Con i Piedi per Terra | 35

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arte storia e natura prodotti tipici

N. 35 - Gennaio - Febbraio 2020 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD

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Editoriale:

LA RICERCA DELLE IDEE COME ANTIDOTO AI GIOCHI DI POTERE Ambiente:

ANCHE GLI UCCELLI CI STANNO AVVISANDO DEL CAMBIO CLIMATICO Tradizioni:

SAN VALENTINO E CARNEVALE TRA FEDE E FOLKLORE

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Numero 35

Direttore responsabile: Mauro Gambin

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LO SGUARDO OLTRE LA SIEPE

Editore: Speak Out srl

I fiori, il regalo favorito dagli innamorati

di Giampaolo Venturato e Mauro Gambin Piazza della Repubblica, 17/D Cavarzere (VE) info@speakoutmedia.it

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ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE

Hanno collaborato a questo numero: Silvano Bizzaro Alessandra Capato Emanuele Cenghiaro Diego Crivellari Mattia De Poli Maurizio Drago Enzo Gambin Michele Grassi Renato Malaman Adriano Mollica Eliano Morello Anna Maria Pellegrino Giulia Schiavon Ada Sinigalia Roberto Soliman Mario Stramazzo Aldo Tonelli

La birra un alimento nutraceutico

STORIA E DINTORNI I profumi dal passato ad oggi

PANORAMA GASTRONOMICO In viaggio tra i sapori del Veneto

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LA MEMORIA DI CARTA

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Editoriale:

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Attualità:

- Giugno 2019

- Periodico

- Settembre

bimestrale

2019 - Periodico

- Poste Italiane

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- Poste Italiane

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N. 33 - Agosto

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N. 32 - Maggio

Tutti i diritti sono riservati. Gli articoli possono essere riprodotti solo con l’autorizzazione dell’editore e in ogni caso citando la fonte. Gli articoli firmati impegnano esclusivamente gli autori. Dati, caratteristiche e marchi sono generalmente indicati dalle case fornitrici (rispettivi proprietari)

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Tiratura: 10.000 copie Diffusione: periodico bimestrale Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC) n. 23644 del 24.06.2013 Iscrizione al tribunale di Padova n. 2329 del 15.06.2013 Iscrizione del marchio presso Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (U.I.B.M.) n. PD 2013C00744 del 27.06.2013

- D.L. 353/2003

Giornale chiuso in redazione il 28 gennaio 2020

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EDITORIALE di Mattia De Poli

Il carnevale DELLA POLITICA

La ricerca delle idee come antidoto alle macchinazioni dei giochi di potere

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l legame fra teatro e politica ha radici profonde. Oltre duemila e cinquecento anni fa ad Atene nasceva la tragedia, e subito il legislatore Solone si accorse del pericolo che nascondeva: ben presto l’abitudine a recitare una parte, avrebbe influenzato le relazioni fra le persone. Gli eventi e la cronologia sono incerti, ma lo storico greco Erodoto tratteggia il tiranno ateniese Pisistrato come un abilissimo attore. Una prima volta si inflisse delle ferite e finse di essere sfuggito fortunosamente ad un agguato dei suoi avversari politici. Ma l’episodio più spettacolare fu quello architettato per il suo rientro in patria dall’esilio. Scelsero una donna particolarmente alta e bella, la rivestirono di un’armatura e la fecero salire su un carro insieme a Pisistrato. Intanto alcune persone gridavano a gran voce di accogliere l’uomo che la stessa dea Atena - la donna armata, fatta salire sul carro - riconosceva come il leader politico migliore. Erodoto non parla di una sceneggiata né di una messinscena, ma di macchinazioni e, quando lo storico scriveva la sua opera, la “macchina” era anche uno strumento utilizzato a teatro, ad esempio per l’apparizione di un dio (appunto il “deus ex machina”). E quando fiorisce l’arte teatrale anche nell’Italia delle corti rinascimentali, Machiavelli, che pure ha scritto una commedia, da teorico dell’azione politica consiglia al buon principe di saper simulare e dissimulare, ovvero di mostrare una certa intenzione celando il vero pensiero. Il fascino del teatro è lo stesso fascino che sull’animo umano esercitano le grandi cerimonie, come i colossali raduni organizzati dal regime nazista

a Norimberga: appuntamenti annuali, ogni volta su un tema diverso, architettati in tutti i dettagli, organizzati in un apposito spazio debitamente scenografico. Appuntamenti in occasione dei quali vennero realizzati film-documentari. Era giunta l’epoca di una nuova espressione artistica, ancora più seducente del teatro: il cinema. Il mezzo è cambiato, ma il principio è rimasto lo stesso: interpretare un ruolo, trasmettendo un’immagine di sé e del mondo costruita ad arte. E oggi, c’è qualcosa di vero, di autentico nella politica? I più disincantati risponderebbero: assolutamente nulla. Ma è davvero tutta una messinscena, una mascherata? In politica, forse, è davvero carnevale tutto l’anno: un ruolo da recitare bene per soddisfare le aspettative e ottenere il plauso, il consenso. Il bravo attore si identifica con la parte che interpreta: la maschera, reale o meno, si confonde con il suo volto. Ma il personaggio non ha una vita propria: segue un copione, un canovaccio. C’è uno scrittore, un drammaturgo, un coreografo, un regista. C’è una mente, un’idea. Il difficile sta proprio nello scoprire quello che resta dietro le quinte o dietro la macchina da presa. Anche quando attore e regista sono la stessa persona, l’azione scenica risponde a un progetto, che va decifrato. È inutile cercare di togliere la maschera al politico: c’è il rischio di rimanere delusi e di non avere le risposte desiderate. Risposte che richiedono di andare più in profondità non nelle persone ma nelle cose. La domanda da porsi non è chi erano, ad esempio, Bettino Craxi o Giulio Andreotti, ma perché hanno agito in un certo modo.

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L’ELZEVIRO di Eliano Morello

COSA SAPPIAMO DELLA RADIOATTIVITÀ?

Spesso basta la parola per terrorizzarci e, a dire il vero, decenni di guerra fredda e più di qualche centrale saltata per aria hanno contribuito non poco ad accrescere questa fobia. Però ogni giorno entriamo in contatto con sostanze radioattive di cui non conosciamo l’esistenza

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ualche tempo fa mi trovavo a pranzo tra colleghi, tutti tecnici impegnati nel mondo dell’agricoltura, e come spesso accade il dibattito è arrivato a toccare il tema dei fitofarmaci, anzi per essere più precisi il confronto è arrivato a suffragare una presunta correlazione tra antiparassitari e tumori. Un mio collega, infatti, sosteneva che il rapporto è talmente forte che ogni famiglia di agricoltori ha almeno un componente affetto da cancro. Come mia abitudine, faccio domande,

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e gli ho chiesto se la sua tesi era suffragata da dati. Mi rispose che lui conosce molte famiglie in questa situazione. Quindi ho contestato il suo approccio a dir poco “spannometrico” di considerare i fatti, facendogli notare la differenza tra una opinione e una evidenza. Non c’è stato niente da fare, è stato come sbattere contro un muro. La verità che aveva in testa non era scalfibile. Ho partecipato poi a un corso di aggiornamento per consulenti in difesa fitosanitaria. Un relatore (medico dello Spisal in pensione) ci ha sciorinato una serie di ricerche condotte in collaborazione con la sua USSL di competenza, relative alla diffusione dei tumori in Veneto. Devo ammettere che non sono stato molto sorpreso perchè confermavano i dati di cui disponevo, pur avendoli raccolti in diversi momenti. La distribuzione della mortalità per ogni tipo di causa, in Veneto, è rappresentata dalla fig. 1, qui a fianco, mentre la distribuzione della mortalità dovuta a tumori è evidenziata nella fig. 2 ed è evidente che le zone meno colorate, dove si muo-


L’ELZEVIRO Oggi l’agricoltura moderna permette che sia solo il 20% della popolazione mondiale ad occuparsi della produzione alimentare. Solo qualche decennio fa tale proporzione sarebbe stata semplicemente insostenibile re di meno per tumori sono, paradossalmente, anche quelle dove si riscontra la maggior distribuzione di vigneti. Scopriamo, inoltre, che l’incidenza maggiore è in alta montagna e l’incidenza medio-bassa proprio nella fascia collinare che parte dalla Lessinia veronese, attraversa le colline vicentine per arrivare alle colline trevigiane, area di maggior presenza di vigneti (dati complessivi che potete consultare nel sito del SER). Diviene dunque difficile sostenere una correlazione positiva tra coltivazione della vite e malattie tumorali. Forse le cause sono da ricercare “anche” da altre parti. Ora mi rendo conto che sostenere opinioni e idee in controtendenza con l’opinione diffusa e redicata può essere controproducente, ma vorrei stimolare, invece, una riflessione di ampio respiro. Come tutti sappiamo, la nostra vita è molto dispendiosa in termini energetici: per accumulare energia dobbiamo

alimentarci e per alimentarci occorre produrre cibo. In realtà solo una parte della popolazione è impegnata in questa attività, le stime dicono che solo il 20% della popolazione mondiale risulta occupato nel settore primario. Cioè solo un quinto della popolazione provvede a sfamare tutti gli altri. Solo qualche decennio fa queste proporzioni non sarebbero state possibili, ma oggi grazie ai prodotti dell’agricoltura la popolazione mondiale di oltre 7,5 miliardi di persone si sfama (anche se non con un giusto equilibrio di distribuzione delle risorse) e le carestie che nei secoli passati mietevano vittime a migliaia sono quasi scomparse. Nonostante ciò il settore primario rimane, secondo l’opinione generale, il maggior responsabile dell’inquinamento globale. L’agricolturra viene accusata di emettere ingenti quantità di anidride carbonica (CO2), ammoniaca (NH3), polveri sottili (PM 2,5 - PM 10) e di usare prodotti che provocano alterazioni endocrine (interferenti endocrini) e tumori, Morbo di Parkinson, Alzheimer, ecc. Gli altri settori non sono aggrediti come il settore primario e come ebbi modo di scrivere qualche tempo fa, trasporti, autoveicoli, motocicli, aerei, industrie, produzione di rifiuti, turismo, riscaldamenti domestici, illuminazione pubblica e privata, condizionatori, ecc., non sono certo immuni da responsabilità. Ma per l’opinione pubblica, tutto questo non inquina o inquina meno.

FIGURA 1 - Mortalità per tutte le cause: mappa della mortalità su base comunale; stime bayesiane del rapporto standardizzato di mortalità. Età < 85 anni. Veneto, periodo 2010-17

FIGURA 2 - Mortalità per tumore: mappa della mortalità su base comunale; stime bayesiane del rapporto standardizzato di mortalità. Età < 85 anni. Veneto, perodo 2010-17

MORTALITÀ PER TUMORI - Mappa della mortalità su base comunale: stime kernel del rapporto standardizzato di mortalità. Età < 85 anni. Veneto, periodo 2010-13

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L’ELZEVIRO

Circa la metà delle radiazioni che assorbiamo nell’arco della vita deriva dal Radon, un gas che si sprigiona naturalmente dalle rocce. Incolore, insapore e inodore, questo gas naturale è presente nel suolo e in quasi tutti gli edifici Nel frattempo, su pressione dell’opinione pubblica e di una politica al servizio di questa, l’Unione Europea taglia prodotti utili per l’agricoltura riducendo sempre più la disponibilità di mezzi tecnici. Una scelta contestata da molti paesi in quanto l’UE ha adottato un approccio sulla gestione del pericolo e non invece un approccio sulla gestione del rischio, come vorrebbe il WTO. Forse nel deliberato tentativo di riconvertire la nostra agricoltura a forme diffuse a fine 1800? Una agricoltura senza agrofarmaci e senza concimi può resistere? E chi, alla fine, ne pagherebbe il prezzo? L’Italia, in particolare, non sarebbe costretta a dipendere ancora di più dai prodotti stranieri? Viviamo in un paese che oltre ad avere una scarsa cultura scientifica, ha uno scarso rispetto degli scienziati e degli specialisti. Rispettiamo e ci fidiamo di più di maghi, ciarlatani e guru e internet - laureati alla Google University (vedi i casi Stamina, Memoria dell’acqua, vaccini e autismo). Ma allora non abbiamo capito nulla? In parte sì. Spesso si pensa che le cause siano evidenti (causa - effetto)

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ma nessuno pensa a cause invisibili oppure i media riescono a diffondere terrore senza cognizione di causa. La chimica è diventata sinonimo di male oscuro, il nucleare idem, tutto ciò che non è visibile, che non si conosce o non si capisce diventa fonte di ansia e può essere utilizzato per terrorizzare la gente. Vediamo un esempio: abbiamo il terrore del nucleare e della radioattività e pensiamo che aver smantellato le centrali nucleari ci ripari dal rischio. Non sappiamo invece che esiste una radiazione naturale di fondo che ci bombarda quotidianamente. Questa è maggiore proprio laddove ci sono rocce come graniti, trachite, tufo e vulcani, grandi emettitori di un gas radioattivo: il “RADON”. Ma sulla pericolosità di questo gas nobile, sappiamo ben poco e ci conviviamo da millenni. I Colli Euganei sono dei buoni produttori di Radon attraverso la trachite e i fanghi termali. Nonostante ciò abitare sui colli euganei è molto ambito, curarsi con le acque termali altrettanto. Ma allora perché esiste questa incapacità della nostra mente di valutare correttamente quello che facciamo e quello che ci circonda? Conviviamo con la radioattività da millenni e non lo sappiamo. A causa di queste paure abbiamo omesso la parola “nucleare” perfino alla risonanza magnetica e comunque, se ci viene prescritto, ci sottoponiamo a radiazioni. Con il cibo introduciamo piccole quantità di elementi radioattivi come ad esempio il Potassio 40 contenuto nelle banane. Noi stessi introduciamo molto carbonio 14 (radioattivo) con l’alimentazione vegetale e animale.


L’ELZEVIRO Spesso facciamo correlazioni che non hanno nessun senso eppure - per il principio di precauzione - ci priviamo di percorrere delle strade che potrebbero essere utili a tutti noi. Forse occorre educare al pensiero critico sin dall’infanzia, migliorare l’insegnamento delle materie scientifiche e fornire strumenti e mezzi ai nostri ricercatori affinché possano sperimentare direttamente anche in ambiti ostili come gli OGM. Occorre rifiutare fortemente le pseudoscienze senza supporto scientifico, opporsi alle “non scelte” perché potremmo correre il rischio di correlare la vendita di prodotti biologici alla diffusione dell’autismo, come riportato dal grafico qui accanto.

Con l’alimentazione vegetale e animale introduciamo piccole quantità di elementi radioattivi ogni giorno come il carbonio 14 oppure il Potassio 40 contenuto nelle banane

L’agricolturra viene spesso accusata di emettere ingenti quantità di anidride carbonica (CO2 ), ammoniaca (NH3 ), polveri sottili (PM 2,5 – PM 10) e di usare prodotti che provocano alterazioni endocrine e tumori

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LO SGUARDO OLTRE LA SIEPE

I fiori di Ada Sinigalia

RIMANGONO IL REGALO PREFERITO TRA GLI INNAMORATI In Veneto si stanno conducendo progetti importanti per il florovivaismo. È il caso della vertical farm, che utilizza i vecchi capannoni dismessi come centri di produzione. Una tecnica che permette di azzerare l’uso di agrofarmaci e il recupero dei vecchi fabbricati produttivi

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he cosa regalare a San Valentino per dimostrare il proprio amore? Secondo una ricerca di Coldiretti, non c’è ombra di dubbio che l’omaggio floreale si conferma, tra gli italiani, il simbolo della festa degli innamorati con una stima di almeno 15 milioni di fiori acquistati, per una spesa di circa 75 milioni di euro tra fiori e piante. Una scelta che distacca notevolmente gli altri prodotti da regalo del periodo, in quanto almeno un innamorato su tre volentieri si orienta su un bel mazzo di fiori per rinnovare i propri sentimenti, mentre i cioccolatini raggiungono il 19%, i profumi o i gioielli il 6% e i capi di abbigliamento si fermano al 4%. Certo: ma che cosa regalare? Anche qui la statistica conferma una scelta piuttosto variegata che dalle classiche rose rosse si orienta anche verso le piante come le primule,

La provincia di Padova, con i suoi 766 ettari destinati alla coltivazione di fiori, è la maggiore produttrice in Veneto, seguita da Treviso (535 ettari), Verona (523 ettari), Venezia (348 ettari), Rovigo (244 ettari) e Vicenza (144 ettari) 8

i ciclamini, le azalee o le orchidee. Ne beneficia la produzione italiana che sta attraversando un buon periodo, riuscendo a produrre un valore annuo che supera i 3 miliardi di euro. Ma ne beneficia anche il Veneto che nel comparto florovivaistico vanta significative tradizioni, che risalgono ai tempi della Repubblica di Venezia e degli stabilimenti florovivaistici patavini del XVIII secolo, e risulta essere tra le prime regioni d’Italia nella produzione di piante ornamentali. Un primato raggiun-

Il settore del florovivaismo in Italia gode di buona salute. In base ai risultati dell’ultimo censimento dell’agricoltura in Italia risultano attive circa 20.500 aziende florovivaistiche, che danno occupazione ad oltre 120.000 addetti, con una superficie coltivata di oltre 36.000 ettari e che generano un valore che supera i 3 miliardi di euro


LO SGUARDO OLTRE LA SIEPE

Il vivaismo veneto,

una realtà da 1,6 miliardi di piante

to grazie soprattutto alla provincia di Padova che con i suoi 766 ettari destinati alla coltivazione di fiori è la maggiore, seguita da Treviso (535 ettari), Verona (523 ettari), Venezia (348 ettari), Rovigo (244 ettari) e Vicenza (144 ettari). Ma il Veneto dei fiori non brilla solo per i risultati economici, si distingue pure per progetti innovativi destinati a cambiare il futuro e la sostenibilità di questa branca dell’agricoltura. Si tratta della vertical farm, ossia la tecnica di sviluppare le coltivazioni in spazi chiusi e ristretti, come i vecchi capannoni dismessi, anziché nei tradizionali terreni per la coltivazione “in orizzontale”. Ciò permette di ottenere ortaggi, fiori, frutta e prodotti “nutraceutici“ in un ambiente con condizioni “climatiche” controllate, grazie all’automazione delle fonti energetiche, quasi azzerando l’uso di agrofarmaci e altri prodotti per il controllo dei parassiti. I vecchi capannoni dismessi diventano così orti e giardini del futuro, ideali per una produzione agricola all’insegna del risparmio energetico e dell’attenzione all’ambiente. Il tutto grazie alla ricerca tecnologica condotta dall’ENEA e dal mondo universitario e all’apporto di innovazione di alcune aziende. Da questa partnership nasce il “Progetto Ri-Genera” per la realizzazione e lo sviluppo di produzioni idro-

