tornato a Pietroburgo, studia con il famoso Leonid Nicolaev nel conservatorio della sua città; è qui che incontra e sposa nel 1920 la figlia maggiore del suo venerato Alexander Scrjabin, Elena. Comincia così a vent’anni la carriera di concertista e le sue interpretazioni vengono subito apprezzate dai divi del pianoforte del tempo quali Heinrich Neuhaus, Horowitz ed Egon Petri, insieme ai suoi compagni di studi diventati celebri, Maria Judina e Shostakovich. Nel 1928 Sofronitzky in tournée a Parigi diventa amico di Prokofiev. Quando torna in Russia vi rimarrà per sempre fino alla morte avvenuta nel 1961, tranne in un’occasione: un giorno fu improvvisamente messo su un aereoplano - mandato appositamente da Stalin che lo stimava - e condotto a Potsdam per suonare alla Conferenza Internazionale del 1945. È rimasta famosa una serie di 12 concerti purtroppo non registrati, nel 1937, che fecero scalpore, in quanto egli suonò un’infinità di brani da Buxtehude e Bach fino ai contemporanei quali Shostakovich. La questione di Sofronitzky riguarda l’intensità delle sue esecuzioni sia per il poderoso volume di suono - che per alcuni che lo avevano ascoltato ricordava Padarewski - sia per l’intensità intesa come scavo in profondità per la resurrezione del miracolo sonoro, dove la melodia che sorge dall’armonia e dalla tensione tonica, dominante, tonica - dalla nascita alla vita per ritornare al riposo della morte - non è espressione, ma parola divina. Sebbene Sofronitzky sia noto per essere il più grande interprete di Scrjabin, uno de-

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gli autori che da lui venne riscoperto per il suo immenso valore artistico è Schubert. La grandezza con cui attraverso le sue interpretazioni Sofronitzky ha restituito agli ascoltatori uno Schubert depurato dalle scorie appiccicategli da certo sentimentalismo pseudo-romantico, ne rivela le capacità titaniche, a fianco dello stesso Beethoven, del quale non sarà più ombra o scudiero. E questa reinterpretazione di Schubert si colloca in una scelta interpretativa che molti pianisti russi come il proprio Richter, la Judina e Afanassiev, hanno operato. Sofronitzky, questo strano gigante del pianoforte, visse solo di musica, appartato in un mondo raccolto e chiuso, per evitare gli intrighi e le meschinità umane, escludendosi dalla vita mondana per stare con i suoi più cari amici. Pur non partecipando agli eventi ufficiali (appariva solo in sala per eseguire i concerti), gli fu conferito il premio più alto sotto il socialismo, l’ordine di Lenin: ormai cominciava a diffondersi l’idea che Sofronitzky fosse il più grande pianista russo, «una vera leggenda vivente». Ogni suo recital era un evento, un viaggio e un’avventura spirituale per i presenti in sala. Egli trascendeva i limiti della normale espressione per entrare in un reame in cui ogni sua emozione nell’interpretare un brano passava dalla musica al pubblico con un’onda di indefinibile spiritualità.Tutti i grandi musicisti russi alcuni dei quali subirono molto la sua influenza, da Horovitz a Kissin, lo adoravano. Quando Richter e Sofronitzky brindarono come vecchi amici in una delle feste a loro dedicata, Sofronitzky proclamò Richter genio della musica; Richter subito rispose che se lui era un genio Sofronitzky era il Dio della musica. Anche Gilels, dopo aver saputo della scomparsa di Sofronitzky dichiarò: «Il più grande pianista del mondo è morto». La sua arte solo di recente è stata scoperta fuori dalla Russia, giacché in vita fu conosciuto sopratutto nel suo paese e anche a causa delle poche esecuzioni rimaste, le quali per prime furono pubblicate dalla Philips.

Historical Russian Archives, Vladimir Sofronitzky Edition, Brillant Classics, 9 cd

jazz

Mai una così grande “My Funny Valentine”

di Adriano Mazzoletti rent’anni fa Chet Baker ed Enrico Pieranunzi registravano negli studi romani della Edi Pan un disco che venne pubblicato con il titolo Soft Journey, con una copertina ideata da Marcello Rosa: una tromba posta sul pianoforte e su fogli di musica. Si trattava naturalmente di un long playing che ebbe immediatamente il plauso incondizionato della critica internazionale, ma che scomparve pochi mesi dopo dagli scaffali dei negozi, divenendo quasi subito una rarità per collezionisti. Non essendo un frequentatore di aste e possedendo la copia originale non conosco la valutazione che quel vinile ha sul mercato, penso però che possa essere valutato diverse migliaia di euro. Non solo è un disco rarissimo, ma è soprattutto un’opera di notevole importanza. Fra le tante incisioni che Chet realizzò in quegli anni in Europa, questa è

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Chet Baker sicuramente la più riuscita. Dopo anni drammatici - la prigione in vari paesi europei, le cure disintossicanti, le ricadute - Chet in quel periodo aveva ritrovato una forma splendida. Le sue doti di artista intensamente lirico, sensibilissimo e commovente, apparivano nei sei brani (Soft Journey, Animali diurni, Brown Cat Dance, My Funny Valentine, Night

Fairy Bird, Flowers), incisi con i suoi partner di allora. Enrico Pieranunzi, produttore della seduta, lo accompagna con l’eleganza e l’intelligenza che sono da sempre le caratteristiche di questo nostro musicista. Ma anche Maurizio Giammarco al sassofono tenore, Riccardo Del Fra contrabbassista che da anni si è stabilito in Francia dove dirige il Dipartimento Jazz del Conservatorio di Parigi e il batterista Roberto Gatto assecondano Chet Baker in modo pertinente. Ma è il trombettista e cantante americano - la versione di My Funny Valentine con il solo Pieranunzi è una delle migliori fra quelle da lui incise - che

appare in tutta la sua grandezza. Un musicista che usa soltanto colori tenui, sonorità ovattate, «un poeta intimista e crepuscolare», veniva scritto, i cui antecedenti si possono rintracciare nel Miles Davis del periodo delle incisioni Capitol e che hanno fatto di lui l’ultimo grande rappresentante dei musicisti cool. Forse qualcuno si chiederà la ragione per la quale a trent’anni dalla pubblicazione di un disco introvabile, si senta la necessità di parlarne. Quel disco è stato finalmente ripubblicato in cd da Egea, in forma grafica diversa, ma con i brani nello stesso ordine del disco originale. Ma il cd ha qualcosa in più, un libretto con alcune foto inedite di Chet e Pieranunzi e, per la gioia dei musicisti, la trascrizione su pentagramma dell’assolo di Baker in Soft Journey, il bel tema composto da Pieranunzi che dà il titolo al disco. Chet Baker-Enrico Pieranunzi, Soft Journey, Egea


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narrativa

libri

La segnaletica intima di Nabokov di Pier Mario Fasanotti nche chi conosce bene i romanzi di Vladimir Nabokov, in primis Lolita, si sorprenderà a leggere i suoi racconti. Una splendida conferma - se pur ce n’era bisogno dello spessore letterario del narratore russo che affronta il tema del destino impietoso e feroce, della solitudine di ogni essere, anche se dialogante con il mondo. Il lato grottesco dell’esistenza umana focalizza poi l’attenzione. I testi brevi di Nabokov non trascurano mai citazioni (il preferito è Puskin). Non mancano inoltre affilatissime considerazioni: a margine, o meglio a stretto contatto col nucleo della storia, sempre funzionali alla costruzione del profilo di un uomo, alla descrizione di una città o di un ambiente. Trame vere e proprie, ossia compiute in forma geometrica, non ce ne sono. Come se l’allusione e la sfumatura avessero il compito di sostituire la pedissequa spiegazione dei fatti. Si va comunque lontano anche se mancano indicazioni stradali nitide. La segnaletica è sempre intima, e risulta la più profonda ed efficace. Nel racconto intitolato Una lettera che non raggiunse mai la Russia, nulla, proprio nulla, si dice della destinataria a parte un accenno ad appassionati e furtivi baci di gioventù nelle pungenti mattinate di Pietroburgo. Il mittente si sofferma su ciò che guarda e sa in quel momento. Descrive il ritrovamento di una donna che s’è impiccata sulla tomba del marito, l’impronta ultima dei suoi tacchi sul terreno, i fili gialli della corda nel punto in cui aveva sfregato contro il marmo. E subito dopo lo scrivente afferma con tono così sfacciato da apparire doloroso di essere «perfettamente felice», consapevole comunque che gli scolari di domani «sbadiglieranno sulla storia dei nostri sconvolgimenti». È il tempo che fissa le immagini, come quella di chi rincasa in strade buie e silenziose: un tempo che pulsa solo in chi lo vive nel preciso istante. Scomparirà tutto, anche i due giovani che danzano, anche le acque nere del canale,

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«tutto quello con cui Dio avvolge con tanta generosità»: la solitudine dell’uomo. Additare al lettore il meglio dei racconti sarebbe operazione impossibile. Senza dubbio è da consigliare Un uomo occupato, ove certo Graf, trentenne russo, reduce da un matrimonio con una donna rivelatasi poi «stupida e rozza, e con le gambe storte», per giunta fedifraga. Graf avverte l’avvicinarsi della morte in base a una «profezia laconica» - ma laconici, a ben pensarci, son tutti i presagi - che incombe sulla sua esistenza stentata, opaca e appartata. Raffinatissimo è Nabokov quando scrive che Graf si perde in un ricordo confuso e al tempo stesso vincolantissimo, in modo tale che alla fine è alle prese col ricordo del ricordo. Dinanzi alla «bellezza intollerabile» del cielo serotino, l’uomo che ha paura di scomparire nel nulla si occupa del proprio io, una meticolosa e sfibrante occupazione che lo sorprende in una

modestissima camera in affitto, seduto sul bordo del letto ad armeggiare con un calzino bucato, oppure in uno strampalato ritrovo di connazionali che si ubriacano e cercano conforto nel raccontare e nell’ascoltare le proprie sfortune. Loro che sono al confine con quella borghesia che si veste di un «lusso infausto e ridicolo». Nel vortice dell’ironia che rimescola i sogni della palingenesi proletaria. Ma per proteggere l’esistenza dalle assurde pretese del fato si scolano bottiglie, finché la luce del mattino sussurrerà sconsolanti verità. Vladimir Nabokov, Una bellezza russa, Adelphi, 755 pagine, 38,00 euro

riletture

Cardarelli, autoritratto (per citazioni) di un bipolare di Leone Piccioni hi per caso abbia seguito i vari articoli e saggi da me dedicati a Vincenzo Cardarelli (da diecine di anni ormai) avrà capito non solo la mia forte ammirazione letteraria, ma anche come paesaggi, ricordi, persone che gravitano intorno a lui trascorrano facilmente nel suo universo tra complessivi giudizi negativi (i più) e le conclusioni talvolta ammirate e molto positive. Cardarelli era così, amava (più spesso al di fuori della cerchia letteraria), odiava (più spesso aveva antipatie per certe persone, questa volta più specificamente del mondo letterario). Basterebbe citare i rapporti tra Cardarelli e Ungaretti. In una lettera pubblicata nel meritevole epistolario curato a Tarquinia, appaiono cose incredibili: Ungaretti poeta sarebbe esistito, era un suonatore d’orchestrina meridionale, un fantasma.

