Tesi su Celle Sorrento

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CAPITOLO I Quadro introduttivo

1.1 Celle di San Vito: la storia e le origini Circa otto secoli fa Carlo I D’Angiò, figlio di Luigi VIII Re di Francia, fu chiamato da Papa Clemente IV in Italia. Il Papa era turbato perché i territori della Chiesa erano minacciati dal re normanno Manfredi. Clemente IV propose a Carlo D’Angiò di affrontare Manfredi e, in caso di vittoria, egli sarebbe stato incoronato Re del Sud Italia. Piuttosto facilmente Manfredi venne sconfitto dalle milizie francesi e Carlo fu incoronato re nel gennaio 1265 in Piazza San Pietro a Roma. In realtà, Carlo D’Angiò non era ancora in grado di esercitare una piena sovranità sul suo regno: un gruppo di Saraceni aveva infatti occupato l’antica colonia romana di Lucera e da lì continuava a saccheggiare la zona. I Saraceni rappresentavano l’ultimo ostacolo da abbattere prima che il neo incoronato Carlo D’Angiò potesse davvero considerarsi re di tutto il Sud Italia. Carlo D’Angiò, però, non riuscì a piegare i Saraceni così facilmente e nell’inverno del 1269 fu costretto a pianificare un lungo assedio a Lucera. Furono militarizzati i villaggi vicini (Castelluccio Val Maggiore e Troia) per impedire ai Saraceni qualsiasi tipo di approvvigionamento e via di fuga. Il re mandò anche duecento soldati francesi a presidiare un antico forte chiamato originariamente Crepacordis, l’odierno San Vito. Il forte era situato sull’antica Via Traiana. Nato come stazione di sosta costruita dai Romani secoli prima, esso era divenuto in seguito un avamposto dei Cavalieri di Malta i quali garantivano la praticabilità del cammino ai pellegrini. Crepacordis era in una posizione strategicamente perfetta per poter tenere sotto controllo i movimenti dei Saraceni nella pianura sottostante, sorgendo su un’altura a quasi 1000 metri d’altezza. Il 27 agosto 1269, Carlo sconfisse i Saraceni e diventò Re del Sud Italia a tutti gli effetti: “coi piedi scalzi, con le corde al collo, sparsi i capelli di cenere, nel fango, s’inginocchiarono all’angioino arrendendosi a discrezione”1. Ci sono diverse ipotesi sulla nascita di Celle di San Vito e Faeto (comune contiguo a Celle da cui dista 1,8 km): secondo una di queste Carlo I D’Angiò, 1

Gifuni 1937: 16.

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divenuto re, volle ripopolare quelle terre con persone a lui fedeli, dato che molti contadini di quella zona erano morti o fuggiti durante la guerra. La tradizione vuole che nel 1274 il re concesse a circa duecento soldati di restare nella località di Crepacordis. Successivamente permise agli stessi di essere raggiunti dalle rispettive famiglie e da altri coloni del sud della Francia allo scopo di ripopolare tutta la zona intorno a Lucera. Intorno alla metà del Trecento, però, le stesse milizie francesi decisero di allontanarsi dalla Via Traiana, divenuta oramai troppo pericolosa per i molti eserciti che la attraversavano e per il continuo vento che caratterizzava la zona. I coloni si rifugiarono così in due antichi monasteri, Sancti Salvatoris de Fageto e Sancte Marie de Faieto, costruiti, secoli prima, a ridosso della Via Traiana per dare ristoro ai pellegrini. Ebbe così origine, secondo la tradizione, Faeto. L’etimologia della parola deriverebbe dal luogo in cui erano situati i monasteri: un faggeto, vale a dire, un bosco di faggi. Il resto dei soldati scelse invece il Cenobio di San Nicola, costruito dai monaci intorno al 1100 come residenza estiva sul monte di fronte a Faeto. Ebbe così origine l’insediamento di Celle, la cui etimologia deriverebbe dalle piccole stanze in cui vivevano i monaci, chiamate per l’appunto “celle”. Da allora e per circa cinque secoli, le piccole colonie di Celle San Vito e Faeto si svilupparono in maniera separata rispetto, non solo alla madrepatria francese, ma anche ai territori a loro circostanti. Nel 1810 furono poste sotto la giurisdizione di Castelluccio Val Maggiore, un paese vicino, e vi restarono fino al 1861. Una seconda ipotesi si basa sull’editto del 20 ottobre 1274, con cui Carlo D’Angiò, dopo la resa dei Saraceni, si sforza di ripopolare il territorio e di incrementare il suo dominio attirando dalla Francia gruppi di contadini e artigiani con la promessa di benefici e privilegi. Una terza ipotesi è invece quella che fa capo al valdismo. I Valdesi ebbero origine nel Medioevo come seguaci del predicatore Pietro Valdo di Lione. Ben presto il gruppo fu identificato con l’espressione “Poveri di Lione”. Nel 1184 a Verona, con la bolla Ad Abolendam, Papa Lucio III scomunicò una serie di movimenti ereticali, tra cui i Poveri di Lione. Nonostante la condanna papale, il movimento valdese continuò la sua espansione nel sud della Francia e nel nord Italia, giungendo anche in alcune regioni della Germania, in Svizzera e persino in Austria, Spagna, Ungheria, Polonia e Boemia. Alcuni storici, tra i quali Pierre Gilles e successivamente Emile Comba sostengono l’origine valdese di Celle San Vito e Faeto. Scriveva Gilles alla metà del XVII secolo: “allèrent habiter és frontières de l’Apouille, vers la ville de Naples, et 2


avec le temps y édifièrent cinq villettes closet : assavoir Monlione, Montavato, Faito, La Cella et la Motta”2. E Comba a fine Ottocento: “Di tutte le colonie valdesi la meglio accertata e la più memorabile è quella che si formò nel mezzogiorno d’Italia”3. È accertato che le parrocchie di Celle San Vito e Faeto furono fondate con bolla papale da Pio V nel 1566 in conseguenza della diffusione dell’eresia valdese nella zona. È quindi probabile che nel corso dei secoli gruppi di esuli valdesi abbiano trovato rifugio presso le due comunità, senza tuttavia aver contribuito alla loro fondazione. Proprio la mancanza di vie di comunicazione agevoli come quelle che secoli prima permisero, anche se indirettamente, a Celle San Vito e Faeto di originarsi, crescere e prosperare, fu la causa del loro isolamento culturale, ma anche di una diffusa crisi economica che perdurò per secoli. Occasione di una storica opportunità di modernizzazione e quindi di un auspicato cambiamento arrivò nel XVIII secolo, senza però poi concretizzarsi, con il possibile passaggio della strada ferrata. La progettazione delle prime reti ferroviarie spinse infatti, nel 1797, il re Ferdinando I di Borbone a propendere per la realizzazione di un tratto di ferrovia Napoli-BeneventoManfredonia, la quale avrebbe attraversato il Comune di Celle di San Vito, seguendo in parte il tracciato della Via Traiana. La ferrovia, però, subì un radicale cambio di percorso. Fin dalla loro origine, Celle e Faeto restano alle dipendenze di Castelluccio Val Maggiore, infatti il governo degli angioini per non lasciarli in balia di sé, dato che si trovavano in una terra di cui non conoscevano lingua e tradizioni, li aggregò al comune più vicino. Dopo diversi secoli di regimi feudali, dal 1810 Celle vanta di essere un comune indipendente e gode libertà di indirizzo civile e amministrativo.

1.2 La lingua francoprovenzale Nella provincia di Foggia, tra le montagne del Sub Appennino Dauno, nell’alta valle del torrente Celone, sorge un piccolo quanto pittoresco paese, che porta il nome di 2 3

Gilles, 1643, cit. in T. Telmon, 1992 : 30. Comba, 1898: 478.

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Celle San Vito. Una delle peculiarità più intriganti di questo piccolo borgo è la sua parlata francoprovenzale, introdotta da una colonia proveniente dalla Francia sudorientale, che si insediò nell’alta valle del Celone nel XIII o XIV secolo. Il termine “francoprovenzale” è stato coniato dal linguista italiano Graziadio Isaia Ascoli4 nel 1873. Questa lingua, pur non avendo una tradizione scritta, è stata tramandata oralmente con un sorprendente grado di integrità attraverso vari secoli ed oggi è ancora parlata non solo a Celle ma anche in tante altre famiglie cellesi emigrate in molte località in Italia e nel mondo. Chi prende in esame questa lingua non può non essere sorpreso nel constatare come essa sia giunta fino ai giorni nostri ed abbia conservato tanti aspetti fonologici, morfologici e lessicali francoprovenzali che sono presenti tuttora nelle parlate francoprovenzali del Piemonte, della Valle d’Aosta e di alcune regioni della Francia sud-orientale e della Svizzera romanza. Il sacerdote Don Luigi Savino5, originario di Celle, riferisce che Celle San Vito venne fondata verso la fine del XIII secolo da una colonia di Provenzali, soldati mercenari di Carlo D’Angiò, reduci da Lucera dopo aver sconfitto i Saraceni. Marie Thérèse Lorcin6 scrive che l’araire, parola francese corrispondente alla parola cellese la rare , l’aratro, è lo strumento più antico e, per molto tempo, l’unico conosciuto per quel genere di lavoro. La charrue, altro termine francese che nella parlata cellese non ha equivalente, è un aratro più sofisticato introdotto oltre il XIII secolo. Lorcin sostiene che l’araire è nel XIII secolo lo strumento più conosciuto in Francia, mentre la charrue nel XIII secolo non esiste ancora. Ciò costituisce un importante prova del fatto che i francoprovenzali giunsero a Celle non più tardi del XIII secolo. Se fossero giunti dopo il XIII secolo avrebbero conosciuto la charrue e ne avrebbero tramandato il nome. Ma la prova più convincente dell’arrivo dei francoprovenzali a Celle verso la fine del XIII secolo è costituita dalla mancanza assoluta, nella parlata cellese, di termini in comune con il francoprovenzale relativi ad oggetti e cose conosciuti solo dopo la scoperta dell’America ed i cui nomi furono coniati solo nel XVI secolo. Questo significa che la tesi avanzata dai Valdesi, secondo la quale i francoprovenzali si sarebbero insediati a Celle nel XV o XVI secolo, è evidentemente sbagliata. Ma da dove arrivavano i Francoprovenzali che si installarono a Celle San Vito? 4

