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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

REQUIEM PER BEIRUT

Il film di Ari Folman

di Anselma Dell’Olio alzer con Bashir è il film-evento che esce venerdì 9 gennaio, aprendo in modo puntata, inclusa la maratona dell’intera settimana, che andava in onda sabato sera l’ausuperbo la stagione cinematografica 2009. Un insolito documentario anitunno scorso sul canale Cult di Sky Tv. Il regista Ari Folman, nato a Haifa nel 1962, Il 2009 mato,Valzer è stato paragonato a Persepolis, l’autobiografia animata è uno degli autori di BeTipul (con lo pseudonimo Asaf Zippor) ed è sceneggiasi inaugura in bianco e nero dell’iraniana Marjane Satrapi, e nientemeno che tore, compositore e regista premiato già prima di Valzer con Bashir, il suo ad Apocalypse Now di Francis Coppola. Originale, coinvolgente e deterzo lungometraggio. Ambientato vent’anni dopo la guerra israeliaegregiamente licato, il film israeliano non ha nulla da invidiare ai suoi apprezna in Libano del 1982, il film è un viaggio di recupero della mecon “Valzer con Bashir”, zati predecessori, in realtà diversissimi, ma che vengono moria, alla ricerca delle esperienze vissute (e poi rimosse) evocati nel tentativo di definire qualcosa che non si è come recluta nell’invasione israeliana, che culminò con viaggio di recupero mai visto prima. Il fermento creativo che vive il tragico massacro nei campi profughi palestinesi della memoria nell’invasione israeliana Israele da qualche tempo non accenna a fermarsi. di Sabra e Shatila per mano dei falangisti, alla periin Libano che culminò con i massacri Solo nelle ultime stagioni abbiamo visto La banda, l’acferia di Beirut. Bashir Gemayel, figlio del fondatore dell’influente partito di destra Kata’eb (noto anche come Falancattivante opera prima di Eran Kolirin, Meduse, degli scrittodei falangisti a Sabra e Shatila. ge) era il neo-eletto presidente del Libano quando fu assassinato ri-registi-sposi Shira Geffen e Etgar Keret, sia il primo sia il seconUn’opera che profuma con una bomba esplosa nella sede del partito il 14 settembre, 1982, indo premiato a Cannes, e Il giardino dei limoni di Eran Riklis, premiato di verità sieme con altre 25 persone, nove giorni prima di essere insediato. a Berlino e attualmente nelle sale italiane. Per non parlare di In Treatment, tratto dalla serie tv israeliana BeTipul, che ha creato dipendenza in molti spettacontinua a pagina 2 tori, facendo rimandare o annullare appuntamenti per non perdere nemmeno una

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Salvezza di Sergio Valzania Un’altra resurrezione per Marianne di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Eliot e la stella della rinascita di Roberto Mussapi

Sulle tracce dei tre Maghi di Franco Cardini Sherry Jones e la fatwa per Aisha di Bibi David

Ghirri, racconti per immagini di Marco Vallora


requiem per

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segue dalla prima L’attentato fu attribuito ai terroristi palestinesi, benché è convinzione generale che il regime siriano di Hafez al-Assad (le cui note interferenze in Libano erano state osteggiate da Gemayel) e i suoi sevizi segreti fossero all’origine del complotto. Complesse trattative internazionali per assicurare l’incolumità dei civili arabi all’interno dei campi saltarono con la morte violenta di Gemayel, adorato dai cristiani maroniti come e più di una rockstar (come osserva un soldato israeliano nel film) e considerato leale e non prono amico d’Israele. Le milizie cristiane entrarono a Sabra e Shatila il 16 settembre e vi rimasero fino al 18, sotto l’osservazione immobile dell’esercito israeliano alle loro spalle. Alla fine gli israeliani contarono tra i sette e gli ottocento morti accertati, tra cui molte donne, bambini e anziani. Le milizie sostengono che le vittime erano meno della metà, i palestinesi che erano molto di più. Una commissione d’inchiesta israeliana trovò Ariel Sharon, allora ministro della Difesa e artefice dell’invasione, personalmente responsabile per aver permesso ai falangisti di entrare nei campi, e per averli lasciati agire indisturbati.

La ricostruzione serve per rilevare che il film di Folman non avanza tesi né capi d’accusa sulla guerra in Libano, poiché ogni responsabilità è stata accertata. Bashir è il tentativo di un ex-soldato quarantenne di ricostruire i propri ricordi di quei giorni, di combattere la dolce e insopportabile misericordia dell’oblio sui giorni peggiori della sua vita. L’autore ancora non si faceva la barba quando è partito per il Libano. Era stato lasciato dalla sua fidanzata una settimana prima di essere mandato al fronte, e la sua mente era tutta occupata dal desiderio melodrammatico di morire per amore in battaglia, per punire in eterno la sua ex, obbligandola a gettarsi sulla sua bara e piangere tutte le sue lacrime in espiazione della colpa di averlo lasciato. Queste annotazioni di vita quotidiana e di sentimenti ancora adolescenziali arrivano dopo, a racconto avviato. È necessario innanzitutto parlare delle immagini in movimento, formidabili nella

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

loro semplicità apparente, ben disegnate e che compongono quello «sguardo» particolare, forte, riconoscibile, personale, che separa i film d’autore da quelli magari belli ma visivamente anonimi. La prima scena è una notte di pioggia, i fari delle macchine illuminano passanti che fuggono da un branco di feroci cani neri che corrono, corrono sbavando per le strade di Beirut, con terrificanti latrati e occhi di brace incandescenti. È un’immagine di spaventosa bellezza che s’incide nella memoria, e che ritorna giorni e giorni dopo la visione del film. Ma l’autore, per nostra fortuna, non è un sadico. Invece di abbandonarci allo smarrimento di visioni sconcertanti e incollocabili, la scena successiva trova l’autore al bar con Boaz, un suo ex-commilitone. È suo il sogno ricorrente, che gli sta raccontando perché lo aiuti a decifrarlo, specificando che i cani sono sempre 26. «Come fai a sapere che sono esattamente 26?», gli chiede Folman. «Perché li ho contati», risponde Boaz. Vent’anni prima, da giovane recluta, era incapace di sparare agli esseri umani, e allora lo mandavano in testa alla pattuglia nelle perlustrazioni per snidare i terroristi. Aveva l’ordine di ammazzare i cani randagi che con il loro abbaiare avvertivano i terroristi dell’arrivo dei soldati. «Ne ho seccati 26 e me li ricordo uno per uno», dice Boaz. «I segni particolari, le cicatrici, tutto. Saprei riconoscerli oggi». Poi chiede a Folman: «Tu non hai mai dei flashback del Libano, di Sabra e Shatila?». «Mai - ri-

VALZER CON BASHIR GENERE DRAMMATICO DURATA 90 MINUTI PRODUZIONE ISRAELE-GERMANIA-FRANCIA 2008 DISTRIBUZIONE LUCKY RED

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

REGIA ARI FOLMAN INTERPRETI RON BEN-YISHAI, RONNY DAYAG, ARI FOLMAN, DROR HARAZI, YEHEZKEL LAZAROV, MICHEY LEON, ORI SIVAN, ZAHAVA SOLOMON USCITA 9 GENNAIO 2009

beirut

sponde il regista - proprio nulla». Dopo l’incontro con Boaz, in Folman si sveglia il primo ricordo del suo tempo al fronte libanese. Sogna di essere all’alba insieme con altri soldati che escono dal mare, nudi con divise e armi tenuti in alto. Sul bagnasciuga si vestono. Fine.Va a trovare un amico psicologo, per chiedergli lumi sul significato del sogno, il quale gli spiega quanto è facile ingannare la memoria. E racconta di un esperimento fatto con i bimbi, a cui vengono mostrate foto truccate di loro stessi in un luna park dove in realtà non sono mai stati. In seguito i bambini si convincono di esserci stati, in quel parco di divertimento. «La memoria è dinamica», gli dice lo psicologo. Folman allora va a trovare un ex compagno d’armi che ora vive in Olanda. «Tutti pensavano che a quarant’anni tu saresti stato candidato al Nobel come fisico nucleare - dice - e invece ti sei arricchito vendendo falafel». Sulla guerra, l’amico racconta di un sogno ricorrente che ha avuto sul ponte di uno yacht, che i soldati, con sarcasmo ebraico avevano battezzato Love Boat, che portava il battaglione in Libano.

Il sogno è forte, ma lo sono ancora di più le descrizioni dell’immane caos in battaglia, quella fitta «nebbia della guerra», in cui ognuno percepisce solo il pezzettino che succede davanti ai suoi occhi. Folman racconta senza reticenze il sangue innocente versato senza riflettere, per la paura di accertare se chi appare all’orizzonte sia ostile o meno; l’alternanza di terrore, confusione e perfino spensieratezza dei soldati nei momenti di calma apparente. Il film ha il profumo della verità: deve essere così fare la guerra. Man mano che i ricordi riaffiorano, e ci s’avvicina al massacro, l’israeliano si riconosce come appartenente in piena regola alla stessa razza umana che ha elaborato l’Olocausto, senza cercare scappatoie. A quel punto si passa dall’animazione ai filmati documentari d’epoca di Sabra e Shatila, sui quali il film finisce, lasciandoci paralizzati e ammutoliti. Per un’opera da parte degli avversari d’Israele che racconti, senza giustificazioni e con la piena assunzione di responsabilità per le proprie azioni efferate, o per la propria passività colpevole di fronte all’orrore, dobbiamo ancora pazientare.

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parola chiave

l concetto religioso di salvezza è complesso e sofisticato. Si potrebbe sostenere che si tratti di uno dei prodotti più alti dell’ingegno umano, persino che l’averlo attinto costituisca uno dei caratteri propri dell’uomo, e di quello moderno in particolare. Concepire la salvezza come possibilità di realizzazione completa per ogni uomo rimanda alla dimostrazione dell’esistenza di Dio di Sant’Anselmo, la migliore fino a ora elaborata, in base alla quale Dio esiste perché se non ci fosse l’uomo non sarebbe stato capace di concepirlo. La concezione moderna della salvezza ha superato il paradigma platonico per il quale l’esperienza sensibile nella quale viviamo non sarebbe altro che la versione falsa e lacunosa di un luogo idealmente compiuto dal quale siamo esclusi. La chiamata alla perfezione si rivolge a questo mondo, limitato e manchevole, e la speranza della redenzione coinvolge la nostra concreta e dolente umanità.

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Salvezze relative, terrene, se ne possono immaginare molte, a tutti i livelli di coscienza, il mondo della natura basa su di esse il suo funzionamento. Le gazzelle e le zebre che corrono nella savana per sfuggire agli artigli delle leonesse sono in cerca della salvezza. Nel preciso momento della caccia essa costituisce per loro la possibilità di continuare a vivere, di aspettare l’alba di un nuovo giorno in un pascolo o presso un guado al quale abbeverarsi. A ben guardare si tratta di una salvezza negativa, di una permanenza nella situazione contingente, alla quale non si aggiunge nulla di nuovo. In essa vediamo quindi un atteggiamento di conservazione, di difesa di un esistente precario e comunque destinato a scomparire. Una salvezza illusoria, destinata a esaurirsi come la sabbia di una clessidra. Al suo fondo arriviamo a scorgere la disperazione. Quante volte può sfuggire la preda al predatore? La salvezza religiosa di cui va in cerca l’uomo contemporaneo è invece di natura metafisica e assoluta. Si situa in un altrove spirituale e si configura come un evento radicale, il cui realizzarsi cambia i contorni del mondo che i nostri sensi ci propongono. Nel suo significato più elevato, e compiuto, salvarsi significa trascendere i limiti imposti alla creazione nelle sue forme di tempo e di spazio, ma soprattutto trovarsi liberi da quelli che sono i caratteri dell’imperfezione umana. Proprio qui nasce il vero problema del concepire la salvezza, dato che particolarità e limiti dell’uomo sembrano concorrere alla formazione di ciascuna singola identità. L’io di tutti noi è fatto di pregi ma soprattutto di difetti: dobbiamo riconoscere che persino le nostre migliori qualità altro non sono che un accenno di quello che potrebbero essere delle virtù assolute, manifeste nella loro completezza. Quale io potrebbe sopravvivere alla cancellazione delle imperfezioni che lo rendono unico? I difetti sono innumerevoli, ma la perfezione è una sola. Quale identità si salverebbe da un processo al termine del quale perfezioni indistinte impediscono di riconoscere il carattere dei singoli nei cori angelici? Nel Sentimento tragico della vita Miguel de Unamuno

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SALVEZZA Si situa in un altrove spirituale ed è un evento radicale, il cui realizzarsi cambia i contorni del mondo così come lo conosciamo. Accedere a essa significa trascendere i limiti della creazione e liberarsi dalle nostre imperfezioni. Ed è un accesso aperto a tutti

L’incontro perfetto di Sergio Valzania

La fede dei cristiani nella vita eterna e nella resurrezione dei corpi nasce dall’aver riconosciuto come evento fondante la nascita del Cristo. Che è venuto al mondo per salvare l’umanità intera ma anche solo per incontrare la samaritana al pozzo e per cambiare la sua vita esprime in modo alto la lacerazione che sta dietro a questa aspirazione irrisolta all’immortalità. L’uomo spera e vuole essere immortale, ma è anche geloso della pienezza costituita dalla sua individualità, fino a desiderare di portare con sé il dolore fisico e morale nella nuova dimensione alla quale ambisce. Tutta la tradizione della riflessione attorno ai temi del sacro ruota intorno allo sforzo di elaborare un concetto di salvezza che risolva questo problema. Nella concezio-

ne orientale, in particolare in quella buddista, la soluzione è radicale e il sacrificio dell’individuo totale: il mondo visibile, dell’esperienza quotidiana, viene colto come maya, apparenza, dalla quale occorre liberarsi. Questa liberazione diviene dunque l’obbiettivo dell’uomo in cerca di salvezza. Occorre dunque distaccarsi dal mondo e sforzarsi di cancellare le emozioni che esso stimola, destinate in ogni caso a produrre dolore. Nella sua ricerca della salvezza l’uomo

deve quindi percorrere una via al termine della quale l’annullamento del dolore coincide con lo sciogliersi dell’identità individuale nel flusso dell’essere dal quale era uscita. Il termine dell’esperienza è dunque uguale per tutti e rappresenta la scomparsa di quell’indurimento dello spirito universale che è alla radice dell’individuo e costituisce la fonte di emozioni indesiderate, dalla cui urgenza il saggio riesce a rendersi libero.