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Eppure alla seconda edizione del Premio Strega, a Roma nel ’48, al quale partecipava un bel volumetto di Cardarelli che vinse con molti voti (belle, allora, quelle giornate del premio), Ungaretti fu certamente il più attivo galoppino nel farlo vincere. Per cercare di semplificare una certa qual sua bipolarità, sono da applicare confronti tra le sue battute, specialmente orali, che ci sono state tramandate. Talvolta sugli altari, talvolta nel massimo pessimismo. Cardarelli, infatti, come faceva guerra così dopo un po’ era assai capace di far pace, magari dando giudizi positivi su persone e opere che aveva stroncato precedentemente. Tra le opere più belle di Cardarelli, senza nulla togliere alla sua grande poesia («Distesa estate/ stagione dei densi climi/ dei grandi mattini / dell’albe senza rumore…»), sono anche prose liriche e certi scritti come Qui visse l’Etrusco o le

stupende lettere da Tarquinia nella vicinanza della morte, di cui si potrà tornare a riparlare. Per questa piccola rubrica per lo più dedicata alla letteratura italiana del Novecento (della quale un po’ m’intendo) bisogna sempre cercare un appiglio, un pretesto, una ristampa, un fatto di cronaca per poter riparlare di un certo argomento. Su Cardarelli molto è stato taciuto pubblicamente anche se da qualche anno è finalmente sorto, intitolato al suo nome, il premio «TarquiniaCardarelli» di cui a metà dicembre si è svolta la VII edizione. Ecco dunque uno spunto per rievocarlo attraverso alcune citazioni che lo descrivono come in un autoritratto: - «Io sono un cinico/ a cui rimane per la sua fede questo al di là/ io sono un cinico che ha fede in quel che fa». - «Dovevamo saperlo che l’amore/ brucia e fa volare il tempo». - «Ispirazione per me è indifferenza/

poesia: salute e impassibilità/ arte di tacere/ come la tragedia è l’arte di mascherarsi». - «Amore, amore, come sempre/ vorrei coprirti di fiori e di insulti». - «La vita io l’ho castigata vivendo». - «I giovani hanno timori esagerati, i vecchi fiducie eccessive». - «L’amore non può finire in due giorni». - «O animosa e benedetta gioventù addio!». - Riferendosi a un pensiero di Pascal scriveva: «Un nulla ci consola perché un nulla ci abbatte». E continuava: «Io sempre sono in pericolo purtroppo di abbattermi e di impressionarmi per un nonnulla». - «Morire sì/ non essere aggrediti dalla morte». Ma torneremo a riferire altre sue battute, specie malevoli... (continua)


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filosofia

Max Scheler dall’ens amans all’ens cogitans di Renato Cristin due saggi (Fenomenologia e teoria della conoscenza e Ordo amoris) che compongono il volume, ottimamente curato da Vittorio d’Anna, permettono di istituire un nesso fra conoscenza e amore, un rapporto fra gnoseologia ed erotica che rinvia a Platone e alla funzione creatrice e mediatrice dell’eros, ma che si svolge nell’ottica di una spiritualità tutta cristiana che mostra uno specifico punto di contatto con il pensiero di Pascal. Max Scheler (1874-1928), considerato il padre di quella disciplina che si chiama antropologia filosofica, ha elaborato una teoria dei sentimenti o dell’affettività che è stata un importante punto di riferimento per gli sviluppi

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personaggi

della filosofia del Novecento e di cui il saggio Ordo amoris è un brillante compendio. L’amore «risveglia alla conoscenza e al volere» umani, ma su un piano universale esso è anche «un divenire, un crescere, un di-

latarsi delle cose verso la loro immagine originaria riposta in Dio». Poiché l’amore precede il logos, che è attivo «prima della volontà, ma dopo l’amore», la modalità privilegiata di accesso all’essere dovrà essere una via affettiva, non razionale o intellettuale. Invertendo la tradizionale gerarchia filosofica, Scheler afferma che «prima ancora di essere un ens cogitans o un ens volens, l’uomo è un ens amans». Assegnare la preminenza del tratto affettivo-emozionale su quello logico-razionale significa attribuire alla dimensione emotiva un valore ermeneutico per l’intera struttura dell’essere umano. Amore diventa la modalità primaria dell’apertura dell’uomo al mondo. Nel rapporto d’amore si riconosce la Einsfüh-

lung tra uomo e mondo, il «divenire uno» fra uomo e natura. Nel quadro di un’antropologia filosofica che costituisca l’orizzonte di ogni metafisica, l’ordo amoris, che non è una struttura immutabile ma si trasforma modificando l’individuo stesso, è «il nucleo dell’ordine del mondo come ordine divino». Perciò, nel campo dell’umano, l’odio si configura come «una ribellione del nostro cuore e del nostro animo a una violazione dell’ordo amoris»: l’uomo odia quando vede che «il portatore di un disvalore raggiunge quella posizione che spetterebbe al portatore del valore». Max Scheler, Scritti sulla fenomenologia e l’amore, Franco Angeli, 138 pagine, 15,00 euro

Tutto quello che Steiner non ha scritto di Giancristiano Desiderio eorge Steiner è George Steiner. Quel signore dall’aria tranquilla che vi parla di Tolstoj e Dostoevskij e del pensiero di Heidegger con la stessa naturalezza con la quale voi mandate giù un bicchiere di acqua fresca. Nuccio Ordine lo ha definito una delle personalità di spicco della cultura del Novecento. Sarà, forse, anche per questa stima dichiarata che George Steiner gli ha dedicato il suo ultimo libro pubblicato in Italia: I libri che non ho scritto. Un titolo insolito per Steiner che potrebbe permettersi di scrivere tutti o quasi tutti i libri a cui pensa. Invece, anche uno come lui «l’enciclopedico degli enciclopedici» secondo la definizione della New York Times Book Rewiew - ha i suoi sogni nel cassetto che non diventeranno mai realtà.

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società

Ma siccome stiamo parlando di un tipo fuori dal normale, ecco subito la cosa eccezionale: sui libri che avrebbe voluto scrivere o che vorrebbe scrivere ma non scriverà mai, Steiner ha scritto un libro. Un libro formato da sette capitoli: ogni capitolo è dedicato al «libro che avevo avuto la speranza di scrivere ma che poi non ho scritto». Tra gli altri: uno è dedicato all’invidia di chi, pur dotato di talento e capacità, si trova a confronto con il genio; un altro all’esperienza del sesso praticato in lingue diverse; uno all’amore per gli animali quando supera quello per gli uomini; quindi l’importanza dei sistemi educativi e l’opportunità di un moderno quadrivium per gli studenti di tutto il mondo; il rapporto tra l’intellettuale e l’ideologia attraverso la figura del sinologo Joseph Needham. Ognuno di noi si porta dietro «un libro non scritto» perché ognuno di noi porta a compi-

mento nella vita solo una piccola parte di ciò che avrebbe potuto fare o essere. In quel libro non scritto - dice con ironia e con dolenza Steiner - avremmo forse potuto «sbagliare meglio». Ognuno di noi ha dei «vuoti» o delle «ombre» o delle «assenze» che rappresentano i suoi libri non scritti. Ciò che saremmo stati se o ciò che saremmo diventati se. E se siamo ciò che siamo lo dobbiamo anche a queste «ombre fattive» che accompagnano la nostra vita. Quelle di Steiner, in verità, sono di diversa qualità dalle nostre, senz’altro dalle mie: è lecito, in questo caso, nutrire un po’di sana invidia, che è semplicemente ammirazione, verso una personalità che ha scritto dei libri che, una volta letti, ti illudi che avresti potuto scrivere. George Steiner, I libri che non ho scritto, Garzanti, 230 pagine, 16,00 euro

Il ventennio di Berlusconi e quello di Mussolini di Franco Ricordi l recente libro di Massimo Giannini Lo Statista propone l’idea di un «ventennio berlusconiano tra fascismo e populismo». L’analogia, lo diciamo subito, ci sembra improponibile, stante anzitutto la situazione internazionale in cui ci troviamo rispetto agli anni Venti del XX secolo. Poi ci appare troppo forte, inadeguato alle prospettive, il confronto diretto tra l’uomo Berlusconi e l’uomo Mussolini, pur sostenuto da qualche riscontro coi testi di De Felice. Se anche il periodo che stiamo vivendo potrà essere un giorno ricordato come l’Italia di Berlusconi, fatichiamo a credere che si possa paragonare al Ventennio mussolinia-

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no: e non si può certo dire, come afferma Giannini, che Berlusconi oggi «non abbia oppositori come non li aveva ieri Mussolini», a prescindere dal fatto di aver perso già due volte le elezioni per opera di Prodi. Contro il Cavaliere non ci sono soltanto il Pd, l’Idv, l’Udc, la stessa Destra e ciò che rimane dei partiti comunisti e socialisti. Contro il premier c’è anche una fortissima tensione di tutta l’intellighenzia italiana, prendiamo Dario Fo e Nanni Moretti in prima linea, che non rappresentano soltanto la stragrande maggioranza del teatro e del cinema, ma

di tutte quelle che vengono definite attività culturali (al punto che Claudio Abbado ha boicottato l’Opera di Roma per protestare contro l’elezione a sindaco di Alemanno e i ministri di Berlusconi vengono spesso snobbati e irrisi come se fossero sostanziali ignoranti). E se infine si vuol fare

ricorso a un totalitarismo dei nostri tempi che sicuramente sussiste nelle forme del nichilismo spettacolare che viviamo da decenni - non potremo imputare tutto questo a Berlusconi, tanto meno al nostro paese. Si tratta di un totalitarismo globalizzante, che coinvolge semplicemente tutti i partiti e i movimenti politici del mondo, e a cui nessuno (tanto meno la sinistra italiana, così incline alla spettacolarità) si sottrae. Massimo Giannini, Lo Statista, Baldini Castoldi Dalai, 234 pagine, 17,50 euro