Ascoli 1878: 61-120. Don Luigi Savino 1979: 92/8. 6 Lorcin 1975: 33. 5

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Il Melillo7 è pervenuto alla conclusione, da un punto di vista dialettologico, e in base ad un esame condotto su fenomeni fonetici, che la provenienza dei francoprovenzali va ristretta al territorio circoscritto che si riduce ai dipartimenti di Isère e Ain. Nonostante il notevole numero di vocaboli presi in prestito dall’italiano, dal pugliese e dal napoletano, un qualsiasi esame della fonologia, morfologia e lessico della parlata cellese mette in evidenza che questa lingua (il cellese) si distingue dagli altri dialetti italiani e che ancora oggi è disseminata di numerosissime reliquie francoprovenzali8. Come indicato da Naomi Nagy, una delle caratteristiche più ovvie che separano il francoprovenzale dal provenzale (e dal francese) è il trattamento della vocale breve latina A nelle sillabe aperte. Quando le lingue romanze dell’antica Gallia si divisero in due maggiori sezioni, la langue d’oc e la langue d’oïl, la lettera a ebbe due trattamenti diversi. Al nord (la langue d’oïl), ebbe luogo la palatalizzazione della a che divenne e e diede vita alla forma francese chanter, derivante dal latino CANTĀRE. A sud, la a rimase invariata, in modo che il latino CANTĀRE produsse cantar in provenzale . In francoprovenzale, il trattamento della a variò: essa rimase a solo se non preceduta da una consonante palatale. Per quanto riguarda invece la morfologia, questa è la parte della parlata cellese che ha subito meno alterazioni attraverso i secoli. Esistono infatti numerose affinità tra il cellese, il francese e i vari patois francoprovenzali della Valle d’Aosta, della Francia o della Svizzera sud- orientale (il Valais):

- articoli determinativi

7 8

Francese

Italiano

Cellese

Le

il

lu

Les

i

Melillo 1956-1957, 1959, 1966, 1981. Nagy Naomi 1996:237-238.

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-pronomi personali Francese

Italiano

Cellese

Je

io

je

Tu

tu

ti

Vous

voi

vu

-aggettivi cardinali numerali Francese

Italiano

Cellese

Trois

tre

trais

Dix

dieci

dis

Cent

cento

sĂŠnt

-aggettivi possessivi Francese

Italiano

Cellese

Mon

mio

min (mun)

Sa

sua

sa (sia)

notre

nostro/a

note

Francese

Italiano

Cellese

-e

-o

-e

-es

-i

-e

-desinenze verbali

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-e

-a

-e

-ons

-amo

-un

-ez

-ate

-a

-ent

-ano

-unt

Le reliquie lessicali sono attualmente le meno abbondanti. Sebbene un congruo numero di vocaboli ha tenuto testa allo scorrere del tempo ed è sopravvissuto fino ai giorni nostri, molti altri sono stati sostituiti con vocaboli italiani o dei dialetti pugliese e napoletano, fenomeno che è ora attivo più che mai. Oggi il francoprovenzale riuscirà a “sopravvivere” solo se continuerà ad essere parlato nelle comunità di Celle e Faeto, se ci sarà l’impegno e la volontà da parte di Cellesi e Faetani. Il loro compito è, in realtà, molto “semplice”: devono parlare la loro lingua, il francoprovenzale, devono insegnarlo ai propri figli e così di generazione in generazione.

1.3 Le mie interviste ai Cellesi: il campione e il questionario sociolinguistico “La

sociolinguistica

è un ramo delle scienze del linguaggio ed il suo oggetto, in prima

approssimazione, è lo studio di come parla la gente.” 9.

Ecco, come parla la gente, è questo un argomento che da sempre ha suscitato in me grande interesse, ed è questo il motivo che mi ha spinto a recarmi a Celle San Vito. Una delle peculiarità di Celle è, difatti, proprio la lingua francoprovenzale. Dal 1999 lo Stato ha riconosciuto ufficialmente e tutela la minoranza linguistica francoprovenzale di Celle, così come quella di Faeto. La legge n. 482 del 15.12.1999 ha riconosciuto la tutela delle minoranze linguistiche presenti in Italia, fra le quali la minoranza francoprovenzale, ed è proprio a partire da questa legge che il francoprovenzale può essere considerato una lingua a tutti gli effetti.

9

Berruto, 1995.

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Celle di San Vito è un paese che si trova in Puglia, in provincia di Foggia. È il più piccolo comune della provincia di Foggia e della regione Puglia, con un’altitudine di circa 780 metri sul livello del mare. La popolazione, diminuita molto dopo le grandi emigrazioni che ebbero luogo tra la fine dell’Ottocento e gli anni Settanta del Novecento, si presenta oggi costituita in gran parte da ultra sessantenni. I residenti sono 17310. Ammetto che, all’inizio, l’idea di dover intervistare persone appartenenti ad una realtà così piccola ed isolata mi spaventava molto. Avevo il timore di non essere compresa, dato che i cellesi parlano la lingua francoprovenzale, o di poterli infastidire. In realtà, le persone che ho incontrato ed intervistato a Celle sono state tutte (o quasi) estremamente gentili e disponibili. Anzi, il fatto che una persona si potesse interessare alla loro lingua, alla loro storia e cultura, li inorgogliva molto. Le mie interviste hanno avuto luogo per lo più a casa degli informatori, seduti intorno ad un tavolo, con un buon caffè davanti, oppure su una panchina per strada, l’unica peraltro che c’è a Celle. In altri casi, sono state realizzate in un bar-pizzeria o in un agriturismo, le uniche due attività commerciali presenti sul territorio. Ho effettuato 11 interviste, ognuna con una durata media di circa 20 minuti. Chiaramente durante queste interviste la lingua utilizzata era l’italiano, intervallato da frammenti di conversazione in francoprovenzale, proprio perché un determinato concetto riuscivano ad esprimerlo al meglio, solo dicendolo tramite la loro lingua. Difatti i cellesi considerano il francoprovenzale la loro prima lingua, “la lingua madre”, e guai a chiamarlo dialetto! Il campione è costituito da 4 uomini e 7 donne, con età compresa tra 24 e 87 anni. Tutti gli intervistati hanno indicato Celle San Vito come luogo di nascita, fatta eccezione per due informatori nati invece uno a Lucera (ma comunque cresciuto a Celle) e l’altro nel canavese (Torino). Tutti risiedono a Celle, ad eccezione di un intervistato che attualmente risiede a Torino.Gli informatori hanno frequentato la scuola elementare a Celle, ad eccezione di un’informatrice nata nel canavese e che quindi ha frequentato le scuole nel suo luogo di nascita. Attualmente, però, i bambini per andare a scuola si recano nei paesi limitrofi, perché a Celle non c’è più neanche la scuola elementare. Dato che Celle non dispone di alcun istituto di scuola media inferiore e superiore, per proseguire gli studi bisogna indirizzarsi verso altri centri 10

I dati sulla popolazione si riferiscono al 15° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni (dati ISTAT al 31 dicembre 2010).

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come Lucera, Troia, Foggia, o addirittura Napoli. Solo un’informatrice ha conseguito una laurea triennale a Foggia. Dalla relazione tra il grado d’istruzione e l’età degli intervistati emerge, in linea di massima, un quadro abbastanza tradizionale: la licenza elementare va associata in particolare alla fascia più anziana, il diploma di scuola media superiore alla classe di età intermedia, la laurea alla generazione più giovane. Va comunque detto che la maggior parte delle persone che ho intervistato ha conseguito la licenza media o il diploma di scuola media superiore. Dal punto di vista lavorativo, il campione appare piuttosto articolato. Gli informatori svolgono, infatti, diversi tipi di lavoro: dalle professioni intellettuali a quelle impiegatizie, dalla gestione di attività commerciali alle attività di operaio e agricoltore. Le persone intervistate provengono per lo più da famiglie originarie di Celle San Vito, entrambi i genitori sono infatti nati e cresciuti a Celle, o al massimo a Faeto, Castelluccio Val Maggiore o Foggia. Solo un’informatrice che si è trasferita a Celle perché ha sposato un cellese, ma che in realtà è di Pont Canavese (TO) , chiaramente proviene da una famiglia torinese. Le madri erano/sono di solito casalinghe, oppure aiutavano i loro mariti a coltivare la terra, mentre i padri erano/sono prevalentemente artigiani, agricoltori, operai specializzati, braccianti agricoli; solo un informatore dichiara invece che il padre era un vigile forestale. Per quel che riguarda i coniugi delle persone intervistate sono prevalentemente di Celle San Vito, o comunque di paesi contigui a Celle (Biccari, Castelluccio Val Maggiore), quindi se non parlano francoprovenzale, di sicuro lo capiscono. Solo una informatrice dichiara di non poter parlare francoprovenzale con il proprio partner perché non lo parla, né tantomeno lo capisce. Il questionario di cui mi sono servita 11 per realizzare le mie interviste è un questionario sociolinguistico di tipo percettivo, caratterizzato da una serie di informazioni generali (nome e cognome facoltativi, sesso, età, luogo di nascita, di residenza, di studio, titolo di studio, professione), seguite da una lista di domande di diversa natura. Alcune di queste sono volte a rilevare il repertorio linguistico di Celle San Vito (Quali lingue conosci/capisci), altre richiedono un’autovalutazione da parte 11

Si tratta dello stesso questionario utilizzato per l’inchiesta condotta a Greci (Milano/Valente 2010) e a Faeto (Puolato 2010).

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degli intervistati sul loro modo di parlare le diverse varietà del repertorio locale (Come pensi di parlare la lingua x?), altre ancora sono volte ad ottenere informazioni relative alle scelte di codice che i parlanti dichiarano di utilizzare in determinati contesti sociolinguistici (Che lingua usi per parlare con i tuoi genitori/nonni, ecc., al bar, nei negozi, ecc., quando sogni, quando pensi). A queste domande si aggiungono, poi, quelle che riguardano la scelta del codice linguistico utilizzato in relazione all’argomento di cui si parla (Che lingua usi quando parli di sport, politica, cucina, figli,ecc.?). La domanda Come hai imparato la lingua x? rinvia, invece, al contesto in cui è stata appresa una determinata lingua (l’italiano o il francoprovenzale), con lo scopo di individuare una possibile differenziazione tra le lingue imparate in famiglia e quelle apprese in contesti extra familiari. Va inoltre ricordato che ai fini di un’analisi sociolinguistica è importante non solo quello che il parlante dice, ma come lo dice, quindi nel trascrivere un’intervista sociolinguistica va riportato integralmente il contenuto della stessa. Solo così ci si può rendere conto di alcuni particolari che altrimenti sfuggirebbero 12.