La produzione florovivaistica complessiva regionale viene stimata a circa 1,6 miliardi di pezzi. Tale risultato è fortemente influenzato dal comparto del vivaismo orticolo, la cui produzione è rimasta stabile a circa 1,3 miliardi di piantine; tra gli altri comparti, la produzione del vivaismo frutticolo si attesta sui 17,1 milioni di piante e di piante ornamentali con 246 milioni di unità. Fanno segnare leggeri incrementi il vivaismo viticolo (7,4 milioni di pezzi, +0,2%) e quello di ornamentali da esterno (39,4 milioni di piante, +0,4%). Si registra un aumento delle aziende specializzate in un solo comparto produttivo che tende ad essere costituito da aziende più strutturate e organizzate. Il valore della produzione nel 2018 è di 214 milioni di euro, +0,5% rispetto al 2017 e, di fatto, dal 2011 si è attestato su valori superiori ai 200 milioni di euro. Per quanto riguarda gli aspetti di mercato, e nello specifico la provenienza delle forniture, la scelta dell’autoproduzione del materiale di base si conferma sempre più come la prima fonte di approvvigionamento delle imprese (79%): si tratta di una modalità utilizzata in maniera massiccia dalle aziende del vivaismo orticolo, dove raggiunge una quota dell’83%. Fonte: Veneto Agricoltura

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LO SGUARDO OLTRE LA SIEPE

I vecchi capannoni dismessi diventano orti e giardini del futuro, ideali per una produzione agricola all’insegna del risparmio energetico e dell’attenzione all’ambiente

poniche in spazi dismessi tra ENEA, Coldiretti Padova, Parco Scientifico e Tecnologico Galileo, Idromeccanica Lucchini, Gentilinidue e Advance Srl (gruppo di spin-off dell’Università di Padova). Il protocollo d’intesa è stato sottoscritto a dicembre alla Camera di Commercio di Padova. L’iniziativa è nata da alcune considerazioni di ordine generale. La produzione di cibo rappresenta una delle maggiori sfide del prossimo futuro a causa dell’incremento della popolazione mondiale, della limitata disponibilità di terreno coltivabile e dei crescenti cambiamenti climatici. A questo proposito è necessario ridurre l’impatto ambientale delle produzioni agricole, massimizzando l’efficienza nell’uso delle risorse idriche e nutrizionali e minimizzando l’impiego di prodotti

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Il “Progetto Ri-Genera” nasce per la realizzazione e lo sviluppo di produzioni idroponiche in spazi dismessi tra ENEA, Coldiretti Padova, Parco Scientifico e Tecnologico Galileo, Idromeccanica Lucchini, Gentilinidue e Advance Srl di sintesi per offrire al consumatore finale un prodotto sostenibile e sicuro. “L’obiettivo - spiegano i promotori - è accelerare l’industrializzazione dei processi di vertical farming in Italia, favorire il recupero e la riqualificazione di spazi dismessi e promuovere lo sviluppo di attività produttive sostenibili, di qualità e ad alto valore nutraceutico. La presenza di un polo universitario di eccellenza nella ricerca agronomica e ingegneristica, di una consolidata tradizione agricola e industriale e di un sistema imprenditoriale dinamico e aperto all’innovazione rende il territorio della regione Veneto particolarmente adatto per l’avvio di attività sperimentali propedeutiche alla realizzazione del progetto, che potrà essere eventualmente replicato, in caso di esito positivo, a livello nazionale e internazionale”. Le applicazioni pratiche e gli esempi già ci sono ed è ora necessario, grazie alle conoscenze e competenze dei partner, agire per avere una diffusione su vasta scala.


messaggio pubbliredazionale

Speciale San Valentino

SERATA AL LUME DI CANDELA E MENÙ ALLA CARTA Una serata particolare dedicata ai sentimenti con atmosfera giocata sulla luce e sui sapori tra le dolci colline degli Euganei. Non si tratta solo di cibo o di vini, il menù accompagna verso una vera esperienza dei sensi e conduce al valore salutistico che materie prime ben selezionate sprigionano insieme al gusto. Perché mangiare bene significa cibarsi di prodotti sani ma anche preparati bene, ossia cotti con le giuste temperature per preservarne le caratteristiche nutrizionali e i valori identitari in quanto questa terra, c’è poco da fare, ha il suo inconfondibile sapore. Non mancano le etichette del buon bere internazionale, per suggelare brindisi e promesse, il resto lo farà la creatività di chi ai fornelli ci sa fare interpretando in chiave “gourmet” anche una vesta selezione di piatti gluten-free, vegetariani e vegan. Un’attenzione unica tra i ristoranti degli Euganei.

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INGIROPIEDANDO di Emanuele Cenghiaro

SAN VALENTINO A MONSELICE, CHIAVI, AMORE E FOLKLORE In occasione del 14 febbraio la cittadina euganea viene inondata di presenze, ma non si tratta solo degli innamorati perché l’antico e misterioso san Valentino non è solo il protettore delle coppie, ma è anche noto come guaritore del “mal caduco o di san Valentino”

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l 14 febbraio di ogni anno migliaia di persone affollano la via che dal centro di Monselice sale al santuario delle Sette chiese giubilari e a villa Duodo. La meta non è né l’uno né l’altro: è invece la meno celebre chiesetta che sorge accanto alla villa, santuario anch’essa ma a sé stante, dedicata a San Giorgio e alla Madonna di Loreto. Eppure, è la festa di San Valentino… “La devozione risale al Seicento - rivela mons. Sandro Panizzolo, parroco di Monselice - quando grazie ai Duodo furono traslati in questa chiesetta 25 corpi provenienti dalle catacombe romane. Tra questi, uno era di un Valentino. A quel tempo non c’erano molte informazioni, quindi la devozione popolare lo ha subiPietro Duodo, ambasciatore veneziano presso la Santa Sede, in un periodo di alto contrasto tra il papato e la Serenissima si garantì il favore del pontefice, ottenendo nel 1605 da papa Paolo V un privilegio unico, ossia che “a tutti i fedeli d’ambo i sessi veramente pentiti, confessati e comunicati”, che visitano le cappelline erette a Monselice ottengano le stesse indulgenze profferte dalla visita alle Sette Chiese dentro e fuori delle mura di Roma

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Il culto di san Valentino è molto antico, probabilmente la festa è stata istituita nel 496 da papa Gelasio I in antitesi ai Lupercalia romani to identificato con il San Valentino vescovo di Terni, il cui culto era molto antico. Oggi in Italia vi sono molti luoghi che conservano le spoglie di santi chiamati Valentino”. Il culto di san Valentino è in realtà molto antico: pare che la festa in suo onore sia stata istituita addirittura nel 496 da papa Gelasio I in antitesi ai Lupercalia, sfrenata festa pagana della fertilità che si celebrava appunto a metà febbraio, in qualche modo precursore del moderno Carnevale. Ad accorrere a Monselice il 14 febbraio non sono solo gli innamorati: l’antico e misterioso san Valentino non è infatti solo il protettore delle coppie colpite dalla freccia di Cupido, ma è anche noto come guaritore del “mal caduco o di san Valentino”, ovvero l’epilessia. Si tratta in realtà di santi diversi confusi dalla devozione popolare: due San Valentino vissuti tra Roma e Terni alcuni studiosi ritengono però che si tratti della stessa persona - sono legati al tema amoroso, uno avrebbe speso l’esistenza a favore delle coppie di sposi e l’altro sarebbe stato ucciso per aver celebrato un matrimo-


INGIROPIEDANDO nio tra una cristiana e un pagano; il secondo (o terzo) santo fu vescovo a Passau (Passavia), in Germania, è ricordato il 7 gennaio ed è raffigurato in atto di guarire un epilettico. Lo stesso nome Valentino, derivando dal verbo latino “valere”, stare bene, avrebbe un legame con la dote del santo taumaturgo. Gli epilettici erano visti anche come degli indemoniati, vittime di possessione diabolica: da qui l’usanza di proteggerli mettendo loro al collo delle chiavette benedette. Perché le reliquie di San Valentino si trovano a Monselice? La storia è lunga ma si può sintetizzare dicendo che Pietro Duodo, ambasciatore veneziano presso la Santa Sede in un periodo di alto contrasto tra il papato e la Serenissima, contribuì a dirimere le questioni che dividevano le due potenze e si garantì il favore del pontefice. Il Duodo chiese e ottenne nel 1605 da papa Paolo V un privilegio unico, sancito dalla bolla che riconosce “a tutti i fedeli d’ambo i sessi veramente pentiti, confessati e comunicati”, che visitano le cappelline erette a Monselice e che ricordano le Sette Chiese Giubilari (le cappelline sono però sei perché l’ultima riunisce i titoli delle basiliche di San Pietro e di San Paolo), “le stesse indulgenze, remissione dei peccati e grazie spirituali, le quali sogliono e possono conseguire tutti coloro che visitano le Sette Chiese dentro e fuori delle mura di Roma”. Per quale motivo i Duodo abbiano voluto erigere, a proprie spese, tale santuario non è dato sapere, ma è certo che non esiste al mondo un altro luogo di culto che goda dei medesimi privilegi giubilari delle Sette chiese. E questa concessione straordinaria è valida an-

Nel XVII secolo i Duodo fecero traslare nella chiesetta dedicata a San Giorgio 25 corpi provenienti dalle catacombe romane. Tra questi, uno era di un Valentino. La devozione popolare, poi, ha identificato il corpo con il San Valentino vescovo di Terni il cui culto era molto antico

cora oggi. Ma arriviamo ora a san Valentino: il percorso del pellegrino si conclude idealmente in un ulteriore santuario, l’oratorio appunto di San Giorgio, dove sono raccolte le citate reliquie dei martiri cristiani dei primi secoli della Chiesa, tra i quali quelle di un san Valentino: ulteriori “doni” romani fatti giungere da Alvise Duodo nel 1651, cui si aggiunsero altri corpi di santi martiri concessi da papa Clemente XI a Niccolò Duodo nel 1720. Il 14 febbraio di ogni anno, per tutto il pomeriggio, dalle 14 circa al tramonto, i fedeli creano una lunga fila e vengono fatti entrare a gruppi nella zona sacra dove sono custodite le reliquie dei martiri. Qui si turnano dei sacerdoti che accolgono i fedeli, recitano una preghiera per i bambini e una per i fidanzati, e impartiscono

Il santuario delle Sette chiese giubilari di Monselice

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INGIROPIEDANDO a tutti una benedizione. “Vengono bambini accompagnati dai genitori, dai nonni, e coppie di fidanzati - continua mons. Panizzolo - sono sempre almeno diecimila persone, quando il tempo è bello anche il doppio; un anno in cui la festa era caduta di domenica, si è parlato anche di trentamila, venute a prendere le chiavette di San Valentino”. La tradizione popolare prevede, oltre alla preghiera, che si venga qui a prendere un ricordo devozionale: si tratta di una chiavetta d’oro benedetta - a forma di chiave sanpietrina - con la scritta San Valentino. All’esterno della chiesetta, alcuni banchetti organizzati da volontari distribuiscono gli oggettini, già benedetti. “La chiavetta . spiega don Panizzolo - è un augurio perché apra al fedele, con una vita di fede, la porta del paradiso. Ma ricorda anche le chiavette benedette che venivano appese al collo a protezione dei malati di mal caduco, mentre per i fidanzati rappresentano le chiavi del cuore. Simboli antichi, forse precristiani, che sono oggi elementi di una festa che unisce il profano al religioso, alla pietà popolare. Una tradizione che mantiene vivo il senso del sacro, ma anche una festa gioiosa: i bambini spesso vengono in maschera, vestiti da carnevale. Una festa della vita”. Chi visita la chiesetta di San Giorgio può dare un’occhiata anche alle sue bellezze artistiche: va citato almeno il paliotto dell’altare, realizzato dai Corberelli, con intarsi di marmi policromi, madreperla e pietre dure. Alle spalle dell’altare, un’apposita saletta conser-

La chiavetta è un augurio perché apra al fedele la porta del paradiso, ma ricorda anche le chiavette benedette che venivano appese al collo a protezione dei malati di mal caduco, mentre per i fidanzati rappresentano le chiavi del cuore

va in teche lignee le spoglie dei santi martiri. Tra Sei e Settecento furono invece realizzati i dipinti su tela inseriti nei vari cavedi dell’oratorio, come pennacchi e lunette. Sopra la porta d’ingresso, una lunetta ritrae la Madonna con Bambino e san Felice da Cantalice, nelle altre vi sono il Beato Giordano Forzaté e Pier Damiani. Il soffitto è la sintesi simbolica del santuario e della sua misteriosa origine: presenta Maria Assunta al cielo circondata dai santi titolari delle Sette Chiese e, in figura allegorica, Venezia. Le foto che corredano questo articolo provengono dalla pagina Facebook Turismo Monselice

Chi visita la chiesetta di San Giorgio può dare un’occhiata anche alle sue bellezze artistiche. Il piccolo sacello contiene un paliotto d’altare realizzato dai Corberelli e sopra la porta d’ingresso si trova un dipinto che ritrae la Madonna con Bambino e san Felice da Cantalice

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San Valentino a Monselice

14, 15 e 16 febbraio tre giorni di fede, cultura e spettacoli Ogni anno da quasi un secolo nella cittadina euganea la Festa degli innamorati è soprattutto una tradizione di pellegrinaggio all’Oratorio di San Giorgio per ricevere la “chiavetta d’oro”, ma non mancano gli appuntamenti in piazza e le proposte del commercio locale

VENERDÌ 14 FEBBRAIO ▶ O re 14.00 Presso l’Oratorio San Giorgio, tradizionale rito di benedizione dei presenti e consegna delle “Chiavette” benedette di San Valentino ▶O re 15.00 via Santuario, Scalinata San Paolo: Trio musicale con Jasmine Ashley Terrel - “Dal Gospel al Rhytm and blues” ▶O re 22.00 Piazza Ossicella: Concerto anni ‘90 Tutti i giorni il centro cittadino sarà animato da “La piazza del cuore”, mercatino di golosità e artigianato creativo, tanti giochi gonfiabili per bambini e un’esposizione di auto Lexus

SABATO 15 FEBBRAIO ▶ Ore 10.30 Biblioteca San Biagio, “Lettura animata di fiabe giapponesi” ▶ Ore 9.00 Villa Pisani Ambarabà a Monselice “Kamishibai, racconti in valigia” ▶ Ore 10.30-17.15 Villa Pisani Trattamenti Shiatsu ▶ Ore 17.15 Villa Pisani Shiatsu per bambini e genitori MOSTRA D’ILLUSTRAZIONE TEATRO - LABORATORI CREATIVI LETTURE ANIMATE - CINEMA

IN PIAZZA MAZZINI ALLE 15.30

Flash mob “Gruppo del Cuore”

ARTE, STORIA E CULTURA

Visite guidate al Castello e al Museo di San Paolo in diverse fasce orarie

DOMENICA 16 FEBBRAIO ▶ Ore 15.00 via Santuario, Scalinata San Paolo: Trio musicale con Jasmine Ashley Terrel - “Dal Gospel al Rhytm and blues” ▶ Ore 16.00 Museo San Paolo: Ambarabà a Monselice “Tokyo Godfathers” ▶ O re 16.30 Villa Pisani: Amabarabà a Monselice, “La cerimonia del tè” ▶ Ore 17.30 Piazza Mazzini, Concerto Cristiano Malgioglio

Ambarabà è un festival culturale che ha l’obiettivo di invadere la città di Monselice con illustrazioni, laboratori per bambini e adulti, spettacoli di teatro, letture animate, degustazioni e proiezioni. Il tema di questa prima edizione è il Giappone e il nucleo principale della manifestazione è la mostra d’illustrazione Mukashi Mukashi e Storie dall’arcipelago sottosopra, un progetto realizzato con la Fondazione Štěpán Zavřel e il Comune di Sàrmede, in esposizione a Villa Pisani dal 1 febbraio al 1 marzo 2020

Convocazione degli studenti delle scuole medie e superiori per una foto di gruppo a forma di cuore gigante in diretta Facebook

PER INFORMAZIONI: Ufficio Turistico IAT - Palazzo della Logetta Via del Santuario, 6 - Tel. 0429 783026 Info Point di Piazza Mazzini con gazebo dal 14 al 16 febbraio MèT2


Un percorso

ITINERARI DEL GUSTO

di Giulia Schiavon e Maurizio Drago APICOLTURA TERRA DEI LIVII

AZIENDA AGRICOLA LA CASA SULLA COLLINA PASTICCERIA BACELLE

PER SCOPRIRE LA COLAZIONE EUGANEA SOCIETÀ AGRICOLA VALDOLMO

AZIENDA AGRICOLA LA PIGNARA

VINAR CAFFÈ

Un sano regime alimentare prevede una ricca colazione al mattino e, per riprendere questa sana abitudine, abbiamo intrapreso un piccolo percorso tra le pendici dei colli Euganei e la pianura sottostante

“L

a colazione è il pasto più importante della giornata” è un detto comune e verissimo, ma purtroppo ormai poco realistico dato i tempi sempre più frenetici della vita quotidiana di oggi. Certo è che la “colazione” ha origini antichissime, prodotti poveri ma sostanziosi erano i più utilizzati dai contadini delle campagne venete affinchè avessero l’enegia necessaria per affrontare il duro lavoro nei campi. Latte, polenta abbrustolita del giorno prima e qualche volta pane erano sicuramente i più utilzzati,

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ma anche i più recenti cornetto, caffè e cappuccino hanno origini venete. Infatti pochi lo sanno, ma gli ingredienti preferiti e più consumati dagli italiani oggi per la prima colazione, nascono nella zona pedemontana veneta. Nel 1645 a Venezia apre la prima bottega del caffè d’Europa. Nel 1683 il frate Marco d’Aviano “macchia” il caffè con il latte per addolcirlo, da qui il nome “cappuccino”, nome coniato dal gestore del locale che aveva servito la bevanda, che notò che questa aveva lo stesso colore del saio dei frati. Anche il “cornetto”, nato in-


ITINERARI DEL GUSTO vece a Vienna durante l’assedio turco, trovò spazio di crescita e sviluppo nel trevigiano per diffondersi poi in tutto il Paese. Tornando ai giorni nostri, un sano regime alimentare prevede una ricca colazione al mattino e, per riprendere questa sana abitudine, abbiamo intrapreso un piccolo percorso tra le pendici dei colli Euganei e la pianura sottostante per mettere insieme tutti quei prodotti che potrebbero costituire una vera e propria “colazione euganea”. Un primo pasto della giornata, ricco, composto da ingredienti genuini, figli delle mani di un artigianato rimasto convintamente nostrano, capace di interpretare quei valori nutrizionali che stanno alla base della dieta mediterranea. Protagonista sicuramente il latte e i suoi derivati come yogourt e formaggi freschi, che la signora Franca Giora, del Caseificio Valdolmo di Pernumia, affabile ed entusiasta del suo lavoro, produce con passione e successo in modo naturale e genuino senza additivi e conservanti, dato che segue tutto il processo di produzione a partire anche dall’allevamento dei bovini. Franca utilizza e trasforma, dando sfogo alla sua creatività esclusivamente il latte di alta qualità munto in giornata per dar vita a dei prodotti d’eccellenza a km 0. SOCIETÀ AGRICOLA VALDOLMO SRL via Valdolmo, 15 Pernumia (PD) cell. 340 9192761 FB: Azienda Agricola Valdolmo www.societa-agricola-valdolmo-srl.business.site

Dott. Fausto Ardina con la sua piccola torrefazione Vinar Caffè a Monselice. La sua attività l’ha ereditata dal padre Vincenzo, che fu il primo a mettere la propria pubblicità sulle bustine di zucchero; si ha la possibilità di degustare il suo buon caffè in diversi bar del territorio che mostrano la sua insegna. Non allontanandosi dalla città di Monselice, un prodotto assolutamente da assaggiare e che fin dal primo morso fa fare un viaggio nel passato e nella tradizione è la “Ciopa Biscotà” dell’agricultore Sandro Zancanella, cotta in forno a legna e fatta con antiche varietà di cereali, integrali e macinati a pietra. Questa visita vi appaggherà anche l’occhio: infatti l’Azienda Agricola “la Pignara” della Famiglia Zancanella è un bellissimo esempio architettonico di organizzazione aziendale medievale, oltre ad essere una fattoria didattica ed l’unico frantoio integro e funzionante del territorio euganeo. La visita è quindi doverosa!

