Con i Piedi per Terra | 18. CONSELVANO

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N. 18 - Agosto - Settembre 2016 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD

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Numero 18

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Hanno collaborato a questo numero: Silvano Bizzaro Emanuele Cenghiaro Alberto Dacome Mattia De Poli Mauro Gambin Michele Grassi Renato Malaman Adriano Mollica Eliano Morello Roberto Soliman Mario Stramazzo Efrem Tassinato Aldo Tonelli Martina Toso Beatrice Zambolin

Progetto Grafico:

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8 ECONOMIA

Aziende al tempo della crisi

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INGIROPIEDANDO

Tempo di Vendemmia

34 ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE

La giuggiola un tonico eccellente

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PANORAMA GASTRONOMICO

Stampa: Stampe Violato snc Bagnoli di Sopra (PD) Tel 049 9535267 www.stampeviolato.com info@stampeviolato.com Giornale chiuso in redazione il 29 Agosto 2016 Tiratura: 5000 copie Diffusione: periodico bimestrale Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC) n. 23644 del 24.06.2013 Iscrizione al tribunale di Padova n. 2329 del 15.06.2013 Iscrizione del marchio presso Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (U.I.B.M.) n. PD 2013C00744 del 27.06.2013 Tutti i diritti sono riservati. Gli articoli possono essere riprodotti solo con l’autorizzazione dell’editore e in ogni caso citando la fonte. Gli articoli firmati impegnano esclusivamente gli autori. Dati, caratteristiche e marchi sono generalmente indicati dalle case fornitrici (rispettivi proprietari) In copertina: “Ho visto andar via le rondini” di Mauro Gambin

La patata americana in cucina

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EDITORIALE di Mattia De Poli

La paura e il coraggio di cambiare Ogni cambiamento è una trasformazione che dobbiamo cercare di valorizzare

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ettembre, andiamo: è tempo di migrare”. La condizione dei pastori abruzzesi, immortalata dal celebre incipit della poesia di Gabriele D’Annunzio, non era (e in parte ancora oggi non è) molto diversa da quella in cui si trovavano i lavoratori agricoli di tante regioni italiane, che il 29 settembre, in coincidenza con la ricorrenza di San Michele, allo scadere dei contratti di affitto spesso erano costretti a cambiare casa e, appunto, “fare sammichiele”. L’esperienza del cambiamento è radicata nella storia degli uomini, ma anche nella vita del singolo individuo: è il passaggio dal giorno alla notte, da una stagione all’altra, e così di settimana in settimana in settimana, di anno in anno. In natura, però, il tempo ha spesso un andamento ciclico, ogni cambiamento è per se stesso (quasi perfettamente) reversibile. Per l’uomo il tempo non ha uno sviluppo circolare (o elicoidale), ma lineare, con un inizio e una fine, ed ogni tentativo di ricreare condizioni precedentemente sperimentate è vano, perché tutte le esperienze lasciano una traccia nella memoria che non possiamo resettare semplicemente premendo un pulsante. Quando arriva l’autunno, subentra la nostalgia dell’estate, e così avviene di fronte a molti cambiamenti che sono percepiti come una perdita. E così anche i tradizionali riti di passaggio della società umana vengono messi in discussione: coppie di persone innamorate rifiutano di sposarsi perché - dicono - il matrimonio è la tomba dell’amore. Il matrimonio è un cambiamento, una trasformazione, in cui i coniugi sembrano destinati inevitabilmente a perdere entrambi qualcosa.

Eppure Dante Alighieri, nel tanto disprezzato “Paradiso” della Divina Commedia, racconta di uno sposalizio e di un giovane che era innamorato della sua sposa e dopo il matrimonio «di dì in dì l’amo più forte». Certo, qualcuno obietterà che lui era un santo, Francesco d’Assisi, che lei era una figura immaginaria, la personificazione della povertà, e che insomma non si tratta di un matrimonio immaginario. Ma - m atrimonio o non matrimonio - questo rimane un chiaro esempio di cambiamento volontario, che comporta - paradossalmente - non una perdita ma un arricchimento. Accettare di non rimanere ancorati alla condizione presente è il primo passo per un cambiamento sereno: esso può avvenire per una nostra scelta o, più spesso, per un’imposizione esterna, ma l’apertura e la disponibilità ad esso lo rendono sicuramente più sopportabile. Il passo successivo è quello di “vedere il bicchiere mezzo pieno”. Lo sapevano già gli antichi Greci: “Tutto scorre”. Allora dobbiamo soffermare la nostra attenzione sulle novità che ci porta la corrente, piuttosto che su quello che ci ha portato via. Ma tanto più nella patria del Gattopardo e di Machiavelli c’è un rischio: l’abilità di “simulare e dissimulare” può indurre l’uomo ad accettare, anzi a promuovere, un cambiamento radicale nella consapevolezza che in realtà non sta cambiando o non cambierà nulla. Tuttavia, il tempo - si è detto - per l’uomo ha uno sviluppo lineare e chi avrà accolto favorevolmente il cambiamento sarà quello che avrà fatto più strada e giungerà alla fine stanco, affaticato, ma felice e ricco di esperienze.

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PAESAGGI SONORI di Alberto Dacome

La grande illusione Allontanarsi dal paesaggio significa perdere l’abitudine a saperlo leggere ed interpretare. È così che può maturare la convinzione di vivere in un paesaggio naturale quando, invece, è del tutto artificiale

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a generazioni noi Veneti della bassa viviamo immersi in un paesaggio che consideriamo naturale, nel quale ci sentiamo intimamente inclusi. Basta percorrere poche centinaia di metri “fuori” da uno qualsiasi dei nostri piccoli e numerosi centri abitati per ritrovarsi circondati da canali, strade tortuose, filari di alberi e corti rurali, dove riconosciamo, quasi gelosamente, le nostre radici. Ma questo è il paesaggio sensibile, quello naturale sarebbe da individuare nelle aree periferiche delle città, ossia quei “non luoghi” abbandonati e tristi che attendono di essere realizzati. La nostra campagna invece è uno spazio artificiale che non esisterebbe senza l’opera di generazioni e generazioni di “scarriolanti”, braccianti e imprenditori agricoli che l’hanno costruita e modificata. L’assetto geografico della porzione di pianura tra Adige e Colli Euganei deve gran parte della sua conformazione a una formidabile operazione di ricomposizione idraulica voluta dalla Serenissima tra il Cinquecento e il Seicento. Fino ad allora tutta la zona tra Megliadino, Piacenza, Ponso, Vighizzolo

fino Anguillara e Pozzonovo era semidisabitata e occupata da laghi e paludi, ma con l’intervento decine di migliaia di ettari furono artificialmente “retratti” alle acque divaganti, e resi disponibili per l’agricoltura. Fu così che lo stato Veneto raggiunse, verso la metà del 1600, l’autosufficienza alimentare. Fu un’enorme e intelligente operazione politica, intrapresa come risposta ai mutati equilibri internazionali del tempo. Quell’intervento, tuttavia, si è mostrato sostanzialmente adeguato fino all’avvento delle macchine idrovore, a cavallo tra ‘800 e ‘900, quando nell’alveo secentesco del Fratta-Gorzone cominciarono a essere riversate le acque sollevate dalle nostre idrovore, e all’espansione urbanistica seguita alla seconda guerra mondiale, quando le aree più cementificate del vicentino-veronese, diventate impermeabilizzate, hanno cominciato a scaricare più velocemente nei fiumi le acque di pioggia. Accade negli ultimi anni che durante gli eventi di pioggia maggiori l’attivazione delle numerose idrovore esistenti va a raddoppiare la portata naturale del fiume, resa maggiore da monte,