1.4 Le minoranze linguistiche, la tutela e la valorizzazione della loro “identità”:il Forum internazionale sulla comunicazione delle minoranze linguistiche Con la legge n. 482 del 15 dicembre 1999 lo Stato italiano riconosce e tutela le minoranze linguistiche. Tramite questa legge, denominata Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche, pubblicata il 20 dicembre 1999 nel numero 297 della “Gazzetta Ufficiale”, la Repubblica Italiana, che già valorizza il patrimonio linguistico e culturale della Lingua Italiana, si impegna anche nella valorizzazione e tutela delle cosiddette lingue “minoritarie” presenti sul territorio. Quindi, oltre all’italiano, la Costituzione e il Parlamento hanno sancito l’esistenza di altre 12 lingue che devono essere tutelate: l’Albanese, il Catalano, il Tedesco, il Greco, lo Sloveno, il Croato, il Francese e il Francoprovenzale, l’Occitano, il Ladino, il 12

Per l’analisi specifica delle diverse batterie di domande che compongono il questionario si rinvia al capitolo III.

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Friulano, e il Sardo. La tutela di queste lingue e delle culture ad esse legate è quindi un dovere costituzionale. Con la legge n. 482 lo Stato Italiano afferma dunque di voler tutelare la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il francoprovenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo. La legge 482 afferma inoltre che nelle scuole materne di un territorio ove sia presente una minoranza linguistica, “l’educazione linguistica prevede, accanto all’uso della lingua italiana, anche l’uso della lingua della minoranza per lo svolgimento delle attività educative”, mentre nelle scuole elementari e nelle scuole secondarie di primo grado “è previsto l’uso anche della lingua della minoranza come strumento di insegnamento”13. Ma anche le università delle regioni interessate, “nell’ambito della loro autonomia e degli ordinari stanziamenti di bilancio, assumono ogni iniziativa, ivi compresa l’istituzione di corsi di lingua e cultura delle lingue minoritarie, finalizzata ad agevolare la ricerca scientifica e le attività culturali e formative a sostegno delle finalità della presente legge” 14. In Europa vivono 337 minoranze. Circa 100 milioni di abitanti nei 36 Paesi Europei possono definirsi minoranze: lo sono gli Italiani in Slovenia e in Croazia, così come lo sono le 14 minoranze insediate storicamente nel nostro Paese. Il tema delle minoranze linguistiche è alquanto complesso e inquadrabile da più punti di vista: vi sono aspetti linguistici e glottologici che hanno ovviamente un rilievo di prim’ordine. Non meno importanti sono tuttavia le questioni che riguardano ambiti legislativi, storici, culturali ed economici. Nell’ultimo decennio sono state promosse una serie di attività volte a promuovere e tutelare le minoranze linguistiche. In primo luogo, c’è l’azione del Servizio per la promozione delle minoranze linguistiche locali della Provincia autonoma di Trento, che si dedica esplicitamente a promuovere le minoranze linguistiche attraverso l’attuazione dei provvedimenti predisposti dalla stessa Provincia autonoma, come pure attraverso l’impiego delle risorse messe a disposizione dalla legge nazionale n. 482 15.

13

Legge 482 art.4, comma 1. Legge 482 art.6, comma 1. 15 Maccani 2008: 11. 14

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In secondo luogo, va considerata l’attività svolta dagli Istituti culturali che, sempre in Trentino, presidiano le singole minoranze linguistiche storiche presenti in provincia: Ladini, Mòcheni e Cimbri. In questo caso l’apporto si allarga al fronte scientifico e contribuisce in modo fondamentale alla crescita del dibattito sul tema delle minoranze. In terzo luogo, esistono le attività promosse in altre realtà italiane ed europee che lavorano in parallelo sugli stessi temi. Vanno inoltre ricordate le attività di studio e di ricerca che università ed enti culturali promuovono in tema di minoranze, in Italia e all’estero. Quanto detto sin ora è sicuramente necessario per promuovere, tutelare e soprattutto conoscere le minoranze linguistiche. Ma non basta. Infatti la difficoltà di valorizzare le minoranze nell’ambito della comunità più ampia è essenzialmente legata alla comunicazione. È infatti la comunicazione il tramite principale che consente una migliore spendibilità di questa grande risorsa nell’ambito del territorio in cui queste comunità sono inserite e nell’opinione pubblica più in generale. Tutto ciò deriva soprattutto dal fatto che fino ad oggi si è investito molto sull’identità, ma molto meno sulla comunicazione di quest’ultima verso l’esterno16. Proprio per analizzare nello specifico il rapporto che intercorre tra la tutela e la valorizzazione dell’identità di minoranza e le possibili strategie di comunicazione è stato organizzato un Forum nazionale da dedicare al tema. Questo Forum si è posto, infatti, come obiettivo principale quello di analizzare la modalità attraverso la quale può avvenire la comunicazione dell’identità, i molti modi per trasmettere il prezioso contributo, il valore che le minoranze portano in sé per l’arricchimento di tutta la popolazione. “In altre parole, l’intento è stato quello di favorire, proprio attraverso la comunicazione, uno scambio virtuoso tale da consentire che il patrimonio culturale e sociale delle minoranze venga conosciuto e apprezzato anche al di fuori dei rispettivi confini” (Maccani 2008:13). Questo perché, le minoranze linguistiche rappresentano una vera e propria risorsa, per tutti. “Il Forum ha avuto luogo nel mese di ottobre del 2006 ed è stato articolato in due giornate: la prima si è tenuta a Rovereto presso il Museo di Arte Moderna (MART), ed è stata dedicata all’analisi specifica del tema dell’identità e alla sua comunicazione; la seconda, invece, si è svolta presso il Palazzo della Provincia di 16

Maccani 2008: 13.

12


Trento, ed è stata dedicata al confronto tra le esperienze di comunicazione messe in atto dalle diverse minoranze linguistiche attraverso campagne di comunicazione, materiali editoriali, materiali radio-televesivi, iniziative giornalistiche” (Maccani 2008: 13). L’occasione del Forum è servita a far conoscere le misure, le politiche, le esperienze che sono state maturate in questi anni in materia di minoranze linguistiche, ma soprattutto ha consentito, a ciascuno dei rappresentati di una determinata minoranza linguistica presente al Forum, di ascoltare altre esperienze, di metterle a confronto con le proprie, al fine di far crescere sempre più questa rete di scambio, collaborazione, ma anche di valutazione delle misure che sono state adottate nelle varie comunità per portare avanti gli stessi obiettivi. Il tema della comunicazione è stato dunque centrale durante il Forum. Comunicare il patrimonio che portano con sé le minoranze, la loro forte identità, significa non solo farlo conoscere agli altri, alla cosiddetta “maggioranza”, ma significa anche metterlo in relazione con ciò che sta cambiando. Comunicare è importante prima di tutto per le minoranze linguistiche. Difatti, ciò che più ha sorpreso negli ultimi tempi è stato osservare come i processi di omologazione siano fortissimi proprio nei territori in cui vivono le minoranze linguistiche; e il rischio dell’omologazione cammina in parallelo con la scarsa conoscenza di sé, con la scarsa valutazione di ciò che si è, della propria diversità. A tale proposito è interessante la testimonianza di un’informatrice che racconta: “Abbiamo un’origine diversa, una storia diversa, ma la diversità non è negativa. Uno se le cose fossero brutte, fossero fatte male, allora bisognerebbe vergognarsi, ma se uno è diverso non si deve vergognare, è fatto così” (T, f, 71). In secondo luogo, comunicare significa rendere partecipe la comunità (la maggioranza) del valore delle minoranze linguistiche, evitando così un altro possibile rischio, quello dello scetticismo, della sottovalutazione. “Il rischio dell’omologazione ed il rischio dello scetticismo della maggioranza verso le minoranze si possono e si devono superare attraverso il “metodo della comunicazione”, intesa come sforzo attraverso il quale dare un futuro e un valore sociale a questo grande patrimonio che è dentro le nostre comunità”17.

17

Dellai 2008: 8.

13


La comunicazione gioca una funzione primaria per fare delle “diversità” una pluralità ricca, armonica, capace di moltiplicare significati e opportunità 18. Quindi minoranze e maggioranze, lingue e culture diverse, capaci di distinguere ma anche di unire, devono trovare modi e condizioni per armonizzarsi in un sistema capace di superare le barriere e di fare delle diversità non focolai di conflitto, ma una fonte di crescita, condivisione e sviluppo.

CAPITOLO II L’identità linguistica

2.1 Le minoranze linguistiche: lingua, orgoglio e identità “Una, cento, mille identità. Il problema di fondo è questo: l’identità, in realtà, non esiste” 19.

Questo significa che non può esserci un solo modo per analizzare ed inquadrare il concetto di identità, che è, per sua stessa natura, molto complesso e articolato. Esistono infatti diversi tipi di identità: l’identità autoreferenziale, come suggerisce il termine, afferma se stessa come separazione, come distinzione di un io rispetto agli altri; vi è inoltre un’identità che proiettiamo all’esterno, un’identità che imponiamo agli altri e che si caratterizza per la sua volontà di affermazione rispetto a terzi. C’è poi un’identità che è quella che noi percepiamo di noi stessi e ogni volta che cerchiamo di definirla cambia. Ciascuno di noi, per esempio, è nello stesso tempo, distintamente, Europeo, Italiano, Campano, Napoletano, e non solo; basti pensare a tutti i comuni che fanno parte della provincia di Napoli. Io, per esempio, sono, allo stesso tempo, una cittadina Europea, Italiana, Campana, Napoletana e nello specifico 18 19

Maccani 2008: 14. De Michelis 2008: 56.