AZ. AGRICOLA LA PIGNARA Via Pignara, 44 - Monselice tel. 0429 72448 - cell. 368 291094 FB: La Pignara - www. lapignara.it

E siccome dopo il latte non può che esserci il caffè, siamo andati a conoscere il VINAR CAFFÈ via Costa Calcinara, 1 Monselice tel. 0429 72805

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ITINERARI DEL GUSTO Per proseguire nel nostro itinerario del gusto e dei sapori euganei dobbiamo spostarci a Galzignano Terme e fare visita alla pasticceria Bacelle, dove Lino, il titolare, ci farà assaggiare dei biscottini artigianali magari tipici del territorio, come i zaetti, delle brioches squisite e fragranti, ideali da abbinare al nostro latte, caffè o cappucino e, per i più golosi perchè no, dato il periodo, delle frittelle alla crema al pistacchio o con le uvette. PASTICCERIA BACELLE LINO via Roma, 62 Galzignano Terme tel. 049 9130343 pasticcerialino@libero.it FB: pasticceriabacellelino

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Rimanendo in zona per i “tradizionalisti” della colazione, ma anche per i palati più sfiziosi vi consigliamo di andare a trovare Veronica Finesso e la sua famiglia alla Casa Sulla Collina di Galzignano Terme dove, oltre al panorama mozzafiato e all’immersione nella natura, si possono AZ. AGRICOLA comprare delle buoLA CASA SULLA COLLINA nissime confetture via Cengolina, 130 Galzignano Terme e composte fuori dal cell. 329 3303558 comune, in grado di info@lacasasullacollina.com rappresentare il terwww.lacasasullacollina.com FB: La casa sulla collina ritorio e le sue infinite ricchezze, sposando perfettamente tradizione e innovazione. Quando si hanno davanti le bellissime confezioni, che sembrano quasi dei cosmetici, data la grande cura del dettaglio, si ha l’imbarazzo della scelta, tutti i prodotti sono realizzati con una lavora-


ITINERARI DEL GUSTO zione completamente manuale e come ingredienti vengono utilizzati esclusivamente frutta, verdura, zucchero e succo di limone, senza l’utilizzo di conservanti, addensanti e coloranti. Sono prodotti interamente naturali perchè l’obiettivo dell’azienda è quello di realizzare prodotti autentici, originali e non standardizzati. Ultimo fiore all’occhiello del nostro percorso goloso e alimento immancabile per una bella colazione, è il miele, da spalmare sul pane o da utilizzare per addolcire il latte, ingrediente nutriente e ricco di proprietà benefiche, prodotto naturale per eccellenza. Speciale è quello dell’apicultura Terra dei Livii, a Luvigliano di Torreglia, realtà familiare che conta però 20 anni di esperienza e passione nel mondo dell’apicultura. Ciascuno dei mieli è frutto di un attento lavoro dalla conduzione dell'alveare alla successiva lavorazione, nel rispetto della natura, ne APICULTURA nasce un prodotto quindi natuTERRA DEI LIVII via Della Busa,8 rale e profondamente legato al Luvigliano, Torreglia territorio euganeo. Oltre ai clascell. 328 2219640 sici mieli di acacia, castagno e info@terradeilivii.it tiglio, troviamo anche la melata www.terradeilivii.it FB: Terra dei Livii di bosco e ciliegio selvatico.

Dopo questa panoramica “passeggiata” alla scoperta del bellissimo territorio che ci circonda e all’insegna dei sapori autentici della buona tavola non potremo che tornare a casa con la pancia piena, soddisfatti di aver conosciuto tante persone entusiaste e dedite al proprio lavoro che con i loro racconti ci avranno fatto appasionare alla nostra storia e ai prodotti della nostra tradizione.

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ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE a cura del Prof. Adriano Mollica

nutraceutico UN ALIMENTO

È stato dimostrato che un moderato consumo di birra ha ricadute positive sui livelli di colesterolo, riduce il rischio di infarto, abbassando la pressione sanguigna, e mantiene sani i vasi sanguigni

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l consumo di birra è in continuo aumento, infatti è la bevanda alcolica più consumata al mondo, e la terza se consideriamo tutte le altre bevande. Nei tempi antichi, la birra era largamente usata per la nutrizione, nelle pratiche religiose e anche per trattare alcune malattie. Al giorno d’oggi ci sono molti tipi di birra, che dipendono dal processo di birrificazione e dagli ingredienti usati.

IL PROCESSO DI BIRRIFICAZIONE L’alcool contenuto nella birra è prodotto dalla fermentazione degli zuccheri. La birra necessita di cereali maltati e/o il grano, orzo, frumento come materia prima e meno comunemente sono presenti basse quantità di altri vegetali amidacei, poi l’acqua, i luppoli, e il lievito. La maltatura è il primo step del processo di birrificazione, e consiste nella germinazione control-

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ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE lata a bassa temperatura dell' orzo. La germinazione permette di attivare alcuni enzimi che degradano gli zuccheri rendendoli fermentabili da parte dei lieviti. L’orzo fermentato è accuratamente seccato e arrostito così da far cessare la germinazione ma anche per mantenere gli enzimi attivi. Il prodotto risultante è il malto d' orzo. Viene tritato e aggiunto in un bollitore con acqua bollente e tenuto a temperatura di circa 62°C per iniziare il processo di “mashing”. I grani tritati di malto si rigonfiano di acqua e inizia il lavoro deLa germinazione enzimi alfa e beta del malto permette gli amilasi, che convertodi attivare no l'amido in zuccheri alcuni enzimi semplici. La temperache degradano tura viene poi innalzata per consentire altri gli zuccheri processi enzimatici, rendendoli ad esempio l'amidasi fermentabili da e la peptidasi che serparte dei lieviti ve all'idrolisi delle proteine, e la fitasi che abbassa il pH. In questo processo chiamato di “mashing”, si produce un liquido zuccherino, chiamato mosto. Il mosto viene portato a bollore e a questo punto vengono aggiunti i luppoli e altri aromi. I luppoli sono i fiori della pianta del luppolo (humulus lupulus) che conferiscono alla birra particolari sapori e aromi. Durante il riscaldamento e la bollitura una serie di proteine si denaturano formando un deposito o una schiuma, inoltre il liquido estrae le sostanze amaricanti dal luppolo. A questo step segue una filtrazione, dei grani, delle proteine e altri precipitati. Poi il mosto è raffreddato velocemente e ossigenato. Il mosto a questo punto viene inoculato con il lievito, e si inizia il processo di fermentazione, che converte gli zuccheri in alcool e anidride carbonica. La fase finale della birrificazione è la maturazione, durante la quale la birra è stoccata a

bassa temperatura, a seconda della tipologia di birra può durare anche molto tempo. Nelle grandi aziende, la birra è anche filtrata e pastorizzata, per rimuovere i lieviti, e stabilizzare il prodotto prima dell' imbottigliamento, invece nei birrifici artigianali e nel caso della birra bianca, non si effettua il processo di filtrazione. Le grandi aziende utilizzano spesso farine, avena orzo non maltato, e altri cereali per modificare alcune caratteristiche della birra, come la schiumosità, il grado alcolico, o anche solo per abbassare i costi di produzione. GLI ESTERI VOLATILI RESPONSABILI DELL’AROMA E DEL SAPORE DELLA BIRRA Le bevande fermentate, principalmente birra e vino, contengono solo tracce di esteri volatili, ma questi hanno una notevole importanza sull'aroma e il sapore di queste bevande. Gli esteri più noti nella birra sono l'etilacetato (aroma di solvente dolciastro), etil-caproato, etil-caprilato (sapore simile alla mela verde), acetato di isoamile (aroma fruttato e di banana), isobutil acetato, fenil-etilacetato, e atil-ottanoato (aroma di miele, frutti, rose, fiori). La maggior parte di queste sostanze rimangono nelle cellule del lievito soprattutto in quello usato per produrre le birre “Lager”, mentre nelle specie usate nelle birre “Ale” vengono rilasciati nel liquido in maggiore quantità, questo spiega in parte la maggiore complessità di sapori della birra “Ale”. Inoltre la presenza di altri esteri anche in quantità molto piccole possono influenzare il sapore e l’aroma, agendo anche sinergisticamente. Molti parametri usati nella produzione del malto possono influire sul sapore finale e aroma della birra, specialmente i malti scuri, che sono usati per preparare alcuni tipi di birra. Questi profili sensoriali sono il risultato dei prodotti della reazione di Maillard, che si formano ad alta temperatura, a cui vengono sottoposti i malti per essere arrostiti.

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ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZ TRADIZIONE

L’AMARO DELLA BIRRA DIPENDE DAI COMPOSTI FENOLICI I composti fenolici influenzano direttamente le caratteristiche sensoriali della birra, conferendo un sapore astringente e amaro. La concentrazione e il tipo dei composti fenolici presenti nella birra dipendono dalla tipologia di birra e sono correlati alle materie prime usate per la birrificazione. Generalmente i composti fenolici sono quindi quelli presenti originariamente nei grani, nel luppolo ed eventualmente negli altri prodotti usati. In generale le birre artigianali, usano materiali grezzi di qualità, e questo può influire sulla presenza di maggiori quantità di fenoli. I fenoli e i polifenoli sono prodotti del metabolismo secondario delle piante e possono contriI composti fenolici buire al colore e contenuti nella birra all' aroma. Questi giocano un ruolo composti mostracruciale per i loro no una spiccata attività antiossieffetti benefici sulle dante, che può malattie vascolari influire sulla stabilità della birra, e possono influire sul sapore, anche se il sapore amaro è principalmente dovuto al luppolo. Gli antiossidanti in generale possono mostrare effetti biologici benefici sulla salute umana, per esempio riducono il rischio di malattie cardiovascolari e prevengono alcuni tipi di tumore. È certamente difficile isolare e caratterizzare ogni sostanza presente nella birra e valutarne il potere antiossidante, poiché la composizione è molto complessa. Composti come la catechina mostrano generalmente un altro potere antiossidante, più alto dell'acido caffeico e dell'acido clorogenico. Alcuni studi hanno attribuito proprietà antiossidanti, antiinfiammatorie e antiproliferative alla quercetina, oltre che un possibile contributo alla mitigazione dei processi anterosclerotici.

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CONSUMO DI BIRRA ED EFFETTI SULLA SALUTE UMANA Gli effetti di molti dei composti contenuti nella birra sui sistemi biologici hanno ricevuto speciali attenzioni da parte degli scienziati. Gli effetti associati al consumo di alcool sono ben noti, ma gli effetti di dosi moderate sono molto più controversi. Il problema maggiore è che le bevande alcoliche possono avere diversi effetti in relazione alla loro specifica composizione, che di solito è molto eterogenea. È stato dimostrato che i composti bioattivi presenti nella birra, come i flavonoidi, e altri composti fenolici, diminuiscono drasticamente il rischio di malattie cardiovascolari, cancro, e hanno effetti antiossidanti. Di particolare interesse sono gli effetti sulle malattie cardiovascolari. I composti fenolici contenuti nella birra potrebbero infatti giocare un ruolo cruciale per i loro effetti benefici sulle malattie vascolari. Alcuni studi dimostrano inoltre che il consumo di moderate quantità di alcol possono già avere degli effetti protettivi sugli eventi cardiovascolari, e quindi l'alcool contenente i composti bioattivi potrebbe avere degli effetti sinergici. In particolare è stato dimostrato un effetto benefico sui livelli di colesterolo, con abbassamento delle LDL e innalzamento delle HDL. Altri studi hanno anche dimostrato che un moderato consumo di birra abbassa il rischio di infarto, abbassa la pressione sanguigna e mantiene sani i vasi sanguigni. Ciò nonostante, il consumo di birra in alte dosi è sconsigliato, soprattutto alle donne incinte, ragazzi, e soggetti cardiopatici, depressi, o con problemi al fegato e al pancreas.


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IL FOOD TRUCK AMERICANO DAL CUORE 100% ITALIANO Vito’s Goodies rappresenta un ponte diretto tra la tradizionale cucina di strada italiana e il glorioso street food americano

La novità dello Street Food, ma con alle spalle la grande storia e la qualità della premiata “Macelleria di famiglia Gran Carni Astolfi”. Dietro alle piastre del furgone dei Vigili del Fuoco americani degli anni 70, c’è una storia altrettanto decennale condotta nella selezione e nella lavorazione di carni 100% italiane per fornire garanzie di qualità e di tracciabilità certa. Tutti i prodotti sono realizzati artigianalmente: dal pane, secondo una precisa ricetta studiata per Vito’s Goodies, alle carni con cui vengono realizzati gli hamburger, il Pulled Pork , la porchetta e le polpette diventate il simbolo del truck color rosso fuoco che viaggia per le strade e le piazze di Veneto ed Emilia.

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PORCHETTINO Ciabatta artigianale croccante servita con porchetta di nostra produzione, salsa Vito’s al Gorgonzola, noci, cime di rapa saltate con aglio e peperoncino

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MEATBALL GRINDER Pane artigianale con polpette di carni selezionate con pomodoro, prezzemolo tritato e Grana grattugiato

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STORIA E DINTORNI di Enzo Gambin

Storia del profumo

DA RITO PER AVVICINARE DIO A STRUMENTO DI SEDUZIONE

Nato come elemento dei riti propiziatori rivolti alle divinità è diventato sempre più un accessorio dell’uomo, necessario per nascondere i cattivi odori ma anche per accrescere il proprio status symbol

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profumi hanno spesso la capacità di riportarci con la memoria a momenti passati, a rivivere le stesse emozioni di quando quel determinato profumo lo abbiamo sentito per la prima volta. Dunque, parlando di memoria, ci pare opportuno recuperare l’intera storia dei profumi, e in generale della cosmesi, a cominciare dal nome stesso “pro-fumo”, perché non è chiaro il rapporto tra le sensazioni olfattive e il “fumo”. Eppure vi è un legame, che va ricercato quando, qualche migliaio di anni fa, l’uomo pensò di avvicinare la sue preghiere alle divinità dimoranti nei cieli e lo fece elevando loro fumi odorosi. Da questo fatto sacrale si formò l’affermazione “pro fumo tribuere”, ossia, attribuire attraverso il fumo un onore agli dei, così si coniò il termine “profumo”. Questo aspetto di devozione è ben rappresentato dalla dea Pietas, primitiva divinità italica, figurata nell’atto di bruciare sostanze odorose su

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un altare. Nella Bibbia e nel Nuovo Testamento i riferimenti al “pro fumo tribuere” sono numerosi, troviamo così nell’Esodo “Offrirai il secondo agnello al tramonto con un’oblazione e una libazione come quelle del mattino: profumo soave, offerta consumata dal fuoco in onore del Signore.”, nella Lettera ai Filippesi di San Paolo “Adesso ho il necessario e anche il superfluo; sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da Epafrodìto, che sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio.” Sumeri, Babilonesi, Ben presto l’utilizzo Accadi, Caldei delle sostanze odomigliorano i processi rose s’introdusse e s’impiegò anche produttivi dei profumi nella vita privata, e introdussero l’uso sviluppando pure dell’olio d’oliva dei sistemi per estrarre le fragranze dalle piante. Gli Assiri, forse per primi, adagiavano petali profumati su ripiani coperti di grasso, di cavallo o di bovino, sino a che la materia adiposa non rimanesse completamente impregnata. Altre civiltà, Sumeri, Babilonesi, Accadi, Caldei migliorano questi processi produttivi e introdussero l’uso dell’olio d’oliva. I profumi si ottenevano da fiori, frutti, foglie


STORIA E DINTORNI Durante il regno di Hatshepsuth sorse in Egitto una vera e propria industria di profumi e di vasetti in alabastro e resine, a questo scopo si coltivavano appropriate piante, oppure s’importavano dall’Africa Sub Sahariana, dall’India e dall’Arabia meridionale, creando vere e proprie reti commerciali. La produzione delle sostanze profumate dipendeva in gran parte dal loro contenuto di grassi animali, o vegetali, che assorbivano e trattenevano odori e fragranze. Il più delle volte le tecniche di produzione di questi unguenti, dal latino unguĕre “ungere”, erano tenute segrete, tanto da far scrivere a Zosimo da Panopolis, alchimista della fine del III secolo, che i sacerdoti egizi erano talmente gelosi delle loro conoscenze sui profumi e sugli unguenti che non trascrissero nulla, se non generiche informazioni. Durante il regno della sovrana Hatshepsuth, 1507 - 1458 a.C., sorse in Egitto una vera industria dei profumi e, collegata, vi era pure la produzione di vasetti porta profumi in alabastro, con imboccatura larga e collo svasato, di varie dimensioni e forme, a sfera, a testa di donna, a forma di colombina in vetro soffiato. La regina Nefertiti, 1360 a.C., sposa del faraone Akhenaton usava mantenersi splendente il viso con un unguento a base di uovo di struzzo sbattuto con latte, argilla, olio e farina; le sue unghie erano colorate con l’henné, una polvere rossa chiara estratta da un arbusto spinoso. Le donne egizie, che erano considerate affascinanti solo se avevano la pelle chiara, usavano il talak, un composto di farina di biacca, fave e gesso polverizzati da applicare con un pennello sul viso. La leggendaria regina di Saba, forse del 1.000 a.C., dall’eccezionale bellezza, in occasione della sua visita al re Salomone, gli fece come dono l’olio di crambe abissinica, pianta delle zone desertiche dell’Africa Orientale, impreziosito dai profumi di cedro, incenso, mirra, sandalo. Profumi e oli aromatici erano beni pregiati quanto l’oro e l’argento e questo valore non sfuggì alle attenzioni dei Fenici, un popolo di commercianti, che li negoziarono tra gli abitanti delle isole del mare Egeo e in Grecia. Questi prodotti di bellezza portarono, soprattutto in Grecia, la moda di truccarsi il viso con un Nel 1910 Roger e Gallet pro- composto di polveri fordussero il primo rossetto da mate da calce, gesso, labbra

La leggendaria regina di Saba in occasione della sua visita al re Salomone portò in dono un olio di crambe abissinica, pianta delle zone desertiche dell’Africa Orientale, impreziosito dai profumi di cedro, incenso, mirra, sandalo

argilla bianca, biacca, carbonato di piombo chiamato psymuthion. Dal V secolo avanti Cristo, sempre in Grecia e oramai in epoca classica, nacque la kósmesis, la cosmesi, ossia l’arte d’abbellire il viso e il corpo. Nella raffinata ed elegante Atene di Pericle si faceva un grande uso dei profumi e Teofrasto da Ereso, 372 - 287 a.C., scrisse un “Trattato degli odori” e ne descrisse le tecniche di produzione: “Dunque alcuni creano profumi e polveri fragranti mescolando sostanze secche a sostanze secche, altri invece o unendo le essenze al vino o combinando ingredienti liquidi con ingredienti liquidi. Il terzo metodo, il più diffuso, è quello seguito dai profumieri e consiste nell’unire componenti secche a sostanze umide. È questo il procedimento di preparazione di tutte le fragranze e di tutti gli oli profumati”. Non di meno furono i romani, nella Naturalis Historia, Plinio il Vecchio, 23 - 79 d.C., racconta dell’abbondanza di oli e profumi nel suo tempo “Fra tutti i paesi, l’Egitto è il più idoneo alla produzione di profumi; segue la Campania per l’abbondanza di rose” XIII, 26. “Fra gli unguenti più diffusi e per questo motivo creduto anche il più antico, c’è quello fatto di olio di mirto, calamo, cipresso, cipero, meliloto, fieno greco, miele, e maggiorana” XIII, 79. Plinio parla anche della diapasmata, ossia dell’uso di cospargersi di polveri di petali di rosa essiccati per

Tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo Giovanni Paolo Feminis ideò la formula dell’Aqua mirabilis, in seguito fu chiamata Acqua di Colonia

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STORIA E DINTORNI controllare la sudorazione. Un profumo, all’epoca molto noto, era il Telino, che prendeva il nome dall’isola di Telo nelle Cicladi, ed era molto usato da Giulio Cesare, come informa lui stesso nel De bello gallico. Oltre a Plinio il vecchio, altri scrittori romani si occuparono di cosmetica, come Giovenale, 50 d.C.; Dioscoride, 60 d.C.; Galeno, 129 d.C.; Celso, 178 d.C.. Caduto l’Impero romano, tra l’Ottavo e il Nono secolo, iniziò la tecnica della distillazione delle piante per ottenere oli essenziali e il medico arabo Avicenna, 980 - 1037, riuscì ad estrarre l’aroma di rosa e produsse l’Acqua di rose.