In alto: La grande “Carta del Gorzon” custodita a Stanghella è un documento storico di eccezionale importanza: nonostante i suoi quattrocento anni di età, rappresenta in maniera precisa ed efficace l’idrografia e l’uso del suolo del tempo

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PAESAGGI SONORI e ciò comporta maggiori livelli idrici e prolungamenti delle portate al colmo tali da compromettere la stabilità degli argini. Per evitare la tracimazione, negli ultimi anni gli impianti idrovori sono stati ripetutamente costretti a prolungati “fermi macchina” che causano vasti allagamenti delle campagne (durante la piena di febbraio 2014 il fermo macchina del solo impianto idrovoro Cavariega, che solleva le acque del Montagnanese in Fratta, ha causato un allagamento su circa 8000 ettari di terreni agricoli in parte già seminati, con ristagno di 65 milioni di m3 per circa due settimane). Il punto cruciale su cui bisogna soffermarsi è questo: l’assetto idrogeologico quest’area è sostanzialmente artificiale, creato a partire da uno stato iniziale di laghi, paludi e aree allagabili, che fu “retratto” mediante operazioni d’ingegneria idraulica pianificate a tavolino, con lo stato “selvatico” originale cancellato e sostituito da fiumi, canali e fossi scavati a mano, campagne sistemate a schiena d’asino e corti sparse. È un territorio geologicamente “giovane”, e come tale soggetto a processi attivi (subsidenza, erosione, suscettibilità dei corpi arginali a sfiancamenti, sormonti o sifonamenti). Il “nuovo” equilibrio rurale creato dalle bonifiche richiede, come ogni altra opera o manufatto costruito artificialmente, continui e discreti interventi di manutenzione di un territorio fragile. L’avvento della meccanizzazione agricola negli ultimi decenni ha però spopolato le campagne, e causato l’abbandono delle non più redditizie pratiche di sfalcio degli argini. La minor presenza di residenti comporta minor capacità di riconoscere tempestivamente fenomeni di dissesto e minor controllo sulla fauna selvatica, che potenzialmente è in grado di scavare pericolose “tane” nei corpi arginali. Viceversa lo sviluppo economico delle zone più popolose poste a monte ha edificato e impermeabilizzato vaste aree, e questo ha comportato aumenti nell’altezza e durata delle piene nei fiumi a valle. Gli argini sono ora sottoposti, con frequenza quasi annuale, a impreviste condizioni di stress idraulico.

Gli eventi naturali degli ultimi anni, di qualsiasi genere, sono stati abbondantissimamente documentati su tutti i social media, e una moltitudine di persone ha generato valanghe d’immagini, commenti, pareri e giudizi, molto spesso superficiali o quanto meno ingenui. La reazione comune di fronte all’evento è quasi sempre di sorpresa, accompagnata da accuse di incompetenza verso chi amministra la cosa pubblica. Per una settimana o due, poi tutto torna come prima. Certamente l’investimento sulla prevenzione “paga”, in termini di consenso, molto poco agli amministratori: “perché spendere risorse rilevanti su azioni che, se ben realizzate, producono un risultato invisibile? Un lampione vale otto voti, scavare un fosso equivale a perderne quattro”. In termini di consenso, se piove e la gente va sott’acqua, portare soccorsi o accusare la controparte pagherà politicamente. Se invece scavo un nuovo canale e piove, l’acqua scorrerà senza danni, ma in questa normalità solo pochi potranno riconoscere l’effetto benefico del lavoro eseguito. È una grande illusione attribuire la colpa delle disgrazie solo alla mancanza di prevenzione, e a un livello insufficiente degli interventi. Come se fosse solo colpa di misure insufficienti nelle costruzioni, e che la sicurezza assoluta sia solo questione di costi. Senza dubbio bisogna rinforzare gli argini, per lo stesso motivo che bisogna pulire i boschi per evitare incendi, non abitare sotto le frane, costruire case antisismiche. Ma questo non potrà mai significare “sicurezza totale”: sostenibilità comprende anche l’accettazione che il “rischio zero” non potrà mai esistere. Non tutto è prevedibile, e per quanto si progetti con cura, non tutto è domabile. Abituati ad avere abbondanza di tecnologia, salute e cibo, dobbiamo, con umiltà, ridimensionare l’illusione del dominio sugli eventi, tornando a quanto avevano intuito Lucrezio e Plinio già nell’antica Roma: la natura non agisce pensando all’uomo, per cui se l’uomo si sente defraudato è solo colpa sua, avendo pensato di avere diritti che, invece, non aveva.

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CONSORZIO DI BONIFICA ADIGE EUGANEO

Riorganizzazione, progetti e appuntamenti Via libera dalla Regione per la progettazione di fattibilità delle diversioni idrauliche in Adige di Sant’Urbano ed Anguillara Veneta, continua l’efficientamento operativo dell’ente ma ci sono anche forti preoccupazioni per l’approvvigionamento di acqua al LEB a ottobre Al Consorzio di Bonifica Adige Euganeo si stanno consolidando alcuni progetti che riguardano sia le opere pubbliche, legate alla bonifica, che la riorganizzazione interna dell’ente, avviata per l’efficientamento del servizio e per il contenimento della spesa. Andando per ordine, il primo importante risultato riguarda il progetto inerente a due diversioni idrauliche che permetterebbero di scaricare le acque piovane in Adige. La Regione Veneto, infatti, ha autorizzato l’inserimento dei progetti che riguardano i due interventi nel Repertorio Nazionale per la Difesa del Suolo RENDIS, dopo che il tema era stato ampiamente dibattuto e approfondito insieme all’assessore regionale Giuseppe Pan e con il direttore Mauro Grassi dell’Unità di Missione Governativa, oltre che con i parlamentari e consi-

glieri regionali del territorio. “Questa è senz’altro una buona notizia - spiega il presidente del Consorzio di Bonifica Adige Euganeo, Michele Zanato - perché l’intervento in questione consentirebbe di mettere in sicurezza dagli allagamenti un territorio vasto 26 mila ettari che comprende i comuni di Ponso, Carceri, Vighizzolo, Piacenza D’Adige, Sant’Urbano, Boara Pisani e Anguillara Veneta. Attraverso la realizzazione di questi due diversivi, le cui immissioni verrebbero collocate a Sant’Urbano ed Anguillara Veneta, gli eccessi delle acque piovane che interessano questo territorio verrebbero convogliate direttamente in Adige, senza appesantire, come avviene ora, il corso del Fratta. Infatti, oggi, uno dei problemi importanti da risolvere riguarda l’insufficiente corso di quest’ultimo per