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Sorrentina. Bisogna quindi fare molta attenzione quando si cerca di definire in maniera univoca il concetto di identità, perché “l’identità è un’arma a doppio taglio, un’arma di difesa e un’arma di offesa, uno strumento di affermazione di sé ma anche uno strumento di apertura di sé agli altri” 20. Il concetto di identità è strettamente connesso alle minoranze linguistiche. Pensiamo, per esempio, al caso di Celle San Vito: se c’è una ragione che ha permesso a questa minoranza linguistica di rimanere viva nel corso dei secoli (seppure con molte difficoltà), è sicuramente il forte senso di appartenenza che i cellesi sentono verso la comunità francoprovenzale. I cellesi sono infatti orgogliosi di essere francoprovenzali, sono orgogliosi della loro lingua. A tal proposito mi vengono in mente le parole di un’informatrice che, alla mia domanda: “Secondo te cosa si dovrebbe fare per tutelare il francoprovenzale?” mi risponde così: “Essere orgogliosi di essere cellesi e di poter parlare il cellese. Se c’è l’orgoglio c’è anche la volontà di fare, di conservare, perché non bastano le leggi!” Ed è questo il nodo centrale della questione. L’orgoglio e l’amore nei confronti della lingua francoprovenzale hanno fatto sì che i cellesi sviluppassero, nel corso dei secoli, un senso di appartenenza ad una cultura e si sentissero gli artefici di una storia: la loro. “L’identità nasce dalla forza con cui una comunità è in grado di affermare una propria immagine”21.

Questo principio è valido anche per i singoli individui. Tant’è che questa immagine, che si riflette nel sentire comune, spesso è mutevole e può essere condizionata dalle scelte, dall’ambito in cui agiamo, da come percepiamo le nostre scelte, da come ci identifichiamo nelle nostre esperienze e da come in ultimo ci rapportiamo agli altri nell’interscambio delle nostre esperienze, giustificati dalla circostanza e dal fatto che l’identità che spesso mostriamo all’esterno può apparire mutevole. Tuttavia non è possibile rinunciare alle molteplici sfaccettature che caratterizzano la nostra identità, ci sono tutte indispensabili come tanti tasselli di un unico mosaico.

20 21

Delai 2008: 20. De Michelis 2008: 57.

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“L’identità è uno strumento duale. Dobbiamo imparare a vivere nel dualismo, non a superarlo, perché ogni superamento del dualismo è l’inizio di una clamorosa catastrofe. Dobbiamo diventare esperti dell’unica arte che il dualismo insegna, la mediazione” 22.

In riferimento al pensiero del De Michelis, possiamo asserire, che è necessario beneficiare del dualismo senza porsi continui ostacoli né entrarne in conflitto. Tutti coloro che hanno la fortuna di appartenere ad una cultura bilingue devono imparare a sfruttare al massimo i vantaggi e le possibilità offerti dalla prima come dalla seconda lingua. Il concetto di dualismo, in un’accezione di più ampio respiro, coinvolge in realtà tutti i popoli e di riflesso si ripercuote all’interno della cultura e della lingua stessa. È come se noi tutti, in maniera involontaria, utilizzassimo due o più lingue: la lingua del cuore e la lingua della mente, la lingua del lavoro e quella degli affetti, la lingua della poesia e quella della prosa. Questo è il dualismo. Dalla mia esperienza a Celle San Vito, ho capito che questo concetto è più che mai vero. I cellesi si muovono, infatti, tra due lingue: da un lato, il francoprovenzale, definito da molti come la lingua del cuore, la lingua madre, la prima lingua; e dall’altra, l’italiano, che conoscono e apprezzano ma che usano soltanto quando non hanno la possibilità di parlare la loro lingua, quindi con interlocutori che non sono di Celle o in contesti diversi dalla loro realtà. Non tutte le culture hanno, però, la stessa forza e la stessa determinazione. Le minoranze linguistiche dovrebbero quindi sviluppare una sorta di autotutela, dovrebbero imparare a farsi portavoce dei propri diritti, senza aspettare che gli altri lo facciano per loro. Devono combattere, rivendicare una propria identità senza subire o sentirsi vittime di un sistema che le trascura. Questo perché “le identità non esistono, si affermano”23.

2.2 Alcuni degli elementi costitutivi dell’identità “Le identità radicali che oggi sono necessarie in Italia sono: l’identità che sta nell’origine, l’identità che sta nel fondamento, l’identità che sta nella storia che si fa insieme” 24.

22

De Michelis 2008: 56. De Michelis 2008: 60. 24 De Rita 2008: 30. 23

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Ho riflettuto a lungo sul significato delle parole del De Rita e sul motivo per il quale egli parlasse di identità necessarie oggi in Italia. Sono poi arrivata alla conclusione che, ognuno di noi, è alla continua ricerca di un’identità e non importa di quale tipo essa sia; può essere un’identità religiosa, può essere un’identità linguistica, si può trattare di un’identità storica e così via. C’era, però, un passaggio che non riuscivo a cogliere, vale a dire il motivo che spinge ciascuno di noi a ricercare un’identità. Ecco, credo di aver capito che se c’e una ragione che ci induce a ricercare costantemente un’identità, quella è la volontà di trovare elementi che ci diano sicurezza, stabilità, elementi in grado di rassicurarci. Esistono, elementi che più di altri sono in grado di darci sicurezza e di conferirci quindi un senso identitario; questi sono, come ci suggerisce il De Rita: 1) le origini; 2) la fedeltà ai fondamenti; 3) la storia. Analizziamoli singolarmente. “L’identità è il continuo ritorno all’origine. L’identità non è altro che svolgere il percorso di ritorno all’origine” 25.

Questo significa che avvertiamo nei confronti del nostro passato, delle nostre tradizioni, un forte senso di appartenenza. È come se ognuno di noi fosse in realtà il risultato degli sforzi, delle azioni, dei sacrifici e degli sbagli dei propri antenati. Sono loro la nostra origine. In questo nostro percorso a ritroso c’è un elemento che gioca un ruolo fondamentale: gli altri. “Noi siamo per gli altri, vogliamo vivere per gli altri, accettiamo per gli altri, perché questo fa parte di un’identità che non si chiude in se stessa, ma è un’identità aperta, multiculturale, multietnica” (De Rita 2008: 29). Esiste poi un secondo elemento, alquanto delicato, nel quale possiamo rintracciare l’identità: la fedeltà ai cosiddetti fondamenti. Questo perché avere un’identità significa in qualche modo agire come se i nostri fondamenti culturali non fossero solo dei semplici principi fini a se stessi, ma codici globali. Questo è quanto accade, per esempio, nella cultura islamica dove la Shari’ah è considerata come una vera e propria legge. La legge marocchina così come quella algerina sono totalmente inferiori rispetto alla Shari’ah. In Islam la parola “legge” coincide con la Shari’ah. 25

De Rita 2008: 28.

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“Tutto ciò arriva fino a noi? Certo che sì. La società occidentale, con le sue articolazioni sempre più spinte, è una società che lascia soli i singoli” 26.

Ovviamente quanto detto sin ora non vuole essere un invito a convertirsi alla cultura islamica, ma un suggerimento affinché noi tutti potessimo richiedere al Cristianesimo, per esempio, una maggiore sicurezza, una cultura in cui credere e a cui rifarsi nel corso della nostra vita. Arriviamo così al terzo elemento costitutivo dell’identità: la storia. “Noi abbiamo un’identità che fa parte della nostra storia, anzi, possiamo dire che l’identità è storia, e soltanto un popolo che si fa storia ha una sua identità” 27.

Le parole del De Rita mi fanno pensare proprio a Celle San Vito. Le difficoltà che questa piccola comunità ha dovuto affrontare per far valere i propri diritti sono state innumerevoli. Ma oggi, a distanza di secoli, è ancora qui e soprattutto sta acquisendo una maggiore consapevolezza della sua grande ricchezza culturale. Ma chi ha permesso tutto questo? Di sicuro non lo Stato (o comunque non solo lo Stato), né tantomeno le leggi, perché questa comunità esiste dal 1200 circa e solo nel 1999 (legge nazionale n. 482) è stata riconosciuta come “minoranza linguistica”, con tutti i benefici, i riconoscimenti e i finanziamenti che è riuscita ad ottenere da quel momento in poi. Ma prima del 1999? Prima del 1999 sono stati loro, i Cellesi, gli artefici del proprio destino. Sono stati loro a costruire mattone dopo mattone le proprie case, ad insegnare il francoprovenzale ai figli cosicché fosse tramandato di generazione in generazione. In definitiva sono stati proprio i Cellesi a scrivere pagina dopo pagina la storia della loro comunità. Esistono infine due elementi carichi di identità: il territorio e la lingua. Qual è l’elemento che rende diversa, speciale, la comunità di Celle San Vito? La lingua francoprovenzale. Una lingua che è stata tramandata nei secoli solo attraverso l’oralità, i primi documenti scritti relativi al francoprovenzale risalgono infatti ad una ventina di anni fa circa. La lingua, ma anche il territorio conferiscono forme di identità più rassicuranti. A volte, infatti, si ha la sensazione di sentirsi protetti, al sicuro, soltanto una volta tornati a casa.

26 27

De Rita 2008: 29. De Rita 2008: 30.

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Il territorio va inteso come l’insieme di due fattori: da un lato il paesaggio, e dall’altra l’assetto urbanistico. Quest’ultimo ci dice molto non solo della storia di un popolo, ma anche di come quella determinata comunità si sia creata nel corso dei secoli. In realtà, è come se l’assetto urbanistico di ciascuna città ci parlasse anche, di riflesso, dei suoi abitanti. Questo principio è valido ancor di più per le comunità minoritarie. Ancora una volta il mio pensiero va a Celle San Vito. Una delle prime cose che mi ha colpita una volta arrivata a Celle sono state le decine di panchine che si trovano al di fuori di ogni abitazione e lungo la strada principale (l’unica peraltro presente a Celle). Su queste panchine era possibile vedere due anziane signore chiacchierare del più e del meno o un gruppo di anziani giocare a carte. È come se quelle panchine fossero state inserite in quel contesto per permettere ai cellesi di ritrovarsi, di passare del tempo insieme; anche perché uno dei maggiori rischi che corrono queste piccole comunità, indipendentemente dall’essere o meno una minoranza linguistica, è quello della solitudine.