altre letture La storia del XX secolo italiano, diceva Indro Montanelli, la si può fare senza chiunque altro ma non senza Giovannino Guareschi. Si perché Guareschi è stato molto di più che un semplice umorista o un fustigatore di costumi. Guareschi è stato uno dei più importanti intellettuali civili italiani del Novecento. Marco Ferrazzoli nel suo Non solo Don Camillo, l’intellettuale civile Giovannino Guareschi (Edizioni dell’Uomo libero, 125 pagine, edizione speciale limitata) dimostra bene quale fosse la statura di Guareschi a cui, come dice lo stesso Ferrazzoli, non hanno giovato sia le minimizzazioni sul suo ruolo e il suo calibro dei suoi nemici sia quella dei suoi amici che in tutti questi decenni ne hanno confermato l’immagine debole. Ridurre infatti a bastian contrario un intellettuale che ha esercitato tanta influenza politica nell’Italia del dopoguerra è una pura e semplice banalizzazione. Che solo oggi comincia a lasciare il passo a studi più ponderati e sereni sull’opera di Guareschi. Pochi conoscono la tragedia di milioni di tedeschi in fuga disperata davanti all’avanzare dell’Armata rossa nell’ultima fase della guerra. Milioni di tedeschi espulsi dalle zone occupate della Germania, dalla Cecoslovacchia, dalla Polonia, dall’Ungheria, dalla Romania, dalla Jugoslavia. Il bilancio di questo drammatico esodo - 13/16 milioni di persone sradicate ed espulse verso ciò che restava della Germania sconfitta è di 2,5 milioni di persone decedute per conseguenze dirette delle fughe e delle violenze che lo hanno contrassegnato. Di questo olocausto dimenticato ora si occupa un libro coraggioso a più mani curato dallo storico Guido Crainz e intitolato Naufraghi della pace (Donzelli editore, 257 pagine, 28,00 euro). Le origini

dell’alchimia risalgono all’inizio dell’età del ferro, quando l’uomo, con l’aiuto del fuoco, riuscì a estrarre i metalli dai minerali. Gradualmente, attraverso l’Egitto, la Grecia e il mondo arabo l’archetipo alchemico si nutrì, nel bacino del Mediterraneo, del simbolismo degli universi religiosi che incontrò e che a sua volta fecondò per mezzo di apporti originali di notevole ricchezza. Severin Batfroi nel suo La via dell’alchimia cristiana (Edizioni Arkeios, 204 pagine, 22,00 euro) racconta come l’alchimia sia rifluita nel simbolismo e nella dottrina cristiana. La via del Cristo stesso, la sua vita, la sua morte e la sua resurrezione, dimostra Batfroi, sono tappe di un processo alchemico di trasmutazione.


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ritratti

SAN PAOLO NELL’ANNO DELLE CELEBRAZIONI, VITA E OPERE DELL’APOSTOLO DELLE GENTI CHE HA MESSO AL CENTRO DELLA SUA RIFLESSIONE TEOLOGICA L’EVENTO-CRISTO, INDICANDONE GLI EFFETTI SULL’UMANITÀ

La voce della rivoluzione di Maurizio Schoepflin urante l’omelia pronunciata nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura il 28 giugno 2007 in occasione della solenne liturgia celebrata per indire l’Anno Paolino, papa Benedetto XVI disse, tra l’altro: «Paolo è consapevole di essere “apostolo per vocazione”, cioè non per autocandidatura né per incarico umano, ma soltanto per chiamata ed elezione divina. Nel suo epistolario, più volte l’Apostolo delle genti ripete che tutto nella sua vita è frutto dell’iniziativa gratuita e misericordiosa di Dio. Egli fu scelto “per annunciare il vangelo di Dio”, per propagare l’annuncio della Grazia divina che riconcilia in Cristo l’uomo con Dio, con se stesso e con gli altri... Cari fratelli e sorelle, come agli inizi, anche oggi Cristo ha bisogno di apostoli pronti a sacrificare se stessi. Ha bisogno di testimoni e di martiri come San Paolo: un tempo persecutore violento dei cristiani, quando, sulla via di Damasco, cadde a terra abbagliato dalla luce divina, passò senza esitazione dalla parte del Crocifisso e lo seguì senza ripensamenti. Visse e lavorò per Cristo; per Lui soffrì e morì. Quanto attuale è oggi il suo esempio!».

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quel momento la sua vita fece registrare un cambiamento radicale, ed egli, dopo aver miracolosamente incontrato di persona il Risorto, ne divenne il servitore fedele e l’instancabile annunciatore, dialogando con ebrei, romani, greci, abitanti dell’Asia Minore e annunciando a tutti lo stesso messaggio salvifico: Cristo morto e risorto per la salvezza dell’umanità intera. Prese parte al celebre Concilio apostolico che si pronunciò in merito all’osservanza della prescrizioni cultuali giudaiche, in particolare della circoncisione, da parte dei cristiani. Tra il 61 e il 63, durante il processo a cui fu sottoposto, e

Giudeo benestante di lingua greca, persecutore dei primi cristiani, nacque a Tarso, in Cilicia, probabilmente poco dopo Gesù. In alcuni scritti apocrifi è descritto “piccolo di statura, testa calva, gambe curve, pieno di bontà” Non sappiamo quale sia la data di nascita di San Paolo (probabilmente egli era poco più giovane di Gesù); ci è noto, invece, il luogo ove vide la luce: la città di Tarso, famoso centro culturale della Cilicia, regione dell’Asia Minore posta nella parte sudorientale dell’odierna Turchia. La città aveva le caratteristiche di un ambiente estremamente vivace, sia dal punto di vista sociale che politico, e religiosamente si presentava come un punto di incontro fra la tradizione orientale e l’ellenismo.

Paolo era cittadino romano, ma le sue origini erano giudaiche: la sua famiglia, infatti, era di stretta osservanza ebraica, anche se il padre gli lasciò in eredità la cittadinanza romana. A Tarso, Paolo trascorse tutto il periodo della fanciullezza, imparò il greco e fu avviato a una buona conoscenza della Bibbia. Quando, poco più che adolescente, si recò a Gerusalemme, andò alla scuola del rabbino Gamaliele il Vecchio, celebre maestro della legge; qui acquisì la conoscenza della Toràh e imparò un lavoro manuale, che gli permise in seguito di provvedere al proprio sostentamento. All’apparizione delle prime comunità cristiane, Paolo prese una decisa posizione contro di loro e considerò la nuova religione da loro professata come una perversione della fede giudaica e una grave minaccia per il giudaismo nel suo complesso. La svolta determinante della sua esistenza fu rappresentata dalla conversione, che si verificò dopo che egli aveva addirittura perseguitato i cristiani. L’evento avvenne vicino a Damasco, intorno all’anno 36: da

più tardi, poco prima del martirio, avvenuto nel 67, Paolo fu a Roma. All’epoca del primo soggiorno, compatibilmente con lo stato di semilibertà in cui si trovava, incontrò probabilmente le comunità romane; nel 63 fu prosciolto e lasciò la città, per recarsi, pare, in Spagna. Successivamente però, al tempo della terribile persecuzione neroniana, venne di nuovo arrestato e condotto nel carcere Mamertino: condannato alla decapitazione, in quanto cittadino romano, subì il martirio alle Aquae salviae, nel luogo in cui oggi sorge l’Abbazia delle Tre Fontane. Il suo corpo ebbe sepoltura sulla via Ostiense, in un preesistente cimitero pagano, dove attualmente è situata proprio la famosa Basilica di San Paolo Fuori le Mura. Può risultare di un certo interesse soffermarsi brevemente a dare qualche notizia sull’aspetto fisico di Paolo. In alcuni scritti apocrifi troviamo il seguente ritratto dell’Apostolo: «Piccolo di statura, testa calva, gambe curve, corpo ben formato, sopracciglia congiunte, naso un po’ sporgente, pieno di bontà». Intorno alla metà del IV secolo viene fissato via via un tipo fisico sostanzialmente stabile: testa calva, barba lunga e appuntita, tratti piuttosto fini. Verso il 1100, nell’i-

conografia paolina fa la comparsa la spada, strumento del suo martirio.

Nella Divina Commedia Dante, riecheggiando un’espressione che si trova negli Atti degli Apostoli, definisce San Paolo «Vas d’elezione» (Inferno, II, 28) e «il gran vasello dello Spirito Santo» (Paradiso, XXI, 127-128). Di fondamentale rilevanza sono i viaggi missionari compiuti da Paolo in un arco di tempo che, approssimativamente, va dall’anno 46 all’anno 58. La prima missione si svolse tra il 46 e il 49, in mezzo a non poche peripezie: l’Apostolo, insieme a Barnaba, un giudeocristiano di origine cipriota, salpò da Seleucia e si recò nell’isola di Cipro e in Asia Minore. Nelle va-


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fondata sulla resurrezione di Cristo. Notevole fu invece la fortuna della sua predicazione nella città di Corinto, nella quale era giunto dopo aver lasciato Atene e dove si fermò per un anno e mezfondandovi zo, una chiesa assai solida e vivace. Fra il 54 e il 58 Paolo fece di nuovo un lungo viaggio: sostò per tre anni a Efeso e da qui scrisse ai Corinti, dopo aver ricevuto notizie poco soddisfacenti sul loro comportamento. A Corinto si recò poi pure di persona, dopodiché, ripartito di lì e attraversate numerose località, giunse a Gerusalemme, dove, in seguito all’accusa di aver violato l’area sacra del Tempio per avervi introdotto dei gentili, rischiò il linciaggio, venne arrestato e fu dato inizio al processo contro di lui. Paolo, in quanto cittadino romano, si appellò all’imperatore: per tale motivo fu trasferito a Roma, dove più tardi fu condannato e subì il martirio

San Paolo non elaborò una vera e propria teologia sistematica. La maggior parte di ciò che egli scrisse aveva lo scopo di risolvere problemi concreti e le sue Lettere contengono soprattutto esortazioni a vivere un cristianesimo autentico e forte. Tuttavia, è possibile enucleare e sottolineare alcuni punti essenziali del suo pensiero. Al centro della riflessione teologica paolina sta Gesù Cristo, tanto che si è potuto affermare che la teologia di San Paolo è in realtà una cristologia; e il Cristo di Paolo è il Salvatore: egli lo annuncia e lo predica in quanto radicalmente significativo per l’umanità. Nella sua visione, il ruolo di Cristo all’interno della storia della salvezza possiede una centralità assoluta, che si rende evidente soprattutto nella passione, morte e resurrezione. E decisivi sono gli effetti dell’evento-Cristo indicati da Paolo. In-

quale ogni creatura, figlia della disobbedienza di Adamo, diventa uomo nuovo, ricreato in Cristo, obbediente alla voce dello Spirito e perciò figlio di Dio. Solo Cristo rappresenta dunque la vera liberazione, perché sottrae l’uomo alla logica del dovere e lo colloca in quella della gratuità.