La salvezza concepita dal cristianesimo è invece rispettosa, persino desiderosa della singolarità di ciascun uomo, chiamato a intraprendere un percorso unico durante il quale vivrà la sua storia irripetibile di rapporto con Dio, e al termine della quale si trova l’incontro perfetto con Lui. La profondità di questa convinzione si trova nell’elevazione a dogma della fiducia nella resurrezione dei corpi, inserito nel credo della Messa, nel quale sono condensati gli assunti fondamentali per i credenti. Il corpo, fragile e caduco per definizione, massimo luogo di individuazione, destinato in apparenza all’annullamento più completo, al ritorno nel mondo fisico, viene riconosciuto di valore pari a quello dello spirito.Tanto forte è l’amore di Dio per la natura dell’uomo che Egli lo cerca e lo vuole incontrare nella sua completezza. La fede dei cristiani in questa forma di salvezza particolare, e così difficile da immaginare, nasce dall’aver riconosciuto come evento fondante, che costituisce il creato e gli dà forma, la nascita del Cristo, che prima determina la creazione dell’universo e poi si cala nella storia. Attraverso la forza misteriosa dell’incarnazione la condizione umana subisce una trasformazione totale. Quella dell’uomo è la forma che Dio stesso ha scelto di assumere nel suo sforzo amoroso di incontro con il creato e questo evento dona a ciascun singolo uomo l’occasione di portare a perfezione, in una forma che è del tutto inconoscibile, i propri caratteri particolari. Questo determina e nello stesso tempo discende dalla certezza di fede nell’unicità dell’incontro offerto all’uomo, nel doppio livello della collegialità della Chiesa di Cristo e di intimità personale, delicata, tanto da immaginare che l’evento centrale e unico della vita di ciascun uomo stia proprio nel suo rapporto con Dio. Nella sua storia d’amore con Lui. Esiste un significato nascosto nella frase «Gesù è venuto al mondo per la salvezza di tutti gli uomini», essa infatti va intesa nei due sensi. Non solo che il Cristo abbraccia l’umanità intera, la riunisce e l’accoglie nella Sua Chiesa, ma si incarna anche per poter incontrare personalmente, senza mediazioni, ciascun uomo, anche il più umile e derelitto. È questo il senso della presenza completa del Cristo in ciascun frammento dell’ostia consacrata e in ogni goccia di vino mutato in sangue: ogni uomo ha diritto all’incontro completo con Dio, non presentandosi a lui nella forma di una turba indefinita ma con la propria singolare e dolorosa umanità. Il bimbo che nasce nella grotta viene al mondo per salvare l’umanità intera, ma viene anche solo per incontrare la samaritana al pozzo e per cambiare la sua vita.


musica Un’altra resurrezione per Marianne MobyDICK

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cd

di Stefano Bianchi avanti a quel microfono vintage, nella fotografia scattata da Jean-Baptiste Mondino, Marianne Faithfull ha tutta l’aria d’essere una diva del jazz. E il suo nuovo disco, Easy Come Easy Go (sottotitolato 10 Songs For Music Lovers) profuma di microsolchi d’altri tempi. Di crooning nostalgico. Marianne, che a diciott’anni colse gli iridescenti fiori della Swinging London incidendo As Tears Go By, scritta da Mick Jagger e Keith Richards per i suoi occhi color del cielo e il suo viso d’angelo, affronta «classici» americani di ieri e di oggi con lo charme da sdrucita esistenzialista e la voce violentata dalla nicotina. Ogni volta che l’ascolto, quel canto dannato eppure sublime, penso a Tom Waits. E a Lotte Lenya, la prediletta di Bertolt Brecht e Kurt Weill. D’altronde, come l’orco Waits, la Faithfull morde e maltratta tutto ciò che interpreta. E una dozzina d’anni fa, dal vivo, accompagnata dal pianoforte, intonò la perdizione di Alabama Song e Boulevard Of Broken Dreams, Mack The Knife e Surabaya Johnny. Dice d’aver fatto finalmente pace con la vita e con se stessa, Marianne. D’aver scovato, a Parigi, la serenità che più s’addice ai suoi sessant’anni. Eppure, ogni disco che incide si porta appresso quella nitida desolazione da chanteuse che ha toccato il fondo per poi tornare a galla. Implorando ogni volta al cuore di non sanguinare più. Tante volte è successo, in quel tenero e crudele romanzo che è la sua esistenza. Dunque, Easy Come Easy Go scandisce l’ennesima «resurrezione» di Madame Faithfull. E come i recenti Kissin’ Time e Before The Poison, vede ospiti di razza (Nick Cave, Rufus Wainwright, Antony, Keith Richards) che la venerano e la circuiscono. Coccolandone le smagliature, le tenerezze, la vulnerabilità, la testardaggine. Cave, uomo in noir, le fa da corista nella tempra d’acciaio di The Crane Wife 3, pezzo cult dei Decemberists; così come Wainwright in Children Of Stone, psycho-folk degli Espers.

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in libreria

La mirabile voce di Antony, invece, gareggia col suo canto slabbrato in Ooh Baby Baby, gemma di Smokey Robinson & The Miracles giocata su maiuscoli registri soul. Sfoggia un’energia da ventenne, l’indomita Marianne, e poi rallenta languida: passando dal ritmo schiumante di Hold On Hold On (firmato Neko Case, rockeuse newyorkese), al jazz chiaroscurale di Solitude che rese Duke Ellington e Billie Holiday leggendari. E ancora, afferra il country di Dolly Parton (Down From Dover) e lo fa derapare nel rhythm & blues; si dà all’espressionismo «brechtiano» con In Germany Before The War (Randy Newman) e spreme il succo del blues da quella Easy Come Easy Go che fece giganteggiare Bessie Smith. In fondo all’album, c’è Keith Richards ad attenderla. Insieme, come cuori alla deriva, intonano Sing Me Back Home di Merle Haggard, l’eroe della country music. E ciò che hanno vissuto nei Sixties (con spudoratezza, sull’orlo del precipizio) si traduce in tenera commozione. Marianne Faithfull, Easy Come Easy Go, Naïve/Spin-Go!, 17,50 euro

mondo

riviste

DEPECHE MODE A NUDO

“TEN” SI FA IN QUATTRO

ALICE GLASS? LA PIÙ COOL

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eggendo Stripped, biografia dei Depeche Mode curata da Jonathan Miller (Castelvecchi, 606 pagine, 26,00 euro), ci si chiede come sia possibile che un gruppo simile sia ancora attivo a quasi trent’anni dall’esordio. L’abbandono del primo leader Vince Clarke nei primissimi anni Ottanta, i problemi di droga del cantante Dave Gahan (che nel 1997 rischiò la vita per overdose)

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a farsi venire il mal di testa. Per il ventennale della loro attività i Pearl Jam hanno deciso di ripubblicare in quattro edizioni differenti il loro album di debutto Ten: uscito nel 1991, assieme a Nevermind dei Nirvana è il testo sacro del grunge di Seattle. Il disco uscirà il 23 marzo 2009 in Legacy Edition, Deluxe Edition, Vinyl Collection e Super Deluxe Edition. Tutte le quattro ri-

on è una novità che nello show business musicale le questioni estetiche contino più della sostanza. Lo dimostra la recente classifica con la quale la rivista inglese NME ha raccolto, invece dei migliori dischi usciti durante l’anno, «i personaggi più cool del 2008». Al primo posto nella graduatoria è risultata Alice Glass, componente del duo elettronico dei Crystal Castles. Il suo look, a

In “Stripped” la carriera scenografica e musicalmente ineccepibile del gruppo inglese

L’album dei Pearl Jam, testo sacro del grunge, ristampato con diversi corredi al contenuto

Anche “NME” cede all’estetica e stila la classifica dei personaggi che nel 2008 hanno fatto tendenza

e le frequentissime liti hanno portato più volte il gruppo sull’orlo dello scioglimento, ma il progetto musicale è andato avanti senza un solo cedimento alle mode. Affidandosi a una raccolta certosina di interviste e testimonianze sparse, Miller è riuscito a raccontare la loro storia bilanciando scrupolosamente fatti musicali e fattacci biografici, riuscendo anche a offrire al lettore una piacevole carrellata sulla scena musicale inglese dei primi anni Ottanta. Chi non si sente attratto dal testo sappia che il volume offre una grande quantità di scatti d’epoca, corredo necessario per ripercorrere una carriera quanto mai scenografica.

stampe conterranno l’edizione originale dell’album rimasterizzata, una versione remixata da Brendan O’Brien e quattro bonus tracks risalenti a quelle session. La versione deluxe conterrà anche il dvd del loro concerto unplugged negli studi di Mtv nel 1992, mentre la superdeluxe aggiungerà tre vinili comprendenti la registrazione di un concerto tenuto a Seattle agli inizi della carriera del gruppo e la riproduzione della loro prima cassetta demo contenente le prime registrazioni. Tutte le ristampe saranno corredate di un’abbondante serie di note curate da Vedder, tratte dai suoi taccuini, e saranno vendute in lussuose confezioni digipack.

ben vedere, non è altro che l’ennesima riproposizione del gotico in variante new wave; i soliti occhi pesantemente bistrati sotto un caschetto di capelli neri. La stessa Alice non ha mostrato particolare soddisfazione per il primo posto. Alla rivista ha spiegato: «Non mi sento cool, quel termine andava bene per i musicisti jazz mummificati degli anni Trenta che iniziarono a usarla. Abbiamo bisogno di nuovi idiomi, dobbiamo smetterla di parlare come fossimo dei beatniks». Nonostante ciò, la Glass non ha rinunciato a posare per la rivista facendosi ritrarre mentre tagliuzza il petto del compagno. La stessa cosa che Iggy Pop faceva quasi quarant’anni fa.

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zapping

Canzoni popolari OLTRE IL FESTIVAL di Bruno Giurato se dietro alla storia della musica italiana ce ne fosse una parallela? Una storia-ombra, ma più bella del governo-ombra? Qui c’è un libro che è un pezzettino di questa storia, sconosciuta, ininfluente, presente per chi appena voglia darsi disturbo di cercarla. Il libro è di Alan Lomax, e si intitola L’anno più felice della mia vita. Un viaggio in Italia 1954-55 (Il Saggiatore, 29,00 euro). Lomax è stato un personaggio chiave della musica del Novecento. Ricercatore, etnomusicologo, scopritore dei più grandi bluesman americani. Bene, questo pioniere della ricerca è stato anche uno dei primissimi a registrare le canzoni popolari italiane, negli anni Cinquanta, insieme a Diego Carpitella. E questo libro è un resoconto fatto di fotografie, pagine di diario, una introduzione di Goffredo Plastino e una prefazione di Martin Scorsese, del giro italiano di Lomax e Carpitella. Un anno di grand tour su un pullmino Volkswagen, migliaia di canzoni finite su nastro, da quelle dei contadini pugliesi a quelle degli stallieri bergamaschi. Una tradizione, quella italiana, ricchissima e malconosciuta, nonostante le varie notti della taranta. Viene da chiedersi perché? Perché proprio in quel momento storico i discografici, i dirigenti Rai decisero di puntare su Sanremo, e snobbarono la musica popolare? La musica italiana, quella ufficiale, è stata più o meno sempre una scopiazzatura di quella americana perché non ha quasi mai preso sul serio la propria eredità culturale. Ormai è andata così, e dobbiamo farci piacere le copie paesanazze delle rockstar. Resta la forza poetica di un libro come questo, e la sensazione che a cercare in casa avremmo trovato un nostro flamenco o un nostro blues.

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teatro

Anna, una leonessa alle prese con Beckett di Enrica Rosso sistono due tipi di attori: quelli che nascono bravi e quelli che bravi lo diventano. Anna Marchesini è bravissima, lo è sempre stata. L’ho incontrata parecchi anni fa ai provini che Gabriele Lavia faceva per trovare «la sua» Amalia, unico importantissimo personaggio femminile dei Masnadieri di Schiller. Anna non ebbe la parte (che segnò invece il sodalizio artistico del regista con Monica Guerritore) ma fece uno dei più bei provini che abbia mai visto. Appena uscita dall’Accademia, già teneva la scena con assoluta padronanza. Amatissima dalla platea televisiva ha inventato insieme a Lopez e Solenghi trasmissioni entrate a far parte della storia della televisione italiana. Negli ultimi anni ha sentito l’esigenza di un confronto più intimo con il pubblico, concedendosi esperienze di teatro contemporaneo da lei stessa elaborate, per approdare quest’anno a Giorni felici di Samuel Beckett, l’irlandese dagli occhi di ghiaccio. Per chi non lo conoscesse diremo che si tratta di un dialogo della durata di un’ora e mezza tra una certa signora Winnie e il di lei consorte, pressoché muto, signor Willy. Per la prima parte dello spettacolo la donna è sepolta in una duna di sabbia fino al punto vita, da cui successivamente spunterà solamente la testa. Il linguaggio scarnificato dell’opera e la particolarità della situazione formano un’accoppiata di rara difficoltà per chi volesse cimentarsi nella messa in scena, anche perché gli eredi sono inamovibili nel far rispettare le indicazioni dello stesso Beckett che non permettono variazioni di nessun tipo (che so? un bel cumulo di rifiuti tossici …). È una bella sfida con cui cimentarsi. Non a caso alcuni tra i più grandi talenti della scena mondiale vi ci sono sperimentati dando vita, a volte, ad allestimenti memorabili: il primo che mi restituisce il cuore è quello di Giorgio Strehler con una fulgida Giulia Lazzarini. Innanzi tutto quindi va riconosciuto alla Marchesini il coraggio di una leonessa per essersi assunta in toto l’onere e l’onore dell’allestimento di cui firma anche la regia avvalendosi della sce-

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na di desolante bellezza creata da Carmelo Giammello e del conforto di Santuzza Calì che si preoccupa di vestire questa dolcissima Winnie. Resterebbe però deluso chi si recasse a teatro con il desiderio di applaudire l’irresistibile Marchesini comica. Assistiamo a un parlar di nulla, un quasi monologare intessuto dell’ansia di portarsi a casa la giornata senza soccombere. Scritto nel ’61, Giorni felici continua a spiazzarci con la sua scomodissima tematica di un tempo che sta per scadere eppure infinitamente lento nel suo inesorabile scorrere, con questa impossibilità di fuga dall’ovvio, dal consueto, dal mal di

vivere di cui spesso è intessuta la vita stessa, infarcito di ragionamentini aggraziati e civettuoli. Impervio sopravvivere alle sabbie mobili del presente. Un pezzo di teatro così, non si può sostenere se non si è coltivata, negli anni, l’urgenza e la vicinanza con questo tipo di materiale, indipendentemente dal percorso che si è scelto di fare, si tratta di un punto d’arrivo o di ri-partenza. Cito una poesia di Anna: Le ore,/ -lunghe-/ territorio dell’ansia/ e del tempo del tempo. /I sogni,/come di un presente/ senza memoria/ incubi della mente/ vendetta/ degli dei,/ del dio/ supremo/ della felicità». La Marchesini al di là dell’apparenza covava il germe.

Giorni Felici, regia e interpretazione di Anna Marchesini, Teatro Eliseo, Roma, fino al 18 gennaio, Info: 064882114 www.teatroeliseo.it

jazz

Gli ottant’anni di “Ain’t Misbehavin”… e non solo di Adriano Mazzoletti l 2009 si profila come un anno di grandi e importanti anniversari. Centodieci anni fa, Scott Joplin componeva il suo capolavoro, quel Maple Leaf Rag che gli ha assicurato un posto nella storia della musica del Ventesimo secolo. Dieci anni dopo, nel 1909, per iniziativa dei fratelli Barrasso, due italiani di Memphis, venne allestita la compagnia T.O.B.A. Un’ impresa indubbiamente spregiudicata che, oltre al torto di sfruttare impietosamente gli artisti di colore, ha avuto il merito di aver reso possibile la diffusione del blues in spettacoli a poco prezzo organizzati nei piccoli teatri dei quartieri neri delle città del sud degli Stati Uniti, che aderivano all’organizzazione. La sigla T.O.B.A significava Theatre Owner Booking Agency (Agenzia dei proprietari di teatri per l’ingaggio di artisti). Ben presto quell’acronimo venne modificato in Tough On Black Ass, «Picchia duro sui culi neri».