2.3 I confini: una barriera tra “noi” e gli “altri” I confini, almeno da un punto di vista prettamente geografico, hanno la funzione di separare etnie da etnie e nazioni da nazioni. Purtroppo, però, la storia europea insegna che nella maggior parte dei casi quando sono stati tracciati dei confini netti non sono state rispettate le identità etniche e nazionali del nostro continente. In realtà, questi confini non coincidevano con le aspirazioni e la volontà dei popoli. Erano semplicemente il risultato delle imposizioni dei vincitori di un conflitto oppure di accordi tra le grandi potenze. Venivano tracciati per ristabilire la pace, nella realtà dei fatti hanno solo aggravato delle situazioni peraltro già molto instabili. Ciò che non è stato valutato nel tracciare questi confini è che l’incontro di diverse culture, di diverse etnie, avrebbe potuto rappresentare una grande ricchezza culturale per “noi”, così come per gli “altri”. “L’intero ventesimo secolo si è quindi intrappolato in un’idea di identità etnica, nazionale, culturale pura e purificata che va in completa rotta di collisione con le realtà storiche del popolamento delle città e delle regioni d’Europa” 28. 28

Bocchi 2008: 39-40.

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Ora, se è vero che la storia d’Europa ci racconta di convivenze difficili, di tensioni tra i tanti popoli che abitavano uno stesso luogo, è altrettanto vero che i confini, di qualunque tipo essi siano, sono stati anche il pretesto per scatenare interminabili conflitti; conflitti nei quali ogni etnia rivendicava i propri diritti, la salvaguardia della propria identità culturale. Troppe volte, quando nella storia europea sono stati tracciati confini con l’intento specifico di separare, sono state fatte operazioni politiche, economiche, ma di sicuro non nell’interesse delle molteplici identità europee. Il rammarico è proprio questo: non potremmo mai sapere a cosa avrebbe portato l’interazione e la convivenza di diverse etnie, laddove queste sono state separate. Oggi il territorio europeo necessita di configurarsi come un grande teatro di sovrapposizione, interazione, incontro fra diverse culture, diversi costumi, diverse lingue e le identità ad esse legate. Vorrei concludere questo mio percorso nel travagliato “mondo” dell’identità attraverso le parole di Rudi Patauner. Nella didascalia di accompagnamento ad uno dei disegni della raccolta Minorities in cartoon 29, il vignettista satirico francese esprime al meglio, peraltro in chiave ironica, l’ossimoro insito nel concetto di identità: “l’identità è qualcosa di rotondo… può essere un mondo o una palla al piede”. Tutto dipende da noi e dalla prospettiva dalla quale decidiamo di osservarla. Una cosa è certa: non possiamo pensare di vivere in maniera passiva, convinti che siano gli altri a doverci tutelare. Siamo noi gli artefici del nostro destino. Questo è vero per le “maggioranze”, ma lo è ancor di più per le “minoranze”.

29

Patauner 2008: 117.

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CAPITOLO III Il repertorio linguistico di Celle di San Vito tra uso e rappresentazione 3.1 Osservazioni preliminari Uno degli aspetti che mi ha notevolmente affascinato e stupito della realtà di Celle San Vito è la sua contiguità territoriale con un’altra minoranza linguistica, quella arbëresh di Greci. Ciò che mi ha incuriosito è il fatto che questi due piccoli comuni (Greci e Celle San Vito) distano pochi km l’uno dall’altro, ma si differenziano sotto molti aspetti. Primo tra tutti la lingua; in secondo luogo sono così vicini ma fanno parte di due diverse regioni e province. Il comune di Celle si trova nella regione Puglia, in provincia di Foggia, mentre quello di Greci si trova in provincia di Avellino, nella regione Campania. L’origine dell’insediamento albanese di Greci è poco noto e si inscrive nella storia delle comunità albanesi del Mezzogiorno, la cui genesi è legata alle migrazioni che, in diverse ondate, a partire dal XV secolo, si sono dirette verso l’Italia meridionale 30.

C’è, però, un aspetto che li accomuna: l’alloglossia. Celle San Vito e Greci sono infatti due comunità bilingue: la prima è italofrancoprovenzale, la seconda è italo- albanese. L’arbëresh è il nome tradizionale con il quale si indicano le varietà linguistiche parlate dai discendenti di gruppi albanesi immigrati in Italia meridionale a partire dalla metà del XV secolo 31. Il punto di riferimento dell’arbëresh è senz’altro l’albanese, tale varietà, però, non può essere identificata con una lingua tetto32.

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Tale storia è complessa ed ancora poco conosciuta anche a causa della difficoltà del reperimento di fonti. A questo riguardo, occorre tenere presente che il periodo da considerare è molto lungo e che i documenti scritti a disposizione degli studiosi sono tutti di parte italiana, essendo la cultura albanese essenzialmente orale (Milano / Valente 2010: 4). 31 Milano / Valente 2010: 5. 32 “L’arbëresh rappresenta un dialetto non coperto […] trasmesso e appreso oralmente che viene a trovarsi senza il tetto protettivo della lingua letteraria ad esso linguisticamente coordinata, l’albanese standard” (Altimari 1994: 22, cit. in Milano/ Valente 2010: 5).

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Mi sono recata a Celle San Vito due volte e devo dire che sono state due giornate che mi hanno estremamente arricchito, nel cuore e nella mente, ma non potrò mai dimenticare il momento in cui arrivai a Celle. Mi guardavano tutti, mi scrutavano. Avevo il timore di avvicinarmi ai Cellesi, non volevo infastidirli. In realtà dopo aver capito chi ero e soprattutto perché mi trovavo lì, il loro atteggiamento nei miei riguardi è subito cambiato, in positivo. Erano felici e orgogliosi di poter rispondere alle mie domande, di parlare della loro lingua, della loro cultura. La loro iniziale diffidenza derivava sicuramente dal fatto che per loro è molto raro vedere persone, per così dire, “nuove” a Celle. Percorrendo in automobile la Provinciale 125 che da Greci porta prima a Faeto, poi a Celle, si aprì davanti ai miei occhi increduli uno scenario inquietante: decine e decine di pale eoliche che deturpavano la naturalezza di quel paesaggio. Arrivata finalmente a Celle San Vito sono stata accolta da un cartello di benvenuto piuttosto diverso da quelli che siamo soliti vedere (Fig.1). Figura 1: Figura 1. Cartello di “Benvenuto a Celle San Vito”

Celle appartiene infatti al Coordinamento nazionale. Si tratta di un coordinamento tra i “Paesi di San Vito” presenti in Italia, dei comuni, enti ecclesiastici, associazioni ed altri enti, legati alla figura del santo martire Vito. Il cartello di benvenuto è “stranamente” scritto in italiano; dico “stranamente”, perché a Celle San Vito il francoprovenzale non è soltanto udibile, ma anche visibile. È visibile sul cartello di arrivederci da Celle, (Figura2 ); sull’insegna che sovrasta l’entrata al Municipio (Figura 3 ) ; sui cartelli collocati nei pressi degli edifici di culto (Figura 4) : Figura 2. Cartello di “Arrivederci da Celle San Vito”.

Figura 3. Insegna che sovrasta l’entrata del Municipio.

Figura 4. Cartello collocato nei pressi di un edificio di culto: la chiesa di Santa Caterina.

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Ciò che caratterizza questi cartelli sono le scritte bilingui francoprovenzaleitaliano. Il bilinguismo francoprovenzale-italiano a Celle San Vito assolve una funzione prettamente simbolica, dando “visibilità” alla peculiarità linguistica del luogo. La presenza sul territorio di scritte pubbliche bilingui francoprovenzale- italiano rappresenta un importante strumento di tutela e conservazione della lingua minoritaria.

3.2 Il questionario percettivo: i risultati emersi Il questionario utilizzato per l’inchiesta e somministrato agli informatori può essere diviso in tre sezioni33. Una prima sezione relativa alle autovalutazioni dei parlanti sulla competenza linguistica, sui domini e sulle diverse varietà del repertorio; una seconda parte ha invece riguardato le opinioni dei Cellesi sulla loro lingua e sulla comunità cui appartengono. Infine, l’ultima sezione ha riguardato tutti i possibili interventi di tutela e preservazione della lingua francoprovenzale, in primo luogo quello della trasmissione linguistica. I paragrafi che seguiranno sono organizzati in base all’accorpamento delle diverse batterie di domande, basato su un’affinità tematica.

3.2.1 Le lingue di Celle: autovalutazione della competenza e usi dichiarati Il francoprovenzale e l’italiano sono entrambe lingue fondamentali nella configurazione del repertorio linguistico di Celle. Difatti, alla domanda Quali lingue sai parlare? e Quali lingue capisci?, la risposta è stata sempre “francoprovenzale e italiano”. Solo una informatrice di origine torinese, trasferitasi a Celle per motivi familiari, afferma di non saper parlare bene il francoprovenzale, ma di capirlo benissimo: “francoprovenzale così e così, comunque me la cavo. Lo capisco, tutte le parole capisco, però parlare no assai” (U, f, 56).

33

Milano/Valente 2010: 35.