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Sede consortile a Este

lo smaltimento delle acque meteoriche. In occasione di importanti rovesci, come è capitato negli ultimi anni, le idrovore dell’area interessata vengono fermate per evitare la tracimazione degli argini e inevitabilmente le campagne finiscono sott’acqua. A questo importante aspetto legato alla tenuta degli argini del Fratta, con la realizzazione del progetto di diversione, si metterebbero inoltre in sicurezza le due grandi discariche/trattamento rifiuti presenti nel territorio, sarebbe inoltre eccezionalmente utile in caso di rotte degli argini dei tratti finali dei fiumi Frassine e dello stesso Fratta, perché potrebbero accelerare il prosciugamento dell’aree eventualmente alluvionate”. Per quanto riguarda il finanziamento dell’intervento, invece, esistono buone possibilità che possa essere fatto rientrare nel contesto di “ITALIA SICURA”, il piano di interventi messo a punto dal Governo per superare la logica delle emergenze e sostenere la prevenzione su rischi legati a frane e alluvioni, in quanto i progetti messi a punto dal Consorzio già detengono diversi requisiti previsti dalla graduatoria nazionale. L’argomento rientra anche nel “Contratto di Fiume Adige Euganeo” e sarà trattato nella prossima assemblea dei 70 sindaci del territorio, prevista ad ottobre, e sarà inoltre uno degli argomenti principali degli incontri che si terranno a Merlara il 4 ottobre, l’11 a Bovolenta e il 18 a Battaglia Terme, insieme agli altri aspetti che riguardano il rapporto acqua e territorio, come le convenzioni che si stanno portando avanti per la manutenzione straordinaria di alcuni fossi di rilevante utilità pubblica, per lo scolo delle acque. Infatti, il rapporto Consorzio e Comuni del comprensorio, per questo tipo di interventi, è stato oggetto di recenti perfezionamenti e formalizzato in un servizio trasparente che, alle Amministrazioni richiedenti, costa giusto le spese vive per l’intervento di mezzi e operatori. Importanti interventi di riorganizzazione stanno riguardando anche la struttura interna del Consorzio. Al blocco del turn-over dei dipendenti ha fatto seguito un nuovo piano produttivo degli operatori, che dovranno attenersi ad un preciso calendario di interventi per l’ottimizzazione del servizio. In entrambi i casi si tratta anche di dare luogo ad economie

che con il concorso di finanziamenti possa dare luogo ad un corposo piano di investimenti finalizzato all’aggiornamento ed al potenziamento del parco mezzi. “Ci stiamo dando da fare - conclude il presidente Zanato - e se da una parte il lavoro che stiamo svolgendo ci consente di pianificare un futuro con un servizio sempre più efficiente da parte del Consorzio, dall’altra ci stiamo occupando anche di imminenti emergenze. Insieme al Consorzio LEB stiamo sensibilizzando gli enti e le associazioni agricole del comprensorio, per cercare di mitigare il più possibile i problemi che potrebbero insorgere a causa dell’interruzione della fornitura di acqua derivata dall’Adige al Leb, a causa di lavori che dovranno essere approntati al canale artificiale ENEL nel mese di ottobre. Enel dunque chiuderà i rubinetti al LEB che a sua volta distribuisce acqua nei fiumi regionali Fratta, Frassine, Bisatto e Gorzone per il mantenimento del deflusso minimo vitale, indispensabile alla vivificazione degli alvei anche nei periodi senza piogge. In poche parole, se durante il prossimo mese non avranno luogo precipitazioni, si correrà il rischio che i summenzionati fiumi rimangano a secco con conseguenze che non è difficile immaginare catastrofiche per l’ecosistema di questi corsi d’acqua anche per l’accumularsi di potenziali inquinanti provenienti da zone poste più a monte, lontane dal nostro territorio”.

Attività di espurgo

A OTTOBRE UNA SERIE DI APPUNTAMENTI SUL CONTRATTO DI FIUME: il 4 a Merlara, l’11 a Bovolenta e il 18 a Battaglia Terme

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INGIROPIEDANDO di Mauro Gambin

L ’Agroalimentare,

UN SETTORE PIÙ FORTE DELLA CRISI Abbiamo intervistato Ludovico Ferro sociologo dei processi culturali e autore de “L’artigiano alchimista”, un libro che indaga il contesto delle aziende agroalimentari e la loro risposta alla crisi economica degli ultimi anni