Paolo usa anche il termine «riconciliazione» per identificare uno degli effetti dell’evento-Cristo: l’iniziativa è di Dio, il quale, per mezzo del suo unico Figlio, fa sì che l’umanità peccatrice sia condotta da uno stato di inimicizia a una condizione di amicizia. L’Apostolo si serve anche di altri vocaboli per spiegare quali sono le numerose straordinarie novità apportate dalla passione, morte e resurrezione di Cristo: espiazione, redenzione, libertà, santificazione, trasformazione, nuova creazione, glorificazione. Uno dei maggiori studiosi di San Paolo ha così sintetizzato il pensiero dell’Apostolo riguardo alla «rivoluzione» antropologica operata dalla venuta del Figlio di Dio sulla terra: «L’attività salvifica di Cristo ha prodotto una nuova unione dell’umanità con Dio. Paolo la chiama una “nuova creazione”, dal momento che essa ha introdotto una nuova modalità di esistenza nella storia umana, in cui Cristo e il cristiano vivono, per così dire, in una simbiosi. L’uomo partecipa di questa nuova vita mediante la fede e il battesimo che lo incorpora in Cristo e nella sua Chiesa; questa incorporazione trova la sua espressione specifica nell’Eucaristia». Accanto alla proclamazione delle verità fondamentali riguardanti l’evento-Cristo, le Lettere di San Paolo contengono importanti esortazioni rivolte ai cristiani perché mantengano una condotta morale integra. L’Apostolo ricorda con insistenza che il credente non è più una persona materiale, ma spirituale, che deve spiritualizzare la propria esistenza, rifuggendo dalla carnalità e dal vizio. Paolo attribuisce un valore fondamentale alla preghiera e all’ascetismo, apprezza il matrimonio, vieta in maniera assoluta il divorzio e stima profondamente il celibato. È stato opportunamente affermato che in San Paolo il carattere distintivo dell’etica «è la collocazione secondaria rispetto alla fede, la quale però, se è alternativa rispetto alle opere nel processo della giustificazione, richiede anche un operoso comportamento etico incentrato essenzialmente sul comandamento dell’amore vicendevole». In effetti, per l’Apostolo la fede ha la preminenza su qualunque altro elemento, e questo rende la sua concezione morale profondamente diversa da quella della filosofia greca, in particolare del pensiero stoico. Paolo entrò sicuramente in contatto con questa corrente filosofica, non tanto perché ne apprese le dottrine dai testi letterari, quanto piuttosto

Dopo la conversione, compì numerose missioni per annunciare il Vangelo ai gentili, e lo fece adattando la predicazione alla loro mentalità. Educato alla grecità, condannò la sapienza degli uomini che vuole sostituirsi a quella di Dio rie città che i due toccarono i giudei si opposero attivamente all’annuncio evangelico, mentre i pagani lo accolsero con slancio. Il secondo viaggio missionario ebbe luogo fra il 50 e il 52: questa volta furono compagni di Paolo Sila e Timoteo. Si trattò di una missione più impegnativa: da Antiochia di Siria Paolo andò a Listra, poi in Frigia, Galazia, Misia, giungendo fino a Troade, nell’Egeo settentrionale; di qui salpò per l’Europa e si recò ad Atene, ove tenne il famoso discorso dell’Areopago, annunciando senza successo ai greci la verità cristiana

nanzitutto vi è quella che egli chiama la giustificazione, ovvero il fatto che grazie al sacrificio della croce, per iniziativa gratuita di Dio, gli uomini, tutti indistintamente peccatori, possono presentarsi come giustificati dinanzi all’Onnipotente. Vi è poi la salvezza, come liberazione dal male: tale salvezza infatti è di ordine diverso rispetto a quello storico-sociale: essa deriva da una trasformazione interiore inaugurata in e da Gesù, l’unico autentico salvatore. La salvezza è frutto della grazia di Dio che va al di là del peccato, di ogni sforzo umano e della stessa Legge: essa passa attraverso il sacrificio di Cristo e deve diventare realtà viva nella concretezza dell’esistenza. Paolo ha sperimentato personalmente la lacerante contraddizione tra la mente, capace di riconoscere il bene e di volerlo, e le passioni, che conducono l’uomo al male. La risposta a questa divisione interiore sta in Cristo: la salvezza è possibile, ma è dono di Dio e giunge all’uomo mediante il sacramento del Battesimo, in virtù del

perché ne conobbe alcune idee dal linguaggio comune del suo tempo: dobbiamo ricordare che egli era nativo di Tarso, il cui clima culturale si era rivelato adatto alla ricezione dello stoicismo. Egli, giudeo di lingua greca e di condizione sociale piuttosto elevata, ricevette un’educazione improntata alla grecità; visse nel mondo ellenistico e, dovendo annunciare il Vangelo ai gentili, si vide costretto ad adattare la predicazione alla loro mentalità e a parlare un linguaggio che fosse loro comprensibile. Ma i contenuti della sua filosofia si discostano profondamente, nelle motivazioni di fondo, dalla speculazione di matrice greca, e il suo impianto teorico resta giudaico e cristiano. Paolo condanna la «sapienza» dei greci, non in quanto sforzo intellettuale di ricerca della verità, ma per la sua pretesa di essere capace di risolvere tutti i problemi riguardanti il destino dell’uomo e il fine del mondo. Alla sapienza degli uomini egli sostituisce la sapienza di Dio.


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tv

n attesa di prossime e necessarie nomine, nel pieno della bagarre sulla Vigilanza Rai, la televisione di Stato annuncia, per bocca di Giuliano Urbani, di essere economicamente sana. Certo, le preoccupazioni sull’anno che è appena iniziato ci sono, e queste riguardano i dati relativi alla pubblicità: nell’ultimo trimestre c’è stato un calo di 50 milioni di euro, cifra abbastanza impressionante. Pare comunque che a viale Mazzini si voglia guardare avanti. Nella fiction, «governata» a interim da Fabrizio Del Noce (successore di Agostino Saccà), inietteranno 300 milioni di euro. Non è poco, a patto che questi soldi non si traducano in serial che occhieggino tutti l’attualità con larghissime e abusate

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Elogio dei comici che riempiono il vuoto

concessioni al sentito dire e agli stereotipi, che spesso non sono altro che la fissazione concettuale di ciò che passa per politicamente corretto. Un esempio: oggi si parla tanto di omosessualità e di coppie di fatto; ebbene viene subito servito un prodotto come Tutti pazzi per amore (Rai 1) dove un padre confessa al figlio la propria identità gay. Tempismo giornalistico più che di prosa. Accantoniamo considerazioni etiche, sta di fatto che l’«aria che tira» si fa subito sceneggiato e i grandi network danno prova di sentirsi obbligati a sviscerare i discorsi «da autobus» o da rotocalchi popolari. La Rai ha tanta paura di Sky, diventato ormai il terzo operatore televisivo italiano, vivacissimo nella fiction (soprattutto in quella poliziesca e in quella dedicata ai ragazzi, adolescenti e non). E con ragione, perché Sky, pure nel settore

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games

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dell’informazione, sta acquisendo fama di pacatezza e serietà, allontanandosi da quegli ammorbanti bilanciamenti politici che trasformano qualsiasi telegiornale in noia burocratica. Nel frattempo, in attesa cioè di novità «narrative» (ma saranno così sconvolgenti? Temo di no), sia la Rai che Mediaset riempiono il vuoto con i comici. Da un lato è buona cosa, un omaggio alla tradizione della satira che ha salde radici in Italia. Dall’altro spinge a varie considerazioni. Essendo la comicità, così come la vediamo oggi, imperniata sull’imitazione dei personaggi famosi, il risultato è che dopo il telegiornale ospitiamo in casa nostra le medesime persone, sia pure deformate dalla smorfia comica, dall’arguzia e dalla versatilità dell’attore di turno. In pratica - e questo se ci fate caso succede veramente - li vediamo due o tre volte di seguito nell’arco della medesima giornata. E sempre gli stessi. Una pratica un po’vecchia, che risale agli anni Sessanta. È bravo Crozza a imitare Gigi Marzullo o il ministro Brunetta sull’enorme sedia rossa, ma l’impianto spettacolare non si sposta di una virgola rispetto a quello disegnato dai grandi maestri della satira da piccolo schermo.Vivace ma anche petulante Serena Dandini, sempre clone di se stessa con quell’aria fintamente staccata anche quando critica «la sinistra che non c’è» (con l’aiuto di Vergassola, dalle battute al veleno). Due personaggi stanno in alto. Uno è Antonio Albanese: lui sì che inventa, con tecnica teatrale, figure caratteriali di forte impatto. Ma si vede troppo poco. L’altra è Luciana Littizzetto (frizzante il suo ultimo libro, La Jolanda furiosa, Mondadori) che pare improvvisi ogni volta, in realtà si prepara meticolosamente e punta il dito sull’Italia dei vizi, delle scempiaggini, esitando per finta sul proprio fiato scandaloso. E attenta sempre a non farsi infettare dai commenti basic, o basilarmente banali, dell’italiano col cappuccino e cornetto. Nulla a che vedere con la grevità lombarda (vedi Bertolino) succeduta alla leggerezza inventiva di Cochi e Renato. Una sorpresa molto gradevole è Maurizio Battista, bonariamente romano e capace di dialogare col pubblico usando mimica e parole. Le sue gustose performances appaiono sul canale 117 di Sky (Comedy Central). Sarà senza dubbio ingaggiato dai grandi network. L’umorismo è soprattutto comunicatività, simpatia senza filtri. (p.m.f.)

dvd

UNA NUOVA BABELE DIGITALE

GIOCARE AL PAPÀ

FERRAGOSTO CON LE NONNE

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volte si ha l’impressione che le potenzialità del Web 2.0, capace di trasmettere file audio e video e di far comunicare in qualunque modalità in tempo reale, non siano ancora state sfruttate appieno.Viene da pensarci quando ci si imbatte in siti internet come www.babbel.com, progetto multimediale che permette di imparare una lingua straniera senza muoversi di casa e soprattutto senza sborsare un

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era una volta (e pare stia anche tornando), il Tamagotchi. Dieci anni abbondanti dopo la comparsa del pulcino virtuale sui mercati di tutto il mondo, arriva per Nintendo Ds un gioco più impegnativo, nel quale bisogna badare non a un pennuto ma a un neonato. Hello baby! è una sorta di simulatore della difficile professione di padre e madre, da sperimentare

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Un altro social network a disposizione di chi vuole imparare lingue straniere restando a casa

Dopo il Tamagotchi è l’ora di “Hello Baby!”, un simulatore della difficile professione di genitori