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Sebbene tutti gli informatori abbiano indicato il francoprovenzale e l’italiano, il repertorio linguistico del campione può definirsi più complesso, dato che vi rientrano almeno altre due lingue: il francese e l’inglese. Il binomio inglese-francese ricorre due volte (su 11 informatori); mentre la conoscenza della lingua francese è indicata da 8 informatori: “è stato semplice studiare il francese, per noi, per il fatto che teniamo il francoprovenzale” (A, f, 45) ; “francese, noi siamo agevolati dal francoprovenzale” (S, f, 40). Emerge da queste risposte il legame che i Cellesi avvertono tra la loro lingua francoprovenzale e il francese. La riflessione sul tema linguistico-identitario nella comunità di Celle non può non prevedere un accenno al legame con la lingua e la cultura francese insito nella storia del luogo. L’origine di Celle risale infatti all’immigrazione di gruppi di popolazione provenienti dalla Francia che si sono stanziati nei territori della Daunia in epoca medievale. Nella mia inchiesta, alla domanda sulla propensione ad apprendere il francese, il campione risponde generalmente in maniera positiva, ma dietro questa scelta non c’è nessuna motivazione importante che la sorregga: “tantissimo, perché se ho ospiti qua nell’agriturismo non faccio come i sordomuti” (M, f, 47). Anche per quanto riguarda la possibilità di andare in Francia, gli intervistati rispondono positivamente. Interessante è la testimonianza di una informatrice: “sì, non in tutta la Francia. Vorrei andare a vedere proprio la zona da dove deriva, da dove sono venuti i francoprovenzali. Anche perché qualcuno ha ipotizzato che questi francesi venuti a Lucera e mandati al castello di Crepacore là sopra, hanno trovato l’ambiente molto simile a quello loro. Ecco perché si sono spostati qua, quindi se quella zona ha molto di simile a queste zone nostre, mi piacerebbe vederla” (T, f, 71). Alla domanda Come hai imparato il francoprovenzale? gli informatori rispondono “siamo nati qua con il francoprovenzale” (G, m, 87); “e perché sono nata in questi posti, quindi le prime cose, le prime parole sono state nel nostro francoprovenzale” (M, f, 47); “francoprovenzale, parlando sin da bambino, in famiglia, genitori, noi abbiamo diciamo generazioni di Celle, quindi nonni, bisnonni, tutti cellesi” (S, m, 62); “eh dalla nascita, sono nata qua e quindi in famiglia quello si è parlato fino, fino a sempre” (T, f, 71).

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Alla domanda Come hai imparato l’italiano? si risponde invece così: “e beh, andando a scuola, alle scuole elementari” (T, f, 71); “eh, abbè, a scuola” ( V, m, 50); “l’italiano, a scuola” (S, f, 40). Nel campione emerge un fattore indicativo della differenza di status sociosimbolico tra i due idiomi, ovvero l’associazione costante tra “famiglia” e “scuola”, come luoghi devoluti il primo all’apprendimento del francoprovenzale ed il secondo all’apprendimento dell’italiano. Per quanto riguarda l’autovalutazione

della competenza delle due lingue

prioritarie a Celle (francoprovenzale e italiano), è interessante osservare che i Cellesi intervistati ritengono di possedere una migliore competenza del francoprovenzale rispetto all’italiano. Infatti, la maggior parte del campione dichiara di conoscere il francoprovenzale “bene” o “benissimo”, come si evince da risposte del tipo: “per me lo parlo benissimo” (G, m, 87); “si parla tutti i giorni, non è che si deve pensare come parlare il francoprovenzale, perché qui a Celle si parla ancora il francoprovenzale” ( D, f, 54); “beh, ovviamente bene. Dopo 71 anni che so stata qua, eh, non vuoi che capisca o lo parli proprio bene” (T, f, 71). Tuttavia, in alcune delle persone che ho intervistato emerge la consapevolezza di parlare un francoprovenzale “diverso” rispetto a quello parlato dalle persone più anziane del posto: “ mah, benino, perché i termini che usavano una volta le persone anziane, io molte volte rimango anch’io un po’, ma davvero, ma anche già le persone di già dieci quindici anni più grandi di me, mi ritrovo un po’, oddio davvero si dice così?” (S, f, 40); “mah, io non penso di parlarlo bene, perché i nostri antenati lo parlavano molto più chiuso,adesso si è andato un po’ rovinando perché con i giovani, però, insomma, fino a quando ci capiamo tra di noi” (M, f, 47). Nessuna variabile sociale sembra influenzare l’autovalutazione della competenza del francoprovenzale34. Diversa è invece l’autovalutazione della competenza della lingua italiana. Si riportano di seguito alcune testimonianze: “come sto parlando fino adesso” (C, f, 64 anni); “come mi viene” ( F, m, 24); “insomma, l’italiano abbastanza bene, non proprio perfetto” ( U, f, 56).

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I due casi di autovalutazione negativa riguardano un’informatrice che ha studiato a Foggia, dove peraltro lavora, e una parlante che si è trasferita a Celle San Vito per motivi familiari, ma che in realtà è di Pont Canavese (TO).

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Un parlante che pensa di parlare l’italiano “bene” asserisce “anche perché nelle mansioni da presidente (dell’associazione culturale francoprovenzale), cioè, bisogna presentarsi e parlarne in lingua” (S, m, 62). Interessante è poi la testimonianza di una informatrice : “ a volte mi viene ridicolo dire delle cose, determinate cose, però spero di non sbagliarmi mai, perché, sono stata un periodo, andavo in giro addirittura col dizionario in borsa proprio per evitare errori. No, perché io ho fatto per vent’anni il consigliere comunale, assessore e poi vice sindaco qui a Celle, quindi quando eri fuori alle riunioni. Sono stata rappresentante dell’imprenditoria femminile alla Coldiretti di Foggia, quindi quando mi trovavo con delle parole un po’… dico oddio adesso eh però avevo il dizionario” (M, f, 47). Soffermandoci poi sulle dichiarazioni riguardanti gli usi linguistici intrafamiliari, la totalità del campione risponde di parlare o di aver parlato con i propri familiari sempre in lingua francoprovenzale35. Anche per quanto concerne

le scelte di codice in situazioni pubbliche ma

informali , il francoprovenzale rappresenta la lingua che il campione dichiara di usare costantemente , a patto che tali situazioni siano riferite alla realtà di Celle e che gli interlocutori siano Cellesi, o anche Faetani, basta che si tratti di persone in grado di capire e rispondere in francoprovenzale. Per quanto riguarda le dichiarazioni sulle scelte di codice in relazione all’argomento di cui si parla (sport, politica, ecc.), il francoprovenzale resta la lingua scelta dalla quasi totalità del campione. A Celle, la scelta di parlare in francoprovenzale o in italiano dipende, sostanzialmente dall’interlocutore o dal luogo in cui si trovano: “secondo a chi troviamo, se andiamo dai francoprovenzali parliamo francoprovenzale, se no dobbiamo parlare un’altra lingua” (G, m, 87); “mah, se è al bar qua da noi, dipende, dipende sempre a chi trovo” (F, m, 24); “se esco da Celle devo parlare per forza l’italiano, sennò non mi capiscono; se sto a Celle, parlo il cellese, sempre” (T, f, 71). Spostando l’attenzione sulla scelta di codice in “attività astratte”, come il pensare e il sognare, il campione dichiara di scegliere prevalentemente il francoprovenzale. Interessanti, a questo proposito, sono le testimonianze di alcuni informatori: “è la prima lingua che ho imparato; cioè io ho cominciato a parlare che so, a sette otto 35

L’unica eccezione riguarda un informatrice originaria di Pont Canavese che afferma di parlare nel suo dialetto con i propri familiari.

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mesi, un anno, e ho imparato il cellese, quindi ho imparato a pregare in cellese, ho imparato a pensare in cellese, ho imparato a sognare in cellese. È la prima lingua, la lingua madre” (T, f, 71); “eh, dipende da chi sogno, se sogno tipo mia madre che non c’è più, sogno in francoprovenzale, invece se sogno di stare con degli amici che comunque non sono di Faeto o di Celle, parlo l’italiano, dipende dal sogno” (M, f, 47); “ è difficile, però sì, molto spesso anche in lingua, perché me ne rendo conto che le risposte sono in lingua cellese” (S, m, 62).

3.2.2 Il rapporto tra Celle San Vito e le altre comunità francoprovenzali A questo punto vorrei soffermarmi sul rapporto che intercorre tra Celle e Faeto, la comunità con cui Celle condivide lo status di “minoranza linguistica”. Molto spesso nel rispondere alla domanda Hai mai incontrato Francoprovenzali di altre comunità? è proprio ai Faetani che i Cellesi rivolgono il loro pensiero: “beh, noi abbiamo la comunità di Faeto che abbiamo a che fare quasi tutti i giorni, visto che parlano anche come noi il francoprovenzale; anche se loro, tra noi e loro c’è sempre un po’ di differenza, soprattutto alcune parole, l’accento, però nell’insieme ci capiamo” (D, f, 54); “ Faeto è francoprovenzale ugualmente, però c’è differenza tra noi e loro. Le parole non si dicono, le parole si dicono quasi uguale, però uno come se fosse più allungata Faeto per esempio. Ci capiamo benissimo, però si distingue” (G, m, 87). Ho inoltre riscontrato un atteggiamento di indifferenza rispetto alla conoscenza di altre comunità francoprovenzali presenti in Italia e in Francia. L’unica realtà di lingua francoprovenzale, a cui ha fatto riferimento la maggior parte degli informatori, è la Valle d’Aosta, con cui esistono da qualche tempo scambi culturali, soprattutto in occasione del Concours Cerlogne a cui partecipano anche le scuole e gli studenti di Celle e Faeto36 . A proposito della comunicazione in francoprovenzale con i Valdostani, i parlanti del campione pongono l’accento sul fatto che la varietà valdostana è molto diversa dal cellese: “in Valle d’Aosta loro c’hanno la loro lingua. Noi facevamo le recite, perché lì (al Concours Cerlogne) si andava per una manifestazione; allora noi facevamo le recite nella nostra lingua francoprovenzale; la ricerca che facevamo per

36

Le Concours Cerlogne è una manifestazione culturale organizzata ogni anno in Valle d’Aosta.

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poter partecipare a questo concorso, in francoprovenzale. E loro altrettanto. Però quando comunicavamo tra di noi, sempre in italiano” (T, f, 71). Diverso è invece l’atteggiamento che i Cellesi manifestano nei confronti dei Faetani; con loro sentono un legame perché parlano la stessa lingua. Se c’è un aspetto che li differenzia è il fatto che i Cellesi sono rimasti maggiormente isolati per via della loro posizione geografica, quindi la varietà cellese si è mantenuta più arcaica rispetto al faetano: “quando ci incontriamo fuori è bellissimo che noi parliamo la stessa lingua, anche se c’è qualche, come dico, qualche diversità, ma è diversità comprensibile; ci capiamo. Detto che forse per la posizione di Faeto, che è stata in mezzo a una strada trafficata eccetera, ha cambiato qualche cosa; noi siamo rimasti più isolati qua. Qua bisogna venire apposta, non passo per Celle. Ecco perché poi la lingua è un po’ diversa come accento. Il faetano è un po’ più duro” (T, f, 71).