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Proprio per quel modo disumano con cui i due fratelli italiani trattavano gli artisti. Cento anni fa nasceva a Chicago anche Benny Goodman che il pubblico che affollava il Palomar Ballroom di Los Angeles la sera del 21 agosto Fats Waller 1935, incoronava Re dello Swing. Un altro importante anniversario che ricorrerà nel 2009, è il novantesimo dell’arrivo in Europa della Southern Syncopated Orchestra di Will Marion Cook di cui faceva parte Sidney Bechet che fece scrivere a Ernest Ansermet un articolo sulla Revue Romande dove per la prima volta il jazz veniva accettato da un importante esponente della musica accademica. Ottant’anni fa, nel 1929, Fats Waller componeva due fra le pagine più eseguite dai musicisti jazz di ogni epoca, Honeysuckle Rose e Ain’t Mi-

sbehavin. Sono trascorsi settant’anni invece da quando Billie Holiday incideva uno dei suoi capolavori, Strange Fruit. Una delle più tragiche canzoni di tutto il suo repertorio, dove l’immagine «di quegli strani frutti neri che pendolano dagli alberi di magnolia del galante Sud», fa rabbrividire. Un altro anniversario da ricordare è anche il settantesimo dell’incisione di Body and Soul realizzata da Coleman Hawkins tornato negli Stati Uniti dopo cinque anni di permanenza in Europa. Quel disco rappresenta l’inizio di un modo nuovo di trattare l’improvvisazione, non più sulla linea melodica, ma soprattutto sulla tessitura armonica. Il 2009 sarà anche il sessantesimo anniversario di altri importanti avvenimenti. A Roma nasce la Roman New Orleans Jazz Band, pri-

ma orchestra di stile New Orleans costituita in Italia e sempre a Roma, al cinemateatro Adriano suona per la prima volta Louis Armstrong. A New York, invece Miles Davis incide le prime pagine di quei capolavori riuniti in seguito nel long playing The Birth of the Cool. Cinquant’anni fa infine, sempre Miles Davis incideva Kind of Blue e Charlie Mingus Fable of Faubus ispirato alle fandonie raccontate dall’allora governatore dell’Arkansas, il razzista e segregazionista Orval Eugene Faubus. Ma il 1959 deve essere ricordato anche per l’incisione di Giant Steps di John Coltrane, e per la scomparsa di Billie Holiday, Lester Young e Sidney Bechet. Ci fermiamo qui. Ci auguriamo che i responsabili dei festival e delle attività che avranno luogo in Italia nel corso del prossimo anno, possano prendere spunto da questi eventi e con qualche idea in più e qualche euro in meno, siano in grado di realizzare manifestazioni di importante spessore storicoculturale.


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narrativa

libri

Amori difettosi raccontati da Alice Munro di Pier Mario Fasanotti ome tutti sanno, il Canada sta sopra gli Stati Uniti. E ha avuto, per secoli, l’influenza culturale degli inglesi e dei francesi. Insomma è un paese che ha un forte cordone ombelicale con l’Europa, e nello stesso tempo è legato agli Usa. Questo per spiegare come la narrativa canadese è d’oltreoceano per modo di dire. È una sorta di ponte tra i due continenti, il vecchio e il nuovo. Anche se la collocazione geografica del Canada suggerirebbe il contrario. Non si può comunque parlare di propaggine o protesi americana, l’identità del Quebec o dell’Ontario è ben diversa da quella dell’Arizona o del Montana. È canadese il Cechov dei nostri tempi. Si chiama Alice Munro. Ogni suo libro lo conferma. Un’avvertenza per il

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riletture

lettore: non più di un racconto al giorno perché ciascuno ha la densità di un romanzo. Alcuni critici hanno giustamente fatto notare che la forma del racconto - che in Italia stenta ad affermarsi, colpa anche delle case editrici - è una sorta di spreco, di diseconomia. Con un po’ di furbizia o di abilità, ogni racconto potrebbe essere tirato come un elastico e diventare romanzo breve. La Munro non lo fa, e le diciamo grazie per l’emozione che si prova leggendo venti o trenta sue pagine. Ci si cala in un mondo, ognuno diverso dall’altro, e ci si impressiona dinanzi alla ricchezza biografica, mai ridondante, di ogni personaggio, anche quelli marginali. Basta un particolare e l’uomo o la donna hanno precise ragioni d’essere lì e non altrove. Nulla di sfumato, anzi di sbiadito, nella complessità delle vicende. E viene sempre evitato il pericolo di un affollamento di particolari: quel che ne vien fuori è un quadro a olio, ma non del tipo fiammingo con l’ossessione, pur fascinosa, dei dettagli. Il racconto che dà il titolo all’ultima raccolta di Alice Munro, Le lune di Giove, prende il via da una stanza di ospedale dove una donna guarda il monitoraggio cardiaco del padre, alla vigilia di una decisione importante: rischiare un’operazione o rassegnarsi alla morte. La figlia, carica di una vita privata complessa, avverte l’urgenza di un cambiamento. È questo il leit motiv di tutti questi ultimi racconti della Munro tanto è vero che un’altra donna protagonista si rammarica della «incapacità di dare una svolta al proprio destino» e al contempo cerca di rimediare. Tornando al padre malato e alla figlia che è scossa dinan-

zi alla possibilità che il genitore si «arrenda con dignità», il riferimento a Giove proviene da una sua visita al planetario della città. Cinquecento miliardi di soli, incommensurabili distanze tra una stella e l’altra: ecco il riflettere su quegli infinitesimali puntini che sono le forme di vita, ecco lo smarrimento ma anche la mai dimenticata abitudine di aggrapparsi a un particolare, sia pure «una frivolezza». Come quando, in attesa di sapere se la figlia aveva o no la leucemia, fermò il suo sconcerto doloroso nell’acquisto di un abito elegantissimo. Alice Munro non sente la necessità di completare il cerchio narrativo: la trama è insita in una situazione. Nel racconto Dulse, Lydia prende un battello e raggiunge un’isola. Divorziata, 45 anni, spesso afferrata dal panico in circostanze che tutti definiremmo normali, Lydia sa bene di avere la mente «grippata», proprio come accade a un motore. Si vede «come un cartone da uova, con l’interno tutto svuotato». Un ex marito, un ex convivente, anni «di smanie e di appetiti»: e poi? La donna, che è poetessa, ascolta con attenzione le parole di gente umile, ragiona sull’attrazione fisica, ma rifiuta l’avventura: «Si sentiva tutta avviluppata, ben protetta da strati su strati di noiosa consapevolezza». Nelle pagine della Munro serpeggia l’amore difettoso. Scartata l’autocommiserazione, una delle protagoniste confida all’interlocutore «come l’amore non sia buono né onesto e come non contribuisca alla felicità della gente in maniera affidabile». Rimane la caparbietà della vita. Alice Munro, Le lune di Giove, Einaudi, 287 pagine, 19,00 euro

Harold Bloom contro i “paladini del risentimento” di Giancristiano Desiderio on è un male ma un bene rivendicare il primato del Canone occidentale. Almeno quello letterario. La battuta folgorante di Saul Bellow, «Chi è il Tolstoj degli Zulu? Chi è il Proust degli abitanti di Papua?», colpisce nel segno perché è sincera. Il primato letterario del mondo occidentale è un fatto e non un giudizio. Le cose stanno così perché sono andate così. Il primato occidentale è la brutta bestia del multiculturalismo che non sa bene dove andare a pescare negli altri mondi e nelle altre culture Omero, Dante, Shakespeare, Cervantes, per fare alcuni nomi. Il multiculturalismo non riesce a fare una semplice operazione: se vuole apprezzare le altre

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culture deve cominciare ad apprezzare e a comprendere prima di tutto la nostra cultura occidentale. Invece, non solo non l’apprezza e la svaluta rivendicando altri primati etnici, ma ritiene che l’umanità sia il frutto della composizione di un mosaico in cui ogni cultura porta la sua tessera. Il multiculturalismo è insostenibile sul piano concettuale e pericoloso su quello politico perché nega il pluralismo. Paradossale, ma vero. Il libro che vi suggerisco di rileggere oggi è un recente classico: Harold Bloom, Il Canone occidentale, edito da Rizzoli nella storica Bur. Lui è forse il maggior critico letterario contemporaneo, un gran professorone della Yale University. Il libro uscì in America nel 1994 e in Italia nel 1996 e ora ritorna in libreria in una nuova

ed elegante edizione economica con un’introduzione ricca e saporita di Andrea Cortellesa. Vi dico anche le pagine: 588 per 14,50 euro. Perché è da rileggere? Perché Bloom, che inizia il libro con il «nostro» Giambattista Vico, aveva ragione quando si pensava che avesse torto. Il critico americano muove guerra - una «guerra giusta» - ai «paladini del risentimento», ossia i multiculturalisti, le femministe in servizio permanente effettivo, i decostruzionisti che a furia di decostruire si sono decostruiti il cervello.Tutti simpaticamente insieme contro il primato culturale dell’Occidente (e, implicitamente, contro il primato politico e militare degli Stati Uniti). L’elenco di Harold Bloom - i ventisei autori e drammaturghi che non si può non conoscere - è discuti-

bile: si può togliere, aggiungere, sostituire. Ma ciò che non si può fare è rinunciare al Canone perché sarebbe come rinunciare a noi stessi. Alle nostre parole, ai nostri pensieri, a ciò che siamo e ciò che non siamo. Noi siamo così perché questa è la nostra storia e con questa storia - prima che con quella degli «altri» - dobbiamo fare i conti per capire noi e gli «altri». Il Canone - la lettura delle opere dei Magnifici Ventisei - non ci salverà e non ci renderà migliori: «Lo studio della letteratura non salverà gli individui più di quanto migliorerà la società. Shakespeare non ci renderà migliori e non ci renderà peggiori». Ma, allora, a cosa serve la letteratura? A cosa serve la Bellezza delle opere d’arte? Semplice: «Ad ampliare il nostro crescente io interiore».


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personaggi

Eliade, Cioran, Ionesco: destini incrociati di Mario Bernardi Guardi er quanto riguarda Eliade e Cioran, non li posso vedere. Anche se non sono più legionari (come dicono), non possono troncare un coinvolgimento intrapreso una volta per tutte - essi rimangono legionari, quand’anche non lo volessero». Legionari, cioè «fascisti». Perché è alla Legione dell’Arcangelo Michele, altrimenti detta Guardia di Ferro, che Eugène Ionesco fa riferimento in una lettera inviata all’amico Petru Comarnescu il 7 gennaio 1946. Bene, è un fatto indiscutibile che Eliade e Cioran siano stati, oltre che simpatizzanti di Mussolini e Hitler, convinti seguaci di Corneliu Zelea Codreanu, il carismatico alfiere della Destra radicale rumena tra le due guerre. Così come è un fatto che entrambi abbiano attivamente col-

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saggi

Traendosi così laborato, con i loro scritti e con il fuori da ogni «sospetto» di filoro impegno politico, e anche nelo-fascismo. E gli anni della setuttavia i destini conda guerra dei tre intelletmondiale, all’ituali sono intrecdea, all’immagiciati. Prima di ne, al progetto di tutto, come ben documenta una Nuova Europa costruita sulle Alexandra Laignel-Lavastine macerie dell’Occidente liberal(che però, come democratico. Ed una «maestrina Eugène Ionesco dalla penna rossa», è dunque umanamente comprensibile che l’indivi- mostra una certa tendenza a far la dualista conservatore Ionesco, non predica ai suoi «scorrettissimi» scoavendo mai subito la fascinazione laretti), dai vincoli di un’amicizia totalitaria, qualunque ne fosse il se- nata negli anni Venti in una Bucaregno, avesse il «diritto», approdato a st sovraccarica di inquietudini poliParigi dalla Romania vinta e sovie- tiche e culturali, e «ritrovata» negli tizzata, di prendere le distanze da anni Settanta, tra attestazioni di due vecchi amici e neo-compagni di simpatia e ricordi del tempo che fu. esilio dannatamente scomodi. E poi da una formazione culturale

che aveva attinto agli stessi testi, che era stata suggestionata dalle stesse «atmosfere». Certo, nel corso degli anni, c’erano stati malumori e lacerazioni, sconfessioni e rimozioni, ma, al di là dei percorsi e degli approdi, era innegabile una comune «spinta» di partenza: la stessa che, tra le due guerre, avrebbe portato al fascismo o nei dintorni del fascismo tanti intellettuali che si interrogavano sul tramonto dell’Occidente e si battevano per una identità politica forte. Al di là del comunismo e del capitalismo, vitalistica, eroica, spiritualista, radicata nelle mitologie «tradizionali» del sangue e della terra, e, a un tempo, capace di «cavalcare la tigre» del mondo moderno e di sfidare il futuro. Alexandra Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco, Utet, 465 pagine, 29,00 euro

Come farsi un’idea sbagliata sulla fotografia di Diego Mormorio

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uando si trovava di fronte a qualcuno che stava raccontando confusamente qualcosa, Tazio Secchiaroli - il grande fotografo di Federico Fellini e di Sofia Loren - diceva: «Sembra una cosa detta da uno che l’ha sentita dire da un altro che non l’ha capita bene». Leggendo il libro La fotografia di Enrico Menduni, questa frase mi è tornata più volte in mente, facendomi sorridere e alleviando così il disagio di una lettura che avevo iniziato solo perché il libro è edito da una casa editrice notoriamente seria, Il Mulino. Mescolando quello che non sa a quello che non ha capito bene, l’autore realizza un inquietante campionario di inesattezze. Un esempio: «Nel 1902 Stieglitz fonda il movimento Photo Secession e la rivista Camera Work per contestare il pittorialismo». In realtà, la Photo-Secession americana non nacque in oppo-

memorie

sizione alla fotografia pittorialista (che imitava cioè la pittura), ma con uno scopo del tutto opposto. Ancora in un numero del 1906 di Camera Work si diceva che essa era «contro l’uso della fotografia come mezzo puramente meccanico di riproduzione della realtà». Altro esempio: «Nel 1871 un medico inglese, Richard Maddox, sostituisce al collodio una gelatina al bromuro d’argento. Dieci anni dopo le lastre sono prodotte industrialmente: adesso è possibile scattare la foto su una lastra già pronta, che sarà sviluppata con calma in laboratorio». In realtà, le lastre già pronte (al collodio secco) erano in uso da quasi un ventennio, ma avevano, rispetto al procedimento umido, il difetto di allungare di molto i tempi di esposizione. Continuando su questa deriva, uno sprovveduto lettore, a leggere quanto dice di seguito l’autore, è portato a pensare che la fotografia ha raggiunto l’istantaneità con Maddox, mentre di fatto questa è cominciata intorno al 1855

con gli apparecchi binoculari a fuoco corto con lastre 7,5x8,2, vale a dire con la cosiddetta stereoscopia. Menduni - che pure insegna Cinema, fotografia, televisione nell’Università di Roma Tre sostiene che il personaggio del fotografo del film di Fellini La dolce vita è «ispirato al fotografo romano Tazio Secchiaroli»: cosa che - secondo quanto raccontava lo stesso fotografo, nonché per quanto ha scritto Tullo Kezich, che ha fatto la cronaca dettagliata di quel film - risulta assolutamente infondata. Per concludere, questo volume, che l’autore certamente assegnerà ai suoi studenti come libro di testo, è uscito in una collana intitolata «Farsi un’idea». Suggerirei dunque al Mulino di usare maggiore precauzione nella scelta degli autori o di cambiare nome alla collana, intitolandola «Farsi un’idea sbagliata». Enrico Menduni, La fotografia, Il Mulino, 131 pagine, 8,80 euro