decenni fa. È vero che l’incidenza della spesa alimenIl libro parte da un’ampia contestualizzazione sui tare sulla spesa delle famiglie è diminuita lasciando motivi della tua ricerca condotta su un campione di la prima posizione alla spesa per la casa, ma va notaaziende dell’agroalimentare del Veneto, ma è apto anche che questo è avvenuto gradualmente e ha punto la risposta alla “crisi” economica di questi ulpermesso, soprattutto ai livelli della trasformazione e timi anni l’oggetto della tua indagine, anche perché della commercializzazione della filiera, di adattarsi ai non si è manifestata per tutti in egual misura. E allonuovi contesti… il che ha significato sostanzialmente ra partiamo da qui, dal definire questa impasse: si è diversificare la produzione rendendola adatta sia alla trattato solo degli effetti derivanti dai dissesti della grande distribuzione sia a nicchie sempre più imporfinanza internazionale, o nella crisi concorrono antanti di produzioni tipiche e di alta qualità. Inoltre con che problemi derivanti dal fatto che la società camla crisi sono sparite solo quelle imprese bia, cambia gusti, cambiano gli orientache già faticavano a rimanere sul mermenti. Mi riferisco al fatto che rispetto cato mentre per quelle solide si sono a qualche anno fa, la spesa è diminuita aperte nuove frontiere, non già per un per l’alimentazione ed è aumentata per calo competitivo (quelle che sono spala casa. Questi cambiamenti vengono rite non erano competitive nemmeno percepiti dal sistema produttivo agroaprima!) ma per la possibilità di esplorare limentare? O le mancate contromisure e letteralmente costruire nuove nicchie sono finite con l’addizionarsi allo stato di crisi generale? di mercato legate appunto alla sempre Le due principali domande sono state le maggiore differenziazione nelle modaliseguenti: perché la crisi si è manifestata tà e negli stili di consumo che riguarda in maniera diversa per il settore agroaliun po’ tutti. Oggi infatti sta emergendo mentare? Come mai inoltre per un buon sempre più il profilo di un consumatore L’autore. Ludovico Ferro, si numero di aziende la crisi non c’è stata occupa di sociologia dei processi che durante la settimana non ha tempo culturali e comunicazione, o addirittura ha creato alcune condizioe deve fare la spesa nel supermercato ambiti nei quali è stato titolare ni per lo sviluppo dell’azienda e delle di vari insegnamenti presso gli (fast), ma che poi nel fine settimana si sue performance? Possiamo senz’altro atenei di Padova e di Trieste. È può ritagliare dei momenti “slow” dove dire che l’agroalimentare ha effettiva- stato direttore scientifico della ricercare una fruizione enogastronomiFondazione Corazzin di Venezia mente risposto in maniera particolare e responsabile dell’Osservatorio ca di alta qualità. Certo poi il problema dei ritardi infrastrutturali incide in maniealla crisi probabilmente perché la sua Ebav. È autore di numerose monografie e studi sociologici ra importante ma ancor più ad incidere dinamica evolutiva è iniziata già alcuni

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INGIROPIEDANDO sono fattori culturali che poi si traducono in politiche (serie, meno serie o inesistenti) di incentivazione e soprattutto di promozione del territorio. La differenza vera allora con gli altri settori è forse da ricercare in un diverso impatto della crisi: per molti comparti la crisi è stato uno shock vero dal quale non ci si riprenderà più e che ha improvvisamente cambiato tutto, per l’agroalimentare la questione è da valutare più sul medio e lungo periodo, partendo da alcuni decenni fa e guardando anche a quello che succederà nei prossimi anni… A determinare la situazione generale della crisi, quanto hanno inciso anche i problemi che potremmo definire locali, cioè che riguardano il nostro territorio: problemi infrastrutturali, di governance, nanismo delle aziende, mancato ricambio generazionale? Per quanto riguarda il Veneto non mi sento di sottolineare particolari specificità od aggravanti rispetto ad altre parti del nostro Paese. Limitandosi poi al settore artigianale c’è anche da dire che il sistema della bilateralità veneta è tra i più avanzati e sviluppati d’Italia, a certificare che sul territorio si è abituati a fare da soli… Questo, se sul breve periodo permette di superare le situazioni difficili, è certamente un fattore di criticità sul medio e sul lungo periodo. A mancare sembra un pezzo importante del sistema, quello istituzionale. Faccio alcuni esempi per spiegare cosa intendo. A detta di quasi tutti gli economisti il Veneto e l’Italia si sono sostanzialmente salvati dalla crisi con l’export. E questo è assolutamente vero per quasi tutti i settori e vale in parte anche per l’agroalimentare (che come dicevo però ha anche sviluppato nuove nicchie di mercato territoriali e nazionali). Ma se ci chiediamo: si sarebbe potuto fare meglio? Io rispondo certamente sì! Per esempio potendo offrire alle piccole aziende che hanno la possibilità di andare sui mercati internazionali un sistema di supporto all’internazionalizzazione. Altri ambiti dove c’è ancora molto da fare sono quello formativo (troppo viene lasciato alla libera iniziativa degli imprenditori!) e nello sviluppo di percorsi turistici legati alla cultura e ai prodotti del territorio. Per completare poi la risposta sui due altri temi citati, posso dire che attraverso il nostro studio abbiamo potuto ridiscutere e rivalutare la classica critica della scarsa dimensione delle imprese italiane. Ci siamo accorti invece che, almeno per il settore artigiano agroalimentare, non è necessario crescere troppo di dimensione per ottenere ottimi risultati. Anzi determinate produzioni non sono realizzabili se l’azienda comincia a produrre maggiori quantità di prodotto… Piuttosto qualcuno strategicamente deci-

de per la doppia linea produttiva, una con maggiori quantità e standardizzata che può essere più meccanizzata e rivolgersi alla grande distribuzione, e una che rimane rigorosamente votata all’alta qualità e rigorosamente inserita in un processo produttivo dove l’artigiano realizza e controlla ogni fase. Infine anche sui passaggi generazionali abbiamo individuato importanti fattori di novità. L’artigiano Alchimista, percorsi di qualità e di Il passaggio generazionale è eccellenza delle imprese sempre un momento critico per artigiane agroalimentari qualsiasi azienda. In passato nei venete, edito da FrancoAngeli Management, nostri territori avveniva sempre prezzo di copertina 20 euro un passaggio generazionale ma poi a volte la nuova generazione non era all’altezza. Oggi abbiamo riscontrato che se i passaggi generazionali avvengono, di sicuro hanno effetti positivi per l’azienda. Il rischio è invece che non avvengano proprio. Oggi infatti non vi è più “l’obbligo culturale” di seguire le orme dei genitori. Se si decide di farlo lo si fa per convinzione e per vera passione. Ha senso oggi investire nell’agroalimentare? È un settore che può crescere e diventare davvero quel traino economico che possa risolvere anche i nostri problemi occupazionali? Cosa manca, affinché ciò accada? Che abbia senso investire sull’agroalimentare non lo dico io, ma lo dicono i fatti. Nel mio libro non ci sono molte tabelle ma una è molto chiara nel descrivere come secondo i dati dell’Ente Bilaterale per l’Artigianato Veneto (Ebav) nel periodo che va dal 2006 al 2014 le aziende artigiane agroalimentari con almeno un dipendente sono aumentate di quasi 500 unità mentre sono stati censiti alla fine dello stesso periodo 2.821 lavoratori in più. Ovviamente non è tutto oro quello che luccica. In particolare per riallacciarmi al discorso generale sul settore agroalimentare va notato come i problemi sono un po’ più nascosti, ma ci sono. In particolare una parte della crisi è stata scaricata sulla prima parte della filiera, quella della produzione della materia prima. Lì la crisi si è fatta sentire e si fa sentire ancora bene. La parte più alta della filiera (la trasformazione la commercializzazione) nei momenti più difficili ha mantenuto invariati i prezzi di vendita potendo acquistare la materia prima a prezzi minori. La crisi in sostanza, dove c’è stata, è stata in parte scaricata verso il basso e lì ci sono e ci saranno