3.2.3 Francoprovenzale, italiano e dialetto foggiano: l’opinione dei Cellesi “Dietro l’autovalutazione e la rappresentazione dei propri comportamenti linguistici si celano spesso atteggiamenti linguistici di varia natura che affiorano attraverso i (pre)giudizi, le opinioni, gli stereotipi che i parlanti esprimono verso la varietà su cui sono indotti a riflettere” 37.

Difatti, Puolato afferma (2010:16): “il modo in cui i parlanti concepiscono, descrivono, giudicano, si raffigurano le lingue o varietà di lingua è sempre una componente fondamentale del rapporto uomo- lingua e di tutte le situazioni di contatto fra lingue”. A questo proposito, interessanti sono stati

i giudizi espressi dal campione

riguardo la lingua francoprovenzale, la lingua italiana e il dialetto foggiano. Alla domanda Pensi sia una cosa positiva parlare in francoprovenzale? tutti gli intervistati mi hanno risposto affermativamente:38 “io penso di sì. Sì è positivo, almeno per noi, è una lingua madre che comunque ci piacerebbe che non andasse via 37 38

Puolato 2010: 16. Solo un informatore di 24 anni mi ha risposto in maniera negativa “boh, penso di no”.

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del tutto” (M, f, 47); “penso di sì, perché altrimenti non avrebbe più senso studiare la storia, mantenere vivi edifici, ricordi…” (V, m, 50); “ sì, io sì. Sono orgogliosa, ecco, della mia lingua” (D, f, 54). Tutti gli informatori pensano che il francoprovenzale sia una bella lingua. Per descriverlo usano aggettivi come: “bellissima”, “interessante”, “dolce”, “gentile”, “scorrevole”, “spontanea”. Anche i giudizi che riguardano la lingua italiana sono positivi. La totalità del campione la considera una bella lingua. Gli aggettivi che usano per descriverla sono : “bella”, “elegante”, “bellissima”, “troppo bella”, “è il massimo dell’espressione”, “completa”, “dolce”. Totalmente differente è l’opinione che gli intervistati hanno del dialetto foggiano. In linea di massima, il dialetto foggiano non piace, perché giudicato, “brutto”, “terribile”, “stretto”, “cafone”, “bruttissimo”, “volgare”, “aggressivo”, “freddo”, “grezzo”. Qualche intervistato prende apertamente le distanze dai Foggiani: “pur essendo della provincia di Foggia, non abbiamo niente in comune” (T, f, 71). Il questionario non prevede una domanda specifica volta a raccogliere giudizi sul dialetto napoletano, ma il discorso valutativo sul napoletano emerge spontaneamente in vari momenti delle interviste: “a me il dialetto foggiano non piace perché è un po’ tipo una lingua volgare, invece, faccio l’esempio, tra il napoletano e il foggiano, ecco il napoletano per me è come fosse un’altra lingua tipo la mia lingua francoprovenzale, perché è simpatica, perché è bella che dirla” (D, f, 54). La maggior parte degli intervistati (7 su 11), sente infatti un legame con la Campania: “i napoletani mi sono sempre piaciuti, li considero molto caldi, sì forse sì con la Campania, perché ce l’abbiamo a due passi, c’abbiamo un piede in Campania e uno in Puglia, chissà per quale legge non facciamo proprio provincia, che ne so, di Avellino” (S, f, 40); più di Foggia, più della Puglia stessa. Poi la gente napoletana è diversa, a me è piaciuta molto” (T, f, 71).

3.2.4 Le opinioni sul Francoprovenzale, l’ambiente che li circonda e il senso di appartenenza alla comunità cellese Diverse sono le risposte che il campione ha dato alla domanda Qual’ è la tua città di riferimento? : “ ti dirò, non ho una… forse proprio Napoli. Sì, mi piacerebbe ritornare a Napoli” (T, f, 71); “Benevento” (C, f, 64); “beh, noi andiamo molto qui ad 29


Ariano; ci serviamo molto ad Ariano. Perché è vicino e si trovano molte cose commerciali” (D, f, 54); “diciamo che sempre Napoli; io ho ritrovato delle vecchie piastrelle qui proprio a Celle che arrivano da Vietri sul mare, quindi immagino che già precedentemente molto materiale arrivasse da Napoli” ( S, m, 62); “Foggia” (S, f, 40); “quelli che conosco di più sono dell’Ariano Irpino” (G, m, 87); “nessuna” (U, f, 56). Alla domanda Hai mai pensato di vivere altrove? Pensi prima o poi di trasferirti? le risposte del campione sono differenti e dipendono per lo più dall’età degli informatori: “mai, sto così bene qua” (T, f, 71); “no!” (G, m, 87 ); “noi cellesi, anche i

faetani, cioè le persone dei piccoli paesi hanno comunque già nel DNA la

prospettiva di andare via, perché comunque qui lavoro non ce n’è, comunque devi studiare, devi studiare fuori, e comunque se studi, vai all’università, vai via, trovi qualcos’altro, è normale che rimani fuori. La maggior parte (dei cellesi) è tutta emigrata” (S, f, 40); “avevo l’opportunità visto che lavoro fuori, potevo anche diciamo comprarmi una casa e viverci sul posto di lavoro, oppure andare a abitare a Foggia, tant’è vero che a Foggia c’ho una casa, ma non ho mai dormito, non so neppure il letto che ho comprato se è morbido, se è duro” (D, f, 54). Considero, inoltre, molto interessanti le risposte che gli informatori hanno dato alla domanda: Quando parli in francoprovenzale lo mischi con l’italiano? “no, dovendo rendere qualche idea e non c’è la parola corrispondente, ma abitualmente no” (T, f, 71); “eh, ogni tanto” (F, m, 24); “succede che mentre parlo in italiano mi vengono dei termini chiaramente in lingua, oppure mi devo frenare per continuare in italiano, sì, sì, son cose che poi le sento dentro di me e mi viene anche da sorridere” (S, m,62); “eh, certe frasi, certe parole si sono americanizzate, italianizzate da sole” (V, m,50); “ beh capita qualche volta dire qualche parola non proprio l’italiano, ma diciamo, usiamo il termine l’italiano sporco, perché ti è difficile o non ricordi bene la parola francoprovenzale” (f, 54). Alla domanda Ti senti più Cellese, Foggiano o Pugliese? il campione non ha nessun dubbio. Rispondono, in maniera unanime di sentirsi cellesi 39. Per i Cellesi parlare in francoprovenzale è un fatto assolutamente normale, oltre che spontaneo, naturale. Sono però consapevoli di non poter parlare il francoprovenzale quando, dove e con chi vogliono, perché chiaramente se escono dalla loro realtà non sarebbero capiti :“se vado a Foggia, lì non posso mettermi a 39

Solo una informatrice di origine torinese (Pont Canavese) risponde: “nessuno di tutti e tre”.

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parlare il dialetto da sola come una matta, mi rinchiudono subito. Quindi dipende sempre con chi ho a che fare” (M, f, 47); “sempre nell’ambito del paese, oppure se ti trovi a Faeto, nel paese vicino, e parliamo normalmente il cellese, il faetano” (V, m, 50). Al francoprovenzale è inoltre associata una funzione criptotalica: “la cosa bella che specialmente quando si va in certi posti, andiamo a fare shopping, qualche volta dobbiamo dire qualcosa che non ci vogliamo far capire, approfittiamo molto, molto di più del francoprovenzale. E così nessuno ci capisce! Se ti devo dire ci piace o non ci piace, è meglio che andiamo a vederlo da un’altra parte… insomma, è molto comodo” (D, f, 54). Va però detto che bisogna analizzare in maniera molto accurata i dati forniti dai parlanti, perché non sempre riflettono la realtà. Le risposte degli informatori possono essere infatti influenzate dall’immagine che essi intendono dare di sé, da cosa sarebbe più opportuno dire o non dire. “Un ruolo cruciale è giocato in questa direzione dal contesto interazionale dell’intervista, dalle aspettative dell’intervistatrice percepite dall’informatore e dalla relazione che si instaura tra i due. Per tale ragione i dati che si ottengono sono frutto di un processo comunicativo e quindi non separabili dal contesto in cui sono stati prodotti”40.

3.2.5 Come tutelare e preservare il francoprovenzale Posto che la conservazione di una lingua minoritaria dipende dalla rappresentazione che essa riceve all’interno della comunità, cercare di ricostruire tale immagine si rivela un’utile strategia per contribuire a diagnosticare lo stato di salute di una lingua41. Quindi lo scopo di questa inchiesta, è stato proprio quello di cercare di ricostruire l’immagine che il francoprovenzale ha agli occhi dei suoi stessi parlanti, perché sono loro i veri “garanti” della sopravvivenza del francoprovenzale. In seguito alla promulgazione della legge nazionale n. 482 a tutela delle minoranze linguistiche, il francoprovenzale è diventato una materia di studio a scuola, e su questo la totalità del campione è d’accordo, anzi credono che rappresenti uno dei modi attraverso il quale poter tutelare il francoprovenzale. Difatti alla 40 41

Milano/Valente 2010: 37. Milano /Valente 2010: 34-35.

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domanda Secondo te cosa si dovrebbe fare per tutelare il francoprovenzale? gli intervistati mi rispondono così: “continuare ed insistere con la scuola” (M, f, 47); “eh, si deve portare a scuola” (F, m, 24). Sulla possibilità di insegnare il francoprovenzale, così come tutte le altre lingue locali nelle scuole, Telmon ha espresso la sua pungente quanto importante opinione: “Una lingua, qualunque essa sia, si apprende attraverso due modalità. Delle due, quella meno naturale è lo studio. Le lingue locali, dotate di tradizione testuale orale sono quelle che si imparano soltanto se trasmesse non con l’intento di insegnare una lingua, ma con quello di insegnare a parlare; è inutile caricare la scuola anche del peso di una funzione già assolta, in una o in un’altra direzione dai genitori stessi”42.