Con Guttuso, Cagli e Manzù a Piazza del Popolo di Angelo Capasso a scrittura per l’arte è fatta di più generi. La storia letteraria dell’arte è un genere del tutto a sé, e comprende tutti quegli scrittori e poeti che hanno riservato uno spazio nell’ambito del proprio lavoro in cui ospitare le riflessioni che l’arte può ispirare. Il libro di Luciano Luisi appartiene di diritto a questa categoria. Luciano Luisi è poeta (ha vinto il Fiore d’oro nel 1979 e il Fiore d’argento nel 2005), scrittore, autore di teatro e commentatore culturale per i programmi culturali della Rai. Questo suo Piazza del Popolo è un archivio del lavoro che ha svolto con gli artisti: è un libro che racconta incontri, aneddoti e scene di uno squarcio

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dell’arte a Roma. Il canale in cui si colloca è quello delle biografie fatte da scrittori o artisti che ha i suoi esordi gloriosi con il trattato vasariano Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, in cui il Vasari-artista si trasforma in testimone di una storia che prima di lui faticava a essere raccolta in un cosmo a sé. Luisi racconta la storia di un luogo reale che si trasforma in luogo ideale, scrivendo con partecipazione, sentimento e passione senza il distacco analitico del pensiero critico, ma con profonda complicità e comprensione come se ne può avere quando si parla di amici e amori. La Piazza del Popolo di Luisi è quella di Turcato, Guttuso, Manzù, Cagli e

si colloca a un passo da quella che diverrà celebre per essere il luogo di incontro di Schifano, Angeli, Festa, Ceroli, Mauri e quindi una genera-

zione che attraverso il proprio lavoro ha lanciato la sfida al contesto internazionale dell’arte. Più che una storia dell’arte, Luisi racconta la sua storia con l’arte, regalandoci pagine intense e profonde. In questo ambito si avvicina ad altri esperimenti realizzati da scrittori. Penso ad esempio alle parole di Jean Paul Sartre su Giacometti, ai testi di Giovanni Testori su Francis Bacon, o alla profonda lettura filosofica che di Bacon ci ha offerto Gilles Deleuze attraverso la creatività della scrittura. Luciano Luisi, Piazza del Popolo, Eri/Rai, 223 pagine, 16,00 euro

altre letture Sono passati sessant’anni da quando il 10 dicembre 1948, sull’onda delle atrocità commesse nella seconda guerra mondiale, le Nazioni Unite promossero la Dichiarazione universale dei diritti umani, da quel momento punto di riferimento imprescindibile per ogni discorso e atto volti a eliminare discriminazioni, abusi, limitazioni della libertà. Dei progressi fatti in questi decenni in materia di diritti umani ma anche delle tante battaglie ancora aperte Antonio Cassese è un testimone privilegiato. In lui si uniscono le competenze del giurista, una forte passione civile, l’esperienza di delegato del governo italiano in vari organi internazionali (Onu e Consiglio d’Europa). Il sogno dei diritti umani (Feltrinelli, 219 pagine, 15,00 euro) è una scelta ragionata, curata da Paolo Gaeta, degli interventi pubblicati sulla stampa italiana, nel corso di quasi un trentennio sui temi dei diritti, della guerra, della giustizia. Sono note le critiche di Noam Chomsky a capitalismo, imperialismo, oppressione e propaganda di governo, ma nel suo flusso continuo di pubblicazioni ben poco è stato detto e capito dei fondamenti che hanno ispirato il pensiero chomskiano e la sua visione del mondo. Anarchismo (Tropea editore, 318 pagine, 17,50 euro) comprende saggi e conferenze, scritti inediti e rarità che videro la luce in pamphlet e periodici ormai introvabili. Undici interventi che toccano il cuore stesso di questo autore di best-seller: i principi anarchici che ne hanno guidato l’impegno politico fin dalla gioventù e che sono persino alla base delle sue teorie linguistiche. Il mondo ha saputo della pericolosità del programma nucleare iraniano il 14 agosto 2002, durante un briefing tenuto a Washington dal Consiglio nazionale della resistenza in Iran. Da allora la comunità internazionale ha chiesto invano di poterne verificare la natura pacifica. L’incubo secondo molti è concreto: entro pochi anni l’Iran disporrà di un arsenale atomico che potrà usare per promuovere le sue ambizioni egemoniche in Medio Oriente. La bomba iraniana di Emanuele Ottolenghi (Lindau, 266 pagine, 16,00 euro) fornisce un quadro allarmante di quella che potrebbe essere una minaccia molto seria per gli interessi strategici europei.


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storia

CHI ERANO I RE MAGI? LA MAGGIOR PARTE DELLE NOTIZIE CHE ABBIAMO SU DI LORO, E CHE CI SONO PIÙ FAMILIARI, PROVENGONO DALLA LETTERATURA EVANGELICA APOCRIFA. DEI VANGELI CANONICI, SOLO QUELLO DI MATTEO NE PARLA. E LO FA ATTRAVERSO UN RACCONTO TANTO VEROSIMILE QUANTO SCONVOLGENTE. TUTTO INIZIA DALLA CORRETTA INTERPRETAZIONE DELLA PAROLA “MAGOI”…

Sulle tracce dei tre Maghi di Franco Cardini ato Gesù in Betlemme di Giudea al tempo del re Erode, ecco che dei magi venuti dall’Oriente giunsero a Gerusalemme e chiesero: “Dov’è il re dei giudei che è nato? Poiché vedemmo la sua stella in Oriente, e siamo venuti ad adorarlo”. All’udir ciò il re Erode, e con lui tutta Gerusalemme, si conturbò e, convocati tutti i gran sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da essi dove avesse a nascere il Messia. Gli risposero: - A Betlemme di Giudea; che così è stato scritto per mezzo del Profeta. E tu Betlemme, terra di Giuda, non sei già la più piccola tra le principali città di Giuda; poiché da te uscirà un principe, il quale reggerà il mio popolo Israele - (Michea, 5, 1-3). Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, accuratamente ricercò da essi il tempo dell’apparizione della stella, mandandoli a Betlemme, disse: - Andate e informatevi del bambino; e quando lo avrete trovato fatemelo sapere, affinché anch’io venga ad adorarlo -. I magi, udito il re, se ne partirono: ed ecco la stella, che avevano veduto in Oriente, andar loro innanzi, finché venne a fermarsi sopra il luogo dov’era il bambino. Vedendo la stella, provarono una

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- e attraverso un duro lavoro esegetico punteggiato di feroci liti conciliari ha stabilito che solo quattro Vangeli (quelli attribuiti agli apostoli di Gesù di nome Matteo, Marco, Luca e Giovanni) sono «canonici», vale a dire degni di essere inseriti in un Canon, in una peraltro brevissima lista di testi che la Chiesa stessa, proclamantesi assistita dallo Spirito Santo, ritiene d’ispirazione divina. Gli altri testi, moltissimi, sono stati dichiarati «apocrifi»: una parola ambigua, ardua, che originariamente significa soltanto «nascosti», ma che è passata nell’uso corrente a indicare un testo di dubbia tradizione. Sin dalla fine del V secolo, si precisò che non era possibile legittimare questi testi come divinamente ispirati, per quanto ciò non si potesse escludere. Ma i vangeli apocrifi entrarono comunque nella pratica tradizionale e ispirarono, in modo speciale, gli artisti chiamati a illustrare la vita di Gesù e di Maria. Ebbene: la maggior parte delle notizie che noi possediamo a proposito dei magi, e che ci sono magari più care e più familiari, sono desunte dagli apocrifi; e il bello è che secoli di arte sacra e di letteratura a essa ispirata non hanno fatto che ribadirle, sia pure con

Erano probabilmente astrologi-sacerdoti adepti d’un culto mazdaico fondato sulla contrapposizione Luce-Tenebra e incentrato sull’adorazione del fuoco, la lettura delle stelle e l’attesa di un ciclico rinnovarsi dell’universo grandissima gioia. Ed entrati nella casa, videro il Bambino con Maria Sua madre, e prostratisi lo adorarono; aperti poi i loro scrigni, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Ed avendo ricevuto superno avviso in sogno di non tornare da Erode, per altra via fecero ritorno al loro paese» (Matteo, 2, 1-2).

Bisogna per forza partire da qui: dal testo evangelico. E cominciano subito i problemi. Come ohimè non tutti sanno, ma tutti dovrebbero sapere - si tratta delle basi della cultura del «nostro Occidente» -, la storia dei magi è raccontata da moltissimi tra quei testi che pretendono di essere ispirati da Dio e che, dall’espressione greca con cui s’indica la «Buona Novella», sono detti Vangeli. Ora, i testi evangelici sono parecchie decine, ripartite in centinaia di versioni diverse: greche, siriache, caldee, arabe, armene, georgiane, persiane, etiopiche. Ma fin dal IV secolo la Chiesa cristiana, uscita dal periodo di semiclandestinità, si è confrontata con questa miriade di testi - alcuni dei quali sono a onor del vero molto più recenti: fino all’VIII-IX secolo

molte varianti. Noi sappiamo quindi per esempio, e insegnamo ai nostri bambini (quando glielo insegnamo) che i magi erano dei re, che erano in numero di tre, che si chiamavano Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, che ciascuno di loro recò al bambino un dono specifico (l’oro, l’incenso, la mirra), che venivano da molto lontano a dorso di cammello, che seguivano una stella cometa. Bene: tutta questa farina appartiene al capace sacco della letteratura evangelica apocrifa: e molta di essa esce senz’ombra di dubbio da mulini eretici. Del resto, a voler leggere alcuni di questi apocrifi (che sono editi anche in italiano) si verrebbe a scoprire che i magi potevano essere quattro, dodici o addirittura molti di più, che ciascuno di loro aveva un’età precisa (un giovane, un uomo maturo, un vecchio), che a ognuno di loro spettava una veste d’un colore particolare. A partire dal Tre-Quattrocento, in area renano-borgognona, ci si pose anche il problema delle loro bandiere e delle loro armi araldiche: che razza di re sarebbero mai stati, senza uno stendardo e uno stemma? La pittura tardogotica ci ha puntualmente informato an-

che di questi simboli. Ma i quattro Vangeli che la Chiesa dichiara «canonici», cioè ispirati con certezza da Dio, mantengono al riguardo un prudente, anzi parsimonioso riserbo. Pare - non è sicuro - che quello detto «di Matteo» sia il più antico tra essi, e sia stato redatto nella seconda metà del I secolo d.C. Esso era originariamente stato redatto in aramaico, ma ce n’è rimasta solo la versione greca. Il punto è che gli altri tre Vangeli canonici non ne hanno seguito l’esempio: nessuno di loro parla dei magi. Perché? Una naturale divisione dei còmpiti, visto che ciascuno di essi ha un preciso ruolo? Una misura prudente, dal momento che quei «magi» erano personaggi ambigui, chiacchierati, ingombranti? Esaminiamo quel che il testo di Matteo con precisione afferma. I magi sono «alcuni» (il numero non è specificato), vengono da un impreciso «Oriente», dove hanno visto una stella che indicava la nascita del «re dei giudei». Si recano da Erode III «il Grande», un idumeo che aveva ottenuto da Ottaviano il titolo di re di Giudea sotto la protezione romana. Erode, uditi i dottori della Legge ebraica, i quali sulla fede del profeta Michea affermano che il messia dovrà nascere a Betlemme, li invia colà; e in effetti è là che essi ritrovano la stella: e, tratti i doni che avevano recato per lui - oro, argento, mirra - adorano il Bambino.

È verosimile questo racconto? Tanto verosimile quanto sconvolgente. Certo, non lo è se intendiamo la parola magoi, con la quale il testo greco di Matteo designa quei visitatori venuti da lontano, non già nell’accezione - corrente nella Palestina del tempo - di astrologi e ciarlatani, poco più che saltimbanchi: e maghiastrologi-ciarlatani, con in più una sinistra aria ereticheggiante (gnostici, manichei), noi ritroviamo negli Atti degli Apostoli, con la figura di Simone detto, appunto, «Mago». Ma se invece ipotizziamo che questi magoi fossero sul serio quelli che sono detti mogu nell’Avesta - il testo sacro dell’antica religione mazdaica praticata in Persia a partire almeno dal VI sec. a.C. e fondata dal profeta Zarathustra (ma oggi si tende a parlare addirittura di un «mazdaismo prezoroastriano») -, allora ci troviamo dinanzi ad astrologi-sacerdoti adepti d’un complesso culto a carattere «biteista», fondato sulla contrapposizione Luce-Tenebra e incentrato sull’adorazione del fuoco, la lettura delle stelle e l’attesa di un ciclico rinnovarsi dell’universo. Secondo il mazdaismo, ciascuna delle ere che si succedono e che sono tutte destinate a rinnovare l’universo e quindi a deteriorarsi verrebbe annunziata dalla nascita di un Shaosians, un divino «Soccorritore» nato da una scintilla di fuoco e scaturito dalla roccia d’una grotta. Conosciamo discretamente i riti mazdei in quanto ancora oggi, tra Iran e India nordoccidentale,


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ne sopravvivono alcune decine di migliaia. L’ispezione del cielo nell’attesa del futuro Soccorritore fa parte dei loro miti e dei loro riti. Nel Seistan, tra Iran e Afghanistan, ogni anno ancor oggi i «parsi» - gli ultimi eredi dei mazdei - si riuniscono ai piedi del monte Usida, dove sta il lago Hamun nel quale, secondo la Scrittura sacra mazdaica, l’Avesta, sarebbe stato sparso il seme del profeta Zarathushtra. I parsi celebrano la loro riunione al principio dell’equinozio di primavera: che equivale al tempo in cui, secondo la tradizione cristiana, la Vergine ha concepito il Cristo. Si è proposto che l’Usida sia il Mons Victorialis da cui, secondo alcuni testi apocrifi, i magi avvistarono la stella.