Il piccolo miracolo neorealista di Di Gregorio, premiato a Venezia come miglior opera prima

centesimo (come già myhappyplanet.com). Grazie agli strumenti da social network, che permettono di mettere in contatto tra loro persone che parlano lingue diverse, gli utenti possono conversare e diventare uno il docente dell’altro. Per completare la preparazione è possibile partecipare a test interattivi, quiz e prove di listening. Il corso è diviso in argomenti tematici dedicati a vari momenti della vita quotidiana, come nei tradizionali libri di testo. Non si tratterà di un vero e proprio corso professionale, ma con qualche ora di navigazione a settimana è possibile impratichirsi parecchio e imparare in discretamente una delle lingue disponibili; inglese, tedesco, italiano, francese e spagnolo.

attraverso una serie di piccole attività. Alla prima schermata, al giocatore viene richiesto di scegliere i tratti somatici dei genitori, dalla combinazione dei quali deriverà l’aspetto del bambino. Il pargolo deve essere curato, nutrito, lavato e vestito, ed è anche necessario lavorare per potergli comprare ciò di cui ha bisogno. Il giocatore dovrà quindi far quadrare le ore trascorse in ufficio con il tempo necessario per soddisfare le necessità del piccolo. Forse per evitare che un gioco così realistico diventi fonte di stress, è possibile accudire il bebè per soli 150 giorni virtuali, al termine dei quali si dovrà passare a far crescere un altro bambino.

ragosto un piccolo miracolo neorealista, che si regge in piedi grazie ad attrici non professioniste ma perfette nei loro ruoli. La trama è esile, poco più che un pretesto per riunire le donne intorno a un tavolo il 15 agosto, in una Roma svuotata di ogni movimento e rallentata dalla calura. La pellicola è ovviamente un buono spunto per riflettere sulla condizione degli anziani, spediti qua e là per potersi permettere qualche giorno di vacanza, ma anche senza notazioni sociologiche il film sta perfettamente in piedi da solo. L’edizione in dvd poco aggiunge rispetto all’edizione vista in sala, ma non è questo un film per il quale è la presenza degli extra a giustificare l’acquisto.

iventare un piccolo caso cinematografico (premio come migliore opera prima all’ultima Mostra cinematografica di Venezia) con un film interpretato da un uomo di mezza età e quattro signore ultraottantenni è uno sforzo che merita di essere raccontato. Dopo essersi fatto le ossa come sceneggiatore e aiuto regista Gianni Di Gregorio ha realizzato con Il pranzo di Fer-


cinema Via col vento MobyDICK

er prima cosa Australia, il nuovo, lunghissimo melodrammone epico-kitsch di Baz Luhrmann, divide pubblico e critici esattamente come ha fatto Moulin Rouge (2001), un musical sui generis con Nicole Kidman ed Ewan McGregor, una vie de bohéme con canzoni pop anacronistiche nella Parigi dell’Ottocento. Il predominio della scenografia, dei costumi e del segno visivo in generale nei film del regista down under, lo rendono particolarmente gradito ad artisti, fotografi, architetti, decoratori e a chi si occupa di moda e design. Ci sono, però, numerose e qualificate fan di altro genere che impazziscono per il suo stile iperreale, sopra le righe, che mette le virgolette intorno a ogni momento topico, a ogni Grande Sentimento, costruiti strizzando l’occhio al pubblico e compiacendosi di emozioni propinate e commozioni condivise. Chi lo ama è rapito dal gioco di Luhrmann e ci sguazza dentro, forse perché permette di indulgere in stravaganti emozionalità e beffarsene contemporaneamente. Chi invece resta fuori, sgamando la partita senza esserne soggiogata, sbircia molto l’orologio e invidia quelli che a fine film hanno le gotine rosse e gli occhi scintillanti di piacere. (La sua produzione della Bohéme di Giacomo Puccini, però, con giovanissimi interpreti e regia e scenografie magnifiche, era una goduria senza riserve per tutti, riscontrando un meritato successo prima in patria e poi a Broadway). Con Australia, Luhrmann si è fatto il suo Via col vento: ci sono scene e inquadrature che ricordano o sono quasi fotocopie di quelle del film di Victor Fleming (del 1939). Come la scena in cui per la prima e ultima volta, Ashley (Leslie Howard) abbranca Rossella (Vivien Leigh) appoggiandosi due volte con la mano al palo del porticato per non cadere, un piccolo «errore» che l’australiano ripete apposta; oppure l’omaggio alla scena della città di Atlanta in fiamme, rievocato in Australia con la prateria incendiata che fa scappare all’impazzata la mandria di bestiame durante la transumanza. Una scena originale ed esilarante è quella in cui una delicata rosa inglese un po’ fanée, Lady Ashley (la Kidman, con un cognome che rende omaggio al film più vecchio), durante il lungo e faticoso viaggio verso il ranch ereditato dal marito, s’incanta alla prima vista di un branco di canguri saltellante accanto alla vettura. Poi all’improvviso i suoi demotici accompagnatori tirano fuori i fucili, fanno strage delle bestie e legano le carcasse al parafango del camioncino. Gridolini e sorrisi deliziati cessano all’istante e il viso della nobildonna si trasforma in una maschera congelata dall’orrore. Fosse stato tutto così imprevedibile e strafottente il film, non avremmo avuto nulla da ridire. Il tema del razzismo percorre tutta la storia (come in Via col vento, ma con più correttezza politica e senno di poi) nel racconto del bambino meticcio Nallah, nipote di sciamano e figlio di madre aborigena e di padre inglese. Attraverso la sua fuga e incarcerazione, sappiamo della spaventosa politica, durata fino al 1973, di strappare con la forza dalle famiglie i bambini mezzo sangue, sequestrarli in istituti per «toglierli la negritudine» e addestrarli a fare i servi

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settant’anni dopo di Anselma Dell’Olio

dei bianchi. Il regista, però, sembra più appassionato alla storia d’amore tra opposti: la raffinata aristocratica e il ruvido mandriano Drover (Hugh Jackman, australiano come la Kidman). Il loro corteggiamento ispido ed esangue (che qualcuno, con sprezzo del pericolo, ha paragonato a quello tra Humphrey Bogart e Katherine Hepburn in La Regina d’Africa) è la versione sbiadita ed edulcorata anche di quello tra Lady Chatterley e il suo focoso boscaiolo. La macchina da presa, quando i due finalmente fanno l’amore, accompagna e accarezza lo spogliarello del muscoloso e irsuto Jackman, con cura vastamente superiore rispetto a quello più discreto della filiforme Kidman, più Elastigirl o Olivia (di Braccio di Ferro) che Oggetto del Desiderio. Le chance di amare molto il film sono 50-50.

Se Australia, con le sue ambizioni di essere (tra molto altro) anche un western, può far rimpiangere John Ford e William Wellman, ci si può rifare con Appaloosa, tratto dal romanzo di Robert B. Parker. Il protagonista e sceneggiatore è Ed Harris, alla sua seconda regia dopo Pollock (2000). È la storia di due uomini di legge,Virgil Cole (Harris) ed Everett Hitch (Viggo Morten-

“Australia” di Baz Luhrmann si può amare o detestare: è un film che ha molte ambizioni poco riuscite. In “Appaloosa” si conferma l’efficacia del binomio Ed Harris-Viggo Mortensen. Mentre “Vuoti a perdere” è sfizioso e rassicurante sen) suo compagno e vice, mandati a ristabilire l’ordine in una cittadina del New Mexico, Appaloosa appunto. Inizia con l’inconfondibile rumore di zoccoli di cavalli in corsa, segno che il film non ambisce a trascendere il genere, che Harris rielabora nel suo stile classico e contemplativo. La storia vanta note insolite, come le discrete correzioni che Hitch, laureato a West Point, fa degli inciampi linguistici di Cole, uomo fatto da sé, e lo spostamento del baricentro della storia, dallo scontro tra un ricco malfattore e gli uomini mandati a contenerlo, a un buffo triangolo amoroso. La forza del film, dal passo composto e formale, sta nell’interpretazione dei protagonisti maschili. Irons per la per-

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fezione con cui abita il ruolo, Harris per la sottile malizia che allinea nella sua granitica compostezza, e Mortensen per la presenza silenziosa, e i lunghi, sfumati sguardi cerulei che registrano spostamenti infinitesimali. Harris e Mortensen erano insieme in History of Violence di David Cronenberg, e il loro è un sodalizio naturale e felice tra simili. Dispiace vedere sprecato un ruolo femminile anomalo, importante e non solo «di spalla» e convenzionale: o sgualdrina da saloon, o brava pioniera virtuosa e faticona. Allison French è un’organista appena arrivata, con un buon guardaroba e l’intenzione di sistemarsi. Cole, un uomo duro e fumino che al massimo ha avuto a che fare con «qualche squaw», s’innamora all’istante della borghese, civettuola e furba Allison. Il problema è che la vedova è Renée Zwellweger, alla quale vanno proibiti certi ruoli. La sua caricaturale Ruby Thewes in Ritorno a Cold Mountain le ha purtroppo procurato un Oscar come miglior attrice non protagonista, e non ce la togliamo più di torno. Era una scoperta in Jerry MacGuire e accettabile come Bridget Jones, ma ora recita con un repertorio limitato e stucchevole di smorfie, che consiste in guanciotte tremolanti, labbrone paffute e occhi strizzati. Imbarazzante e insopportabile, stona e svuota di significato il triangolo amoroso al centro del film. Si ha solo voglia che i due, invece di litigarsela, la scarichino. La vera romance è l’amicizia virile tra Cole e Hitch.

Vuoti a rendere riunisce ancora una volta un’insolita accoppiata: il regista Jan Sverak e suo padre, lo scrittore-attore Zdenek Sverak, orgogli della Repubblica Ceca. Il loro film Kolya (1996), storia di uno scapolo di mezz’età che deve improvvisarsi papà di un bambino russo, era a Sundance, e ha vinto una nomination all’Oscar e un Golden Globe come miglior film straniero. Terza puntata di una trilogia sulle età dell’uomo, Vuoti parla di un professore vicino alla pensione che si dimette dall’insegnamento, stufo di essere insolentito per l’ennesima volta da studenti impuniti. Irrequieto, cerca un lavoretto per riempire le giornate, ed è assunto come addetto al ritiro di vuoti in un supermercato (ma incombe la minaccia del raccoglitore automatico). Il film è un episodico viaggio nelle giornate di un pensionato pieno di vita e di testosterone, con la moglie professoressa di lingue con la quale ha il classico rapporto litigarello e punzecchioso delle vecchie coppie affiatate. Un grande successo in patria, il film funziona per la prorompente simpatia dell’irriverente protagonista, e le piccole avventure quotidiane di garbata comicità: la figlia molto religiosa e piagnona abbandonata dal marito, la vecchia moglie che teme di non piacere più al marito e per caso finisce per ingelosirlo, l’ex collega sposata e mandrilla in cerca d’avventure, il leone in inverno che insegue fantasie sessuali da manuale pornografico d’altri tempi. Sfizioso e rassicurante.