Emergono anche altre soluzioni e proposte interessanti del tipo: “beh, per tutelarlo, prima di tutto ci vorrebbe anche dei finanziamenti, perché a parlare è una cosa, anche se uno vuol scrivere, vuol fare ricerca, na volta che uno ha fatto la ricerca, bisogna pure creare un libro, rilegarlo, e questo c’ha sempre e comunque un costo. Io sto facendo dei sacrifici per la lingua, perché voglio comunque che rimane qualcosa e metto fuori dei soldi. Ho fatto anche dei progetti alla regione Puglia. Ho fatto un progetto a livello nazionale che ho abbinato la cultura e il turismo insieme. Se mi verrà finanziato, insomma”43(D,f,54). Credo però che la risposta più significativa l’abbia data una informatrice che alla stessa domanda mi ha così risposto: “essere orgogliosi della lingua, essere orgogliosi di essere cellese. Se c’è l’orgoglio c’è anche la volontà di fare, di conservare, perché non bastano le leggi” (T, f, 71). Per quanto riguarda l’importanza della trasmissione del francoprovenzale al fine di salvaguardarne futuri sviluppi, una delle domande più calzanti e significative presenti nel questionario è la seguente:Insegni/pensi di insegnare il francoprovenzale ai tuoi figli? In prevalenza gli informatori affermano di aver insegnato (o comunque di volerlo fare in futuro) la loro lingua ai figli, i quali l’hanno appresa perché in famiglia era quello lo strumento linguistico utilizzato. Anche perché i bambini, le nuove generazioni rappresentano, forse, l’unica speranza che il francoprovenzale ha di sopravvivere. A questo punto credo risulti interessante far riferimento alle parole del Sindaco di Celle : “loro (i bambini) quando mi incontrano parlano l’italiano, io li riprendo e allora faccio finta che non li capisco”. 42 43

Telmon 2010: 22. Chi ha rilasciato queste dichiarazioni è il Sindaco di Celle San Vito.

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3.2.6 La percezione che i Cellesi hanno del loro essere una “minoranza linguistica” “In Italia i parlanti francoprovenzali paiono aver recuperato coscienza di sé grazie ad un attore che ha dato un apporto decisivo al moltiplicarsi di iniziative a sostegno delle lingue minoritarie nazionali negli ultimi anni . Mi riferisco alla legge n. 482/9944”.

La legge ha dunque rinforzato la coscienza di sé delle comunità minoritarie. Ora, se è vero che tutte le domande che compongono il questionario percettivo sono fondamentali e hanno un obiettivo ben preciso, è altrettanto vero che ce n’è una veramente importante (almeno dal mio punto di vista), che ha suscitato negli informatori diverse reazioni. Talvolta anche di fastidio. Mi riferisco alla domanda Il fatto che Celle San Vito sia considerata un esempio di minoranza linguistica, ti sembra una forma di discriminazione? Le risposte sono state diverse: “è indifferente, purtroppo doveva andare così” (F, m, 24). Ecco, questa risposta mi ha permesso di capire che non tutti i Cellesi hanno compreso a pieno il significato della parola “minoranza”. C’è stato infatti un informatore che mi ha così risposto: “il termine minoranza non suona bene, non lo sento nemmeno, io tant’è vero che non dico minoranza, dico sempre lingua francoprovenzale o lingua arpitana” (S, m,62). Per la maggior parte degli intervistati il fatto di essere una minoranza linguistica rappresenta un “valore aggiunto”: “in realtà si usa minoranza, perché siamo pochi e parliamo una lingua diversa. Siamo isole alloglotte. Io penso sia un offesa solo per chi non capisce in realtà cosa significhi, perché appunto non ha una preparazione culturale in grado di capire che minoranza linguistica è un fatto a sé, non una discriminazione” (S, f, 40). Giunti oramai alla fine di questa indagine vorrei lasciare la “parola” ad una delle persone che ho intervistato, la maestra storica di Celle, nonché studiosa del francoprovenzale: “abbiamo un origine diversa, una storia diversa, ma la diversità 44

Porcellana 2007: 37.

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non è negativa. Se le cose fossero fatte male allora bisognerebbe vergognarsi, ma se uno è diverso non si deve vergognare, è fatto così” (T, f, 71).

3.3 Conclusioni Il tema delle minoranze linguistiche, delle lingue locali e delle identità ad esse legate può sembrare in apparenza un argomento di facile comprensione. Io stessa, quando ho intrapreso questo percorso pensavo di avere chiaro in mente il significato delle parole “minoranza”, “lingua minoritaria”, “identità”. Mi sono dovuta ricredere. Il tema delle minoranze linguistiche è un tema complesso, articolato. E lo è soprattutto per il fatto che non tutti lo affrontano con la stessa sensibilità e consapevolezza. La vita frenetica delle città, a volte, non ci permette di fermarci a pensare alle tante realtà che ci circondano. Va inoltre ricordato che a Celle San Vito si parla una lingua diversa dall’italiano, il francoprovenzale, è questo è assodato, ma come suggerisce Telmon: “anche a Sorrento si parla in un modo diverso dall’italiano”45. C’è, però, un aspetto che differenzia Celle San Vito da Sorrento: Celle è una minoranza linguistica, Sorrento no. Ed è proprio questo il nodo centrale di tutta la questione. Solo se si fa parte di una minoranza linguistica si può capire a pieno il tema dell’identità legato alla lingua. È chiaro che anche noi italiani abbiamo un’identità linguistica perché sappiamo di avere un codice in comune: la lingua italiana. E lo stesso vale anche per i Francesi, gli Inglesi, gli Spagnoli e così via. Credo, però, che per un paese di poco più di 150 abitanti, la parola “identità” abbia una valenza diversa. Innanzitutto, i Cellesi sono stati ben contenti di rispondere alle mie domande, ma ciò che più mi rimarrà impresso sono le parole che i Cellesi utilizzavano per parlare del francoprovenzale: aggettivi possessivi ( “mio/a, “tuo/a”, “nostro/a”) e parole come “madre”, “mamma”, “materna”, “origini”, “normalità”, “spontaneità”. I Cellesi sentono di appartenere ad una comunità, una comunità che è stata creata dai loro antenati e sono consapevoli di avere sulle spalle il peso di una lingua che potrebbe scomparire. Questo perché la comunità di Celle è formata per lo più da ultrasessantenni, i giovani hanno dovuto lasciare il loro paese per motivi legati allo studio o alla mancanza di lavoro e a Celle San Vito ci sono solo sei bambini. E sono 45

Telmon 2010: 17.

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proprio loro, i bambini, la speranza che a Celle il francoprovenzale non finisca con le vecchie generazioni. A Celle non ci sono possibilità di trovare un lavoro, quindi la maggior parte dei giovani prima o poi dovrà lasciare il suo paese, gli adulti che invece vivono lì si spostano ogni giorno per raggiungere il posto di lavoro. Ma sono ben felici di farlo, vivono bene così. Magari per coloro che abitano in una città, può risultare inimmaginabile il fatto di vedere tutti i giorni le stesse persone, oppure non poter andare a fare la spesa, se non nel paese vicino. Difatti a Celle c’è solo un barpizzeria, un agriturismo, una farmacia aperta solo in alcuni giorni della settimana e una posta, anch’essa aperta o di mattina, o di pomeriggio e solo alcuni giorni a settimana. Quindi per fare spese, di qualunque genere, i Cellesi devono spostarsi a Foggia o ad Ariano Irpino. Ma loro sono abituati a vivere in questo modo e sono felici così. I Cellesi sono fieri del meraviglioso paese in cui vivono, un borgo che parla di storia, di cultura. Ma se c’è un elemento che li inorgoglisce quello è la lingua francoprovenzale. La maggior parte delle persone che ho intervistato parla abitualmente il francoprovenzale, in contesti familiari, ma anche in contesti extra-familiari. Ovviamente non possono parlare il cellese fuori dal loro paese, a meno che non si tratti di Faeto, o con persone che non parlano francoprovenzale. Quindi le opportunità di parlare la loro lingua sono essenzialmente legate al contesto e all’interlocutore. Il rapporto che i Cellesi hanno nei confronti della lingua italiana è di necessità, nel senso che sono costretti a parlare l’italiano solo quando non hanno la possibilità di parlare il francoprovenzale. Vivendo su un territorio di confine tra la Campania e la Puglia, l’identità cellese ingloba entrambe queste realtà territoriali, culturali e linguistiche. Difatti una delle persone che ho intervistato, alla domanda: Quando parli in francoprovenzali lo mischi con l’italiano? mi rispose così: “beh, capita qualche volta dire qualche parola non proprio l’italiano, ma diciamo, usiamo il termine, l’italiano sporco” (D, f, 54). Credo che questa informatrice usando l’aggettivo “sporco” faceva riferimento al dialetto; un dialetto che può essere napoletano, pugliese o foggiano. Ora, mentre il modo in cui i Cellesi hanno parlato del francoprovenzale, dell’italiano, ma anche del dialetto napoletano, è sempre stato positivo, affettuoso, la 35


situazione cambia quando i Cellesi devono esprimere la loro opinione sul foggiano. Il foggiano proprio non piace e con i Foggiani non avvertono nessun legame. Durante le mie interviste ho avuto anche modo di affrontare insieme ai Cellesi la delicata questione che riguarda i modi per poter preservare il francoprovenzale. Credono molto nel ruolo della scuola, anche se due delle persone che ho intervistato concordano nel dire che è utile insegnare il francoprovenzale nelle scuole, ma chi lo insegna deve essere preparato a fondo, deve essere un reale conoscitore della lingua originaria. Anche i genitori giocano un ruolo fondamentale perché non devono avere il timore di insegnare il cellese ai loro figli, non devono pensare di isolarli così facendo, perché è ovvio che l’italiano lo imparerebbero a scuola e il francoprovenzale in famiglia. In realtà questo significa avere una cultura bilingue. Il francoprovenzale è infatti una lingua. La maggior parte degli intervistati non ha mai pronunciato la parola “dialetto”. I Cellesi considerano infatti il francoprovenzale come una lingua madre, la prima lingua, la lingua del cuore, la lingua della nascita. La parola “minoranza” non piace ai Cellesi, ma non pensano che sia una forma di discriminazione. La maggior parte degli intervistati è consapevole del fatto che essere una minoranza linguistica è un valore aggiunto. Fu proprio il Sindaco a dirmi che se fanno loro delle discriminazioni, lo fanno quando “sentono che il paese è piccolo e non ci danno quella giusta importanza”. De Michelis (2008: 60) afferma: “le identità non esistono, si affermano”. Concordo a pieno e dalla mia esperienza a Celle San Vito ho capito che i Cellesi affermano ogni giorno la loro identità. Come? Continuando a parlare il francoprovenzale.

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