Nella tradizione teologica e liturgica cristiana, i magi sono la primitia gentium: i primi tra i pagani a riconoscere il Salvatore. Se alla grotta di Betlemme accorrono per primi i pastori, guidati da un angelo in quanto ebrei e pertanto conoscitori del vero Dio, subito dopo giungono a Lui gli astrologi-sacerdoti pagani, guidati da una stella in quanto Dio non si esprime rivolto a loro direttamente, con l’invio di un Suo messaggero (l’angelo, appunto), bensì mediante i segni astrali ch’essi conoscono nella loro tradizione. Ma il testo di Matteo, proprio entro questo contesto, ha un significato assoluto e sconvolgente. Gesù non nasce a Betlemme per il solo popolo d’Israele: non sono soltanto le Scritture ebraiche, ma anche almeno il Libro Sacro mazdaico ad averlo annunziato e ad attenderlo. Certo, il disagio cristiano dinanzi alle figure dei magi restò molto forte. Noi diciamo infatti, pudicamente, «magi». Dovremmo avere il coraggio e la coerenza filologica di chiamarli come vanno chiamati, di indicarli per quel che sono. Maghi, in quanto la magia nasce, e viene elaborata nella sua forma più precisa, appunto a partire dal ritualismo biteista mazdaico, dalla sua astrologia, dalla sua mitologia che accorda grande importanza alla divinizzazione del Tempo. Difatti Gesù si propone fin dalla nascita come Kosmokrator e Kronokrator, signore dell’Universo nella sua duplice e complementare dimensione sia spaziale, sia temporale. È storicizzabile, l’episodio dei magi? Forse più di quanto non si creda. Da Giuseppe Tucci a Mario Bussagli, sono parecchi gli orientalisti che hanno ipotizzato di riconoscere in un sovrano indoiranico di stirpe kushana, Gundophar, vissuto nel I secolo d.C. e che in effetti sembra aver appoggiato la missione in India dell’apostolo Tommaso, il «mago» Gaspare. L’arte cristiana elaborò a lungo le immagini dei magi, attribuì loro nomi, origini (divennero difatti i tre sovrani dei tre continenti e delle tre razze umane scaturite dalla discendenza di Noè), significati complessi che rimandavano alla tridimensionalità del tempo (passato-pre-

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sente-futuro), delle età dell’uomo (vecchiaia-maturitàgiovinezza) e via discorrendo; ne fece i patroni dei viandanti, dei pellegrini, dei medici (a causa della presenza tra i loro doni d’un medicamento che preserva dalla corruzione, la mirra). Essi divennero i protagonisti anche delle sacre rappresentazioni natalizie che, almeno a partire dal X-XI secolo, si tenevano nel periodo dell’Epifania e che si denominavano Ludi Stellae. Tuttavia, un evento rivoluzionario ne sconvolse il culto. Nel 1164 l’arcicancelliere imperiale Rainaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia, ne sottrasse i corpi ch’erano venerati come reliquie, si disse allora, nella chiesa milanese di sant’Eustorgio - e li recò in un fortunoso viaggio attraverso Lombardia, Piemonte, Borgogna e Renania fino alla sua sede episcopale. Sulle loro reliquie venne edificato l’immenso, mirabile duomo di Colonia. Il significato politico di quella translatio era chiaro: i «re magi», immagini della perfetta fedeltà dei sovrani di questa terra al Gran Re dell’Universo, non potevano essere custoditi dalla città di Milano, che ne era indegna in quanto ribelle all’imperatore Federico I che difatti ne aveva ordinata la distru-

to troppo legato all’impero romano-germanico? Era entrato in contatto con un culto conservato dai cristiani nestoriani, o addirittura con gli «Adoratori del Fuoco», gli eredi dei mazdei?

Un altro problema sarebbe la stella. Quella evangelica non poteva essere una «cometa», che nell’astrologia antica ha pessima stampa come foriera di cataclismi. Ma ai primi del XIV secolo Giotto, che lavorava agli affreschi della cappella degli Scrovegni a Padova, vide passare la cometa di Halley e ne rimase tanto impressionato da immortalarla nell’affresco della Natività. Da allora in poi, la stessa è diventata una cometa. Certo è che la ricchezza di varianti, a proposito del racconto dei magi e dei suoi multiformi esiti leggendari o folklorici, è comunque straordinaria, tale da farci chiedere se esso non potrebbe essere studiato proprio nel contesto di quella ricostituzione del tessuto identitario delle tradizioni europee che oggi interessa tanto e del quale si avverte un diffuso bisogno. Le leggende relative ai magi, in effetti, sono numerose e radicate in tutto il territorio europeo: dalla Spagna e dal Portogal-

Intorno a loro, e alla loro esistenza storicizzabile più di quanto non si creda, è nato un culto europeo fatto di moltissime tradizioni relative alla notte dell’Epifania, ai doni e ai cibi collegati al rito dell’adorazione del Re Fanciullo zione. La fedele Colonia sarebbe stata la loro nuova sede. Da allora, si sviluppò addirittura un vero e proprio pellegrinaggio ad reges, meno celebre soltanto di quelli a Santiago di Compostela o ai santuari della Vergine e dell’Arcangelo Michele. Un pellegrinaggio di quelli che hanno fatto sul serio l’Europa: tra Lombardia, Svizzera, Francia sudoccidentale e Germania renana innumerevoli alberghi e locande ricordano il passaggio di quelle reliquie. E si denominano difatti con nomi che rinviano al culto dei magi: Alle tre Corone, Ai Tre Re, Alla Stella, Al Moro (in omaggio a uno dei tre, di solito raffigurato come il più giovane, che in quanto «re d’Africa» s’immaginava nero di carnagione). In omaggio alla sua Colonia, Benedetto XVI ha voluto che l’effigie del «Re Nero» figuri sulla sua arme araldica insieme con la conchiglia del pellegrinaggio. Ma il mistero perdura. Nel secondo Duecento Marco Polo, visitando la città persiana di Sawa, s’imbatteva nei tre corpi intatti dei magi e ne parlava con tutta naturalezza, come se nulla sapesse del culto di Colonia. Perché? Intendeva, da veneziano, «obliterare» un cul-

lo (da dove si sono diffuse in America latina, divenendo estremamente amate e popolari e fondendosi con numerosi miti e culti locali) fino alla penisola scandinava, all’Italia centrosettentrionale e ai Balcani. In Lombardia e nell’arco alpino. Un vero e proprio culto europeo, dal quale nascono moltissime tradizioni relative alla notte dell’Epifania, alla tradizione dei doni, ai cibi collegati al rito dell’adorazione del Re Fanciullo. In Lombardia e nell’arco alpino, nella fatidica «Dodicesima Notte» la notte dell’Epifania, si fanno le «processioni della Stella». Dalla Francia alla Slovenia, le tre sante lettere G-M-B, iniziali dei nomi tradizionali dei tre «re», vengono tracciate sulle porte e sulle architravi a protezione degli abitanti delle case. In Francia, si consuma il dolce tradizionale, la Galette des Rois, e chi trova nella sua porzione un piccolo oggetto tondeggiante, la fève, è re del giorno dell’Epifania, presiede al banchetto domestico e ha diritto a portar in testa una corona di cartone dorato. È un grande privilegio e un augurio di fortuna per tutto l’anno. Funziona. Dico sul serio. Provare per credere.


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isha l’amata di Maometto è un libro sull’Islam che è stato censurato negli Usa e proibito in Gran Bretagna e forse anche per questo ha avuto molta risonanza in Italia dov’è stato pubblicato da Newton Compton. «È la storia romanzata di Aisha - ci dice l’autrice Sherry Jones, giornalista e scrittrice, corrispondente dall’Idaho e dal Montana per il Bureau of National Affairs -, la sposa bambina del Profeta dell’Islam e modello di emancipazione per le donne musulmane: guerriera, studiosa, consigliere politico e rivoluzionario baluardo della libertà». La Jones, che già era stata colpita da una fatwa quando ancora il libro negli States era in bozze, non ha paura delle minacce degli oltranzisti islamici. «La casa editrice americana Random House - ci racconta - ha subito indefinite minacce, e infine ha scelto di non pubblicare l’opera. In Gran Bretagna è stata lanciata una molotov contro l’ingresso delle edizioni Martin Rynya che volevano stampare il mio testo. Insomma, la strada è stata difficile prima di arrivare all’uscita in esclusiva in Italia. E, nonostante i blocchi imposti dal fondamentalismo, il libro uscirà anche in Russia, Germania, Brasile, Danimarca, Spagna e Ungheria. Signora Jones, non teme ritorsioni da parte degli estremisti islamici? Temo maggiormente chi accetta la logica assurda del permesso-proibito, chi cede a ricatti insensati volti solo a manipolare le menti e a imporre un controllo psicotico sulla personalità. La censura è l’arma dei fondamentalisti e dei terroristi ed è questa che, per prima, va disinnescata. Veniamo al libro. Cos’è e come nasce Aisha l’amata di Maometto? Il mio romanzo è anzitutto una storia d’amore e di passione. Non di una passione edulcorata, bensì di un travolgente impeto che assale una ragazzina, Aisha, divisa fra l’espandere se stessa e la propria anima in un destino sacro e religioso e l’abbandonarsi dolcemente a ciò che riempie il suo cuore di piacere, giochi, infiniti baci. La sposa-bambina di Maometto, prima di essere scelta come compagna del Profeta, vive l’ebbrezza di un amore infantile e disimpegnato per il suo amichetto Safwan, recita e sogna con disinvoltura di essere una regina, di impugnare la spada e farsi rispettare dal mondo, da un mondo ove lo strapotere maschile non è certo una eccezione. Aisha, quando Abu Bakr suo padre decide di darla in sposa, a soli sei anni, a Maometto, per rafforzare la sua posizione agli occhi del Profeta, dorme spensierata tra le sabbie del deserto e le dune, sotto stelle che disegnano nel cielo notturno carri e cammelli su cui vagare per perdersi nella libertà. Di Aisha, mi ha sempre incantato la duplicità: essere la donna che ha accompagnato il Profeta nella fondazione dell’Islam - da Medina alla Mecca alla Ka’ba - e insieme la bambina che ha potuto dare ai propri giochi e al proprio credere in se stessa un profumo di eternità. Aisha vive perciò, in un certo senso, un’esistenza divisa…. Un’esistenza parallela, direi. Almeno all’inizio. Quando la ragazza sposa Maometto non lo conosce, non lo ama. Lo fa, insomma, per dovere. Nel libro, ove immagino che Aisha parli in prima persona, inizia con lei che dice: «Era il mio ultimo giorno di libertà». Gli occhi color sabbia di Aisha si ingrigiscono, le sue guance perdono il riflesso del melograno. Lei dice a se stessa: «Non ci sarebbe

l’intervista

A

Parla Sherry Jones, autrice del libro sull’amata di Maometto che le è costato una fatwa

Chi ha paura di Aisha? colloquio con Sherry Jones di Bibi David stato più modo di sottrarmi al suo fato. Allah permettendo, potevo tutt’al più modellare il mio destino, ma non potevo eluderlo». E quando può, sogna il suo passato, le tappezzerie rosse e oro dove giocava con Safwan, finché ad annebbiare queste immagini non ricompare, come una sabbia mobile, il viso di suo padre. In un secondo tempo le cose cambiano, e con Maometto scopre un altro tipo di amore. Ma qui, il romanzo è già arrivato a metà. Cosa, di questa storia, ha suscitato secondo lei una censura così forte da parte di alcuni gruppi islamici? Sfiorare un tema delicatissimo quale la religione musulmana è sempre un rischio. Avevo pensato che si sarebbero create polemiche, ma certo non fino a questo punto. Penso che abbia dato fastidio il fatto che io, l’autrice del libro, sia una donna, una donna che ha osato scrivere con tanta disinvoltura la storia del

ha cambiato l’umanità. Aisha non è solo l’amante preferita di Maometto, ma anche colei che sa seguirlo a La Mecca, consigliarlo nella sua battaglia in modo che gli dei che riempiono la Ka’ba, l’altare a forma di cubo nel centro della città, lascino il posto a una sola divinità, Allah. È l’ispiratrice di Maometto, una delle più devote credenti della nuova religione. Una donna assai forte che, più di tante altre, sa conciliare l’amore con la fede, la religione con la sua istintuale personalità. Il suo romanzo, è stato scritto su importanti testate, è un viaggio verso un altro luogo e un altro tempo, è la scoperta dell’Arabia misteriosa e ambigua di tanti secoli fa. È lì, nell’Arabia, fra le rive del Mar Rosso e il deserto, che nasce l’Islam. Nel VII secolo, quel territorio era diviso tra nomadi e beduini che dominavano il deserto con ricatti e angherie e tradizioni, costumi

Censurato negli Usa e proibito in Gran Bretagna, il romanzo racconta la personalità della sposabambina del Profeta, modello di emancipazione per le donne musulmane. Forse per questo affrontare un tema così è imperdonabile... Profeta dell’Islam. Poi hanno dato fastidio particolari espliciti dell’amore fra Maometto e Aisha come l’iniziazione sessuale della ragazzina, la sua disinvoltura così ribelle alle oppressioni. E soprattutto, ha infastidito ciò di cui gli estremisti islamici hanno terrore: cioè la rivelazione della potenza della donna araba così piena di esuberanza e creatività. È per questo timore, che talora assume la forma del panico, che la donna viene rinchiusa, relegata, messa a tacere da troppe correnti dell’Islam. Denise Spelberg, docente di storia islamica all’Università del Texas, ha definito il suo libro un romanzo porno-soft. Come valuta questo commento? Non mi ritrovo in questa definizione. In questo libro non ho solo raccontato una storia d’amore tormentata e - a volte sì, lo confesso - un po’piccante, ma pure la storia della nascita di una religione che

durissimi che rendevano le donne totalmente chattel, cioè proprietà del genere maschile. Lontana da favole e fasti, l’esistenza della donna era sottoposta a una continua segregazione e oppressione psicologica. Come un’onda, con Maometto, è arrivata la rivoluzione dell’Islam. Come dipinge Maometto nel suo romanzo? Mi sono attenuta alle fonti storiche sia per quanto riguarda la sua personalità religiosa che il suo carattere di uomo onesto e leale. Certo, quando parlo del suo approccio all’amore non manca un che di romanzato, ma sempre senza discostarmi dalla realtà. Pochi conoscono il Maometto uomo e soprattutto il Maometto marito. Uno dei primi episdodi di cui parlo nel libro è il sospetto di adulterio che cade su Aisha. Aisha rimane sola con un uomo e viene accusata dagli amici del Profeta di essere una fahisha, cioè una prostituta. La folla inferocita le

grida «non fa meraviglia che il tuo nome, Aisha, faccia rima con fahisha». Maometto la difende, la consola, crede in lei con dedizione e dolcezza. Sarà ancora lui a tranquillizzarla quando lei, ancora troppo piccola per consumare il matrimonio, gli dirà preoccupata: «Non siamo ancora davvero sposati». E Maometto: «Il matrimonio vero avviene nel cuore, non in camera da letto». Questi sono solo due esempi per capire la personalità di Maometto. Come è vista oggi la figura di Aisha nell’Islam? In quanto moglie del Profeta assai bene. È però guardata con più ammirazione dai sanniti rispetto agli sciiti: sostengono che fu la sposa preferita di Maometto e che il Profeta morì col capo sul seno di lei. Gli sciiti dicono invece che Maometto raggiunse il paradiso fra le braccia del suo fedele Alì. Aisha era una delle dodici mogli di Maometto e viveva in un harem. Come era l’harem di allora e che cos’è i matrimonio oggi nell’Islam? Kadija era la prima moglie del Profeta e per anni restò l’unica. Ma fu Aisha a non accettare mai fino in fondo tanta promiscuità. Era gelosa e faceva scherzi alle altre donne di Maometto, per rovinare la loro reputazione. Era un mondo difficilissimo, quello dell’harem, ben diverso da come lo hanno visto gli occidentali. Anche oggi in molti Paesi islamici le donne piangono lacrime di frustrazione e tristezza, dietro veli e burka. Aisha nel romanzo dice: «Il matrimonio era un cavallo impazzito che galoppava in fretta verso di me». Per tante donne, costrette a sposare uomini che non amano, è ancora così. Il suo romanzo si conclude con Aisha che dice: «Il mio nome significa vita: possa essere così ora e sempre». Quasi a smentire tutto ciò che collega la volontà di distruzione e morte all’Islam…. È un paradosso che in nome dell’Islam sia stata emessa una fatwa contro di me per questo romanzo. Chi predica la morte, il terrorismo e il suicidio, non è realmente musulmano, ma solo un fanatico che si serve della bandiera dell’Islam come di qualsiasi altra dottrina o religione.