Le donne egizie venivano considerate affascinanti solo se avevano la pelle chiara, per questo usavano il talak, un composto di farina di biacca, fave e gesso polverizzati da applicare con un pennello sul viso

Nel Tredicesimo secolo s’introdussero in Europa, grazie alle Crociate, i profumi del profondo Oriente e, nello stesso periodo, arrivarono dalla Cina ginger e piante medicinali. In questo mescolanze commerciali Henri de Mondeville, 1260 - 1320, chirurgo francese, distinse per la prima volta i profumi e gli unguenti per i trattamenti medicali da quelli destinati a migliorare la piacevolezza estetica. In epoca rinascimentale delle nacquero vere e proprie manifatture di prodotti odorosi, molti tenevano in tasca, o appesi alla cintura, sacchetti di seta colorata, o di lino, profumati con petali di rosa mescolati al muschio, laudano, benzoino e calamo. Nel Settecento venditori ambulanti rifilavano prodotti profumati vantandone proprietà stravaganti, così si adottò la parola “ciarlatano”, da “ciarlare”, proprio per il gran chiacchierare di questi piazzisti. Questo, però, fu un secolo importante per i profumi, Giovanni Paolo Feminis (ca 1660 - 1736) ideò la formula dell’Aqua mirabilis, in seguito fu chiamata Acqua di Colonia, ancora presente. Circa secolo dopo, nel 1828, furono prodotte le pomate per le labbra e saponi medicati. Nel 1910 Roger e Gallet produssero il primo rossetto da labbra. La vera novità arrivò con gli anni Ottanta, con la nascita

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La regina Nefertiti dei prodotti usava mantenersi abbronzanti splendente il viso e delle procon un unguento tezioni solaa base di uovo di ri. Anche la struzzo sbattuto con latte, argilla, legislazione olio e farina; le sue s’interessò unghie erano coai cosmetilorate con l’henné, ci e diede una polvere rossa delle regole chiara estratta da un arbusto spinoso sui contenuti degli ingredienti, che non dovevano essere pericolosi per la salute, semmai dovevano contribuire a mantenerla e, possibilmente, migliorarla. E arriviamo ai giorni nostri, con creme e unguenti tornati ad essere prodotti con materie prime naturali, come l’olio extravergine di oliva. In effetti, rispetto alle conoscenze di un tempo, dove si preferivano oli sintetici, perché più emulsionabili, ora l’attenzione è rivolta all’olio extra vergine di oliva, perché è ricco di tanti elementi, particolarmente con funzioni antiossidanti, come i polifenoli e la Vitamina E, di cui è ricchissimo. L’olio extra vergine d’oliva si presenta come un ingrediente particolare nella cosmesi, perché può essere un’ottima base, un buon conservante e, allo stesso tempo, un importante apportatore di sostanze benefiche. I cosmetici all’olio extra vergine d’oliva si miscelano ai lipidi della pelle e, uniti alla parte acquosa che si forma con la traspirazione e il sudore, aiutano a mantenere una fine emulsione superficiale, detto film idrolipidico cutaneo, che ha importanti funzioni di protezione da danni chimici, da batteri e da funghi. I cosmetici all’olio extra d’oliva di oggi hanno una compattezza molto cremosa e delicata, sono facili da applicare e, soprattutto, si assorbono con facilità dando alla pelle una piacevole sensazione di morbidezza, non untuosa; ma non solo per la pelle, perché una vasta gamma sono pure dedicati al capello, per detergerlo e nutrirlo.

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LA FORMA DEL LATTE di Michele Grassi

IL CARNEVALE DEI FORMAGGI CHE COLORA L’ITALIA I prodotti caseari, come gli altri prodotti dell’agroalimentare italiano, sono spesso protagonisti delle feste e delle ricorrenze locali, una ricchezza in termini di biodiversità ma anche di cultura

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mmaginiamoci lo Stivale, di notte, sotto un incessante pioggia di coriandoli. Visti dall’alto potrebbero mostrarsi ombreggiati delle luci delle città. Il loro movimento sarebbe fluttuante proprio come se galleggiassero sull’acqua del mare. Poniamo di sostituire i coriandoli con i tanti formaggi italiani, che spettacolo! E ogni formaggio colorerebbe comunque il cielo, ma con un colpo di vento ogni singola forma si sposterebbe nella propria zona di produzione, nel territorio dove è stato scoperto e tutt’ora riprodotto. Una pioggia di forme e di colori, tanti. E sempre un colpo di vento sposterebbe il nome del formaggio, magari raro, in tutto il territorio italiano per far sapere alla gente che esiste, ma per poco che se ne faccia non sarà possibile, per tutti, assaggiarlo. È un po’ il problema di centinaia di formaggi spesso conosciuti per il nome che identi-

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fica il paese, la valle, la montagna presso cui vengono fatti. E proprio nei luoghi di origine sono da sempre presenti manifestazioni religiose che celebrano non solo il santo o la santa, patroni, ma anche il prodotto tradizionale che molto spesso è il formaggio. Oggi 17 gennaio, mentre scrivo, si celebra Sant’Antonio, del porseleto, diciamo in Veneto, uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. Santo patrono degli animali da cortile e in particolare dei maiali in quanto il Pontefice concesse, alla confraternita di religiosi degli Antoniani, di allevare maialini che erano lasciati liberi di muoversi in ogni luogo e, se portavano al collo una campanella, nessuno doveva toccarli. Lo scopo era terapeutico perché il grasso del maiale poteva essere utilizzato per curare l’ergotismo, quello che anche oggi conosciamo come fuoco di Sant’Antonio.


LA FORMA DEL LATTE E guarda caso il Santo del 17 gennaio pone inizio al periodo carnevalesco che tutti noi apprezziamo non solo perché è un momento di divertimento, soprattutto per i bambini, ma anche per le tradizioni gastronomiche che, si dice, possono essere preparate e gustate solo in questo periodo. E, tornando ai coriandoli che cadono dal cielo, o meglio ai formaggi italiani, vediamo di far fare a loro un volo particolare e anche un atterraggio unico nel suo genere. Iniziamo con il dire che in ogni luogo del territorio italiano vi sono feste religiose dove il formaggio diventa un’icona, quasi una atto religioso fortemente legato al Santo che si celebra. A Santa Croce di Il bianco candido Magliano, in prodel formaggio caprino, vincia di Campoil giallo paglierino basso quando riintenso dei formaggi corre la festa della Madonna dell’Incod’alpeggio e le belle ronata viene convenature verdi e blu degli erborinati cessa la benedizione di San Giacomo ai produttori agricoli e ai pastori. In quell’occasione viene indossata una treccia di pasta filata, un formaggio artistico che diventa il simbolo della celebrazione. E proprio nel periodo carnevalesco si svolge un’importante sagra, quella del Maiorchino, a Novara di Sicilia, con il torneo dedicato al pecorino, grosse forme di 9-10 chilogrammi, che vengono fatte ruzzolare lungo le strade del paese in un percorso di oltre 2 chilometri, fino a un traguardo prestabilito. E così il formaggio diventa protagonista delle feste, non manca mai e, sostituendosi ai coriandoli, colora davvero tutto il territorio italiano.

Il 17 gennaio si celebra Sant’Antonio Abate, santo patrono degli animali da cortile e in particolare dei maiali in quanto il Pontefice concesse, alla confraternita di religiosi degli Antoniani, di allevare maialini che erano lasciati liberi di muoversi in ogni luogo e, se portavano al collo una campanella, nessuno doveva toccarli. Lo scopo era terapeutico perché il grasso del maiale poteva essere utilizzato per curare l’ergotismo, quello che anche oggi conosciamo come fuoco di Sant’Antonio.

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LA FORMA DEL LATTE Al Nord il colpo di vento porterà un colore specifico, il giallo. Il giallo delle croste dei formaggi alpini così come la loro pasta e il rosso o l’arancione, tipici dei formaggi a crosta lavata, e spesso il blu degli erborinati. Quasi un’arlecchino completo solo nel bel territorio alpino ma anche in quello di pianura cade un colore importante, l’ocra, che persiste sulla crosta dei grandi formaggi di tipo grana. E poi scendendo all’interno della Penisola, lungo gli Appennini, ma anche nelle Isole maggiori, arriva il colore delle erbe, un verdognolo che contraddistingue in modo velato la pasta dei pecorini stagionati e dei pascoli, naturalmente. Scendendo sempre più in giù ci troveremo nei territori del bianco, dove le paste filate primeggiano, la Puglia, la Campania, il Molise Il giallo paglierino e il formaggio dal codelle paste filate lore immacolato è frestagionate, sco, spesso fatica a i caciocavalli, giungere sulle tavole i provoloni che perché si mangia per strada, ancora tiepido per definizione portano importanza di fattura. Ma il bianco della pasta filata gastronomica fresca può mutare al al grande regno giallo paglierino delle del Sud paste filate stagionate, i caciocavalli, i provoloni che per definizione portano importanza gastronomica al grande regno del Sud. I colori dei formaggi che piovono dal cielo non finiscono, perché per ottenerli possono essere impiegati alcuni coadiuvanti storici derivanti sempre dalla spettacolare agricoltura italiana. Lo zafferano, per esempio, dal bel colore rosso del pistillo al giallo intenso che lascia al suo scioglimento, anche nel latte, per pigmentare quei formaggi che assumeranno freschezza e tanto aroma. E ancora più importante è il colore della pasta che per ogni luogo ci ricorderà l’animale da cui provie-

A Santa Croce di Magliano in occasione della Madonna dell’Incoronata viene indossata una treccia di pasta filata

ne, come il bianco candido del formaggio caprino, il giallo paglierino intenso dei formaggi d’alpeggio e le belle venature verdi e blu degli erborinati sia freschi che stagionati. Un carnevale continuo per tutte le produzioni casearie italiane tra le quali vorrei ricordare lo yogurt. Quanti sono i colori di questo importante e salutare prodotto? Infiniti. E allora, perché non prendere spunto dai colori che scendono dal cielo per celebrare un carnevale fuori dal comune con un bellissimo e buonissimo tagliere colorato di formaggi. Non ha importanza, nel periodo carnevalesco, quali tipologie si sceglieranno per la degustazione, per l’antipasto o per un break, l’importante è che non manchino i colori che rallegreranno la giornata concedendo immenso piacere per la percezione del sapore e dell’aroma tanto diversi per ogni formaggio. E tra i tanti colori, sul tagliere o nel piatto, anche una grattugiata di veri coriandoli e, a sorpresa per gli amici conviviali, un formaggio sconosciuto affinché possa provocare stupore all’insegna del: “a carnevale ogni scherzo vale”.

Durante la sagra del Maiorchino, a Novara di Sicilia, si svolge il torneo dedicato al pecorino con grosse forme di 9-10 chilogrammi fatte ruzzolare lungo le strade del paese

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INGIROPIEDANDO di Giampaolo Venturato

PREMIO “CUCINA IDENTITÀ DEL TERRITORIO” A BOCCADORO E ALL’HOSTARIA ZANAROTTI “L’ALBERELLO” DELLA NOSTRA TESTATA La quarta edizione del premio ideato da Con i piedi per terra per eleggere la cucina che meglio ha interpretato il proprio territorio, è stato assegnato allo storico ristorante della famiglia Piovan e la Gran Menzione invece è stata aggiudicata ad Arturo Zanarotti

C

ucinare è un’arte, l’ospitalità un talento, ma promuovere il territorio attraverso queste due forme della ristorazione è un segno di alta Cultura, perché solo chi opera in questo modo dimostra di conoscere la terra in cui vive e lavora, di conoscerne le eccellenze, la storia, le tradizioni e di attribuire a queste un valore così alto da porle al centro della propria offerta rivolta al cliente. Ecco: chi fa questo si merita il nostro “alberello”, simbolo della testata. Un premio che la nostra redazione ha ideato proprio

per rendere riconoscibili coloro che con il loro lavoro sanno rappresentare il “sapore” di un paesaggio e di più nobilitarne il valore, perché nella ristorazione è racchiuso il principio antico quanto nobile dell’ospitalità, quell’accoglienza che è fondamento della civiltà. E sono proprio questi i valori che abbiamo riconosciuto nell’offerta del Ristorante Boccadoro di Noventa Padovana e nell’Hostaria Zanarotti di Montagnana, attraverso il lavoro di selezione condotto dal giornalista enogastronomo Renato Malaman tra i sei ristoranti visitati

In alto: alcuni dei piatti della cena di gala organizzata dal Ristorante Boccadoro

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INGIROPIEDANDO A portare in alto il punteggio sono stati il convinto impiego in cucina di prodotti tipici e materie prime locali, il rispetto della stagionalità, la rielaborazione della tradizione secondo fantasia e creatività, il livello e la qualità dell’accoglienza, l’abbinamento azzeccato dei vini e, ovviamente, il rapporto qualità prezzo nel corso del 2019, nelle aree della Bassa Padovana, del Basso Veneziano e del Polesine. A portare in alto il punteggio del ristorante Boccadoro, e quindi a garantirgli il primato, sono stati il largo impiego in cucina di materie prime locali, la stretta osservanza della stagionalità, la rielaborazione della tradizione secondo fantasia e creatività, l’accoglienza, l’abbinamento ai vini e - ovviamente - il rapporto qualità-prezzo. Durante la premiazione, che si è svolta lo scorso 28 gennaio, è stato ricordato il largo impegno che Renato Piovan, insieme alla sua famiglia, ha profuso, in 40 anni e passa di attività, nel far conoscere uno dei simboli della cucina padovana, ossia quella gallina che oggi è diventata il simbolo del locale e l’immagine che rende la sua cucina riconoscibile tra i piatti del Buon Ricordo, riuniti dall’omonima Unione Ristoranti tra Italia, Europa e Giappone. Un lavoro a favore dell’identità del territorio riconosciuto, attraverso l’assegnazione della Gran Menzione,

La cerimonia di premiazione, al centro Arturo Zanarotti e Renato Piovan

anche all’opera di Arturo Zanarotti, che a Montagnana conduce con altrettanto profitto. La sua Hosteria, infatti, oltre a presentare il celebre “schissoto” frutto della secolare esperienza nell’arte della panificazione della sua famiglia, è diventata un presidio identitario della città, e dei suoi prodotti, attraverso una cucina moderna e originale, rispolverando tuttavia una forma di ospitalità antica come l’osteria, nella quale non manca l’offerta di una propria linea di vini territoriali e assolutamente naturali. Alla quadriennale rassegna di Con i piedi per terra, dunque, dopo i nomi del ristorante La Torre di Monselice, dell’Hostaria San Benedetto di Montagnana e del Ristorante La Montanella di Arquà Petrarca, vincitori delle scorse edizioni, è stato aggiunto quello di Boccadoro grazie ad un premio che ci auguriamo serva a mettere in luce chi ama la propria terra e attraverso il proprio talento ne diffonde il valore.