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INGIROPIEDANDO

“Nel periodo che va dal 2006 al 2014 le aziende artigiane agroalimentari con almeno un dipendente sono aumentate di quasi 500 unità mentre sono stati censiti alla fine dello stesso periodo 2.821 lavoratori in più” i problemi. A riprova di quanto detto possiamo portare il caso del vitivinicolo che va benissimo, non ha sentito la crisi e pur con imprese piccole (cade qui nei fatti l’accusa di nanismo) è immune dalle distorsioni e dalle fratture che caratterizzano la filiera agroalimentare. Per il vino infatti la filiera è spesso molto corta: i produttori della materia prima sono quasi sempre anche coloro che trasformano e commercializzano il prodotto finale. Durante il tuo lavoro di rilevamento sei riuscito a mettere appunto un identikit dell’azienda moderna, ossia quella con le caratteristiche giuste per navigare nelle acque di oggi? Quando si parla di agroalimentare il leitmotiv più diffuso è quello che insiste sulla qualità, sulla tradizione, sui Km 0, sulla genuinità, ma poi siamo così sicuri che la qualità venga premiata dal mercato? La gente infondo, lo dicevi tu, ha sempre meno tempo per far da mangiare e la spesa va farla ad discount… Quando abbiamo iniziato il nostro lavoro la domanda era la seguente: esiste una ricetta per l’eccellenza? Alla fine del nostro percorso ci siamo accorti che un’unica ricetta non c’è, ed è proprio la varietà e la creatività artigiana a fare la differenza. Ma se non c’è una ricetta unica, di certo ci sono gli ingredienti, e quelli sono costanti e individuabili. Le aziende con risultati migliori sanno innovare (non grandi innovazioni magari, ma innovazioni continue dei prodotti e dell’organizzazione del lavoro), sono quelle che sanno aprirsi verso l’esterno, quelle che sanno trovare il giusto mix tra lavorazione manuale e lavorazione meccanica e, almeno per quel che riguarda le imprese artigiane, quelle che riescono a sfruttare appieno l’alleanza tra generazioni che nelle imprese famigliari lungi dall’essere fattore limitante è vero fattore di forza e di solidità. Verso la fine del libro abbiamo stilato dei veri e propri identikit (delle tipologie ideali) di artigiani alchimisti, ossia di artigiani che sono in grado di trovare la giusta e personale ricetta utilizzando gli ingredienti di cui abbiamo appena parlato. C’è

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chi allora aderisce ad un modello più classico e che si richiama alla tradizione ma non rinuncia nei fatti all’innovazione, chi adotta la già citata strategia della doppia linea di produzione, o ancora chi da artigiano diventa quasi artista. Non mancano infine le aziende giovani nate durante la crisi e quelle che afferiscono ad ambiti sviluppati e maturi come il lattiero caseario e il vitivinicolo. Insomma il panorama è tanto articolato quanto ricco! Ultima domanda: la Cultura. Attraverso i dati che avete raccolto vi è stato possibile attribuire un valore alla cultura degli intervistati. Cioè chi conosce la propria terra, il valore anche storico o artistico che essa possiede ha un’arma in più per affrontare il proprio lavoro di tutti i giorni? Esiste, tra i vostri dati, una stima di quanto i nostri artigiani riescano a sfruttare l’immagine del proprio territorio per qualificare le proprie produzioni? Anche qui la domanda affronta un tema fondamentale. Il fattore culturale è dal mio punto di vista sempre quello più importante e anche in quest’ambito non posso che confermare questa prospettiva (sono e rimango un sociologo dei processi culturali). La cultura e il legame con il territorio sono la chiave interpretativa per capire l’atteggiamento delle imprese di eccellenza (o meglio, come spiego in uno dei capitoli centrali, della qualità diffusa). Dicevo poc’anzi che l’apertura verso l’esterno dell’azienda è un ingrediente fondamentale. Le imprese analizzate puntano moltissimo sulla comunicazione, costruiscono e raccontano storie che sono la storia dell’azienda, dei prodotti e dunque del territorio. Tutte hanno capito che non basta un buon prodotto, bisogna anche saperlo legare al territorio e ad una qualche specificità. Tutte le aziende infine hanno dedicato una parte dei locali a sale dimostrative (qualcuno ha anche un vero e proprio museo!), a spazi insomma in cui presentarsi, presentare il proprio lavoro e incontrare il visitatore/ il cliente/il turista. Da questo punto di vista allora la strada è ben delineata.


IL BIO DI VASCO FIRMA LA QUALITÀ

IL BIO DI

VASCO

“SIAMO AGRICOLTORI DA QUATTRO GENERAZIONI, DAL 2004 ABBIAMO ABBRACCIATO L’AGRICOLTURA BIOLOGICA: L’ U NICA CHE POSSA PERMETTERCI DI METTERE IN PRATICA LA SECOLARE ESPERIENZA CHE CI LEGA ALLA CAMPAGNA. DALLE NOSTRE COLTIVAZIONI ABBIAMO ESCLUSO QUALSIASI TRATTAMENTO CHIMICO, PERCHÉ IL NOSTRO OBBIETTIVO È QUELLO DI FARE CRESCERE LA FERTILITÀ DI QUEL FANTASTICO LABORATORIO NATURALE CHE È LA TERRA”

Az. Agr. IL BIO DI VASCO di Vasco Franceschi via Quarto II Tronco, 1/a - Castelbaldo (PD) Mob. +39 335 328100 - Mob. +39 335 1307514 - vasco.franceschi@alice.it - www.ilbiodivasco.com


L’ELZEVIRO di Eliano Morello

L ’agricoltura raccontata coincide con quella reale? Sono molti i messaggi che contribuiscono a creare una visione distorta della campagna. I tempi bucolici sono lontani e più che altro si avverte la necessità di un cambiamento

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gni qualvolta la televisione, la radio o qualche testata giornalistica parlano di agricoltura mi vengono i brividi. I mass media ci raccontano, anche attraverso la pubblicità, un’agricoltura idilliaca e bucolica che, purtroppo o per fortuna, non corrisponde minimamente alla realtà. Anche gli stessi programmi televisivi dedicati al settore mostrano un mondo agricolo paragonabile a un’oasi felice, in cui il lavoro è in realtà divertimento, un semplice passatempo, e il reddito si presenta solamente come un problema marginale, troppo “volgare” per essere preso in considerazione. Insomma è quasi più spettacolo che cronaca, a volte si ha la sensazione che si tratti di mero “entertainment” che fa il paio con i messaggi pubblicitari in cui la famiglia perfetta fa colazione a base di cerali direttamente in campagna, sorridendo tantissimo. Natura, del resto, è benessere… Ma è questa la vita in campagna? È così che si vive ogni giorno? Ovviamente no, nel caso della pubblicità dovrebbe essere scontato che si tratta di una forzatura, per quanto riguarda i vari format dedicati all’agricoltura, invece, vien da chiedersi come mai le città non si siano già spopolate... anche sulla scorta di alcuni luoghi comuni che vogliono sempre più giovani alla riscoperta dei lavori dei propri nonni e ben volentieri lasciano uffici e città per stare a contatto con la Natu-