tv

video

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di Pier Mario Fasanotti

2009 Poche novità aspettando Sanremo

web

on illudiamoci: quelli non scompaiono. Parliamo dei falsamente famosi della falsa isola dei famosi. E se i loro volti diventeranno più pallidi, la macchina televisiva ne costruirà altri. È il gioco delle mezze cartucce in voga sul piccolo schermo. Che continuerà nel 2009, a soddisfare non tanto la popolazione dei bar e delle bettole della periferia italiana, quanto il branco degli happy-hours, i trentenni con l’aperitivo o la birra in mano che hanno sostituito la normale conversazione con la valanga dei riferimenti al gossip televisivo. Ed ecco a voi le «comparsate» dette anche «ospitate», ossia personaggini che si aggrappano a un invito per tenere in piedi una fama traballante ed effimera. Non sanno far niente, semmai rispondono a domande generiche. Con la soddisfazione di esserci. Ricordate le gemelline Imma ed Eleonora De Vivo? Sono state invitate a pranzo anche dal presidente del Consiglio. Il loro agente, Luca Casadei, è preso d’assalto per mandarle nei locali notturni. Duemila euro a testa. Idem per i servizi pubblicitari. Una marca di abbigliamento ha sborsato di recente ben 12 mila euro per un paio d’ore di «lavoro». Il «dopo-Simona Ventura» rende bene. Tale Rubicondi è ormai un campione di incassi. La sua agenda è piena zeppa fino a marzo. Per una serata dai quattromila ai 4500 euro. Ah, sì, quello che stava con Ivana Trump, dice la gente, curiosissima. In ogni caso il largo pubblico delle otto di sera può stare tranquillo. Striscia la notizia ha confermato la presenza delle due veline Federica e Costanza. Così pare, perlomeno. Loro si sentono «promosse» anche

N

games

se, come precisano, «qualche dubbio c’era». Roba da tenere il fiato in sospeso. Il patron Antonio Ricci è uno che pretende molto. Rivela Costanza: «Lui vede tutto. Studiamo dieci ore al giorno per venti minuti di diretta». Conviene, tanto per tastare il polso all’opinione pubblica, visitare certi siti in rete. Gli insulti si sprecano, le critiche sono tutte imperniate sulla sproporzione tra prestazione e reddito, con l’inevitabile rimando alla gente qualsiasi, magari a un ricercatore universitario pagato malissimo e di fatto indotto a trovarsi un’occupazione all’estero (se ci riesce). Le novità del 2009 non sono granché. Si rifarà vivo il «nonno» Lino Banfi, che ha ricevuto da qualche giorno la laurea horis causa. È di ritorno dall’Argentina dove ha girato per Rai 1 la fiction Scusate il disturbo, mini-serie con la regia di Luca Manfredi. Poi è andato in Germania e ha recitato in tedesco-pugliese, nei panni, ovviamente, di un immigrato. Una storia vera tratta da un libro che in Germania è andato a ruba, con oltre un milione di copie vendute. A lavorare sodo in questi giorni è anche Milly Carlucci, che si prepara con il suo Ballando con le stelle (quinta edizione, dal 10 gennaio). Voci e controvoci sulla presenza di Andrea Roncato, soddisfattissimo del successo teatrale con Un amore grande grande. Roncato vorrebbe essere dappertutto. Anche in un reality show. Dice che in tv si dà troppo spazio agli ex concorrenti e così restano fuori persone preparate e con una lunga carriera. Molti gli hanno dato ragione. Pare presto accennare a Sanremo, ma non è così. Sono tante le domande che circolano sulla formula che sarà adottata da Paolo Bonolis per il suo Festival. Evento che Maurizio Costanzo ha battezzato «festa nazionale». Novità più interessanti non si preannunciano. D’altra parte diamo un’occhiata alla classifica dei programmi più seguiti. Al primo posto Zelig. Seguono Striscia la notizia, Affari tuoi, Paperissima-Errori in Tv. Vivremo con leggerezza, questo è assicurato.

dvd

SOCIAL BOOKS

SIT-COM PER CAMPIONI

UN’ALTRA CHANCE PER ANDERSEN

N

ati per connettere persone che hanno interessi simili, solitamente i social network non danno molto spazio ai gusti letterari degli utenti. Per chi desidera conoscere qualcuno che abbia una biblioteca simile alla nostra è nato nel 2005 www.anobii.com, social network oggi interamente tradotto in italiano. Anobii consente di inserire una lista dei propri libri preferiti e poi di confron-

È

risaputo, più che uno sport il wrestling è una telenovela, un reality ben recitato dove i lottatori accompagnano i loro spettacolari colpi sul ring con sfide, scazzottate, alleanze e tradimenti davanti alle telecamere. Giusto quindi che la sua trasposizione su computer e consolle seguisse questo canovaccio: su WWE Smackdown 2009 è possibile creare una vera e propria storia collegandola al pro-

i sono film che semplicemente non sono fatti per il grande schermo. Nonostante il suo indubbio fascino, Andersen, una vita senza amore, è uno di questi. Biografia, giustamente romanzata, del principe degli scrittori danesi, autore di decine di fiabe oggi stampate in ogni angolo del pianeta, questo film era stato distribuito nelle sale in una data davvero sfortunata,

Cenacoli letterari virtuali grazie ad “Anobii”, un sito dove condividere gusti, opinioni, preferenze

Telenovelas sul wrestling: con “WWE Smackdown 2009” storie su misura per il proprio lottatore

Flop al cinema, il film dedicato allo scrittore danese si adatta di più a una visione domestica

tarla con quelle degli altri utenti. Sul sito è possibile parlare dei romanzi, recensirli, lasciare consigli per reperire certi volumi e scambiarli con gli altri navigatori. Il vero punto di forza del progetto, comunque, è la possibilità di creare gruppi di lettori intorno a preferenze, stili, autori: cenacoli letterari virtuali che permettono di trovare con estrema facilità amanti di un libro che nella vostra cerchia di amici solo voi avete letto. Ovviamente Anobii non riesce a evitare il primo difetto di ogni social network, la litigiosità: non si riuscirà mai a mettere d’accordo chi considera Siddartha un capolavoro e chi lo liquida come un romanzetto buono al massimo per un quindicenne.

prio lottatore, che diventa una sorta di atleta-attore. È questa la vera novità portata dalla versione 2009 di un gioco che per il resto è cambiato poco rispetto alla precedente versione. È possibile giocare con tutti i personaggi visti negli spettacoli televisivi, e ricreare ogni genere di incontro, ma a parte una maggiore fluidità nelle animazioni non si notano grandi migliorie. Si può realizzare un proprio atleta e vederlo migliorare nella muscolatura e nell’agilità man mano che si vincono incontri, ma alla lunga il gioco potrebbe stancare perché gli avversari non sono dotati di un’intelligenza artificiale particolarmente raffinata. D’altra parte il loro unico istinto dovrebbe essere quello di picchiare duro…

il primo agosto. Periodo che in Italia basta da solo ad affossare un titolo. Ora, l’uscita in dvd potrebbe permettere a questa storia, che ripercorre principalmente i difficili rapporti dell’autore con l’universo femminile (in tutta la sua vita non ebbe mai una storia d’amore realmente contraccambiata), di trovare un suo spazio tra il pubblico. Coprodotto da Russia e Italia con un cast interamente straniero, il film mantiene una tensione narrativa costante, ma la sua non indifferente lunghezza e la trama per forza di cose non serratissima lo rendono più adatto a una visione casalinga che non alle poltroncine di un cinema.

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poesia

Eliot e la stella della rinascita di Roberto Mussapi

IL VIAGGIO DEI

MAGI

Fu un freddo avvento per noi, il peggior tempo dell’anno per un viaggio e per un viaggio così lungo: sprofondavamo nelle strade rasi dal gelo, nel cuore profondo dell’inverno. E i cammelli scorticati, ferirti ai piedi, ostinati, sdraiati nella neve che si scioglieva. Ci furono momenti di rimpianto per i palazzi estivi sui declivi, le terrazze, le ragazze vestite di seta che portavano sorbetti. Poi i cammellieri che imprecavano e brontolavano, e scappavano, e volevano liquori e donne, e i fuochi che di notte si spegnevano, l’assenza di ripari, e le città ostili e i paesi nemici, e i villaggi sporchi e tutto pagato a caro prezzo, fu un duro momento per noi. Alla fine preferimmo viaggiare di notte, dormendo a sprazzi, con le voci che cantavano nelle nostre orecchie, che dicevano che tutto questo era follia e basta. Poi all’alba arrivammo a una valle più mite, umida, sotto la linea della neve, odorosa di verde con un ruscello rapido e un mulino ad acqua battente il buio e tre alberi contro il cielo basso e un vecchio cavallo bianco al galoppo nel prato. Poi giungemmo a una taverna con l’architrave coperto di pampini, sei mani da una porta aperta giocavano a dadi monete d’argento, e piedi prendevano a calci gli otri svuotati. Ma non avemmo informazioni, continuammo, e arrivammo di sera, non un istante in anticipo, trovammo il luogo, fummo appagati, diresti. Tutto questo fu molto tempo fa, ricordo, e lo rifarei, ma considera, considera questo: Noi fummo condotti per tutta quella strada da una nascita o da una morte? Vi fu una nascita, certo, ne avemmo prova e nessun dubbio. Ho visto nascita e morte, ma le ho sempre pensate differenti: questa nascita fu aspra e amara agonia per noi, come una morte, la nostra morte. Noi ritornammo ai nostri luoghi, a questi regni, ormai a disagio nelle antiche leggi, fra un popolo estraneo che si aggrappa ai suoi idoli. Conoscerei con gioia un’altra morte. T. S. Eliot (Traduzione di Roberto Mussapi)

l viaggio dei Magi, così frequente nella pittura dal XIII al XVII secolo, connesso alle tante, straordinarie Natività, non conosce pari fortuna nella poesia. Per poi trovare una straordinaria trilogia nel Novecento, credo non a caso. Nel secolo della crisi, degli hollow men (uomini vuoti) di Eliot, dell’«età dell’ansia» di Auden, nel tempo del dubbio, dello sgretolamento del sacro, dell’angoscia, tre grandi poeti riprendono il mito dei sapienti che seppero leggere la rinascita del mondo scrutando nel cielo, individuando una stella. Quella stella segnalava inequivocabilmente il punto dove nasceva il Salvatore, la grotta, o la capanna in cui Dio, in forma di bambino, scendeva sulla terra per noi. Non è un caso che un mito così poco diffuso nella letteratura come quello dei tre Magi si accenda nel Novecento, come una stella.Tre poeti si volgono al mito della speranza, e della sapienza che conduce alla strada capace di rovesciare la morte, di scoprire la vita eterna: il sogno di ogni sapiente onesto, il sogno dei Magi, la preghiera sillabata dai tre poeti, Thomas Eliot, Andrée Frenaud, William Butler Yeats.Tutti e tre scrivono nella prima metà del secolo una poesia sull’argomento, Il viaggio dei magi Eliot, I Re Magi Frénaud, I MagiYeats. Un triangolo strepitoso, Eliot e Yeats sono due delle massime voci del Novecento, Frénaud uno dei poeti francesi più importanti di quel secolo. È come dire che solo la sapienza poetica sa cercare la via d’uscita dalle secche del nichilismo novecentesco, ponendo la sapienza al servizio degli occhi, e gli occhi alla ricerca famelica e poi alla contemplazione di quella stella.

I

Se magicamente, o almeno significativamente, i Re Magi appaiono come una stella nel cielo, più opaco che turbato, del Novecento, per opera di tre grandi poeti (i poeti sono affini ai Magi nelle aspirazioni, dotati di una sapienza volta al segreto della rinascita, al superamento della morte, segreto in cui poesia e preghiera, pur differenti, si baciano), è opportuno inscrivere il loro viaggio e la loro visita nell’ambito della Natività, come si riscontra nella grande pittura italiana fino al Seicento. Anche in questo caso la Natività, il Natale, non hanno una rilevante tradizione poetica e letteraria, ma questa scarsa presenza è ampiamente compensata dalla nascita di un capolavoro, uno di quei libri che restano per sempre, generando una filiazione incessante dal teatro al cinema: il Racconto di Natale di Charles Dickens, la storia dell’avaro e misantropo Ebenezer Scrooge che, nella notte della vigilia di Natale, muta la propria vita e rinasce, è entrata nel museo vivente degli archetipi, accanto all’Isola del tesoro, a Moby Dick, a Pinocchio. Scrooge è visitato da tre fantasmi, quello dei Natali passati, futuri e del Natale presente. Rivive, volando, con gli spiriti, la sua vita, si commuove, rinasce, il mattino di Natale, si lancia per le strade londinesi ansioso di festeggiare con tutti. È importante scrivere un libro che susciti ammirazione nei critici, ben più significativo scriverne uno che ispiri un film a Walt Disney. A parte il capolavoro immortale di Charles Dickens, la letteratura sul Natale non è diffusa. Piccole gemme, come Il mio Natale nel Galles del grande poeta Dylan Thomas, un racconto in prosa modulato come un breve poema, dove prodigiosamente rivivono i Natali dell’infanzia in un continuo crepitare della neve sotto i passi del bambino, dei parenti, del postino, un miraggio nevoso. Ma in Visione e preghiera, poesia leggendaria, lo stesso Thomas, pur non ispi-

randosi esplicitamente al Natale scrive una delle più grandi Natività mai concepite. I versi, in strofe ogivali (come un utero) iniziano con lo stupore del poeta che ode il grido di un bambino che sta nascendo nella casa accanto, separata solo da un muro sottile «come un osso di scricciolo». Da quel momento, attraverso la parete, il poeta sente la nascita del bambino, rivive nei suoi vagiti quella dell’uomo, e in visione, con l’orecchio attaccato alla parete sottile come un osso di scricciolo, vede la nascita del piccolo che salverà l’uomo.Visione e preghiera non è poesia di argomento natalizio, è la poesia di chi scopre il Natale in un qualunque momento della sua vita quotidiana, cogliendone quindi lo spirito e l’essenza.