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IL PANORAMA GASTRONOMICO di Mario Stramazzo

“PREDICHE CURTE E TAJADELE LONGHE...” Un viaggio tra le ricette del nostro Veneto, alla ricerca di quelle particolarità che ancora distinguono un campanile dall’altro in ragione della geomorfologia e della storia dei luoghi

S

e si digita “piatti tipici regione Veneto” sulla barra di ricerca di Google, il risultato è che in 0,63 secondi si può disporre di 595.000 risposte contro le 636 mila se si cercano quelli della Lombardia, un milione centomila se si digita Emilia Romagna e ben un milione e 950.000 se si scrive Toscana. Per la Puglia siamo a 410.000, Campania e Sicilia poco più di 300 mila e poco meno per la Sardegna. Scrivere di piatti tipici del nostro territorio è dunque un’operazione da farsi, per rendere onore a piatti che tutti conosciamo, apprezziamo, ma che evidentemente non sappiamo valorizzare abbastanza e di cui ne “parliamo” poco; soprattutto nel web. Forse per essere troppo occupati, come siamo, nel costruire capannoni e capan-

Pare che il Venerdì Gnoccolaro, usanza veronese, derivi da un fatto veramente accaduto nel XVI secolo grazie alle disposizioni date da un medico nel suo testamento, per distribuire alimenti agli abitanti del quartiere di San Zeno e agli altri poveri veronesi nel giorno del venerdì grasso

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Sulle montagne di Recoaro un tempo si preparava la “Fioreta” una ricottina “liquida” che veniva impastata con la farina e con cui si preparavano gli gnocchi noncini, villette e condomini, diventando una regione che si è “fumata” anche quest’anno 227.377 ettari di terra. Dimenticando così che il vero valore, che resiste ad ogni tipo di assalto speculativo, è il valore della terra e dei prodotti che da essa se ne traggono, per dare vita a quella lunga filiera agroalimentare che diventa cibo nei piatti e soprattutto la nostra secolare storia gastronomica. Come, per esempio, il “falso parsuto”, tanto per cominciare un tour, seppur virtuale, tra le leccornie che la lacomotiva del Nordest ha travolto l’una dopo l’altra sui binari di una modernità, anche gastronomica, vieppiù insulsa e senza gusto. Si tratta di un prodotto della Bassa Padovana, così come insegnava l’antica cucina padovana di origine ebraica, composto di petti d’oca completi di pelle, sale, aromi naturali che venivano cuciti assieme a due a due, pressati per alcuni giorni e successivamente affumicati e stagionati per circa 3 mesi. Saltando dalla pianura alle montagne di Recoaro, invece, è necessario parlare della “fioreta”. Una ricotta “liquida”, un piatto poverissimo diventato ai nostri giorni una rarità preziosa. Le origini la fanno risalire a quando i pastori in alpeggio facevano un impasto con fioreta


IL PANORAMA GASTRONOMICO e farina bianca per versarlo a cucchiaiate nell’acqua bollente e ricavarne così morbidissimi gnocchi. Gnocchi che celebrano la loro apoteosi nel capoluogo scaligero con un vero e proprio “Bacanal del Gnoco”, voluto nel XVI secolo da un medico che dispose nel suo testamento la volontà di distribuire, anche dopo la sua dipartita, alimenti agli abitanti del quartiere di San Zeno e agli altri poveri veronesi nel giorno del venerdì grasso. Giornata tutt’oggi in gran voga e assai cara a tutti i veronesi che mai si perderebbero gli “gnòchi de patate del vèndri gnocolar”. Piatto semplicissimo fatto di un impasto di farina, patate, sale e con un uovo per ogni kg di patate, amalgamato e diviso poi in tanti pezzettini a forma di filoncini della lunghezza di tre centimetri l’uno. La ricetta originale prevede, inoltre, che ogni gnocco ottenuto venga passato sui rebbi di una forchetta, per creare quella rugosità che permette di raccoglie meglio il sugo. Ossia il condimento che in ragione del posto dove gli gnocchi di patate vengono preparati, vista la diffusione ad ogni latitudine della nostra penisola, viene interpretato assai soggettivamente. Si va dal burro fuso al pomodoro, dal ragù di corte, nel padovano, al formaggio d’alpeggio sui monti, ma a Verona il gnocIn Polesine il “riso co trova il suo alla canarola” viene sugo d’elezione preparato con: fagioli nella “pastissada secchi, cipolla, sedano, de caval”. Altro cibo prelibato carote, conserva che vanta origini di pomodoro millenarie visto e con ingrediente che risalirebbe al forte il cotechino 489, in seguito ad una battaglia combattuta nelle campagne attorno a Verona, tra il Re d’Italia Odoacre ed il Re degli Ostrogoti Teodorico. Al termine dello scontro, vinto da Teodorico, rimasero sul terreno migliaia di cavalli, che il popolo stremato dalla fame fu autorizzato a recuperare per far provvista. Per disporne a lungo, questa venne tagliata e lasciata macerare nel vino rosso, con spezie e verdure. La successiva cottura a fuoco lento portò alla scoperta di questo squisito piatto. Parliamo di un vero e proprio prodotto della natura quando, invece, tiriamo in campo il broccolo fiolaro. Vera e propria immagine orticola del vicentino, o meglio del paese di Creazzo, dove il nostro broccolo è un principe incontrastato dell’inverno. Così definito per i suoi fioi (figli), ossia: germogli di consistenza erbacea che crescono lungo il fusto e all’ascella delle foglie. È da questo ortaggio che nascono succulente frittate, minestre, pasticci, zuppe e risotti. Anche per il riso bi-

La pastissada de caval” vanta origini millenarie visto che risalirebbe al 489 e più precisamente ad una battaglia combattuta nelle campagne attorno a Verona tra il Re d’Italia Odoacre ed il Re degli Ostrogoti Teodorico

sognerebbe aprire un capitolo a parte, per il semplice fatto che sotto ogni campanile esiste una ricetta diversa. Nel Polesine, in provincia di Rovigo, ad esempio, il “riso alla canarola” viene preparato con: fagioli secchi, cipolla, sedano, carote, conserva di pomodoro e ovviamente il cotechino, altra immagine che qualifica quasi tutte le province del nostro Veneto. Mentre decisamente più semplice è il veneziano “risi e bisi”, non plus ultra tra i risotti che tratteggiano l’identità veneta a livello internazionale forse anche perché i piselli ormai sono un prodotto dell’intera regione, trovandosi eccellenti produzioni a Colognola ai Colli nel veronese, a Baone nel padovano, a Lumignano nel vicentino e nelle isole della laguna come quella di Sant’Erasmo. Nota anche per le sue “castraure”, altro ortaggio incredibilmente goloso che non è altro che il primo piccolo germoglio apicale di carciofo, tenerissimo, che viene tagliato per permettere la crescita più rigogliosa degli altri ger-

Il Broccolo fiolaro, vera e propria immagine orticola del paese di Creazzo nel vicentino

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IL PANORAMA GASTRONOMICO

Le “castraure” che hanno reso celebre l’Isola veneziana di Sant’Erasmo non sono altro che il primo piccolo germoglio apicale del carciofo che viene tagliato per permettere la crescita più rigogliosa della fioritura di fine aprile

mogli a fine aprile. Nelle osterie sono tra i cicheti di ordinanza, lessi e conditi con aglio, prezzemolo, pepe e olio. Insomma un “ortofrutto” nel vero senso della parola che ben annuncia l’arrivo della bella stagione anche se allo scopo, prima delle castraure, dal 19 marzo, ci pensano i “sparesi” di Bassano, di Pernumia, di Codevigo, di Badoere, di Maerne o di Cimadolmo. Famosi anche ben oltre i confini veneti sono i cosiddetti “sparesi alla bassanese”, serviti con le uova sode tritate quasi in poltiglia, olio, aceto pepe. Modo pressoché diffuso in tutte le province della Serenissima, con l’unica eccezione nel padovano dove si prevede anche una grattugiata di GraLa trevigiana na e l’assenza di ace“sopa coada” è to, e soprattutto piatto un pasticcio fatto irrinunciabile della Pasqua. di strati di pane raffermo, intriso di L’aceto, di contro, è indispenbrodo, alternati a ingrediente sabile per il saor, solistrati di carne di tamente utilizzando le piccione stufata e sarde, ma anche con alridotta in pezzetti tre varietà ittiche di piccola pezzatura come ad esempio gli sfogetti, le sogliole molto piccole, i gamberoni o le “oradele”. Ovvero le piccole orate che loro malgrado finiscono nelle reti anche se, per fortuna, ai nostri giorni la normativa prevede l’impiego di reti a maglie tanto larghe quanto incapaci di catturare pesci al di sotto dei 10 - 12 centimetri di lunghezza. Escludendo ovviamente le reti permesse per le varietà di pesci più piccoli, la cui cattura è ancora possibile, ma non lo sarà per molto. Per completare questo viaggio attraverso i sapori, è necessario attraversare anche gli elementi e se dalla terra siamo passati all’acqua del mare i ciclo si chiude con dei protagonisti dell’aria: i piccioni, ingredienti speciali per la “sopa coada”, ossia un pasticcio fatto di

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strati di pane raffermo, intriso di brodo, alternati a strati di carne di piccione stufata e ridotta in pezzetti. L’appellativo coàda - pare si riferisca ai lunghi tempi di cottura (sino a quattro o cinque ore) ed è un piatto che pur rientrando in molti ricettari fin dal medioevo ha conservato tutta la sua forza nel trevigiano. Nel padovano, i piccioni o torresani si preferiscono cotti in forno con il ripieno, come nell’area degli Euganei, o allo spiedo come invece succede nell’area vicentina di Breganze. Insomma decine e centinaia le ricette che fanno la storia della gastronomia cresciuta all’ombra di ogni campanile ed è solo per ragioni di spazio che si deve porre fine a questa sorta di mappa delle prelibatezze perdute, o quanto meno non così facili da trovare. Chiudo con la “figassa”, che non ha nulla a che fare con l’avvenenza femminile, ma è una torta a base di fichi dove la desinenza “assa” lascia intendere l’estrema golosità e fa il paio con “smegiassa”, anch’essa campionessa di zuccheri e carboidrati. La ricetta, infatti, prevedeva: farina di mais, farina di grano, acqua di cottura del musetto, zucchero, miele, uva passita, fichi secchi, buccia di arancia, grappa, zucca arrostita in forno. Cos’è che vi lascia inorriditi? L’acqua di cottura del musetto? Va beh, nel padovano sud-orientale è permessa una variante, potete usare anche i ciccioli di maiale. Ancora troppo? Beh, allora metteteci delle mele, ma state facendo una forzatura.

La torta“smegiassa”


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Al piacere di una serata tra amici si accompagna un pranzo domenicale in famiglia, l’offerta rimane vasta e di qualità senza dare dispiaceri al portafogli

è tempo di pizze fragranti e piatti di stagione La pizza è uno dei punti forti dello servire come fossero le portate di storico ristorante condotto dalla faun pranzo: dall’antipasto al dolce. Piuma miglia Antico, anzi sarebbe meglio Ma anche il ristorante ha i suoi assi soffice ed alveolata con prima cottura al vapore dire le pizze in quanto dal forno a nella manica in questa stagione. Pala alla Romana legna escono diverse tipologie: Il petto d’anatra alla griglia con i rustica e fragrante dall’impasto tradizionale all’interfunghi è uno dei piatti che mantiene come il pane pretazione della napoletana e dalla vivo l’antico nome de Il Cacciatore, Degustazione pizza “piuma”, con una prima cottura a insieme alla grigliata con lombo di diversi sapori dall’antipasto al dessert vapore e farcita con i prodotti del maiale, tagliata di manzo, costine ristorante, alla rustica “in pala alla di agnello e salsiccia di bufala e la romana”. Tutte accomunate da imcarta compendia pure piatti di pepasti al altissima digeribilità e da ingredienti preparati sce, compreso l’immancabile baccalà interpretato con direttamente in cucina. Non resta che l’imbarazzo della tre ricette diverse, perché in fondo il mare non è lontano. scelta anche se, visto il permanere della stagione rigida, Piatti, va detto, che insieme ai primi fatti in casa, hanno la “casa” punta sulla proposta di pizze dall’impasto alto, un costo del tutto assirustiche e piene di gusto come la Piuma alla crema di milabile a quello della pistacchi, mortadella e burrata, la Tastasale e radicchio di pizza, sicché è davvero Treviso, o la Carbonara con guanciale e crema all’uovo facile approfittare della fatta in casa. Non manca la Sapore di mare, con seppie vasta offerta che, inolsaltate con aglio e pomodorini, e non sarebbe da trascutre, aggiunge ottime rare la pizza in “pala alla romana, fragrante come un pane birre artigianali ed etie con un topping a piacere, compreso un roastbeef cotto chette selezionate tra le a bassa temperatura. Per gli indecisi esiste una “Degustamigliori del buon bere zione Pizza” che permette di assaggiarle tutte o di farsele nazionale. TRATTORIA PIZZERIA “AL CACCIATORE” Via Villa del Bosco, 268 - Pontelongo (PD) - I mestoli riposano il lunedì Tel. 049 591367 - tratt.cacciatore@libero.it - http://www.trattoriaalcacciatore.altervista.org


LA CUCINA DI Q.B. di Anna Maria Pellegrino

Gli gnocchi:

UN PIATTO POVERO SERVITO NELLE CORTI RINASCIMENTALI Il Kringle è un dolce molto diffuso in tutto il Nord Europa, dove pare sia arrivato nel XIII secolo dal Mediterraneo, portando con sé i profumi delle spezie, e conquistando subito le dispense di Norvegia, Svezia e Danimarca. La parola Kringle in norvegese significa “chiocciola” anche se si possono trovare normalmente in commercio Kringla (al plurale) a forma di pretzel o di ferro di cavallo.

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a Nord a Sud, dall’antichità all’epoca moderna, sulle tavole più umili e nei menù dei ristoranti stellati, gli gnocchi sono, senza ombra di dubbio, il primo piatto più amato e diffuso nella nostra penisola. Uno di quei piatti che mette sempre tutti d’accordo, che sa di festa e di famiglia, che ci riporta ai ricordi legati alla nostra infanzia, che regala allegria e buonumore, proprio come recita la famosa frase “Ridi, ridi che la mamma ha fatto i gnocchi”. Un piatto straordinario, di origini umilissime, con una diffusione che supera ogni statuto sociale: dalla cucina contadina a quella di corte. Massimo Montanari fa risalire la loro pri-

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ma comparsa già nei ricettari del Medioevo e del Rinascimento, e sottolinea come i migliori cuochi di corte li cucinassero: tra questi anche Cristoforo Messisbugo, il quale prevedeva gnocchi per la tavola degli Estensi a Ferrara. GLI GNOCCHI NELLA STORIA Con ogni probabilità gli gnocchi rappresentano la prima forma di pasta usata dall’uomo, nati dal gesto spontaneo di mescolare a freddo la farina con poca acqua, per farne delle palline da cuocere in acqua bollente. In assenza di quel grano che solo più tardi sarebbe nato


LA CUCINA DI Q.B. dal suo progenitore, più proteico ma meno produttivo, fu certamente il farro il primo cereale ad essere coltivato in Tuscia e in Lazio, il quale iniziò a circolare nella penisola italica intorno al VII sec. a.C., diventando il cibo preferito di Etruschi e Romani. Gli gnocchi divennero una specie di variante delle polente, le puls romane, ed i ricettari del tardo Medioevo e del Rinascimento ce ne forniscono le prime ricette, all’insegna della più assoluta semplicità: farina, o pane grattugiato, mescolati con formaggio o rossi d’uovo fino ad ottenere delle polpettine da cuocere in acqua bollente o brodo. Successivamente, nella seconda metà del ‘500, con la scoperta dell’America arrivano le patate, ma è solo dalla seconda metà dell’800 riescono, con fatica, ad entrare nelle cucine, incontrando il cugino pomodoro. Questi nuovi prodotti segnano in modo indelebile la ricetta originale degli gnocchi: è l’innovazione che si adatta alla tradizione, esempio lampante di come le culture alimentari dei vari popoli sappiano rielaborare le novità, adattandole alla propria storia.

PERCHÉ GIOVEDÌ GNOCCHI? Con il farro, nell’antica Roma, si celebrava il rito matrimoniale chiamato confarreatio, una cerimonia riservata esclusivamente ai patrizi che, dopo il sacrificio a Juppiter Farreus, vale a dire Giove del Farro, vedeva donata agli sposi una piccola focaccia di farro, da spezzare e mangiare alla presenza di dieci testimoni. Siccome il giovedì è il giorno della settimana dedicato a Giove, e appurato che gli gnocchi venivano realizzati con acqua e farina di farro, da questo antico rito romano si fece largo la tradizione di cucinare gli gnocchi di giovedì. Gli gnocchi, nella loro semplicità, rispecchiano l’identità culinaria italiana, fatta di tanti campanili; e raccontano, in modo corale, storie e tradizioni differenti, riunite sotto il vessillo della grande cucina del nostro paese. Perché, alla fin fine, quello che ognuno di noi sogna, non è qualcosa di esotico, ma il conforto dei sapori conosciuti.

GNOCCHI DI PATATE Cuocete le patate nell’acqua o, meglio, a vapore e, calde bollenti, spellatele e passatele per istaccio. Poi intridetele colla detta farina e lavorate alquanto l’impasto colle mani, tirandolo a cilindro sottile per poterlo tagliare a tocchetti lunghi tre centimetri circa. Spolverizzateli leggermente di farina e, prendendoli uno alla volta, scavateli col pollice sul rovescio di una grattugia. Metteteli a cuocere nell’acqua salata per dieci minuti, levateli asciutti e conditeli con cacio, burro e sugo di pomodoro, piacendovi. Se li volete più delicati cuoceteli nel latte e serviteli senza scolarli; se il latte è di buona qualità, all’infuori del sale, non è necessario condimento alcuno o tutt’al più un pizzico di parmigiano

Difficoltà: facile

Preparazione: Cottura: 30 minuti 10 minuti

INGREDIENTI per 3 persone • 400 g di patate grosse e gialle scegliete patate vecchie dalla polpa farinosa, o patate rosse a pasta gialla • 150 g di farina di grano tenero (debole)

Bibliografia: Artusi, P., “La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” Montanari, M., “Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola” Montanari, M., “Identità italiana in cucina” Boni, A., “La cucina romana” Aifb, Calendario del cibo italiano, Susanna Canetti

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Il buon pane genuino e fragrante CROIGEL srl via 3° Strada 15/B - Conselve (PD) - Tel. 049 5384682


messaggio pubbliredazionale

DA CENTO ANNI UN PANE REALIZZATO CON UNA RICETTA TRADIZIONALE, PERCHÉ IL PRODOTTO BUONO DEVE SAPER TRATTENERE ALMENO UN BREVE SOFFIO DI VENTO DEL SUO LUOGO DI ORIGINE Buono come il pane. Lo si dice per esprimere le genuinità del carattere, l’anima leggera, la bellezza essenziale delle cose semplici. Il pane, insomma, tira in ballo i valori primari, come il sapore originale della terra o i sentimenti che tengono insieme una famiglia. Il pane potrebbe essere un metro o una bilancia per misurare o pesare il tempo, perché se è vero che le epoche passano il suo sapore deve rimanere sempre quello... semplicemente buono. Non è solo una questione di gusto, è un fatto di memoria e quella della Croigel di Conselve porta registrati gli ultimi 106 anni. Raccoglie infatti 4 generazioni, quattro passaggi da padre in figlio, che a partire da un forno nel piccolo borgo di Conselve hanno costruito la propria storia proprio con il pane, attraversando il Novecento e il nuovo millennio e tutti i cambiamenti che ogni modernità, compresa la globalizzazione, ha portato anche a tavola, ma rimanendo fedeli alla propria filosofia del pane. Convinti che la custodia dei luoghi, la salvaguardia delle tradizioni siano parte integrante della “visione” dell’agroalimentare, ossia di quel motore del cambiamento oggi più che

SALE DI GROTT

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Massimiliano Garbin, quarta generazione alla guida dell’azienda di famiglia. Da un piccolo forno nel centro di Conselve ad una grande azienda che produce pane a livello nazionale mantenendo saldi valori come la qualità delle materie prime, meglio se locali, artigianalità nella lavorazione, e attenzione per la salute

mai necessario, perché un’idea nobile del prodotto della campagna è indispensabile per accendere il domani e per contrastare la logica della ricetta apolide, del protocollo seriale, della prospettiva meramente mercantile. Per questo nel pane di Croigel è rimasto il sapore del territorio: le farine di tipo 1 sono ancora quelle ottenute dal frumento che cresce nel circondario di Conselve, lavorate del mulino padovano Agugiaro & Figna, l’olio quello delle vicine alture Eugane, il lievito madre per una lievitazione lunga e il sale di grotta, perché quello marino ormai è inquinato dalle microplastiche. Niente additivi, niente emulsionanti perché il pane buono deve saper trattenere almeno un breve soffio di vento del suo luogo di origine e quindi avere un’etichetta corta e una lavorazione manuale. Per questo i processi di lavorazione e il taglio qui sono ancora fatti dall’uomo, anzi da mani femminili perché la resilienza al passato è rimasta fin nel dettaglio della sensibilità che può essere espressa solo da una donna. La lievitazione avviene su assi di legno, per far respirare il prodotto, lo scrupolo salutistico è stato esteso alla presenza di sale: via via diminuita sensibilmente all’interno degli impasti. Un prodotto pensato per tutti, rispettoso delle tipicità regionali italiane, commercializzato surgelato attraverso la grande distribuzione, perché la sfida accolta oggi da Croigel è quella di portare in tavola la bontà del pane artigianale appena sfornato, a tutte le ore.