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ra. Insomma, la ripresa economica del settore è sotto gli occhi di tutti! No? Anche le associazioni di categoria sono ambigue a riguardo: un giorno l’agricoltura è l’avamposto della ripresa dell’intero Paese, mentre quello successivo gli agricoltori vengono portati nelle piazze a protestare contro le politiche agricole (Prezzi del frumento, del latte, ecc). Dove si trova dunque il confine tra corretta (anche se a volte scomoda per alcuni) informazione e propaganda, tra fatti ed opinioni? La televisione intervista “esperti” di Organizzazioni professionali come fossero la bocca della verità senza pensare che gli interessi economici di cui sono appendici possano influenzare i loro giudizi: ciò crea confusione, panico e falsi allarmi (ad esempio quando straparlano di agricoltura Hi-Tech, Bio-Tech, OGM, pesticidi ecc). Nel numero 27/2016 dell’Informatore Agrario, Angelo Frascarelli - nel suo editoriale - esorta a dire la verità. E la cruda realtà dei numeri ci porta nella direzione opposta a quella dipintaci. Prendiamo ad esempio il decennio che va dal 2005 al 2015 (fonte: Eurostat): • il valore della produzione agricola italiana è cresciuto solo del 14% (7 Mld di euro) contro il 22% della media UE • l’occupazione agricola continua il suo declino (da 972.000 a 878.000 unità nello stesso periodo) con un calo di 94.000 addetti (- 9,68%) • le esportazioni sono au-


L’ELZEVIRO mentate (+2,5 Mld di euro) ma sono aumentate anche le importazioni (+4,6 Mld di euro): il saldo è ampiamente negativo • i redditi agricoli italiani, nello stesso periodo, sono aumentati del 14% (1,4% annuo) contro la media europea del 40% (solo la Spagna fa peggio di noi). Intendiamoci, in agricoltura il tempo medio - minimo - per confrontare dati (a mio modo di vedere) è di 5 anni se non addirittura di 10. Ma comunque è scorretto generalizzare. All’interno dell’agricoltura ci sono alcuni settori che contribuiscono positivamente alla formazione di questi dati: la viticoltura e la produzione di uova. Ma se togliessimo il valore apportato all’agricoltura di questi settori quale sarebbe la fotografia? Anni fa molti sacerdoti andavano per le campagne a benedire i frutteti, i vigneti e i campi coltivati affinché l’Altissimo Onnipotente risparmiasse quei terreni dalla devastazione della grandine; oggi molti agricoltori sperano che grandini per percepire il premio assicurativo. È desolante!!!! Oramai è tempo di raccolta: in passato era consuetudine ringraziare il Signore per le produzioni agricole e si organizzavano feste e balli; oggi c’è poco da festeggiare. C’è invece molto da cambiare. La nostra agricoltura è fortemente disorganizzata: frammentate sono le aziende, frammentati gli agricoltori, molte le organizzazioni sindacali (spesso in contrasto anche ideologico), troppe le organizzazioni di produttori, troppe cooperative con l’acqua alla gola, poco il prodotto aggregato, poche le filiere, scarse capacità tecniche e gestionali. L’agricoltura italiana cresce a ritmi bassi rispetto agli altri Paesi europei, perde occupazione, il saldo commerciale peggiora e i redditi ristagnano e forse il 2016 sarà peggiore dei precedenti con prezzi bassi per quasi tutte produzioni agricole! Occorre avere il coraggio di fare anche un po’ di pulizia: gli incapaci cronici vanno mandati a casa; la politica deve togliersi di mezzo. Il suo compito è quello di indirizzare, non di difendere a oltranza i propri militanti (se non addirittura insediarli nei posti di comando). Di mediocrità ce n’è abbastanza in giro. Gli agricoltori che oggi sono definiti Imprenditori Agricoli Professionali (più altisonanti sono le definizioni più cala il reddito, pensate solo a come sono cambiate nel tempo: coloni, mezzadri, contadini, agicoltori, imprenditori agricoli, imprenditori agricoli professionali...) devono opporsi ad essere strumentalizzati, presi in giro e illusi. Basta far parlare di agricoltura a chi non la conosce, chi non calpesta la terra, chi la racconta da una bella poltrona in un bell’ufficio rinfrescato dall’aria condizionata in una calda estate di un generico anno.

EVOLUZIONE NUMERO AZIENDE PER SAU E SAT

VARIAZIONE NUMERO AZIENDE PER ZONE

VARIAZIONI PER DIMENSIONI AZIENDALI

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messaggio pubbliredazionale

Mercato ortofrutticolo

di Chioggia, parte una nuova stagione Con la nomina del nuovo Amministratore Unico è partita la riorganizzazione della struttura: nella governance si è rafforzata la presenza dei soci privati. Si punta ad una gestione associata con il Mercato di Rosolina ed a creare a Brondolo la borsa dei radicchi veneti a marchio IGP L’attività dell’Ortomercato di Chioggia si lega indissolubilmente a quella del radicchio rosso, ieri come oggi. Fu proprio nella storica sede in Campo Traghetto, intorno agli anni ‘30, che avvenne l’incontro dei produttori della Marca Trevigiana con alcuni ortolani chioggiotti per lo scambio e messa a dimora, nelle terre che lambiscono la laguna, dei primi cespi di un radicchio aperto con delle striature rosse, simile a quello di Castelfranco. Da quelle piante, infatti, iniziò la storia del radicchio rosso a palla che raggiunse questa forma attraverso una mirata selezione massale attuata dagli operatori locali durata parecchi anni, fino ad arrivare all’attuale prodotto certificato dal marchio Igp. Negli anni furono molti i prodotti che entrarono a far parte della vita dell’ortomercato, negli anni ‘60 va ricordata la carota in virtù di un vero e proprio boom produttivo che la vide protagonista, essendo apprezzata e richiesta sui mercati nazionali e del Nord Europa. Ma oggi è proprio il radicchio di Chioggia Igp il prodotto destinato a qualificare l’offerta del mercato di Brondolo. La riorganizzazione della struttura, che ha preso il via proprio a maggio di quest’anno, ha portato grandi novità sia nella gestione che negli obbiettivi da raggiungere nei prossimi anni. Oggi, infatti, il mercato è gestito da Chioggia Ortomercato del Veneto, una società a maggioranza privata, dopo la ricapitalizzazione avvenuta a giugno 2016, nella quale si refforzano Opoveneto e la Coop. C.A.P.O. mentre si dimezzano le partecipazioni della società S.I.C.O., e della parte pubblica, costituita da S.S.T. S.P.A., so-