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poesia

Hajdari, un sufi prestato alla realtà di Filippo La Porta

a letteratura «migrante», scritta in italiano da stranieri che abitano e lavorano nel nostro paese, è una realtà sempre più corposa, testimoniata ormai da innumerevoli romanzi, racconti, antologie poetiche. Soffermiamoci sulla poesia della migrazione. Chi provenendo da un altro paese si esprime poeticamente con la nostra lingua (ed è una scelta perlopiù libera, dato che non abbiamo un vero passato coloniale) accetta di immergersi in un idioma diverso dalla linguamadre, dunque con inevitabili incertezze, errori di grammatica, etc. D’altra parte il linguaggio stesso della poesia non si fa mai veramente «possedere» da chi lo adopera. Si pensi solo ai lapsus (volontari o involontari) e alle sgrammaticature di Amelia Rosselli, nata a Parigi e formatasi in America, sempre «straniera» ovunque.

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Probabilmente Gezim Hajdari è la voce più notevole della poesia migrante del nostro paese. Nato nel 1957 a Lushnje, in una zona «mistica» nel Nord dell’Albania (dove si trovano le Montagne Maledette e dove ha regnato per molti secoli un codice giuridico orale) Hajdari, irriducibile avversario sia della feroce dittatura comunista di Enver Hoxa che del più morbido regime attuale, ha conosciuto la prigione, la censura, l’emarginazione, l’esilio: «ieri per la dittatura eravamo pericolosi,/ oggi per la libertà siamo inutili». Dal 1992 è fuggito nel nostro paese, dove vive da esule a Frosinone, campando di mille lavori prima di vincere alcuni premi importanti (il Montale). Ora svolge un’attività letteraria all’insegna del bilinguismo: traduzioni, letture, conferenze. Recentemente è stata fatta un’ampia scelta dalle sue molte antologie per comporre un volume unico, pubblicato dalle edizioni leccesi Controluce: Gezim Hajdari, Poesie scelte 1990-2007. Ho scoperto questo poeta qualche anno fa leggendolo in un’antologia. In particolare mi colpirono i versi iniziali di un componimento: «Quanto siamo poveri/ Io in Italia vivo alla giornata/ tu in patria non riesci a bere un caffè nero/(…)». Qui la poesia non consiste in un linguaggio speciale o esoterico ma nella enfatizzazione e intensificazione della parola quotidiana, per restituirle la sua verità, per farla comunicare con più energia. Due mi appaiono i numi tutelari di Hajdari, che pure è un autore molto radicato nella sua terra, in una tradizione impastata di canto orale e litanie religiose: Umberto Saba, con la sua trasparenza misteriosa, e Cesar Vallejo, con la sua solitudine immedicabile. Il primo viene citato esplicitamente: «Quando sbarcai nel porto di Trieste era aprile, le nove di sera./ Come oggi pioveva sulla città e sul castello/(…)/ Eravamo in due e i tuoi occhi che mi seguivano/ chissà da quando nell’oblio,/ camminavo distratto sui passi di Saba/». Il poeta peruviano è presente nei temi centrali del canzoniere di Hajdari: il senso di una sofferenza non solo individuale ma cosmica (il dolore di Roma lo sente «nell’acqua delle fonta-

Voglio che con le pagine dei miei libri accendano il fuoco nella casa di campagna gli innamorati infreddoliti. Farsi polvere, cenere, oblio. Sentirsi un po’ se stessi, un po’ universo. Abitare il silenzio Gezim Hajdari da Peligòrga (2007)

ne»), la pena di vivere («Ora non riusciamo a parlare/ sotto questi cieli inchiodati»), l’esilio, la povertà, l’autocompassione, e poi la pioggia, quasi sempre presente (a ciò si aggiungano immagini di una vita rurale: i campi trebbiati, il tuono, i melograni, gli asini, i pettirossi…). A volte i versi di Hajdari non mi convincono interamente. Vogliono, quasi impudicamente, dirci tutto, informarci su ogni evento, stato d’animo o gesto dell’autore. La nuda referenzialità è spinta all’estremo («Addio mia patria/ ho chiuso con te/ ti ho dato i miei anni più belli/…»), a volte sembra abbandonarsi alla elementarità un po’ «facile» di un epos arcaico, scolpito nella pietra, e altre volte rischia l’enfasi, il Kitsch della Vertigine («Io annegato nella mia follia// tu nel tuo delirio»). Però non c’è poesia di questo autore in cui non sentiamo vibrare il suo «corpo martoriato» in ogni fibra, «che emana gioia e spavento». Hajdari mi appare come un sufi (così era il nonno) che però si inchina a parlare delle cose umili, quotidiane, cogliendo in esse una miniera inesauribile di segni. Nella sua cifra ritmico-tonale ispirata alle preghiere dei mistici canta sia il respiro dell’essere che il cuore innamorato («quando sei giunta in Ciocaria/ il cielo sembrava un altro cielo/ e l’aria un’altra aria/…»), che la lista della spesa e le bollette da pagare. La sua è una concezione «utilitaristica» della poesia: come leggiamo nei versi che ho scelto auspica che con i suoi libri gli innamorati possano riscaldarsi. E poi: l’io che ci parla in ogni pagina di questa antologia è sì un io individuale, con una propria biografia riconoscibile (fatta di giornalismo di denuncia, di coraggiosa politica di opposizione, di studio della letteratura, di fughe continue), ma a tratti si allontana da sé, si polverizza dentro le cose e «si fa universo». A cosa appartiene questo io?

Hajdari dice spesso di non appartenere a nessuna dimora: «sono uomo che vive di poche cose/ condannato alle frontiere/ dalle frontiere». È apolide e senza patria. Anche se non fa mai l’elogio estetizzante del nomadismo. E infatti cerca un radicamento nella parola poetica, nella relazione con gli altri. Ma soprattutto: sbaglieremmo a confinare (ancora una volta!) Hajdari nel ghetto dorato della poesia migrante, ridurlo cioè alla misura di un fenomeno interessante dal punto di vista antropologico o magari per la psicolinguistica. No, i suoi versi, che si sottraggono a etichette e contrapposizioni schematiche (tipo letteratura migrante vs letteratura nativa) parlano di noi, della nostra condizione attuale di inappartenenti. Come rispose Virgilio alle anime espianti appena sbarcate sull’isola del purgatorio, che volevano sapere dove si trovasse la montagna: «Voi credete/ forse che siamo esperti d’esto loco,/ ma noi siam peregrin come voi siete». Già, siamo tutti «pellegrini» con la nostalgia di una patria perduta, della quale per tutta la vita cerchiamo in modo esitante, maldestro, qualche labile traccia.


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il club di calliope IL SOGNO Macchia il profumo azzurro delle vene, quest'onda sporca, che si fa paura del tempo che rovina. Sulle schiene ricurve, lancinante trafittura di spine nella carne dello sguardo, incombono le ombre del futuro, che a questa terra fragile, sfinita, appaiono più cupe del bastardo mistero mai svelato della vita. Oh mondo, mondo, pianeta che avvampi tra scoppi, fuochi, fiamme, fumi neri, cenere, morte pianti, tuoni, lampi, dove la luce? Dove i suoi misteri? Dove la vita che di sé più vive? Alcuni umani, incinti di danaro,

UN POPOLO DI POETI Qualcosa di noi, ogni qualcosa come uno sguardo dalla ringhiera, tra i rami più alti dei boschi coprimi scaldami di verde. Francesco Gaspari

che gli esonda dagli occhi e dal pensiero, incuranti di frane e di derive, certi di essere immortali, come il vero dio dei credenti, detengono il potere sulle tue lande infestate da ragni, pidocchi, servi, viscidi paguri. Noi siamo qui, confusi, tra il ricordo di ciò che è stato, e un sogno, ala ferita: che questo sogno ridiventi vita... Angelo Ferrante

QUEI “CERCATORI D’ACQUA” NEL MARE DELLA RINASCITA in libreria

di Loretto Rafanelli er Santos Lòpez «la poesia è respiro», quindi, essendo il respiro di tutti, crediamo si possa dire che ognuno degli esseri viventi, compresi gli animali (dal simbolico giaguaro all’uccello), contribuisca in modo straordinario alla formazione creativa del mondo.Tesi originale, non sappiamo quanto veritiera. Certo è che le poesie di Lòpez (I cercatori d’acqua, a cura di Roberto Mussapi che ne firma anche la traduzione insieme a Tere-

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racconto fantastico. Centrale in Lòpez ci sembra sia il senso della trasmissione dei valori e degli affetti, per la salvaguardia di una tradizione e di una cultura antiche, quel cammino infinito che porta al rinnovamento incessante della vita, nella ricchezza e nello splendore di una continuità. E troviamo nelle vie del mondo i «cercatori d’acqua», coloro che si fanno abitanti dei fiumi («che finiscono nel mare che è il rinascere»), vestiti di speranza, fino al

Si ispira a Walcott Santos Lòpez, voce poetica creaturale e magica, intenta alla trasmissione dei valori e degli affetti, per la salvaguardia di una cultura antica sa Maresca, Jaca Book, 106 pagine, 12,00 euro), fanno intendere non solo un modo di concepire la letteratura, fantasioso e «debordante», ma anche l’esistenza di un popolo, quello latino americano, pieno di problemi, ma pure animato da uno slancio vitale e gioioso, specie nelle popolazioni caraibiche. Lòpez, venezuelano, proprio alla cultura caraibica del grande Walcott si rifà, come giustamente dice Mussapi nella quarta di copertina. La poesia dell’autore si presenta come creaturale e magica, visionaria e sciamanica, una scrittura tuttavia controllata e non presa dal vortice del

«ventre della terra»; coloro che sono «assetati del cuore», che «si spiegano l’universo, le leggi, il tempo». I «cercatori» ci inducono a «conservare il sospiro della prima fiamma» e respirare per «apprendere una parola scura, bianca, dolce, nera, persa»; a «respirare il cielo in ogni direzione». C’è in questa poesia una marcata «fisicità», certo estranea alla nostra tradizione culturale, che fa dire al poeta: «la scrittura è il corpo», «dico e scrivo con terra». Una esaltazione della vita che fa sussurrare a Mida, l’alchimista, prossimo alla fine: «Il veleno autunnale conserva il suo latte nel cuore».