Siamo convinti che la custodia dei luoghi e la salvaguardia delle tradizioni siano parte integrante della “visione” dell’agroalimentare, ossia di quel motore del cambiamento oggi più che mai necessario, perché un’idea nobile del prodotto della campagna è indispensabile per accendere il domani e per contrastare la logica della ricetta apolide, del protocollo seriale, della prospettiva meramente mercantile info@croigel.com - www.croigel.it


LA RECENSIONE di Renato Malaman

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PERCHÉ

Recensione

Le seduzioni di Heros

Il ristorante-bomboniera nel cuore di Piove di Sacco esprime il talento di Eva Cecchinato nel presentare una raffinata cucina di pesce e fa rivivere l’arte del “maestro” Ernesto

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lassico, elegante, raffinato. Così come Ernesto Cecchinato, “il maestro”, lo aveva sempre sognato. Classico nell’anima al punto da poter apparire fuori dal tempo e dalle mode. Il ristorante Heros di Piove di Sacco è la rappresentazione onirica dell’ambizione del maestro Ernesto di creare una cosa bella da dedicare… alle cose buone. Intimo al punto, questo ristorantino nel cuore di Piove di Sacco, che è quasi invisibile anche dalla strada. Eppure Piazza Incoronata e il duomo di San Martino sono a due passi, come pure la storica Pasticceria Milanese di cui in fondo l’Heros è un’emanazione, come l’attività di catering d’autore che porta lo stesso nome. Ernesto Cecchinato è mancato un anno mezzo fa, all’improvviso e lasciando un vuoto grande. Oggi l’Heros è nelle mani della moglie Franca e della giovane figlia Eva, nata in Corea del Sud e adottata da bambina. Eva che ha raccolto il testimone in cucina dopo alcuni anni di affiancamento al papà, ma soprattutto dopo esperienze formative importanti alla scuola Alma di Parma (quella fondata da Gualtiero Marchesi) e da Alain Ducasse a Parigi, con l’intermezzo di uno stage da Carlo Cracco. Il talento di Eva è cristallino e fa leva sulla sua sensibilità artistica e sulla sua capacità creativa. I suoi piatti sono frutto di una tecnica dai fondamentali solidi, ma anche di buongusto e di grazia. Eva propone una galleria di piatti di pesce che rifuggono la banalità, sorretti da una materia prima selezionata con rigore. Piatti da godere con l’occhio oltre che con il palato. Piatti che talvolta riverberano - e talvolta creano contrasto - con lo spirito piacevolmente démodé

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Renato Malaman, noto enogastronomo padovano, visita per la nostra rivista i ristoranti della Bassa Padovana, dell’area euganea e dei territori limitrofi più ricchi di tradizione, per raccontare storie, personaggi e piatti che nel tempo li hanno resi celebri. Esprimendo anche una sua valutazione sulla qualità attuale della proposta


LA RECENSIONE ll ristorantebomboniera nel cuore di Piove di Sacco dà luce al talento di Eva Cecchinato, chef capace di esprimere una raffinata cucina di pesce e di far rivivere l'arte del "maestro" Ernesto

del locale, dove la cura dei dettagli evoca tuttavia atmosfere letterarie lontane. Heros è una bomboniera sospesa nel tempo, dove ogni volta ci si smarrisce alla ricerca di riferimenti culturali. Ecco, un luogo dannunziano, dove l’estetica fa da comprimaria alla sostanza. Anzi, talvolta le contende il ruolo di protagonista. Nel menu abbiamo apprezzato varie creazioni, servite peraltro su piatti e stoviglie scelti ad arte. Come la “granseola” con vellutata di carote e pepe al limone, abbinata al Crémant d’Alsace Brut “Zirnhelt”; o la triglia di scoglio con calamari scottati e a fogli essiccati in forno su letto di misticanza: piatto questo abbinato al vino Alto Adige DOC Müller Thurgau 2018 St. Michael - Eppan. Poi il gran crudo (scampi di Mazara del Vallo, tartare di tonno con datterini ed erba cipollina, spiedino di San Pietro con lampone, branzino al “caviale” di arancio, cappesante e nocciola, gambero rosso e mazzancolla di Sicilia con frutti di bosco, calamaro a julienne con pepe al limone), piatto abbinato al Franciacorta DOCG Dosaggio Zero “Terra delle Abbazie”. Infine una prelibatezza di primo: ravioli farciti di ricotta e granchio reale con sughetto ai crostacei e vongole al latte di cocco: piatto abbinato a Champagne Veuve Pelletier & Fils Brut. Come dessert un assaggio di conchiglia di riso del maestro Ernesto, la treccina frolla fatta a mano e croccante ai cereali: dolce abbinato a Feudo Baglio Inca Zibibbo. Certo, l’Heros non è un ristorante da tutte le sere e non è nemmeno aperto tutta la settimana (e questo semmai lo penalizza un po’). Però è il locale giusto per celebrare qualche momento di particolare significato, dove il sentirsi coccolati (anche nel palato) giustifica la spesa di qualche euro in più. Un ristorante dove sembra davvero di compiere un viaggio a ritroso nel tempo, senza tuttavia perdere mai di vista la concretezza della buona cucina, che è saldamente ancorata a una materia prima di qualità. Carta dei vini decisamente all’altezza e di ampio orizzonte internazionale. Perché anche Bacco in questa seducente “danza” Eva Cecchinato di Heros deve recitare la sua parte. con Renato Malaman

La Pagella

di Con i piedi per terra

⊲ Uso di materie prime del territorio

⊲ Piatti in menù che seguono la stagionalità ⊲ Rielaborazione dei piatti della tradizione secondo fantasia e creatività ⊲ Accoglienza ⊲ Abbinamento vini ⊲ Rapporto qualità-prezzo


INGIROPIEDANDO di Alessandra Capato

I PIATTI DEL BUON RICORDO:

ICONE DELLA CUCINA TRADIZIONALE RICERCATE DAI COLLEZIONISTI E DAI BUONGUSTAI È stata presentata la Guida 2020 dei ristoranti che partecipano all’Unione. Su 103 locali internazionali, ben tre sono padovani

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on poteva che essere un successo la presentazione dell’edizione 2020 della Guida del Buon Ricordo, quest’anno in una veste tutta nuova dal colore rosso fiammante. Nove i nuovi ristoranti entrati nell’Unione Ristoranti del Buon Ricordo, la prima associazione di ristoratori nata in Italia. È salito dunque a 103 il numero dei locali (di cui 10 all’estero fra Europa e Giappone) che fanno parte del sodalizio, fondato nel 1964 per salvaguardare e valorizzare le tante tradizioni e culture gastronomiche italiane, che allora correvano il rischio di perdersi sotto la spinta dell’omologazione del gusto e la moda della cucina internazionale, mentre quella tipica delle regioni era, come scrisse Vincenzo Bonassi: “sconosciuta o negletta”. A una felice e puntuale idea di Dino Villani, uomo di cultura e maestro di comunicazione, si acDino Villani fu un uomo d’arte e di cultura, ma anche un grande pubblicitario, considerato l'inventore in Italia della comunicazione integrata, capace di dar vita ad iniziative di grande e diffuso successo. Basti pensare che fu tra gli ideatori di Miss Italia, del Premio Suzzara, ideato con Zavattini, e sua è l’idea di far diventare il 14 febbraio la Festa degli Innamorati, come pure l’invenzione della colomba pasquale, per utilizzare in primavera macchinari ed ingredienti del panettone

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costò un gruppo di ristoranti di qualità con l’intento di ridare notorietà e prestigio alle tante espressioni locali della tradizione gastronomica italiana, a quell’epoca poco valorizzata. A caratterizzare ciascun ristorante, e a creare fra loro un fil rouge, è oggi come un allora il piatto-simbolo, dipinto a mano dagli artigiani della Ceramica Artistica Solimene di Vietri sul Nel 1964 nasceva Mare, su cui è effigiata l’Associazione per salvaguardare la specialità del locale. Il piatto, quindi, diventa le tradizioni un dono che i ristoratori gastronomiche offrono alla loro clienitaliane, che tela affezionata come allora correvano il ricordo di una gustosa esperienza gastronomi- rischio di perdersi sotto la spinta ca. Una nota di merito per la riuscita dell’evendella cucina to va a tutto il Consiglio internazionale direttivo dell’associazione, presieduto da Cesare Carbone del Ristorante La Manuelina di Recco e coordinata da Luciano Spigaroli, Segretario generale del Ristorante Al Cavallino Bianco di Polesine Zibello. Spigaroli ha spiegato che “Il progetto “I Piatti del Buon Ricordo” punta con sempre maggior determinazione sui valori della cucina regionale con l’obiettivo di diventare un circuito eno-


INGIROPIEDANDO

Tutti i piatti dei ristoratori che aderiscono all’Unione Ristoranti del Buon Ricordo sono dipinti a mano dagli artigiani della Ceramica Artistica Solimene di Vietri sul Mare

gastronomico che sia un’occasione per visitare l’Italia, un Paese che a tavola offre sorrisi e informalità e dove l’ospite si possa sentire come a casa sua”. Pertanto la Guida del Buon Ricordo ha avuto una evoluzione tangibile nella filosofia che contraddistingue i ristoranti, i quali, consapevoli di guardare al futuro, hanno concretizzato con successo, una cucina che tiene conto della territorialità e delle sue tradizioni. I piatti non trascurano i prodotti della propria terra, né il ricordo della loro memoria culinaria, fatto di cose genuine e fragranti, perché il cibo è cultura, cultura antica e non virtuale. Basti pensare che degli undici ristoranti del Veneto, ben tre sono della provincia di Padova e si rifanno alle pietanze simbolo della provincia e dintorni. A Noventa Padovana il ristorante Boccadoro ha scelto di rappresentare sul piatto di ceramica di Vietri una gallina con la bottiglia,

Il progetto dei Piatti del Buon Ricordo punta con sempre maggior determinazione sui valori della cucina regionale con l’obiettivo di diventare un circuito enogastronomico che sia un’occasione per visitare l’Italia ossia la rappresentazione iconografica della propria “galina imbriaga co’ e tajadele”, il piatto che da ben 46 anni è il punto di forza del menù. Del resto quando si nomina la gallina, da queste parti, subito si pensa alla gallina padovana, razza antichissima e riconosciuta anche come presidio Slow Food. Mentre il ristorante La Montanella rende

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INGIROPIEDANDO L’impegno dei ristoratori è quello di praticare una linea di cucina tipica del territorio e di tenere sempre in carta, tutti i giorni dell’anno, “una specialità” che ne deve essere la rappresentazione più rigorosa ed esemplare omaggio al borgo di Arquà Petrarca, uno dei più belli d’Italia, con una cucina che affonda le sue radici nei riti delle stagioni e nella qualità dei prodotti locali. Il piatto del locale infatti rievoca una ricetta che ha ben settecento anni, ossia il Prosciutto cotto nel vino, tanto per dire che i colli Euganei sono una delle patrie dell’enologia nazionale e che la norcineria è una delle specialità di questa terra, prova ne è quel Prosciutto Veneto Berico Euganeo Dop che sa incantare i palati. E dalla rassegna padovana non è possibile omettere il Ristorante Antico Brolo l’Osteria di Padova che al centro del proprio piatto dipinto ha messo un’altra immagine gastronomica del Veneto, ossia quel baccalà che il commerciante veneziano Pietro Querini portò in Italia nel 1432, dopo un naufragio alle isole Lofoten, in Norvegia. Qui però rivisto in forma di ripieno di morbidi tortelli serviti su passata di fagioli con cipolla fritta, guanciale croccante ed olio profumato al rosmarino. Le nostre eccellenze dunque, saranno anche quest’anno presenti all’interno della Guida del Buon Ricordo, la loro immagine continuerà a rimanere immortalata nel centro di un piatto ricercato dai collezionisti e sicuramente dai buongustai. La copertina della Guida del Buon Ricordo 2020. Per conoscere da vicino i Ristoranti del Buon Ricordo e le loro specialità, si può consultare la Guida che viene pubblicata annualmente e che presenta i locali e le loro specialità. I ristoranti sono raggruppati per regione. In evidenza sono segnalate, oltre che i nuovi associati, anche le sostituzioni delle ricette e del relativo piatto: la regola del Buon Ricordo vuole infatti che ogni cinque anni il ristoratore possa proporre, se crede, una nuova specialità “simbolo” del suo locale.

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Verze

ALLO ZAFFERANO CON CURCUMA

Difficoltà: semplice

Preparazione: Cottura: 40 minuti 30 minuti

INGREDIENTI per 4 persone • 200 g di verze • 50 g di cipolla di Tropea • 7-10 olive taggiasche • curcuma q.b • zafferano q.b • sale q.b • pepe q.b

LA RICETTA DELLO CHEF di Cristina Biollo di Cristina & Massimo Artisti del vegetariano di Padova

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l mondo del vegetariano è in costante espansione e rappresenta oltre ad un nuovo modo di fare ristorazione anche un tema che appartiene alla sensibilità individuale, visto che molto spesso questa cucina si basa su sensibilità ambientaliste, animaliste e salutiste. Una scelta che coinvolge il 10% degli italiani e che dunque sta diventando una parte importante della cultura nazionale, ma soprattutto una cultura che si basa, visto che siamo parlando di cucina, sulla storia dei territori in cui viene accolta. E’ il caso della ricetta che presentiamo, ossia le verze, tipico ortaggio della stagione invernale che nella tradizione veneta ha trovato mille impieghi, ma che in questa occasione viene considerato soprattutto nei suoi risvolti salutistici. Parliamo di inverno, infatti, di stagione fredda che è spesso causa di acciacchi come il raffreddore. E allora perché non pensare a contrastare queste insorgenze stagionali già a partire dalla nostra alimentazione? Giocare con il sapore e con gli effetti benefici del cibo si può e le nostre verze combinate insieme a due straordinarie spezie come la curcuma, potente stimolatore del sistema immunitario, e lo zafferano, che la cucina indiana ancora oggi impiega per il trattamento di bronchiti, mal di gola, mal di testa e febbre, danno luogo ad un ottimo piatto veloce e a prova d’inverno.

LA RICETTA DELLO CHEF Lavare accuratamente le verze e ridurle in pezzetti, aggiungere la cipolla a julienne e le olive taggiasche. Condire con la curcuma, lo zafferano, il sale, il pepe e unire il composto in una teglia da forno con l’aggiunta di un filo d’olio. Mettere in forno preriscaldato a 180 gradi per mezz’ora.

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AD OGNUNO IL SUO CALICE… di Silvano Bizzaro - Sommelier silvanobizzaro@alice.it

CINQUE ETICHETTE PER CHIUDERE CON LE RIGIDITÀ DELL’INVERNO E QUALCHE BOTTIGLIA CHE VA D’ACCORDO CON IL MAIALE

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l freddo continua ad essere il protagonista di questa prima parte dell’anno e se il calendario rurale fosse ancora un riferimento per la nostra vita, ci troveremmo nel segno del maiale. Sì, gennaio e febbraio un tempo erano il periodo in cui venivano preparati i salami. Ogni famiglia, o quasi, approfittando proprio dei rigori che in questo periodo si fanno più intensi preparavano quella dispensa di carni che diventava indispensabile alla ripresa dei lavori nei campi, come fonte principale di proteine e quindi di energie. Un’abbondanza veramente da “carnevale”, vista la disponibilità di carni fresche, che ancora oggi viene ricordata dai tanti pranzi e soprattutto cene nel nome dell’amico maiale. “Ossi”, zampini, tagliatelle con il “pisto” o

“tastasale”, ciccioli, orecchie perché, come è noto, del mansueto quadrupede non si butta nulla. Piatti, a dire il vero, che oggi difficilmente incontrano i palati di tutti, ma è vero anche che gli chef del nostro territorio stanno lavorando sodo per farli tornare attuali e ovviamente in questo percorso di aggiornamento una grande importanza hanno i vini. Ossia il compendio ideale per ogni sapore che viene dalla cucina e sul quale mi sono concentrato per questa rassegna cercando qualche grande etichetta dell’area padovana. Ovviamente dei grandi classici della tradizione, come il merlot, il cabernet, ma non ho trascurato di presentarvi anche qualche bianco per tutte le altre occasioni che non hanno il maiale come protagonista.

UN GRANDE CLASSICO - FAEDO DI CINTO EUGANEO (PD) “SASSONERO” DOC COLLI EUAGNEI MERLOT 2015 - AZIENDA CA LUSTRA ZANOVELLO Un merlot tra ginestre e mandorli Un concentratissimo Merlot in purezza che nasce tra ginestre, mandorli e ulivi su di una collinetta di Arquà Petrarca. Appena tre ettari di vigneto dai quali si ottengono le uve da avviare alla cantina e da trasformare attraverso un affinamento in parte acciaio e parte in botti di rovere con una macerazione di circa 15 gg. Determinanti sono i tre anni successivi, quando il vino riposa in grandi botti e tonneaux. Ne esce un vino straordinario per complessità, eleganza e finezza. Un Merlot che identifica in pieno il territorio dei Colli Euganei. Forse una delle Una delle più più belle espresbelle espressioni sioni dell’area dell’area euganea euganea grazie grazie ad un rosso ad un rosso rubirubino intenso con no intenso con ririflessi granati che flessi granati che al naso presenta al naso presenta note di frutta rossa note di frutta ros-

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sa, sentori terziari come cannella, tabacco, indispensabili per scaldare il palato con un gusto rotondo e morbido. Interessante il persistente retrogusto che lascia in bocca un piacevole senso di soddisfazione. Un vino che come dicevo trova perfetta corrispondenza nei piatti a base di maiale, gli umidi, gli arrosti, i primi dai sughi elaborati, ma va benissimo anche con i formaggi stagionati.


AD OGNUNO IL SUO CALICE… UN VINO NUOVO - MONTAGNANA (PD) CABERNET SAUVIGNON 2018 - HOSTARIA ZANAROTTI Un biologico in purezza, senza filtrazioni Continua la produzione e dunque la nuova linea vini creata di Arturo Zanarotti dell’Hostaria di Montagnana. Un nuovo vino (da vendemmia 2018, annata non eccezzionale) che va a completare la gamma dei vini proposti nel suo ristorante e nell’adiacente bar per l’aperitivo accompagnato dagli immancabili “spunciotti”. Si tratta di un Cabernet Sauvignon in purezza, biologico, coltivato su terreni calcarei sempre dell’area DOC Colli Euganei in quel di Vo. Vendemmiato a settembre inoltrato, presenta una macerazione di circa 25 giorni e successivo affinamento in acciaio per breve tempo e cemento per un periodo più lungo, senza filtrazioni. Alla vista si presenta rosso

Al naso presenta sentori di frutta rossa come amarena, frutti di bosco, lievi note vegetali e minerali. Al palato è ben equilibrato e il tannino è già piacevole, lasciando un ottimo retrogusto rubino intenso; al naso presenta sentori di frutta rossa come amarena, frutti di bosco, lievi note vegetali e minerali. Al palato è ben equilibrato e il tannino è già piacevole, lasciando un ottimo retrogusto. Non ci troviamo di fronte ad un rosso particolarmente strutturato ma un vino che fa della “beva” e della “verticalità” il suo punto di forzaa. Un vino da pasto non particolarmente impegnativo che si presta bene agli abbinamenti con i prodotti della norcineria, le carni rosse e i formaggi a media stagionatura. Da servire sui 18-20°C.