Il viaggio dei Magi è celebrato nell’Epifania, che significa apparizione, manifestazione. I magi erano una casta di studiosi e maghi che, nella regione dei Medi, tramandano un sapere occulto e straordinario.Astronomi, astrologi, fisici, matematici, mistici, conoscitori di quello che oggi di definirebbe l’inconscio collettivo, o il profondo, il loro sapere inarrivabile si disperse nei secoli in qualche incendio o crollo di biblioteca, ma giunse, a pezzi, ai grandi spiriti dall’antichità a Medio Evo, dai Padri della Chiesa ai poeti sufi, mistici islamici di profonda impronta persiana, fino a Dante e a pochi altri iniziati. Erano zoroastriani, postulavano una venuta di Dio sulla terra in forma umana. Il fatto che gli uomini più sapienti della terra leggessero in quella stella la stessa inequivocabile rivelazione che i poveri pastori e i contadini analfabeti avevano percepito tremando, scrive uno dei miti più potenti della venuta di Cristo. Il più sapiente e il più umile leggono lo stesso segno, il nobile zoroastriano adoratore del fuoco (che incontreremo ancora nel viaggio di Marco Polo narrato nel Milione), lascia il suo castello e la sua biblioteca per un lungo viaggio, per inginocchiarsi a adorare il figlio di Dio. Lì si era già inginocchiato quell’uomo rozzo, sporco, ignorante, che, nel Presepe, guarda in alto con le mani sugli occhi, il cosiddetto «Incantato della stella». Sapienza e umiltà si confondono l’una nell’altra. Questo è il mito che ispira la poesia di Thomas Stearns Eliot (Saint Louis Missouri, 1888-Londra, 1965), vertice del triangolo magico, diamante. Narrata come un viaggio ulissico, con una versificazione incalzante e ondosa, ci mostra l’avventura, i pericoli, i segni inquietanti, soprattutto ci rivela l’affanno del cuore dei Magi che inseguono una visione certa ma misteriosa, ignota quanto percepita come presente. A quel punto, di fronte alla capanna, la scoperta rivelante e tremenda: noi non abbiamo assistito a una nascita ma a una morte. Tutto il mondo che precedeva quella nascita, il nostro mondo, tutto il mondo divino interrogato e adorato all’improvviso si rivela un teatro di illusione, un tempio di immagini ingannevoli. Così tornammo al nostro mondo ormai estranei, tra gente che adorava idoli ormai cancellati dalla nostra mente. Ormai a disagio, scrive Eliot, e le parole sono riprese come titolo di un capolavoro di uno dei grandi scrittori africani del Novecento, il nigeriano Chinua Achebe, dopo il suo incontro con la religione cristiana, che pure era stata pretestualmente usata dagli oppressori della sua gente. Il nostro mondo era morto in quella nascita, scrive impersonando uno dei Magi il massimo poeta del Novecento. Per questo ora vorremmo sperimentare un’altra morte, un secondo, ultimo, definitivo, incontro con Cristo.


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il club di calliope SERVI DEL MONDO

UN POPOLO DI POETI Poi, dopo un lungo e mesto viaggio, tornano a noi fedeli. Tornano sempre Come un amore che non vuol guarire, nelle stanze lontane dove noi abitiamo. Un lago, un bosco Un gesto disegnato nella nostra mente. Si annunciano nel cuore della festa, ospiti che non attendevamo e sono i benvenuti.

Le falsità dell’intelletto, gli oscuri mostri del pensiero, l’effetto delle vane immagini sul cuore, l’eterno ricorso alle risorse dell’amore, l’ombra del vero eluso senza reale soluzione. Con solo un dato certo, in fondo, neppure più la previsione del tempo perso per servire il mondo.

Mauro Fabi

Paolo Ruffilli

Siamo qui che guardiamo Questa via, insieme siamo stati Bene ma noi siamo sempre di fronte Al mondo che sentiamo una musica Suonare Incantati dal desiderio di tutto,

CARTOLINE DALLA RIVIERA ADRIATICA in libreria

chissà come finirà.

Paolo Orsi

di Loretto Rafanelli lessandro Moscè è un apprezzato critico letterario, autore di studi sui poeti lirici e sulla poesia dei luoghi in alcuni autori italiani (da Pavese a Guerra), ma è pure poeta, giunto al suo secondo libro con Stanze all’aperto (Moretti & Vitali, 126 pagine, 11,00 euro). Anche nella sua poesia Moscè preferisce fissare lo sguardo nei luoghi dell’appartenenza, nei luoghi dell’anima, così che il «verso si fissa come un’impronta sul suo-

A

attraversato indubbiamente da una certa malinconia, ma pure dalla giocosità di una stagione infinita, come già Pier Vittorio Tondelli ci aveva descritto. Non che il mare sia occultato, ma un po’posto in ombra e forse considerato urna, perché «tra le vastità dell’Adriatico» i nostri morti ci guardano. L’urgenza allora per l’autore è quella di tracciare la vita nel suo vorticare, nella ricchezza del suo scorrere, nei tanti atti quotidiani e nella semplicità del-

Con le spalle al mare, un quadro della vivacità dei volti, dei corpi, di spiagge affollate e folli serate. Ma “Stanze all’aperto” di Moscè è anche una raccolta sull’assenza dell’amore lo», il suolo nella sua totalità fisica di terra e di mare, di collina e di città. E coi luoghi, la vita degli uomini, perché al poeta poco importa la natura. Così, lasciandoci portare dai suoi versi, nella prima parte di questo bel libro, abbiamo ripercorso quel tratto magico che è la riviera adriatica che va da Pesaro a Rimini, il centro del mondo estivo per anni e anni, e che il poeta ci restituisce come una cartolina ormai ingiallita. Curiosamente, pare che Moscè si sia messo con le spalle al mare e abbia tracciato un quadro, alla maniera di Brüghel, nella vivacità dei volti, dei corpi, di spiagge affollate, di folli serate. Un quadro

le cose (dalla pulizie delle strade al turno notturno degli operai). Ma è anche poesia notturna quella di Moscè. Nel senso proprio di un’esistenza vissuta nel ventre della notte e il poeta pare una vedetta tesa a scoprire il viaggio degli uomini che si agitano nei meandri della città (bar, discoteche, stazioni). E soprattutto è in trepido ascolto dei sussulti o dei silenzi delle donne amate, cercate, mancate. Perché questo libro è senz’altro un libro sull’amore, anzi sulla sua inevitabile assenza: «Non lo si vede mai l’amore/ ma lo si sente arrivare/ in un bacio arretrato,/ come fossimo due morti».

Verso il mare ho visto il passaggio degli uccelli, il loro tormento quotidiano, la loro gioia infinita, ho visto i pesci andare con sicurezza verso il profondo, ho visto l’emozione della vita e il grande mistero del vivere.

Pietro Zagnoni

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

rande vitalità di mostre fotografiche per tutt’Italia. A Milano almeno due rilevanti: William Klein con i suoi Contacts al dripping, che son quasi più pittura che non fotografia e Robert Frank a Palazzo Reale, Lo straniero americano: tutto Kerouac e figli dei fiori. Mussat Sartor a Torino: «l’invenzione» dell’Arte Povera, il Paolini della fotografia. Bellissima a Firenze e nuova davvero quella al Museo Alinari dedicata al rapporto tra paesaggio macchiaiolo e fotografia, con anche il notevole fondo di scatti di Cristiano Banti. A Roma non si contano, agli Scavi Scaligeri di Verona un bel censimento della fotografia sperimentale italiana, Fotografia astratta, dalle avanguardie al digitale, con Veronesi, Gioli, Giacomelli, Migliori, Fontana, Wolf, ecc. Ma su due almeno, meno ufficiali, vorremmo soffermarci. Bologna, Galleria de’Foscherari, scatti inediti (e come sempre bellissimi) di Ghirri di Musica, così si chiama la mostra, perché investe il rapporto tra il grande fotografo emiliano Luigi Ghirri, scomparso poco più che quarantenne e Lucio Dalla. Amici per la pelle anche della pellicola, viaggi insieme per l’America e l’Italia, molto on the road e beat generation (siamo però nell’86), una spedizione insieme a Sorrento, per girare Caruso («un’astmosfera stranamente lacustre getta una luce mitteleuropea sui saloni», le isole Tremiti ghiacce d’inverno e le stanze vuote d’albergo, che fanno molto Annèe dernière a Marienbad). Con la sagoma di Dalla, che ogni tanto si profila scura dentro l’ombra dennishopperiana del caravanserreaglio-MacDonalds. Ma non è quest’aspetto cameratesco che vorremmo privilegiare (come dice la vedova di Ghirri, Paola Borgonzoni, introducendo: «Ma io non sono tanto sicura di voler ricordare, perché dopo arriva la nostalgia che non serve a niente»). Forse ha più senso indovinare la radice cantata, jazzata di queste immagini (basta una liturgia di bottiglie di vermuth Cinzano, post-morandiane, su di un davanzale spoglio con spazzola, a inventare uno scatto da maestro) ed è quello che, in un dialogo con Ghirri, Dalla chiamava: «foto musicate». «Che cosa intendi con questo termine che mi piace molto, si sente che amo la musica, che hanno una loro musicalità o gradevolezza?». «Sì, anche, ma con musicate intendo che hanno un loro suono interno, che hanno un inciso, un ritornello, si sente che sono costruite, che

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Racconti per immagini

da Sorrento a New York di Marco Vallora hanno un mixaggio». Come se parlasse d’un compagno di bevute, il fotografo cita anche Borges: «Un giorno Borges scrisse che alla fine scavando in profondità nella nostra memoria ritroviamo qualche canzone dimenticata e delle fotografie ingiallite, che ne pensi?». Bel testo in catalogo Gli Ori di Nino Castagnoli, che racconta di questo «racconto per immagini» e di come è uscito dai cassetti imprevedibili di Dalla, e di come Ghirri fotografasse «necessariamente». Ma bellissimi

arti

anche i testi di Ghirri stesso, che racconta (citando Adorno, da fruitore «orrendamente passivo») le sue erranze nei «paesaggi sonori»: «per incontrare uno sguardo». Magnifica la pagina di disorientamento, nell’inverno sorrentino, durante le Settimane del Cinema (c’ero anch’io, in quell’anno, che brivido pensare d’averlo potuto sfiorare, magari finire involontariamente in uno scatto. Scatto d’orgoglio). La musica sotterranea della «salutare grande forma di fragilità e tenerezza» della fotografia: «non-arte museale, titanica», paragonabile a una canzonetta. «Così (entrambi) mi sembrano sempre piccole illuminazioni, squarci visionari che si consegnano a noi per diventare semplicemente parte della nostra vita». Lo scrive nell’illuminante testo Ritorno da Sorrento: la realtà che gli pare «uno scenario di cartapesca», la luce al neon che screpola tutto. Così sono le sue fotografie, anche di NewYork, che ci restituiscono una NewYork mai vista, mai fotografata, finta, edward-hopperiana, di sbrecciato cartongesso (o quella bellissima, mallarmeiana, d’uno specchio vuoto in un angolo malevitciano di motel, che specchia uno specchio vuoto e le ombre infinte). «È una strana sensazione quella che provo, come di una scena che non si può ripetere o rivedere se non per attimi e solo nella memoria, come un carillon di cui si è persa la chiave». Così sono le sue fotografie: strappi incellophanati di stupore infantile, vecchissimo. Ma sono anche molto stregate e belle le fotografie che la scrittrice e viaggiatrice Patrizia Guerresi, che ha assunto anche un’identità mussulmana, con il nome di Maimouna, espone al Filatoio di Caraglio, invitata dalla torinese galleria Photo & Co, accanto allo splendido dialogo tra le corazze dei Samourai e le «sculture» di seta di Roberto Capucci. Anche qui gli abiti, simbolici, scultorei della fotografa sono fondamentali, per queste sacre figure di idoli neri, che non espongono solo il loro ieratico volto, segnato da simboli religiosi-apotropaici, ma vedono il loro corpo cavo, assente, trasformato in un trono, in un recettacolo magico, in un geniale tabernacolo che omaggia il Nulla rigido e avanza come nel buio. Il corpo sottratto del carisma sciamanico.

Ghirri musicali, Bologna, Galleria de’ Foscherari, fino al 14 gennaio; Patrizia Guerresi, Filatoio di Caraglio (Cuneo), fino all’11 gennaio

autostorie

Eleganza su strada: capolavori lungo un secolo di Paolo Malagodi ra i vari volumi strenna che hanno ornato le vetrine natalizie delle librerie, in veste elegante e sui più vari argomenti, non è mancata l’automobile, che pur alle prese con difficoltà finanziarie di giorno in giorno crescenti, mantiene stuoli di appassionati, sensibili al fascino di uno strumento non solo di mobilità, ma espressivo dei migliori contenuti stilistici di cui è capace la produzione industriale dei nostri tempi. Ovvio perciò che, soprattutto in vista di un periodo più degli altri caratterizzato dallo scambio di doni, diversi editori abbiano puntato sull’interesse per le quattro ruote. Con l’uscita di novità curate nei dettagli, dalla rilegatura alla grafica, attraverso prodotti conseguentemen-

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te obbligati, non di rado, a un significativo prezzo di copertina. Anche se talvolta si riscontrano meritorie eccezioni, che riescono a conciliare l’eccellenza formale a un listino calmierato, in un rapporto tra contenuti e prezzo che premia l’acquirente. Come succede con un libro dalle singolari misure di trentaquattro per quarantadue centimetri (Automobili, eleganza su strada, edizioni White Star, 208 pagine di formato extralarge, 35,00 euro), realizzato da Ron Kimball e Matt Delorenzo. Fotografo, il primo, di fama internazionale e specializzato in campo automobilistico, alla cui maestria si debbono gli scatti che compongono una sorta di galleria, dei modelli più importanti e influenti durante un secolo di evoluzione motoristica. Presentati, grazie alle particolari dimensioni del libro, in raffi-

nati scatti da studio che mettono in risalto, su sfondo nero, la vivacità dei colori e la brillantezza delle cromature; con una stampa sviluppata su pagine a specchio, per splendide immagini quasi da poster. Una selezione che include vetture interpretate come oggetti di alto design, nell’attenta sottolineatura delle eccezionali caratteristiche che fanno, di ciascuna delle auto rappresentate, un capolavoro. La serie fotografica viene poi commentata dal secondo autore, già responsabile di autorevoli riviste statunitensi del settore, che inquadra con brevi e incisivi testi la raccolta; suddivisa in cinque sezioni tematiche, dedicate a ciascuna delle qualità che possono decretare il successo di una vettura: la capacità di divertire, il prestigio, la velocità, la potenza e la bellezza. «Perché, a farne una questio-

ne pratica - sottolinea Delorenzo - le automobili vengono costruite per fungere da mezzi di trasporto. Ma non è così che la vede la maggior parte delle persone, per le quali l’automobile è una proiezione di chi la possiede, un’esibizione che si sposta». Una questione estetica sulla quale verte, a chiudere il volume, l’opinione di Walter de’ Silva - responsabile del design per il GruppoVolkswagen - secondo il quale: «Poche linee ben fatte e bilanciate, una superfice scultorea: questo è un buon design; se il progetto è autentico, allora non devi coprirlo con linee artificiali». Una filosofia rigorosa, fortunatamente condivisa da altri primari progettisti, a garanzia che esemplari di grande eleganza su strada se ne vedranno anche in futuro, almeno fin quando l’automobile avrà vita.