Il suo vizio ha generato il mio. Il suo verso ha incrinato la mia voce. Le ossessioni, i rimorsi hanno smangiato ogni immagine e partorito un falso. Nel silenzio l’avvoltoio porta via la carne più che può. Aspetta la fine della preda. Da solo. Due occhi di mare sfidano il cerchio di morte. Accarezzano l’impasto di terra e sangue del corpo senza togliere la mano e trovano la carne intatta.

L’Avvoltoio Laura Vallieri

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

ntelligente e coraggioso «ripescaggio», da parte di Flavio Arensi, giovane critico intraprendente e predatore di curiosità, d’un artista non stranamente trascurato: perché in effetti Jean Robert (nome troppo banale, da dizionario) che si fece chiamare Ipoustéguy, rimane un «enigma», come intitolò un decisivo per lui dossier speciale il Nouvel Observateur, nell’81 (allora era conteso da Biennali e istituzioni americane, prima della sua scomparsa nel 2006. Istituzioni che rifiutarono scandalizzate le commesse, come capitò a Caravaggio. Ora è come scomparso da sempre). Ben venga questa ripresa, sia pure rapsodica, nella circostanza d’uno strano matrimonio, non-mistico, che si officia nel museo di Legnano, con un’altra negletta, ora tornata fin troppo e tardivamente agli onori della cronaca, quale Carol Rama, di cui Arensi offre un self portrait per fantasmi e bizzarrie e feticismi grafici. Perché anche Ipoustéguy, che assunse questo pseudonimo per omaggiare il ribelle nonno foditore (che si rifiutò di fornire «un bel mucchio di granate per i militari» dell’odiata guerra ’15-’18) ebbe un suo momento «torinese», quando il preveggente critico Luigi Carluccio e il gallerista Tazzoli gli dedicarono alla Galatea un mostra assai precoce, con un bellissimo testo critico, che riemerge qui, nel catalogo Allemandi. «Ecco un artista che ci prende al primo assalto, ma che è difficile da prendere, perché noi possiamo sì intuire subito la grandezza delle intenzioni, la forza con cui egli enuclea una presenza formale dell’assoluto, ma lui ci porge scarsi riferimenti stilistici entro cui racchiudere, come in una sequenza logica, la continuità del suo fare». Come sempre, Carluccio aveva intuito tutto: questo suo procedere rotto, ansioso, interrogativo, enigmatico e sfatto, figurativo eppur franto, matericamente ansimante e rabbioso, cieco, perennemente mutevole e interrogativo, con incesti astratti, esemplare, per il non voler porgere il fianco alle possibilità rassicuranti d’un’etichetta critica. Semmai scattano le manette, in lui: il secco rumore d’acciaio della trappola. Ancora Carluccio: «Donna nel bagno è una trappola che scatta. Sentia-

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Le lacerazioni di

Ipoustéguy di Marco Vallora

arti

mo la cerniera che scatta. Le squame e le corazzature si sfogliano su gangli invisibili, sollevando brandelli di maschera, che sono brandelli di carne». Le sue donne di piacere e di dolore, i suoi nudi lucidi e impenetrati, hanno due, tre, molteplici volti, da offrire al nostro voyerismo renitente. Carluccio scriveva queste cose nei primi anni Sessanta, oggi Arensi parla d’una «inafferrabilità, di un’attitudine a sbaragliare l’osservatore, impegnandolo attivamente nel partecipare alla scultura anziché subirla passivamente, senza fissare una sola linea di condotta, zigzagando fra piani interpretativi talvolta opposti». E i nomi che si affacciano, ormai (De Micheli aveva parlato di Bacon, Giacometti, Cremonini) sono molti di più, da Perez a Bodini, da Vangi a Chillida: la mistura non sorprenda, tanto Ipoustèguy è ondivago e contradditoriamente, visceralmente, platealmente aperto, dopo che ha rotto la rotondità liscia e astratta dell’uovo di Brancusi e ha fatto scultura con le trippe stesse d’un’arte ormai in disuso. Figlio della guerra, nato nel 1920 nei pressi di Verdun, in luoghi «crivellati dalle granate: si camminava sulla morte», Ipoustéguy era consapevole di questa sua lacerazione stilistica perenne: «mi sono definitivamente assestato in quella che è diventata la mia ossessione: dire che l’ombra è il primo dei nostri ambienti. Che sia ala di morte o cupola di frescura... della luce si accetta del resto che sia tanto aurora quanto fornace». È a Pietrasanta a sbozzare, quando lo avvisano per telefono che la figlia Céline di dieci anni è morta. Due anni dopo riuscirà a metabolizzare questo sconquasso, in un’opera-urlo, che si dibatte, che scoppia, che viviseziona il corpo come fosse uno scuoiato di Vesalio. Solo il telefono è vero, di frigida plastica grigia, insensibile: il resto è un esplodere grottesco di anatomie e materie. Il titolo? Scena comica di vita moderna. Passerà gli ultimi anni di vita a far «passare» un uomo scolpito attraverso una parete di bronzo: trasparenza impossibile. Ferita pugnace della materia.

Ipoustéguy. Eros+Thanatos; Carol Rama. Self Portrait, Legnano, Castello di San Giorgio, sino al 1 febbraio

diario culinario

Da “Gusto” a “Primo”: giovani cuochi crescono di Francesco Capozza ue cose assolutamente opposte ci condizionano ugualmente: l’abitudine e la novità». Questa celebre frase di Jean de La Bruyère, critico e saggista francese vissuto a metà del XVII° secolo, si attaglia in modo perfetto al percorso di Marco Gallotta, cuoco e anima del ristorante Primo nel cuore del Pigneto, quartiere romano che negli ultimi anni sta diventando sempre di più il nuovo polo d’attrazione culturale, artistico e gastronomico della capitale. La novità a cui ci riferiamo è quella del luogo, l’abitudine è quella che, invece, deve aver dato uno scossone a Marco e avergli fatto capire che il suo talento là dove cucinava prima di

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approdare in questo piacevolissimo locale, non poteva emergere. Primo nasce, infatti, poco più di due anni fa, nel 2006. Marco Gallotta in precedenza era il responsabile delle cucine di un altro noto ristorante romano, Gusto in piazza Augusto Imperatore, precursore senza dubbio di un certo modo di avvicinarsi al cibo rispetto alle sonnolente abitudini romane (fu il primo, per esempio, a proporre il Brunch domenicale e il primo anche a promuovere l’idea della polifunzionalità di un locale), ma negli ultimi anni diventato a sua volta stanco e superato. Così, il giovane cuoco che in quel ristorante aveva così poco emozionato chi scrive, decise che era il momento di dare una svolta alla sua vita. Decise, cioè, che era ora di aprire un locale in società,

che non puntasse più sui numeri a discapito, talvolta, della qualità, dove poter esprimere al meglio il suo estro: nacque così Primo al Pigneto. Oggi Gallotta è notevolmente cresciuto e da Primo si sta molto bene, il locale è semplice e al contempo esprime una sua personalità che lo ha reso subito famoso, tant’è che ultimamente è quasi impossibile trovare posto senza avere prima riservato un tavolo. Qui si può venire per mangiare al ristorante come per prendere un piacevolissimo aperitivo (o un bicchiere di vino dopo cena), magari facendosi conquistare dalle numerose tapas che cambiano giornalmente offerte dall’ammiccante lavagnetta. Noi, golosi di natura, abbiamo voluto provare sia queste (stuzzicanti e piacevolmente «economiche») che il

menù del ristorante. Per iniziare, un antipasto gustoso ed equilibrato è costituito dal carpaccio di baccalà con insalata di pomodori verdi e pesche così come, tra i primi, le pappardelle con pancetta d’agnello e cicoria di campo. A seguire potrebbe essere ardua la scelta tra il galletto arrosto con peperoni e bignè di patate e il rombo in guazzetto di funghi galletti. Inutile far finta di essere sazi, al dolce non si può certo rinunciare: abbiamo optato per una mousse gelata di fichi d’india con fichi caramellati e salsa al pistacchio. Il conto sarà un’ulteriore piacevole sorpresa rispetto alle abitudini capitoline: sui 40 euro per un pasto completo.

Primo, Via del Pigneto 46,Tel. 067013827, chiuso domenica sera e lunedì


MobyDICK

17 gennaio 2009 • pagina 15

architettura

La stazione Termini da Servio Tullio ai giorni nostri di Marzia Marandola a stazione Termini di Roma è un luogo di passaggio, dove lo spazio e l’architettura sono sfiorate con sguardo distratto dai viaggiatori: eppure, fin dai binari, resti monumentali di mura romane attestano la presenza incombente della storia. La stessa denominazione di Termini sembra derivi dalle adiacenti terme di Diocleziano o, in alternativa, dalla cisterna che le alimentava, detta botte di Termini. L’area della stazione è un antico luogo di domus del patriziato romano: una tradizione perpetuata dalle ville rinascimentali, tra cui spiccava villa Peretti Montalto, demolite alla metà del XIX secolo per fare posto alla prima stazione ferroviaria di Roma

L

capitale d’Italia, inaugurata nel 1874. I lavori di costruzione comportano anche demolizioni di numerose preesistenze archeologiche, che sono fatte saltare con esplosivo; solo nel 1883 diviene operativo il vincolo di tutela per il tratto di mura serviane, ancora oggi visibile, che venne protetto da una recinzione e sorvegliato da un custode. Questa stazione, progettata da Salvatore Bianchi, divenne presto insufficiente e fu ritenuta obsoleta sotto il profilo rappresentativo dal regime fascista, che nel 1928 ne decretò la demolizione. Un nuovo, monumentale fabbricato ferroviario progettato dall’ingegnere Angiolo Mazzoni dell’ufficio tecnico delle ferrovie, viene inizia-

to. Si costruiscono in travertino le due ali laterali, lunghe un chilometro, destinate a uffici e servizi, ma resterà irrealizzato il fabbricato viaggiatori, contrassegnato da un imponente colonnato di marmo apuano. Nel dopoguerra si riprendono i lavori: l’affermazione della democrazia repubblicana esige un taglio netto con i progetti e le ideologie del Fascismo. Le Ferrovie, abbandonato il magniloquente progetto mazzoniano, bandiscono nel 1947 un concorso per la sistemazione della piazza e per il fabbricato viaggiatori, con il vincolo di conservare le mura ciclopiche di Servio Tullio e le due ali mazzoniane. Vincono ex-equo due gruppi di architetti romani: Eugenio

Montuori e Leo Calini, con il motto «Servio Tullio prende il treno» e il gruppo Castellazzi, Fatigati, Pintonello e Vitellozzi, che devono collaborare al progetto definitivo. La stazione viene inaugurata per l’Anno Santo del 1950. All’estremità delle due ali, si sviluppa un corpo orizzontale destinato a uffici alto 27 metri che corona un’avveniristica pensilina curvilinea, subito denominata il «dinosauro», per l’andamento ondulato che asseconda il profilo delle mura serviane che, ombreggiate da esili ciuffi di palme, si delineano sul fondale della testata settentrionale. La recente trasformazione di Termini in centro commerciale, ha indotto l’allestimento di un padiglione di abbigliamento sportivo a ridosso della testata nord che, dall’interno della galleria, nasconde completamente le antiche mura. L’attenta ricostruzione delle vicende architettoniche della stazione costituisce un importante capitolo del volume, dedicato soprattutto alle emergenze archeologiche dell’area di Termini e alle mura serviane, intitolato Archeologia a Roma Termini, patrocinato da Grandi Stazioni e curato da Mariarosaria Barbera e Marina Magnani Cianetti, della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, responsabili dei restauri.