UN VINO SOCIAL - VO’ EUGANEO (PD) “VIGNA RODA” SERPRINO FRIZZANTE EXTRA DRY AZIENDA AGRICOLA GIANNI STRAZZACAPPA La bottiglia con il tappo legato con lo spago Azienda storica situata in piena zona Parco Colli Euganei. A condurla, dalla seconda metà degli anni ‘90, ci pensa Gianni Strazzacappa che è riuscito nella trasformazione di una cantina che produceva e vendeva prevalentemente vino sfuso in una maison di etichette che puntano Vino versatile, decise sulla qualità. Oggi si sorseggia i suoi vigneti sono in in qualsiasi conversione biologica, occasione perché nel futuro della dall’aperitivo di mezzogiorno produzione c’è anche la naturalità. Stiamo all’happy hour comunque parlando della sera; si di un’azienda che ha accompagna fatto della tradiziobene con piatti ne la sua bandiera, di pesce, carni le botti custodiscono bianche e altri i vini tipici dei Colli Euganei: dai bianchi piatti delicati

Chardonnay, Garganega e Moscato Fior d’Arancio; ai più blasonati rossi come il Merlot, Cabernet, il Colli Euganei Rosso d’annata e Riserva. Proprio per questo segnalo di questa cantina il Serprino, ossia una delle immagini enologiche delle alture padovane, che qui trova anche nella bottiglia il suo legame con il passato. Il tappo, infatti, è ancora legato con lo spago. 100% Glera di un bel giallo paglierino con riflessi verdolini; al naso è fine ed elegante con note di mela golden, sentori esotici come ananas e banana; al palato è morbido e frizzante che denota una certa cremosità. Vino versatile, si sorseggia in qualsiasi occasione dall’aperitivo di mezzogiorno all’happy hour della sera; si accompagna bene con piatti di pesce, carni bianche e altri piatti delicati nell’imminente periodo primaverile-estivo. Servire a 8-10 °C.

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AD OGNUNO IL SUO CALICE… UN VINO RARO - TORREGLIA (PD) DILANTE ROSATO IGT 2018 FRIZZANTE - AZIENDA VITIVINICOLA MAELI Un rosato antico, anzi ancestrale Un vino raro, perché ottenuto da vitigni autoctoni scomparsi a fine ‘800 e solo recentemente riscoperti grazie al lavoro infaticabile dei vignaioli e degli agricoltori della zona DOC Colli Euganei per rinsaldare questa terra ai suoi valori originari. Parliamo di un vino ottenuto da un blend di Corbina nera e Marzemina Bianca, prodotte nella zona Sud-Est di Valle San Giorgio-Monte Al naso spiccano Gemola, e vinificanote di rosa, te in rosa. piccola frutta Ne esce appunrossa come to un gradevole ribes e lampone; rosato frizzante, una sensazione ottenuto con di arancio e il metodo anmelograno conditi cestrale, che da note speziate si presenta di che ne completano un bel colore intrigante, leggeril ricco bouquet

mente opalescente per la presenza dei lieviti. Al naso spiccano note di rosa, piccola frutta rossa come ribes e lampone; una sensazione di arancio e melograno conditi da note speziate che completano il ricco bouquet di questo rosato. Al palato è fresco e sapido con buona persistenza retro-olfattiva che restituisce note di frutta selvatica e un finale leggermente amaricante. Vino versatile, si abbina facilmente a formaggi freschi, pesce come insalate di mare, crostacei; ma anche pesci tendenzialmente grassi come salmone e trota. Grazie al suo residuo zuccherino è da provare con crostate di frutta rossa.

UN VINO PROMESSA - ARQUÀ PETRARCA (PD) PINOT NERO VENETO IGT 2015 - AZIENDA AGRICOLA TERRA FELICE Un cru nato per essere eterno Questo straordinario cru dell’azienda che ho avuto il piacere di degustare durante le recenti feste natalizie, nasce da vigneti giovani (8-15 anni) tra Arquà Petrarca e Baone. L’annata 2015 di questa bottiglia è semplicemente straordinaria, un vino che ha raggiunto la sua maturità ma che potrebbe essere bevuto anche fra 5-8 anni mantenendo la capacità di dare emozioni uniche. Si tratta di un rosso rubino intenso con note granate e sfumature violacee; al naso è straordinariamente complesso con note di frutta rossa (dalla ciliegia al lampone, dall’amarena al mirtillo); aromi terziari come note tostate e speziate. Aromi ben pronunciati ma delicati e

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sottili al tempo stesso. Al palato è straordinario per freschezza e alcolicità (14 % - acidità totale 5,4 gr/ltresiduo zuccherino 0,30 gr./lt) senza stonature che rendono al sorso il giusto equilibrio. Se l’ingresso è potente e deciso, il finale e relativo retrogusto è molto persistente e lungo. Decisamente un grande vino ce grazie alla sua struttura si accompagna magnificamente a primi piatti a base di carne; a secondi di carne importanti da cotture prolungate con importan- L’annata 2015 di te riduzione come questa bottiglia brasati, spezzatini, è semplicemente ecc. Da provare asstraordinaria, solutamente con un vino che ha formaggi stagionati raggiunto la sua (media e lunga). maturità ma che Dimenticavo: ne potrebbe essere vengono prodotte bevuto anche solo 5000 bottiglie fra 5-8 anni all’anno!


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Al Ristorante La Torre di Monselice È QUASI PRIMAVERA Le primizie sono uno dei cavalli di battaglia della cucina, già a fine febbraio arriveranno gli asparagi dalla vicina Pernumia, poi le erbette di campo e via via un menù che guarda sempre più deciso alla bella stagione La vera cucina è quella che si basa sui prodotti del territorio, li sa rendere protagonisti e li prepara valorizzandone sapore e proprietà nutritive. Ed è proprio sull’eccellenza di questi che si fonda l’offerta del ristorante La Torre, grazie ad un rapporto costruito con i produttori in quarant’anni e passa di attività, sapendo riconoscere l’assoluta qualità e giocando un certo anticipo sulla stagione. Così all’ombra della Torre Civica di Monselice arriveranno presto gli asparagi, i primi, quelli coltivati nelle serre riscaldate con l’acqua termale della vicina Pernumia. Una delizia dal sapore delicato capace di marcare il palato in modo deciso. Inconfondibile. Soprattutto in abbinata con gli altri piatti forti

della casa come la sfogliatina con radicchio tardivo e robiola, il petto d’oca affumicato, l’insalata di carciofi, i ravioli con le erbette spontanee, la pasta e fagioli, il fegato alla veneziana, la battuta di filetto e il baccalà. Anche nei dolci la semplicità va a braccetto con la qualità, un valido esempio sono le frittelle fatte in casa e ripiene di crema, e a tenere tutto assieme ci pensano i vini, grazie ad una cantina impostata su 120 etichette dal buon rapporto qualità - prezzo. Difficilmente alla Torre non si torna, perché locali come questo restano impressi. Per la classe coniugata alla tradizione, per la bontà dei piatti, per l’accoglienza e per la rassicurante continuità con le stagioni.

Piazza Mazzini, 14 - 35043 Monselice (PD) • Tel. 0429 73752 www.ristorantelatorremonselice.it


STORIA E DINTORNI di Diego Crivellari

14 NOVEMBRE 1951 UNA PAGINA DI STORIA NAZIONALE

L’anno prossimo ricorreranno i settant’anni dalla “grande alluvione” e una celebrazione degna di questo nome dovrebbe porsi l’obiettivo di recuperare una memoria collettiva che rischia fatalmente di disperdersi in tanti rivoli localistici e aiutarci a riflettere sul delicato rapporto tra uomo e ambiente

È

il 14 novembre 1951 quando tra Canaro e Occhiobello il Po rompe e apre una breccia di oltre duecento metri: è questo l’inizio della tragedia del Polesine. Per undici giorni, fino al 25 novembre, le acque del grande fiume dilagheranno incontrastate, sommergendo praticamente l’intera provincia di Rovigo. La storia del Polesine è stata da sempre segnata, come è noto, dalle alluvioni e dai capricci delle acque dei suoi fiumi e, più in generale, dall’evolversi di un caos idrografico che ha caratterizzato la formazione dell’intero delta padano. Nel 589 lo storico Paolo Diacono - monaco, scrittore longobardo di lingua latina e autore della celebre Historia Langobardorum - poteva ad esempio descrivere la disastrosa alluvione dell’Adige destinata a sconvolgere l’intero paesaggio del basso

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Veneto, e conosciuta con il nome di “rotta della Cucca”, come un vero e proprio diluvio biblico, un diluvio d’acqua “che si ritiene non ci fosse stato dal tempo di Noè”. Nell’età contemporanea, la grande alluvione del 1951 è senz’altro uno degli eventi che segna la storia italiana del dopoguerra. Una catastrofe Catastrofe naturale naturale senza senza precedenprecedenti, una ti, tragedia umana e ambientale - un tragedia umana e centinaio di morti, ambientale che fece 180.000 sfollati un centinaio di morti un momento inciso e costrinse all’esodo nella memoria col180.000 persone lettiva degli italiani,


STORIA E DINTORNI ma anche un trauma che ha ridisegnato in profondità un territorio e la sua immagine condivisa. L’emergenza, gli aiuti, le polemiche, la ricostruzione, il ritorno, il destino dell’emigrazione - per tanti, per decine di migliaia, l’epopea dei Pregnolato, dei Crepaldi, dei Marangon ecc. che andranno ad arricchire con la loro secolare abitudine al lavoro e alla fatica le fabbriche e le terre La catena della del triangolo industriale, fraternità fu una Torino e il Piemonte in particolare. La grande alluviosottoscrizione ne è certamente l’elemennazionale e to che ha forgiato l’identità internazionale recente dei polesani, caupromossa dalla sa di un esodo oggi quasi Rai che raccolse dimenticato e delle trasformazioni non solo materiali milioni e di una - sono parole di Carmilioni di lire lo Levi - “misteriosa terra per i polesani contadina”. Nel 1951 il Polesine è un Nord povero, un microcosmo sconvolto dalla furia delle acque. Lo scrittore Carlo Levi è l’autore di uno dei reportage più incisivi sulla tragedia del Polesine. Racconta di un senso oscuro dell’incertezza delle acque che sembra dominare la vita stessa dei polesani, un popolo di contadini e braccianti che tuttavia è pur sempre pervaso da un sentimento naturalmente solidale, che riemerge con forza nelle tragedie e nelle avversità, come quando durante la Seconda guerra mondiale si ospitavano partigiani e prigionieri nelle povere case di campagna sfidando ogni sorta di pericolo. E così, di fronte ai tentennamenti nella gestione dell’emergenza, la voce di Levi può rievocare in quei giorni tragici l’antica sapienza idraulica della Serenissima e la voce esatta di un letterato e profondo conoscitore dell’ambiente polesano come Luigi Groto, il Cieco di Adria. Per lo scrittore trevigiano Giovanni Comisso, l’alluvione è un avvenimento di portata storica “che ha visto il

Paese unirsi come all’epoca del Piave”. Nelle sue fondamentali Cronache dell’alluvione, Gian Antonio Cibotto ricorda come a distanza di un decennio l’esodo della popolazione polesana si mantenesse costante. La popolazione residente che, nel 1951, Per lo scrittore Giovanni era di 357.963 abitanti, Comisso, l’alluvione è un avvenimento di portata scendeva ora a nemmeno 280.000 unità, con conse- storica “che ha visto il Paese unirsi come all’epoca guenze di carattere ecodel Piave” nomico “che non è difficile intuire”. E non sarebbe certo finita lì. Il libro di Cibotto è ancora oggi il documento più prezioso. Un resoconto asciutto, ma meno cronachistico di quanto si potrebbe supporre dal titolo, un resoconto capace di farsi autentica meditazione civile. Seguiamo con emozione, nelle sue pagine, le peripezie dell’autore che porta i soccorsi in barca, assiste alle concitate riunioni in prefettura, riceve telefonate e confidenze, osserva sulla piazza di Rovigo l’indifferenza dei pochi privilegiati, poi ritorna sulla barca, rischiando la vita, si indigna ancora per il modo in cui la tragedia viene trattata e trasformata in materia di superficiale consumo giornalistico. “Non ho mai letto tante sciocchezze sulla nostra gente polesana”. Walter Veltroni, in visita a Rovigo, ci confessò qualche anno fa che una delle prime parole della sua infanzia, un po’ misteriosa per lui ancora bambino, era stata “Polesine”. Fu il padre di Walter, il grande Vittorio, tra i pionieri della televisione italiana, ad annunciare in diretta alla radio, il 17 novembre 1951, la decisione della Rai di avviare una sottoscrizione nazionale e internazionale in favore delle popolazioni alluvionate: sarà il primo

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STORIA E DINTORNI

Cronache dell’alluvione, di Gian Antonio Cibotto

vagito di una trasmissione radiofonica felice e innovativa, La catena della fraternità, che raccoglierà milioni e milioni di lire per i polesani e lascerà una vasta eco. È l’Italia che, da pochi anni, si è lasciata alle spalle la rovina della guerra e si può identificare con i nuovi miti di massa - il Grande Torino, il dualismo Coppi-Bartali, il Festival di Sanremo - e anche con le imprese di una nuova soli-

darietà collettiva. Rileggendo le pagine della grande alluvione, tuttavia, dietro l’immediato impatto emotivo, la commozione generalizzata, la volontà di collaborare, la corsa agli aiuti, è facile scorgere - ad uno sguardo più attento - le tracce di una realtà sociale e politica ancora profondamente lacerata e le fratture, anche ideologiche, che attraversano il territorio polesano e l’Italia di quel periodo: il ruolo del governo democristiano e quello delle amministrazioni locali di sinistra, gli aiuti del blocco socialista e quelli degli americani, il tavolo della provincia e quello della prefettura - che, sentendosi scavalcata, decide di sopprimere il Comitato provinciale per l’emergenza tempestivamente costituito dal presidente

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Cibotto: “I feroci adriesi che fra bestemmie e invettive scagliano contro i rovigotti tutte le accuse possibili, perché qui il campanile prevale oltre la sventura” della provincia comunista, e poi ancora il conflitto tra la prefettura e il genio civile per il taglio della Fossa Polesella, decisione che, si sostiene, avrebbe potuto favorire il più rapido deflusso delle acque. E, dentro il territorio polesano devastato, il senso di abbandono e impotenza, il campanilismo che spesso contrappone cittadina a cittadina, paese a paese, e può essere perfino riattizzato dal dolore e dalla rabbia della tragedia che incombe. È ancora la voce di Cibotto che parla, molto chiaramente, nelle sue Cronache: “Più interessante invece potrebbe essere il riferire alcuni discorsi dei compagni di viaggio, feroci adriesi, che fra bestemmie e invettive scagliano contro i rovigotti tutte le accuse possibili, perché qui il campanile prevale oltre la sventura”. Oggi ci avviciniamo al settantesimo anniversario della grande alluvione. Una celebrazione non scontata e non retorica dovrebbe porsi l’obiettivo di recuperare una memoria collettiva che rischia fatalmente di disperdersi in tanti rivoli localistici e aiutarci a riflettere sul delicato rapporto tra uomo e ambiente, trasformando il pigro dibattito sul futuro del Po e dei suoi territori in una grande questione nazionale, una grande questione politica, economica, ecologica.


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LA MEMORIA DI CARTA di Roberto Soliman

THE DARK SIDE OF THE NIGHT, IL “VASO DA NOTTE” Ode al sibilo dalla nota calante che usciva dal vaso metallico man mano che si completava l’operazione fumante, propria dei gelidi inverni passati

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ndar per strada un tempo in bicicletta o mototo per la promozione, da mia zia in un paese vicino. rino presentava dei pericoli, non di camion o Conoscevo a memoria il percorso, evitavo tutti i grossi di automobili, ma di cani che ti rincorrevano, di sassi delle strade inghiaiate che ti facevano pizzicare gatti che ti attraversavano la strada e di vasi da notte in la camera d’aria e i cumuli di quelli più piccoli che ti fase di svuotamento dalle case affacciate lungo le vie. facevano perdere l’equilibrio. La bicicletta era nuova Ed era un’operazione quotidiana per tutti i numerosi perciò pedalavo felice ma attento a non recarle danni. vasi presenti nelle famiglie, nel fosso o nel gabinetto Ad un certo punto la strada girava a gomito attorno rustico vicino casa per i “bisogni più grossi”, verso la a una casa e io, percorrendo la stretta curva, ho fatto strada per il resto, risciacquo compreso. Lo si faceva appena in tempo a sentire un balcone del piano suanche per bagnare la strada bianca davanti casa, d’eperiore aprirsi e un vaso da notte uscirne sostenuto state, così la corriere e le poche auto circolanti non da un braccio femminile che lo rovesciava scaricando avrebbero sollevato tanta polvere! Ma questa pratica il liquido contenuto sul sottoscritto! Quasi traumatizcontinuava per tutto l’anno, meccanicamente: al ciclizato ho avuto la forza di frenare la bici e tentare una sta il compito di tutelarsi! Anche il catino con l’acqua educata protesta verso la titolare di quel braccio che per la toilette mattutina veniva svuotato violentemente si è prontamente eclissata chiudendo sbrigativamente in strada! Era un uso antichissil’infisso. Mi son presto reso conmo mancando la presenza, ma to che fortunatamente si trattava anche il concetto, di fognature, di acqua di risciacquo che grazie pensando forse di far fare all’acal sole di giugno si è asciugata qua il ciclo che partiva dal pozzo prima dell’arrivo dalla zia, ma le artesiano famigliare per farla toraltre volte che ho percorso quelnare alla terra dove era scavato la strada, giunto a quel punto, il pozzo stesso, un ciclo chiuso stavo con la bici dall’altra parte, “ante litteram”! contromano, lontano dal pericoUn buon mattino, da bambino, mi lo. Ancor oggi, passando in auto, recavo, con la biciclettina nuova Tra le classi agiate, il vaso da notte in porcellana osservo quel balcone chiuso, che mio padre mi aveva regala- di Cina e similari, era un apprezzato dono di nozze temendo che si apra pericolo-

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LA MEMORIA DI CARTA Pare che il primato per l’uso del vaso da notte debba essere riconosciuto agli egizi, nelle tombe ne sono stati ritrovati addirittura in oro segno che erano anch’essi un segno distintivo samente da un momento all’altro, ma forse si saranno dotati di servizi in casa. Tornando al vaso da notte, la sua storia millenaria pare partire dagli egizi, dove in alcune tombe ne sono stati ritrovati esemplari addirittura in oro, e nei secoli ha svolto la sua funzione anche nelle case dei potenti e dei ricchi, dove la stanza dei servizi però non era sempre presente. I romani furono all’avanguardia per l’igiene pubblica e privata, mentre l’alto medioevo ignorava tali precetti contribuendo alla diffusione di epidemie. Per salvaguardare l’intimità dei monaci nei monasteri vennero costruiti dei “loci comodi”, stanzini (costruiti sopra rudimentali pozzi circolari) divisi da pareti in legno, mentre nelle abitazioni private il vaso, o pitale, veniva collocato abitualmente sotto il letto per passare, più tardi, a nascondersi nel comodino. Sono stati creati in coccio, peltro, rame, piombo, vetro e ceramica, e in ferro smaltato per la gente comune. I vasi da notte hanno costituito un accessorio igienico di prima necessità, pur modificando nel tempo la loro forma di passo con le mode, il prestigio e il rango sociale di chi li usava. Erano celati agli occhi indiscreti per la gente comune, mentre potevano diventare oggetto di distinzione per le classi più abbienti venendo dotati di rilievi e dorature e collocati su seggiole di lusso con ori e merletti su cui svolgere la nobile attività.