Giuseppe Boscolo Palo, lo scorso maggio è stato nominato Amministratore Unico della Società di Gestione di Ortomercato

cietà totalmente partecipata dal Comune di Chioggia e proprietaria dell’intero compendio. Questa riorganizzazione rappresenta una importante svolta gestionale per la struttura, perché le Organizzazioni Produttori, unitamente alle realtà imprenditoriali locali e territoriali, hanno avviato una governance diretta del mercato con una visione unitaria, aziendale e prospettica non solo della gestione ma anche nella riorganizzazione del sistema locale, coinvolgendo insieme i mercati di Chioggia e Rosolina. Il progetto in realtà ha avuto un’incubazione piuttosto lunga, le prime istanze di una riorganizzazione dell’ortomercato risalgono al 2010, passando dal Masterplan della Società Ortomercato del Veneto allo stadio del professor Corrado Giacomini, docente di Economia Agraria all’Università di Parma, fino alla ricerca condotta dal Consorzio del Radicchio di Chioggia per la Camera di Commercio di Venezia che in modo inequivocabile, tutte, hanno trovato sintesi nella necessità di un un’unica regia operativa, in grado di gestire unitariamente i Mercati di Rosolina e Brondolo per un progetto che ne ridisegni pure l’operatività. “Solo in questo modo - concludono le tre relazioni - si potranno affrontare con successo le problematiche che attanagliano il settore orticolo”. E dunque

MERCATO ORTICOLO DI CHIOGGIA Località Brondolo CHIOGGIA (VE) - Tel. 041 8224105


non si è perso tempo, la gestione unitaria è un tema già sulla scrivania delle istituzioni del territorio, mentre il Radicchio di Chioggia IGp è un brand forte già conosciuto e apprezzato sulla scena internazionale, che potrà essere rafforzato portando nella struttura di Brondolo anche tutti i Radicchi Veneti a marchio Igp. Si tratta di un obbiettivo che certo punta al prestigio delle produzioni della nostra regione, ma è anche ambizioso nel senso che è l’unico a fornire le necessarie garanzie affinché anche investimenti di grossa consistenza, finalizzati alla qualificazione della produzione e del mercato, anche quale area di servizio agroalimentare, abbiano fondate motivazioni d’attuazione. Tra gli impegni, infatti, c’è anche una ridistribuzione degli spazi dell’Ortomercato, con nuove infrastrutture per la logistica e la destinazione degli annessi a scopi conformi alla commercializzazione dei prodotti del territorio. “Nella mia azione spiega il neo amministratore unico dell’Ortomercato, Giuseppe Boscolo Palo, nominato lo scorso maggio - ho deciso di farmi affiancare da un comitato tecnico, costituito dai rappresentanti delle Organizzazioni dei Produttori che partecipano alla società Chioggia Ortomercato: Opo Veneto e Apo Veneto Friulana. Così, mentre il Consorzio di tutela si deve occu-

pare della promozione, l’Ortomercato deve diventare “Il Mercato del Radicchio di Chioggia Igp”, occupandosi della commercializzazione, grazie soprattutto Su circa 7 mila metri quadrati 2,5 alle Op, che possono sono oggi ancora disponibili, se tutrappresentare l’anello te le aree verranno occupate si potrà di congiunzione fra il pensare anche a rimodulare verso il basso i canoni di affitto agli operatori Consorzio, il Mercato e la Grande Distribuzione Organizzata. Il lavoro da svolgere insieme è tanto e difficile - conclude - ma dobbiamo agire con rapidità per recuperare il tempo perduto. In stretta intesa fra Consorzio e OP possiamo redigere un elenco di produttori, conoscere gli ettari investiti a radicchio e prevedere i quantitativi in gioco anno per anno, per riuscire a governare l’offerta. Serve poi anche avviare una stretta collaborazione per poi arrivare all’unificazione fra i due Mercati alla produzione del territorio dell’Igp, vale a dire Chioggia e Rosolina, attraverso i quali oggi transita solo il 30 per cento del prodotto, per riuscire ad attrarre la restante parte che attualmente viene commercializzata attraverso altri canali”.

Storia dell’Ortomercato di Chioggia Il territorio di Chioggia per la grande presenza di acque e sabbie, apportate dai grandi fiumi del Nord Italia, è sempre stato uno degli orti più importanti del Veneto. Qui la struttura e la fertilità del terreno, assieme al clima mite caratteristico delle aree litoranee, ha permesso di coltivare con successo zucche, cipolle, patate, carciofi, sedano, legumi, il celebre radicchio Igp e da qui la necessità di poterle vendere attraverso una struttura attrezzata e di facile accesso per produttori e acquirenti. Fu proprio in ragione a queste necessità che agli inizi del ‘900 vicino al “Campo Traghetto” nacque il primo mercato ortofrutticolo, la riva della laguna del Lusenzo infatti garantiva un’ottima mobilità delle merci, visto che i carichi al tempo viaggiavano quasi esclusivamen-

te su barche e battelli. Nel 1943 il mercato venne trasferito in Campo Cannoni, nell’allora periferia sud dell’abitato di Sottomarina; un’area più ampia e attrezzata, sempre prospiciente la laguna del Lusenzo. Qui il conferimento dei prodotti veniva effettuato con carri trainati da cavalli e piccoli camioncini, con le carote divenute all’epoca uno dei principali ortaggi della produzione locale. Infine, nel 1972, il forte sviluppo commerciale delle carote e il crescente interesse verso il radicchio rosso portarono a costruire una più grande e funzionale struttura mercantile nel cuore degli orti a Brondolo, in posizione strategica tra la viabilità stradale nazionale (la Romea) e quella fluviale (il Brenta).