Archeologia a Roma Termini, a cura di Mariarosaria Barbera e Marina Magnani Cianetti, Electa, 144 pagine, 30,00 euro

archeologia

Quel mosaico salvato in duemilaseicento giorni di Rossella Fabiani l volto del Cristo rischiava di staccarsi e ca- na. Il luogo è considerato sacro per le tre grandi dere. Ma l’intervento dei restauratori italiani religioni monoteiste. e un importante finanziamento del Qatar, ha Il monastero - la più piccola diocesi al mondo scongiurato il pericolo e oggi il mosaico del- ma anche il più antico convento cristiano esila Trasfigurazione del Monastero di Santa Cate- stente, mai conquistato né danneggiato, oggi tra rina nel Sinai è ritornato alla sua antica bellez- i siti protetti dall’Unesco - è rimasto tale e quale za, la stessa voluta da Giustiniano quindici seco- dal VI secolo, protetto da una cinta fortificata ma li fa. Grazie al finanziamento di quasi un milio- rispettato, comunque, da ogni religione. Infatti ne di dollari, versati per metà dall’emiro del Qa- nonostante la conquista da parte degli arabi mutar, lo sceicco Hamad bin Khalifa Al Thani, e per sulmani del Sinai nel 641 dopo Cristo, i monaci la restante parte dal Centro di Conservazione continuarono a vivere nel convento, salvaguararcheologica di Roma (Cca), con un piccolo aiuto del Getty Conservation Istitut, una squadra di restauratori italiani, guidati da Roberto Nardi, direttore del Cca e da Chiara Zizola, direttore del progetto, ha completato il restauro del mosaico della Trasfigurazione del Cristo, che sarà visibile ad aprile in occasione della Pasqua ortodossa. Eretto nel VI secolo per volere dell’imperatore bizantino Giustiniano, il convento - la più piccola diocesi al mondo ma anche il più antico convento cristiano esistente e dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco - sorge alle pendici del Monte Horeb dove, secondo la Bibbia, Mosé ricevette le Tavole della legge - i dei dieIl Monastero di Santa Caterina nel Sinai dove è conservato il mosaico ci comandamenti - sulle quali sono della “Trasfigurazione di Cristo” voluto da Giustiniano fondate le dottrine ebraica e cristia-

I

dati da un editto di Maometto che assicurava protezione, provvedimento rispettato anche da Napoleone durante la Campagna d’Egitto. Oggi nel monastero vivono 25 monaci, in maggioranza greci, che seguono la Regola di San Basilio. Santa Caterina è un luogo fuori dal mondo, con una basilica, costruita dall’architetto Stefano di Aila, e una torre campanaria ottocentesca; ma soprattutto conserva la seconda biblioteca più antica del mondo, dopo quella del Vaticano, e la più importante collezione di icone greche. Anche il mosaico absidale fu voluto da Giustiniano: è di fattura elaborata, secondo l’iconografia tradizionale bizantina, e di una ricchezza senza paragoni. E, fatto quasi incomprensibile, è giunto perfettamente integro fino ai nostri giorni, anche se in uno stato di conservazione terribile. Tanto che cinquant’anni addietro fu il National Geographic a lanciare un grido d’allarme alla comunità scientifica: il mosaico si stava staccando e minacciava di crollare al suolo. C’è voluto mezzo secolo perché l’appello venisse raccolto e nel 2005 iniziassero i lavori di consolidamento e restauro, portati avanti da otto restauratori del Cca. E in duemila e 640 giorni di lavoro i conservatori e i restauratori hanno salvato il mosaico da morte certa.


pagina 16 • 17 gennaio 2009

fantascienza

MobyDICK

ai confini della realtà

L’invasione dei

robot

di Gianfranco de Turris robot sono fra noi e nemmeno ce ne accorgiamo. Se è per questo sono fra noi anche gli androidi, cioè i robot simil-umani, e nemmeno a ciò facciamo più caso. Il futuro, quello descritto dalla fantascienza tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta, è diventato praticamente realtà tanto inavvertitamente che ci siamo abituati a esso sicché, si potrebbe forse aggiungere, il famoso «shock del futuro» di cui parlava Alvin Toffler negli anni Settanta non c’è stato, o se c’è stato è stato bellamente assorbito. Oggi esistono al mondo almeno sei milioni e mezzo di robot in attività nei vari settori che si triplicheranno in diciotto milioni nel 2011: sono di tutti i tipi, dai microrobot in medicina a quelli di tipo umanoide costruiti dai giapponesi per essere utilizzati in casa a quelli inviati dagli americani su Marte e che sono ancora in attività. Ebbene, ha detto al Corriere della Sera il professor Gianmarco Verrugio dell’Istituto di Elettronica del Cnr di Genova, oggi «ci preoccupiamo che una lavatrice sia fabbricata con tutte le norme di sicurezza possibili e lasciamo che i robot nascano senza una regola». Non è possibile preoccuparci degli eventuali pericoli degli Ogm mentre «ignoriamo i robot la cui sofisticatezza può diventare un problema e creare seri guai dei quali adesso non ci rendiamo conto».

I

Dunque, il problema oggi si pone, forse in anticipo sul previsto a causa dell’esponenziale progresso di questo settore. Che se lo fessero posto gli scrittori di fantascienza è più che noto. E in fondo lo dice lo stesso professor Verrugio che ha creato nel 2004 il neologismo «roboetica» per identificare il tema: «Da ragazzo leggevo Asimov e poi nella vita mi sono ritrovato inge-

gnere robotico. E adesso che questo mondo è diventato sempre più difficile mi è sembrato naturale cercare di trasferire i famosi principi della fantascienza nella tecnologia vera». Il Good Doctor (come era stato soprannominato) Isaac Asimov ne sarebbe stato entusiasta: la sua fantascienza, quella in cui credeva e che scriveva, ha effettivamente anticipato scientificamente la realtà. Asimov è scomparso ormai da diciassette anni e col tempo, nonostante fosse considerato all’epoca l’incarnazione stessa della science fiction, la sua notorietà si è affievolita presso le nuove generazioni di lettori. Morì il 6 aprile 1992 per disfunzione cardiaca e renale: aveva solo 72 anni e scriveva ancora ininterrottamente. Era nato nel 1920 in Russia e quando aveva tre anni la sua famiglia emigrò negli Stati Uniti. Precocissimo iniziò a scrivere science fiction e John W. Campbell, l’uomo che come scrittore e

che se erano in nuce nelle idee espresse dal ventenne scrittore. Sta di fatto che apparvero nei suoi racconti dedicati ai robot (per l’esattezza nel terzo della serie, Liar!, del 1941), le cui trame praticamente girano tutte intorno all’idea che una di esse venga o possa essere in qualche modo violata o trasgredita. Racconti poi riuniti nei volumi I, Robot (1950) e The Rest of the Robots (1964), cui si aggiunsero due romanzi a sfondo «investigativo»: The Caves of Steel (1954) e The Naked Sun (1956). Da essi, dall’idea generale di essi, diciamo, è stato tratto anche un recente film, ma pare senza grande successo nonostante il solito enorme dispiego di effetti speciali computerizzati.

Ed eccole, dunque, le famose Tre Leggi della Robotica: 1) Un robot non può recare danno a un essere umano, né può permettere che a causa di un

Ci preoccupiamo dei pericoli degli Ogm e non valutiamo i rischi che i sei milioni e mezzo di automi meccanici oggi in attività tra noi possono procurare. Dalle Tre Leggi della Robotica di Asimov e Campbell alle “linee guida” proposte da Gianmarco Verrugio perché la situazione non ci sfugga di mano... direttore di riviste si può definire il «padre» della fantascienza moderna, capì subito che aveva la stoffa di un piccolo genio: nel corso di una conversazione fra i due il 23 dicembre 1940 germogliò l’idea delle ormai famosissime Tre Leggi della Robotica, termine che venne usato per la prima volta nei racconti di Asimov pubblicati sulla rivista che Campbell dirigeva, Astounding Science Fiction. Secondo Asimov le esplicitò Campbell, an-

suo mancato intervento, un essere umano riceva danno; 2) Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contrastino con la Prima Legge; 3) Un robot deve proteggere la propria esitenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima e/o la Seconda Legge. Un buon punto di partenza per il professor Verrugio, lettore giovanile di Asimov, il quale propone «linee guida»

internazionali che si ispirino a quelle già in vigore in altri settori come la bioetica, per evitare, come afferma, di dover poi «andare all’inseguimento di un mondo che sfuggiva di mano», come successe ai costruttori della bomba atomica. E ciò è tanto più importante oggi in cui si pensa di effettuare una fusione tra elementi meccanici ed elementi naturali nella costruzione dei «cervelli elettronici», cioè all’utilizzo di cellule cerebrali umane da inserire nei meccanismi che regolano il funzionamento delle decisioni nei robot. Si giungerebbe così alla creazione di un «organismo cibernetico», vale a dire un cyborg? Dalla scienza applicata si entrerebbe allora anche nel campo della speculazione filosofica ed etica: quanto sarebbero umani questi meccanismi? Penserebbero o no come un essere umano? Potrebbero dunque rivendicare diritti umani? Avrebbero alla fin fine come l’uomo oltre al pensiero anche un’anima? E di conseguenza: da un lato se possiedono un’anima sarebbero soggetti religiosi e da un altro, potrebbero quindi essere apparentati a noi, costituire un genere, e rivendicare «quote» a somiglianza delle «quote rosa»? Tutti problemi già affrontati in passato dalla fantascienza con scrittori sensibili al lato «umano» della questione come Simak e Bradbury, ma anche Philip Dick con il dramma degli androidi descritto in Blade Runner. Non sono problemi da poco e conviene attrezzarci a essi e non solo dal punto di vista tecnico-scientifico, ma anche con teorie filosofiche e teologiche, precisi paletti etici e regole giuridiche e legislative. Per evitare in futuro scontri politici sul diritto al voto di robot, androidi, umanoidi e cyborg!


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