Solo a partire dal XVIII secolo si crearono in Francia le prime stanze da bagno riservate alle classi agiate, ma bisognerà attendere un editto del 1833 perché venga avviato un piano di costruzione di fognature pubbliche nel centro delle grandi città

Nelle stanze da letto il vaso da notte veniva riposto nel comodino. Un gesto che riparava dai tanfi ma anche un segno pudico che anticipa quella privacy che si concretizzerà pienamente solo con l’invenzione del water closet

Nel rinascimento nacque il vaso portatile da viaggio e quello da guerra, ma anche il vaso personale munito di chiave come quello posseduto dalla regina Elisabetta I d’Inghilterra! Nel Seicento le seggiole si moltiplicarono ed assunsero vari nomi; vennero fabbricate con diverse fogge, a poltroncina e perfino a dondolo: Luigi XIV ne possedeva centinaia, per la Corte e anche per gli ospiti. Inoltre, tra le classi agiate, il vaso da notte in porcellana di Cina e similari, era un apprezzato dono di nozze, oppure potevano essere di metallo prezioso, ornati di stemmi patrizi. Ma lo svuotamento era sempre una pratica manuale mattutina da farsi nelle strade, creando odori nauseabondi e disagi di ogni genere, che le

Nel Rinascimento nacque il pitale portatile da viaggio e quello da guerra, ma anche il vaso personale munito di chiave come quello posseduto dalla regina Elisabetta I d’Inghilterra 57


LA MEMORIA DI CARTA poche persone addette alla pulizia cittadina facevano fatica a contenere. Pensiamo che a quei tempi animali come cani e anche maiali avevano libera circolazione per le vie! Solo a partire dal XVIII secolo si crearono in Francia le prime stanze da bagno riservate alle classi agiate, ma bisognerà attendere un editto del 1833 perché venga avviato un piano di costruzione di fognature pubbliche nel centro delle grandi città francesi e molto più tardi nel resto dell’Europa. Nel ‘900 infine, avvenne la diffusione cittadina del water closet, mentre nelle campagne restò indispensabile, fino a mezzo secolo fa, il classico vaso da notte in ferro smaltato o in cotto, mentre di giorno si usava una costruzione rustica, senza luce, senza WC, senza acqua e senza carta igienica sostituita da erbe di campo dalle larghe foglie, o dal torsolo del granoturco in inverno! Poteva essere una piccola stanzetta vicino al pollaio, con un buco nel pavimento, con sottostante fossa da svuotare 2 - 3 volte all’anno, oppure essere costruita con pali in legno e pareti e tetto in canne di mais direttamente sulla concimaia o, infine, con due spesse tavole poste attraverso a un fosso, a giusta distanza l’una dall’altra. Le piante e i rovi circostanti creavano una barriera visiva garantendo la privacy, mentre le piogge periodiche praticavano la pulizia di quel tratto di fosso. Per i frequentatori di osterie vennero costruiti, nelle loro vicinanze, i maleodoranti “vespasiani”, finalmente eliminati quando anche i locali pubblici dovettero dotarsi di servizi igienici, disinfettati dalla altrettanto puzzolente “Creolina”. Con la ripresa economica anche le case contadine vennero dotate di un servizio igienico e i vecchi vasi da notte vennero utilizzati come scaldaletto, per gettarli definitivamente nel ferro vecchio quando si fecero gli impianti di riscaldamento. Ma gli anziani difficilmente si adattarono a queste modernità, preferendo, di giorno, recarsi al “numero 100”, o in “ufficio” come lo chiamavano, e concedersi una rilassante “fischiatina al chia-

I vespasiani vennero eleminati quando tutti i locali pubblici dovettero dotarsi di servizi igienici

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Per buona parte dell’età moderna a svolgere la medesima profana ma essenziale funzione dell’attuale water fu la seggetta, una piccola cassa portatile in legno con all’interno un vaso. Nel XVII secolo la Reggia di Versailles ne disponeva più di duecento

ro di luna” nelle sere primaverili ed estive, in fondo al “zelese”, prima di coricarsi! (Chissà se Beethoven si è così ispirato per la sua celebre “Sonata”!) Però, a noi figli del dopoguerra, questa pratica rilassante non era concessa e ci facevano pure paura dicendoci: “… varda che el can el te lo mòrsega!”, perciò ci rimaneva, prima di coricarci, di generare il sibilo di una nota con andamento calante, che usciva dal vaso metallico man mano che si completava l’operazione fumante, propria dei gelidi inverni passati. Ai giorni nostri il vaso da notte lo si può trovare in qualche mercatino d’antiquariato, ma non è richiesto come il set: catino, specchiera e brocca dell’acqua per la toilette mattutina. Retaggi di un tempo di quando “eravamo povera gente”, retaggi che non hanno i ricchi, alcuni dei quali collezionano, a centinaia, questo protagonista dell’altra faccia della nostra storia, odoroso ma indispensabile. Oggi le case sono dotate di più bagni, alcuni vere e proprie opere d’architettura, dove si trascorrono lunghi momenti per l’igiene personale, diventando anche ampie stanze per il relax, magari con idromassaggio Jacuzzi e sottofondo musicale, rubando spazio alla cucina, sempre più piccola e poco utilizzata dalle coppie moderne, costrette alla mensa aziendale e che, inoltre, preferiscono cenare in pizzeria o al fast food, per cui per dirla con le parole di Marco Paolini usate ne Il bestiario veneto: “… ieri mangiavamo in casa e ca... vamo fuori, oggi ca... iamo in casa e mangiamo fuori… è il progresso!”


SCOPRIRE IL TERRITORIO a cura della redazione

A SPASSO NELLE TERRE DEI CARRARESI

Questa pubblicazione ha ricevuto il patrocinio di: This publication has received the patronage of:

Provincia di Padova

Comune di Comune di Comune di Comune di Comune di Comune di Albignasego Cartura Casalserugo Conselve Due Carrare Maserà

Comune di Pernumia

Comune di San Pietro Viminario

Tra arte, paesaggio e prodotti tipici

U

A SPASSO NELLE TERRE DEI CARRARESI tra arte, paesaggio e prodotti tipici

A WALK IN THE LANDS OF THE CARRARESI between art, landscape and typical products

THINK! soluzioni creative

n progetto di promozione e visitazione del territorio, realizzato dal Speak Out e sostenuto economicamente da alcune aziende intercettate dai percorsi. Un modo per raccontare la ricchezza di questa terra e proporre quattro itinerari per conoscerla meglio sia nei suoi aspetti culturali e paesaggistici sia nell’offerta dei prodotti tipici, vista la presenza di tante storiche realtà artigianali e agroalimentari. La terra dei Da Carrara, del resto, è una terra ricca e oggi si candida ad essere una delle aree più interessanti per la produzione di vini. Non a caso l’itinerario che vi proponiamo in questo numero porta il titolo di “Percorso dei Signori e delle Cantine” e coniuga al passato, legato alla storica famiglia che fece di Padova e del suo circondario una delle capitali intellettuali e politiche del XIV secolo, un presente che propone una terra bella ed ospitale, capace di conservare le proprie radici nelle tante eccellenze che essa produce. Lungo il tracciato che vi proponiamo troverete nobili residenze diventate museo, oppure ville che oggi ospitano cantine o ancora esposizioni permanenti che conservano lo stretto rapporto tra l’uomo, il territorio e l’acqua e piccole realtà rurali che non hanno perso il loro fascino durante i secoli.

Pubblicazione realizzata da Speak Out Srl editori di “Con i piedi per terra” Publication realized by Speak Out Srl publishers of “Con i piedi per Terra”

OUT

www.conipiediperterra.it

Una cartina in due lingue collegata al web da un Qr-Code con le proposte di itinerario, le road map e le schede con la presentazione dei siti di interesse storico, architettonico e paesaggistico dell’area tra Padova e i Colli Euganei

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SCOPRIRE IL TERRITORIO

PERCORSO DEI SIGNORI E DELLE CANTINE 11 CANTINA LA MINCANA CASTELLO DEL CATAJO

CHIESA BATTAGLIA TERME

AZIENDA 10 AGRICOLA SALVAN

MUSEO NAVIGAZIONE FLUVIALE

23,5 Km

10 VINI MONTICELLO

VILLA GRIMANI

MULINO DI PONTEMANCO VILLA SPERANDIO

VILLA CAPODAGLIO ABBAZIA SANTO STEFANO PONTE DI RIVA

14 APICOLTURA MIELE PIÙ

13 RISTORANTE PIZZERIA GIÀ CHE CI SEI

CHIESA ASSUNTA VILLA BUZZACCARINI

PIEVE SANTA GIUSTINA

CHIESA SAN PIETRO

DUE CARRARE - BATTAGLIA TERME - PERNUMIA - SAN PIETRO VIMINARIO - CARTURA - DUE CARRARE L’itinerario che vi proponiamo si snoda nelle terre dei Da Carrara, signori di Padova nel XIV secolo. Un tempo insediati nel poderoso castello di Carrara San Giorgio, di cui non restano che le rovine, nel 1027 la ricca famiglia dei Da Carrara finanziò la costruzione dell’Abbazia di Carrara Santo Stefano, oggi nota per essere sepolcro del potente Marsilio I. Da visitare è sicuramente il Castello del Catajo e le sue 350 stanze. Altro sito di sicuro interesse per comprendere il rapporto storico di questo territorio con l’acqua è il Museo della Navigazione Fluviale a Battaglia Terme.

Fotografando con il tuo smatphone il QRcode qui a fianco avrai accesso alla roadmap del percorso e alle schede di presentazione dei siti di interesse storico, architettonico e paesaggistico, nonché le aziende aperte per lo shopping e le loro proposte merceologiche 60


SCOPRIRE IL TERRITORIO

I SITI D’INTERESSE STORICO E CULTURALE INTERCETTATI DAL PERCORSO IL CASTELLO DEL CATAJO, la reggia dei capitani di ventura

IL MUSEO DEI BARCARI di Battaglia Terme, tra brìcole e tradizione

Un secolo dopo la disfatta carrarese contro i veneziani, proprio nei pressi delle terre dei Da Carrara il condottiero della Serenissima Pio Enea I degli Obizzi decise di costruire un palazzo, a metà tra il castello militare e la villa principesca, che esaltasse la gloria della sua famiglia: fu così che nel 1570 nacque il Castello del Catajo. Una dimora estiva, impreziosita dagli affreschi di Gian Battista Zelotti discepolo di Paolo Veronese, che ha mantenuto per secoli intatto uno dei più spettacolari cicli di affreschi delle ville venete.

Poco lontano da Due Carrare, si trova il Museo della Navigazione Fluviale di Battaglia Terme: uno spazio espositivo che raccoglie storie, materiali e ricordi dell’antica professione dei barcari. Un viaggio nel mondo del trasporto fluviale che mostra l’attività cantieristica, i tipi di imbarcazioni, i mezzi di propulsione e la faticosa vita di bordo di coloro che abitavano lungo le rive del canale Battaglia. Prima dell’avvento del trasporto ferroviario e su gomma, infatti i burchi dei barcari carichi di trachite e granaglie passavano in questo dinamico porto fluviale, scrivendo pagine di storia e tradizione.

ABBAZIA DI S.STEFANO il mausoleo dei Signori di Padova

PONTEMANCO, l’antico borgo nato dalla forza dell’acqua

L’Abbazia di Santo Stefano, gioiello eretto a Due Carrare sulle fondamenta di un oratorio altomedievale, è tra i più antichi monasteri della provincia di Padova. Un documento del 1027 infatti riporta la donazione compiuta da Litolfo Da Carrara, capofamiglia dei Carraresi, per la costruzione del monastero. L’abbazia, che conosce il suo splendore durante la signoria dei Da Carrara a Padova, viene saccheggiata nel 1405 per volere dei Veneziani ma conserva tuttora il mausoleo di Marsilio Da Carrara, secondo signore di Padova.

A Due Carrare, lungo le sponde del Biancolino, sorge il piccolo borgo medievale di Pontemanco, custode del mulino più antico del Nord Italia, menzionato nel 1338 nel testamento di Marsilio da Carrara, signore di Padova. In questo borgo proto-industriale, con le granaglie lavorate dal mulino si svolgevano numerose attività artigianali tanto che, nel 1539, si contavano ben dodici macinatoi. A contribuire all’attività molitoria furono anche i nobili Grimani, alloggiati nella villa con oratorio prospiciente il mulino, poco distanti dalla settecentesca Villa Sperandio, nascosta nella parte meridionale del borgo.

Il Percorso si snoda ai piedi dei Colli Euganei in terre famose per i pregiati vini per questo non è da trascurare l’opportunità di una degustazione presso: • La Mincana, azienda vitivinicola che prende il nome dall’omonima villa che fu dei Dolfin e propone etichette di vini nel segno della tradizione enologica del territorio • Cantina Monticello, cantina di consolidata storia ed esperienza: dalla cura del vigneto, alla selezione delle uve vendemmiate a mano fino alla vinificazione per bottiglie di altissima qualità • Azienda Agricola Salvan Vigne del Pigozzo, dal 1914 il vino dei Colli Euganei. In cantina nascono vini, soprattutto rossi che riscaldano il cuore e rallegrano lo spirito • Azienda Apicoltura Miele Più, per chi al vino preferisce un altro prodotto della Natura. Qui il patto stretto con le api porta alla produzione di ottimo miele artigianale dei Colli Euganei

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AMICI CON LE ALI di Aldo Tonelli

Il nido

FUORI STAGIONE Che “una rondine non fa primavera” è sempre più vero, i cambi climatici, infatti, stanno sempre più rivoluzionando la presenza degli uccelli in determinate stagioni e anche il calendario delle nidificazioni

I

cicli vitali sono strettamente legati al mutare delle stagioni ma negli ultimi anni alle nostre latitudini sembra non solo che non ci siano più le mezze stagioni ma addirittura sia difficile distinguerle, basandoci sul confronto tra le date del calendario e la realtà climatica che viviamo. Per gli animali sono importantissime le temperature sulle quali regolano il comportamento riproduttivo e l’avifauna ci sta indicando con esempi sempre più frequenti di quella che una volta veniva definita “eccezionale nidificazione fuori periodo”. Alcune recenti osservazioni possono farci meglio comprendere quello che sta succedendo. La Cinciallegra è un piccolo e colorato passeriforme presente da noi tutto l’anno tanto in città quanto in campagna. Si riproduce in cavità, naturali e artificiali, di norma da aprile a luglio, portando a termine generalmente una o due covate. Spesso usufruisce di casette nido artificiali posizionate in giardiSegnalazioni ni o su case, visto che di nidificazioni è una specie che ha precoci o tardive poco timore dell’uomo. arrivano da tutta Il 6 dicembre 2019 si è involata da un coloratisItalia

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simo nido artificiale posto al terzo piano di una casa a Marcon (Ve) la terza nidiata di una coppia di Cinciallegre. Questa coppia ha deposto in ottobre-novembre le uova e grazie alle temperature ancora elevate in quel periodo ha avuto successo nell’impresa. Altra recente osservazione è quella che ho effettuato nel Delta del Po il 29 dicembre 2019 su una coppia di Svassi maggiori, una specie legata agli ambienti acquatici.

Il periodo di riproduzione degli svassi inizia tra la fine di febbraio e marzo, alla fine del 2019 le coppie stavano ancora svezzando le nascite autunnali


AMICI CON LE ALI

Pievani ci dice che probabilmente alla fine noi sulla Terra ci resteremo, il problema è come Per questa specie il periodo della riproduzione inizia tra la fine di febbraio e marzo, con in seguito la cova su nidi galleggianti e nel corso dell’anno possono portate a termine 1 o 2 covate con pulcini precoci e semi-nidifughi, accuditi da entrambi i genitori. I giovani sono in grado di volare ad un’età superiore alle 10 settimane, ma vederne due ancora imploranti e alimentati dai genitori a fine anno mi ha sorpreso. Questi due sono casi isolati? Segnalazioni di nidificazioni precoci o tardive arrivano da tutta Italia. Uno dei primi uccelli nidificanti è l’Allocco, un rapace notturno che inizia la riproduzione a partire da gennaio-febbraio, anche se nel passato sono stati osservati casi sporadici di anticipi su queste date: ora non è poi così raro trovare giovani che

abbandonano il nido in dicembre! Gli Aironi cenerini sono i primi ardeidi che nidificano ma negli ultimi anni sembra sia in atto un anticipo di circa un mese rispetto alla norma. Monitorandolo in più anni nelle garzaie, luogo in cui nidificano collettivamente diverse specie di aironi con abitudini coloniali, si è visto che la deposizione e la nascita non ha luogo in marzo-aprile ma a febbraio-marzo. Anche tra i grandi rapaci si segnalano quest’anno alcune coppie di Grifoni già in cova a gennaio e, a detta degli studiosi che seguono le colonie nidificanti in Italia, in anticipo di almeno un mese sulle date “canoniche” di inizio nidificazione per una specie che ha un ciclo riproduttivo tra i più lunghi tra gli uccelli. Già da novembre devono iniziare a difendere e sistemare il vecchio nido o costruirne uno nuovo, nel caso decidano di spostarsi. In dicembre-gennaio i grifoni volano con rami nel becco, destinati a risistemare la grande Lo scorso ottobre-novembre una coppia di cinciallegre ha nidificato e grazie alle temperature, ancora elevate in quel periodo, l’impresa ha avuto successo (foto di Simonetta Bertato)

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AMICI CON LE ALI

Coppia di Grifoni

piattaforma del nido dove per oltre otto mesi si svolgeranno le loro principali attività, devono fare in fretta se vogliono che i giovani siano pronti al volo a fine estate; ritardare significherebbe farli volare in autunno con condizioni molto peggiori per il volo e la ricerca del cibo. Queste osservazioni possono essere considerati indicatori di un cambio di temperatura nell’arco annuale e gli animali, come sempre, cercano di adeguarsi e adattarsi: chi non lo fa è destinato alla scomparsa. E Tra i grandi rapaci la specie Uomo saprà si segnalano alcune adattarsi? Nel 2019 è il libro “La Terra coppie di Grifoni già uscito dopo di noi” di Telmo in cova a gennaio Pievani, professore ordinario presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, in cui ci propone un esercizio: immaginare il nostro pianeta senza i sedicenti sapiens. Pievani ci dice che probabilmente alla fine noi sulla Terra ci resteremo, il problema è come. Se l’umanità non scomparirà vivrà in condizioni sempre peggiori e dato che siamo l’unico fattore di forte perturbazione della biosfera che ha coscienza di esserlo il primo atto, consapevoli che il pianeta ha fatto a meno di noi in passato e potrebbe fare a meno di noi in futuro, è quello di assumerci piena cognizione delle conseguenze delle nostre azioni.

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Uno dei primi uccelli nidificanti è l’Allocco, un rapace notturno che inizia la riproduzione a partire da gennaiofebbraio. Oggi non è poi così raro trovare giovani che abbandonano il nido già a dicembre




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