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architettura

L’Italia a Parigi, al “Primo piano” di Bon Marché di Marzia Marandola a presenza italiana a Parigi è sempre più diffusa e visibile: non ci riferiamo qui alle opere d’arte italiane che, disseminate nelle sale del Louvre e degli altri musei, da secoli sono naturalizzate nella cultura francese. Parliamo di un fenomeno del tutto attuale che contrassegna le strade più eleganti della città, dove le vetrine esibiscono prodotti italiani, dall’abbigliamento alla gastronomia, un tempo

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domini incontrastati della tradizione francese. Cucina e architettura italiana si coniugano nel nuovo ristorante che si è appena inaugurato all’interno della sede storica dei grandi magazzini Bon Marché. A rue de Sèvres, nel cuore di Saint Germain des Près, Casa Bini, il ristorante toscano che negli anni ha conquistato un ruolo di spicco nel panorama gastronomico parigino, si è assicurato la gestione del ristoran-

design

te Primo Piano all’interno del Bon Marché. Il nome del nuovo locale gioca sulle sfaccettature semantiche dell’espressione «primo piano», che se da un lato allude alla localizzazione proprio al primo piano dei grandi magazzini liberty, dall’altro suggerisce il primato che qui si riconosce alla qualità del cibo, alla convivialità, alle sue dense implicazioni sociali oltre che ai sensi che la gastronomia eccita e blandisce. Leo Berellini, giovane architetto perugino che vive e opera con successo a Parigi, ha tradotto in termini architettonici la polisemia del nome, attribuendole forma visibile e funzionalità conviviale. Prendendo le mosse da alcuni dati immodificabili, quali l’impianto semicircolare della sala e il grande infisso vetrato che la separa da una terrazza-giardino pensile (ancora da sistemare), Berellini, dando prova di un’essenziale padronanza espressiva, ha allestito un ambiente semplice, schietto e accogliente come la cucina di impronta toscana che offre il ristorante. Partendo dalla geometria del cerchio, che genera l’impianto, l’architetto ha individuato, all’interno di coppie di raggi, le unità di servizio dei tavoli, che sono in cri-

stallo dal nitido disegno, e delle sedute, semplici parallelepipedi con struttura in legno e appoggi in acciaio, rivestiti in tessuto écru che, quando sono a due posti, si incurvano assecondando la semicirconferenza che delimita la sala. Il diaframma circolare che separa il ristorante dagli spazi commerciali è impalcato da due contropareti in cartongesso di colore avorio che dissimulano la preesistente struttura pilastro-trave, che determina il ritmo e le dimensioni delle aperture. Configurate da vani rettangolari vetrati esse assicurano la continuità visiva tra lo spazio discreto del ristorante e la colorata animazione del grande magazzino e splendono come astratti scrigni di cristallo dove esporre opere d’arte e di design del made in Italy. In definitiva Primo Piano gode di uno spazio affabile e moderno, contrassegnato da un’eleganza sottile e segretamente accattivante, declinata da linee severe e da accordi cromatici che si dispiegano dal profondo grigio dei listoni di rovere tinto wengè del parquet alla mescolanza écru della stoffa delle sedute, all’avorio dei pannelli fonoassorbenti al niveo candore del bancone che, con l’impertinenza improbabile di una prua navale, taglia lo spazio e slitta le geometria curve dell’impianto spaziale.

Il sogno americano di George Nelson di Marina Pinzuti Ansolini

l Vitra Design Museum di Weil am Rhein, ormai consolidato tempio dedicato al design del XX secolo, propone ora una grande mostra celebrativa di un «grande» americano nel centenario della sua nascita: George Nelson. Architetto, designer, scrittore, pubblicista, fotografo, editore di riviste, organizzatore di mostre e di eventi, attraversa il secolo del «sogno americano», stimolato incessantemente dalla necessità di migliorare la qualità della vita, sia in casa che nel luogo di lavoro. Dalla fine degli anni Trenta è iscritto all’albo dgli architetti dello Stato di New York e realizza, nel 1941, la Sherman Fairchild House, uno degli edifici più rappresentativi del modernismo americano. Nel 1945, pubblica, insieme a Henry Wright, il suo best seller, Tomorrow House, nel quale manifesta idee innovative nella concezione della casa; precursore di tempi futuri dove la necessità di ottimizzare gli spazi diventerà esigenza prioritaria, teorizza la sostituzione delle pareti con degli elementi contenitori a tutta altezza, definiti Storage Wall. Dal 1946 è assunto come designer dalla Herman Miller, rinomata ditta produttrice di mobili per la quale progetta una prima collezione di 80 pezzi seguita da molti altri durante una collaborazione di oltre vent’anni. Tra i tanti come non ricordare il Marshallow Sofa del 1956, citazione ironica dell’omonimo e intraducibile dolcetto americano tanto amato da Snoopy o la poltroncina Coconut chair, la cui forma triangolare è ispirata da una porzione di noce di cocco?

I

Negli anni Sessanta la sua attenzione si sposta alla sezione Ufficio della Herman Miller. Già autore, alcuni anni prima delle prime scrivanie a forma di L, pensate per agevolare la posizione dell’individuo nella sua postazione di lavoro, si dedica alla progettazione di uffici, basata su un sistema di moduli da combinare liberamente a misura delle diverse esigenze. Sempre in costante dialogo con i grandi contemporanei, ottiene la collaborazione di nomi quali Charles Eames, Alexander Girard e Isamu Noguchi prima e più

tardi, Ettore Sottsass e Michael Graves. Il suo studio di New York, nel corso di trent’anni, avvalendosi della collaborazione di oltre 50 professionisti, ha prodotto una serie infinita di progetti di mostre, restauri, oggetti per la casa, elettrodomestici, computer, macchine da scrivere , opere di grafica pubblicitaria. L’evento più rappresentativo delle molteplici capacità di George Nelson si svolgerà a Mosca nel 1959, dove è organizzatore e realizzatore dell’American National Exhibition. È in corso la guerra fredda tra Russia e Stati Uniti e i centinaia di prodotti industriali americani selezionati da Nelson, sono esposti a dimostrare come il capitalismo renda migliore la vita dell’individuo: Cadillac, impianti hifi, lavastoviglie, lavatrici, scarpe con i tacchi, rossetti, miscele preparate per torte, bottiglie di Pepsi Cola e tosaerba nonché un’intera casa «modello» alla facile portata di ogni famiglia americana. La retrospettiva di George Nelson, al Vitra fino al primo marzo 2009, si suddivide in cinque aree tematiche: teorie, progetti e sperimentazioni sul tema della casa, del design di oggetti, dell’ufficio, del design per le mostre e sulla sua attività di autore e pubblicista. Fiore all’occhiello dell’evento è la esaustiva raccolta delle opere di Nelson di proprietà dello stesso museo.

George Nelson, Vitra Design Museum, Weil am Rhein, fino al 1° marzo


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fantascienza

hilip Kindred Dick (1926-1982) è stato uno degli scrittori più importanti della fantascienza americana del secondo dopoguerra. Esordì negli anni Cinquanta come prolifico autore di racconti dalla prosa nitida e scorrevole e dalle idee spesso originalissime e fuori dal comune, uno dei migliori nell’ambito delle storie brevi che trovò subito ospitalità su tutte le riviste dell’epoca. Poi cominciò a scrivere romanzi, con sempre maggiore intensità e oscillando come qualità, ma sempre ricchi, a volte anche troppo, di idee clamorose, raggiungendo l’affermazione e il successo con il suo ormai famoso The Man in High Castle, che ottenne il Premio Hugo 1962, storia di un’America divisa tra Germania e Giappome vincitori della seconda guerra mondiale e noto in Italia soprattutto col titolo La svastica sul sole. Il tema quasi ossessivo della sua produzione lunga è che la realtà non esiste, che si tratti di un Grande Gioco di cui l’umanità è inconsapole e che viene scoperto casualmente da qualcuno, e che spesso siamo dei semplici burattini manovrati. Pura schizofrenia mescolata a paranoia, si penserà: una versione fantascentifica del famoso Complotto Universale portato a livelli cosmici e metafisici. In effetti è proprio così: in parte per sua personale propensione culturale e umorale, in parte per l’abuso di alcol e droghe, veramente Dick pensava che le cose stessero così, ma per poi trasformarle in trame di pura science fiction, molto appassionanti anche se spesso con un «finale aperto» a varie soluzioni che così lascia in sospeso gli interrogativi sollevati, ma allo stesso tempo lascia anche il lettore insoddisfatto.

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Dick aveva iniziato come scrittore «realista», anzi «neorealista», e aveva fatto molti mestieri per poter vivere, secondo una regola classica per certi scrittori americani.Tutto quel che aveva prodotto di mainstream, come in genere lo si definisce, venne rifiutato e finì nei cassetti per essere man mano recuperato negli anni successiuvi alla morte dagli eredi che lo hanno fatto pubblicare con un certo clamore: per noi esagerato, dato che le storie realistiche, mimentiche, assolutamente nulla aggiungono al Dick fantascientifico, anzi tolgono parecchio, talché il rifiuto da parte degli editori dell’epoca appare giustificato: tradurle in Italia è stato spesso imbarazzante, a dir la verità. Sta di fatto, però, che quando il Dick fantascientificamente maturo venne «scoperto» nell’Italia degli anni Settanta dal mensile Galassia e dalla Science Fiction Book Club (le opere precedenti erano già apparse su Urania), lo si volle presentare come un tipico esempio di intellettuale progressista, liberal, accusatore implacabile dell’establishment culturale e politico conservatore, del militarismo, della Casa Bianca ecc. ecc. ecc. Un’icona dura a morire, che pur aveva qualche fondamento nel lato più esteriore e superficiale della sua produzione. Una speculazione un po’ provinciale, se vogliamo, ma quasi obbligatoria in anni in cui la vita italiana era funestata dalla «contestazione», dagli «anni di piombo», quando essere appunto conservatori o di destra era quasi una «colpa». Meno male che nella patria del capitalismo, gli Stati Uniti, c’era chi non la pensava come quei semi-dittatori che abitavano alla White House. Una icona dura a morire come si è detto, se si pensa co-

ai confini della realtà Philip K. Dick MobyDICK

le ambiguità del reale di Gianfranco de Turris tembre 1974 scrisse alla polizia federale perché si era convinto che un gruppo di intellettuali complottasse contro la fantascienza americana e contro l’America: «Accludo la lettera del professor Darko Suvin per proseguire con le informazioni che vi ho già mandato in precedenza (...) Legati a lui ci sono tre marxisti sui quali vi ho già inviato notizie: Peter Fitting, Fredric Jameson e Franz Rottensteiner, l’agente di Stanislaw Lem nel mondo occidentale (...) La cosa più importante non è che queste persone siano marxiste o che abbiano contatti all’estero. La cosa importante è che sono anelli di una catena di comando al vertice della quale c’è Stanislaw Lem, scrittore polacco e funzionario del Partito comunista».

me ogni traduzione anche recente di Dick, richiami paginate di recensioni sulle testate della sinistra come Unità, Liberazione, manifesto. Ma le cose non stavano affatto così: Dick era tutt’altro che un intellettuale politicizzato, come anche all’epoca si tentò di dire: era soltanto un grande scrittore che esterioriz-

dobbiamo ringraziare quel misto di schizofrenia/paranoia di cui lo scrittore era affetto perché sicuramente non gli avrebbe permesso di scrivere i suoi capolavori, sino a quella che saccentemente è stata definita la «deriva mistìca», la Trilogia di Valis, con cui concluse la sua carriera. Peccato che questi

Mentre veniva celebrato dalla cultura di sinistra come emblema dell’antiamericanismo, l’autore di “Blade Runner”, all’inizio degli anni Settanta, denunciava alla Fbi un complotto di scrittori marxisti. Un evento conosciuto molto tempo dopo, ma che ha quasi il sapore di una vendetta della storia (fantascientifica)... zava le sue idee, i suoi fantasmi interiori, le sue paure, le sue allucinazioni, nei romanzi che scrisse e pubblicò sino al 1982, l’anno della morte per infarto. L’anno anche in cui aveva finalmente raggiunto una certa tranquillità familiare e un’agiatezza economica per aver venduto i diritti di una sua opera, nemmeno recentissima, da cui Ridley Scott trasse l’immortale Blade Runner, che Dick, per sua sfortuna, nemmeno riuscì a vedere proiettato. Paradossalmente

aspetti i suoi laudotores ideologizzati italiani non li prendano mai in considerazione. Così come anche un lato politico della sua vita: ad esempio, quando denunciò un complotto comunista di scrittori di fantascienza alla Fbi. Sarà pure un aspetto antipatico e poco edificante della sua vita, ma certo demolisce il mito di un Dick progressista e antiamericano come lo si voleva far passare a suo tempo. Come ormai riportato dalle sue biografie, Philip Dick il 2 set-

Che Jameson, professore di letteratura, sia tuttora marxista è esatto. Che lo sia anche Darko Suvin, professore di letteratura comparata in Canada, autore di un Le metamorfosi della fantascienza tradotto da Il Mulino e oggi residente in Italia, a Lucca, dopo la dissoluzione della Jugoslavia, sua patria di origine, pure. In più, aggiunge Dick soggiacendo alle sue sindromi, Lem potrebbe non essere una persona reale ma più di una, un gruppo, autore dei suoi romanzi: e questo «comitato chiamato Stanislaw Lem», egli scrive alla Fbi, intende «guadagnare una posizione di monopolio con la quale controllare l’opinione pubblica attraverso la critica letteraria e la pedagogia». Conclusione: «Un gruppo di persone residente a Cracovia, in Polonia, potrebbe un giorno controllare completamente la cultura americana». Ovviamente Lem, che viveva appunto a Cracovia e morto nel 2006, non era un «nome collettivo»... Il parto di una mente esaltata e turbata, certo, ma è strano come invece di denunciare un complotto che aveva lo scopo di «controllare completamente la cultura americana» di matrice militarista, reazionaria, capitalista e magari fascista, Dick ne abbia denunciato uno di matrice marxista le cui origini erano in un Paese oltre quella che allora si chiamava la «cortina di ferro». È grottesco il fatto che questi eventi, conosciuti ovviamente solo parecchio tempo dopo, siano avvenuti proprio all’inizio degli anni Settanta, allorché i giovani, baldanzosi, politicizzatissimi appassionati e critici italiani lo portavano in palmo di mano additandolo come perfetto scrittore anti-sistema americano. Lui che ormai era in procinto di trasformarsi in attivista anti-alcol, anti-droghe, anti-aborto, patriottico e religioso, anche se di una religiosità tutta sua. Le vendette della storia (fantascientifica).


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