Coolclub.it n.66/67 (Agosto-Settembre 2010)

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moria. Rinaldo Di Mare ufficialmente gestiva una rivendita di carni suine, ma sottobanco commerciava con le armi. Aveva certi amici zingari che gli facevano pervenire i Kalashnikov direttamente dall’Albania. Ci demmo appuntamento sotto i Grandi Magazzini del Conte. Lì si poteva passare inosservati. Rinaldo aveva la faccia gialla, le occhiaie nere, e arrivò camminando svelto, con addosso degli abiti nuovi da ragazzo, che non gli si addicevano. “Cristo quanto puzzi. Ma che cazzo ti è successo?”. “Devi darmi un fucile a credito”. “Io non devo dare niente a nessuno”. “Sai che onoro i debiti”. “Vieni dietro nel cortile, anzi no...”. Io restai in silenzio, guardandomi attorno. “Al campo di concentramento nazista. Sotto la baracchetta. Mando uno scagnozzo”. Il campo di concentramento nazista era la pineta. Noi del quartiere la chiamavamo così, da sempre, perché più che una pineta sembrava un cortile di prigione. Mi diressi là. Entrai nella baracchetta. Faceva un freddo cane. Passarono alcune ore. Arrivò lo scagnozzo col fucile avvolto in una coperta. Mi consegnò l’arma. Me ne andai immediatamente. Fuori era già buio. Percorsi le strade del quartiere con il fucile in mano. Nessun passante si azzardò a fare qualcosa, o a protestare. Fui attraversato da una sensazione mista: di potenza e solitudine. Solitudine totale. Non recuperabile. Assoluta. Entrai nella gigantesca rivendita di pelli e montoni Melfi Pronto Moda, dove avevo lavorato fino a una settimana prima, col cartellino numero sette. Rapinai il negozio. Poi salii di sopra, dove c’erano gli uffici. Uccisi il titolare mirando secco in faccia. Non so se ebbe tempo di spaventarsi o capire cosa stesse succedendo. Crollò sulla scrivania. Vidi il suo sangue spandersi sulla tastiera della calcolatrice. Lasciai alla puttana obesa di ragioniera il cellulare del ragazzino. Le dissi: “Consegnalo alla polizia, non è mio. A te non ti uccido, tu soffri di più a vivere”. Mi diressi verso la casa di Rinaldo Di Mare. Con i soldi della rapina pagai il mio debito. Salutai educatamente. Cominciavo a rasserenarmi. Gli orizzonti davanti a me, dopo anni e anni, ritornavano celesti. Feci poi irruzione in casa della troia. Stava effettuando le pulizie del dopo-cena: spolverava e ripuliva i fornelli. Gli sparai senza nessuna esitazione. Almeno venticinque colpi. Alle spalle.

Nemmeno mi aveva sentito entrare. Conservavo ancora una copia delle chiavi della sua abitazione. Mentre la troia cadeva a terra mi avvicinai a lei. La guardai negli occhi, ascoltai il suo ultimo respiro. Volevo assicurarmi che lei si accorgesse, che sapesse: ero io, ero stato io, io, a porre fine alla sua merdosa sporca vita. Fuori in strada saltellavo e sparavo alcuni colpi in aria. Ero felice e soddisfatto. A quel punto mi sarebbe piaciuto ricominciare a vivere, ma sapevo benissimo che era troppo tardi. Pace sentivo io, fra me e la vita. Via il nero. Tutto era lontano. Nel mezzo anni luce di distanza. Nel mezzo solo bellissimi orizzonti celesti. Non mi restavano che pochi minuti. Entrai nei grandi magazzini del conte con il fucile in mano. I magazzini del conte chiudevano alle dieci. Comprai una confezione da ventiquattro birre da mezzo litro. Non più nere, ma bionde. Non più a temperatura ambiente e putride, ma fresche, floreali, dissetanti. Mi avvicinai alla cassa ridendo e parlando da solo. La commessa, terrorizzata, mi consegnò il resto. Per tutta risposta tirai fuori tutti i soldi che mi erano avanzati e le dissi: “Tieni, comprati degli abiti nuovi”. Rientrai a casa e iniziai a bere. Bevvi una, due, tre lattine. Ero seduto sull’immondizia, con la schiena appoggiata al muro, in attesa. Lo stereo rimase spento. Volevo sentire il mio silenzio. Me lo volevo godere, per l’ultima volta. Il tanfo di sudore era piacevole, si inseriva nei nervi, fungeva da calmante. Era la fine della corsa, capolinea, dovevo scendere a recuperare il mio cervello. A recuperare me. Arrivò la polizia. Bussarono alla porta, io non risposi. Sfondarono la porta, io non mi arresi. Feci fuoco. I primi tre agenti che mi si pararono davanti caddero sotto i miei colpi. Forse avevano bambini, o fidanzate, o madri in apprensione, non so, non mi interessa. Non ricordo altro, della mia vita. Non ricordo i miei pensieri. Non ricordo il mio cervello libero, che forse ancora vaga, nella notte. E che forse ancora vive nella mia famiglia, negli adolescenti sogni ad occhi aperti, nel cuore di albanesi onesti e di donne più assennate. Ora vi scrivo dall’altro capo del telefono. Qui non è certo un paradiso. Il paradiso è sulla Terra, in mezzo a un campo verde, sopra un aeroplano, sopra lo sgabello di un locale, o tra le braccia di una donna. Quel posto esiste. È lì, vicino a voi. Più vicino di quanto voi crediate. Forse l’avete addirittura in pugno. Non lasciate che vi sfugga.

COOLIBRÌ 51


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