Messaggio a cura del Consorzio di tutela del Radicchio di Chioggia Igp www.radicchiodichioggiaigp.it - consorzio@radicchiodichioggiaigp.it


Era il tempo LA MEMORIA DI CARTA

di Roberto Soliman

delle mele “cotogne”

L’autunno del passato riforniva la cantina, la dispensa, il granaio, il fienile, il “fascinaro”, in attesa del freddo e lungo inverno, ed era anche il periodo per vendere il grano e l’uva per pagare l’affitto dei campi, chiudere i conti con il fabbro e il mugnaio, offrendo alla Chiesa parte dei prodotti della terra, di decidere le spese famigliari e di alimentare il ricordo dei propri morti

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uando le stagioni erano vere stagioni, e l’autunno una di mezzo con un passaggio graduale al lungo e freddo inverno, arrivava il tempo nelle case contadine di raccogliere e immagazzinare di tutto, in prospettiva della nuova annata. L’ingiallimento delle prime foglie delle viti avvisava che era tempo di vendemmia. L’uva, nella bassa, era quasi tutta a tarda maturazione, a bacca rossa, merlot, clìnto, bacò, ràbosa, fragola, marzemina; l’uva bianca era più rara, data la difficoltà di conservazione del suo vino nelle vecchie botti un po’ ammuffite. Per prima cosa si portavano fuori dalla cantina le botti destinate a contenere il vino nuovo che doveva bastare un anno intero, per la famiglia, per le “opere” e per gli ospiti ai quali si offriva immancabilmente un bicchiere di vino. Le si lavava all’interno con acido solforico, comperato in farmacia, diluito con acqua, rigirandole

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ed scuotendole per giorni. Era il cosiddetto “brombo”, un modo deciso per bruciare i microfunghi del legno che avrebbero odorato di muffa il vino rovinandolo. Poi le si bagnava all’esterno per far crescere il legno e si “battevano i cerchi” in ferro che stringevano le doghe, per riporre le botti in cantina, dopo un abbondante risciacquo, pronte per il vino nuovo. Il rito della vendemmia, la pigiatura, la vinificazione nei tini, i travasi, la torchiatura delle bucce seguivano una procedura consolidata nei secoli, che coinvolgeva tutta la famiglia ma sotto la responsabilità di un solo componente, che poi accompagnava il vino fino al termine della sua esistenza, con la nuova vendemmia. L’uva in eccedenza la si vendeva a commercianti che venivano in corte con vecchi camion e la si passava dal “vetoro” o “vetrale” installato nel carro, al camion, con la forca a cinque rebbi. Le bucce tolte


LA MEMORIA DI CARTA Oltre a rifornire di vino la famiglia contadina, l’autunno era generoso anche con altri prodotti della terra destinati ad essere conservati per i mesi in cui la natura era ferma dal tino e torchiate (le “graspe”) le acquistava, in tutto il paese, un singolare commerciante proveniente dal mantovano con un motocarro Guzzi 500, residuato bellico, color verde marcio, che sovraccaricava all’inverosimile, per portarle in distilleria. In uno dei giorni della vendemmia capitavano in corte, con un vecchio camioncino, due frati “zercantòni”, a vendemmiare per il monastero, riempiendo d’uva una enorme cesta che poi faticavano a portare fino al mezzo di trasporto. Se ne andavano salutando, ringraziando e benedicendo l’abbondanza della vigna e le persone al lavoro. Tutti erano contenti per questo, frati, padroni e operai, quest’ultimi perché avendo ricevuto la benedizione si sentivano dispensati dalla Messa, dal momento che, lavorando fino al sabato sera a “opera”, la domenica la potevano dedicare alla vendemmia del proprio “coartiero” di terra. Quando invece arrivava il “daziaro”, lui pretendeva la sua parte senza salutare e ringraziare, tantomeno benedire! Oltre a rifornire di vino la famiglia contadina, l’autunno era generoso anche con altri prodotti della terra destinati ad essere conservati per i mesi in cui la natura era ferma. Il più critico di questi era maggio, det-

to il mese “dai denti lunghi”, perché erano finite le scorte e la terra non aveva prodotto ancora niente. Si andava dalla raccolta e conservazione in granaio delle mele “Cotogne” e dei “pomi Delzi”, a quella delle pere “Passa Grassana”, all’uva “mericana” ancora attaccata al proprio tralcio, alle zucche “Marine”, all’aglio unito in treccie (le drezze de ajo); a seccare i fagioli al tardo sole, conservati sia per la semina del nuovo anno che per cuocerli “in tocìo”, alle noci, alla copiosa quantità di conserva fatta con maturi pomodori addizionandoli di Acido Acetilsalicilico, comperato anche questo in farmacia, e foglie di basilico, al miele estratto dall’“avaròlo” che arrivava in corte con il “Galletto” della Moto Guzzi trasportando un bidone che era una centrifuga per i telai pieni di miele, miele che veniva conservato in “Balarine” di vetro, per curare malattie da raffreddamento e per fare qualche dolce casalingo. L’avàrolo veniva pagato in natura, portandosi a casa la cera che ricopriva le celle piene di miele, inserite in questi telai. Ma si raccoglievano pure i “bagigi”, poi tostati nel forno della “cucina economica”, la “fava” (i lupini), che mio padre lasciava maturare nell’acqua di una “ma-

Per prima cosa si portavano fuori dalla cantina le botti destinate a contenere il vino nuovo che doveva bastare un anno intero, per la famiglia, per le “opere” e per gli ospiti ai quali si offriva immancabilmente un bicchiere di vino. Le si lavava all’interno con acido solforico, comperato in farmacia, diluito con acqua, rigirandole ed scuotendole per giorni. Era il cosiddetto “brombo”, un modo deciso per bruciare i microfunghi del legno che avrebbero odorato di muffa il vino rovinandolo. Poi le si bagnava all’esterno per far crescere il legno e si “battevano i cerchi” in ferro che stringevano le doghe, per riporre le botti in cantina, dopo un abbondante risciacquo, pronte per il vino nuovo

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LA MEMORIA DI CARTA

stela” di legno, per mangiarne un “pugno” al mattino e uno al pomeriggio, con un pizzico di sale. Era uno dei suoi due “vizi capitali”, assieme alle cinque sigarette Nazionali Semplici, comperate sfuse giornalmente nell’osteria “Da Ciòdo”, e gustate lentamente senza respirarne il fumo. Il pollaio offriva anch’esso il suo contributo alla fredda e temuta stagione invernale, con la macellazione delle anatre, conservate “soto ònto”, stessa sorte toccava poi alle oche per le quali si attendeva che il freddo le facesse infoltire del prezioso “piumino”. Una proroga veniva concessa al maiale, per la macellazione del quale si attendeva il freddo dell’inverno, così intanto continuava a vivere del “màco”, un beverone fatto con lo scolo (quel che rimaneva del latte dopo averne ricavato burro, formaggio e “puina”), con aggiunta di crusca e di quel poco che avanzava dalle cucine delle case contadine, come croste di polenta, pezzi di zucca, bucce di patate. Dimostrava di gradire questo beverone pur di mangiare senza lavorare il suino, al punto che il termine “Vivere a màco, o a màca” è stato trasferito all’uomo dagli stessi principi! Il granaio veniva svuotato del frumento, venduto per pagare l’affitto dei campi e altri conti che si chiudevano da “San Martìn”, e al suo posto si immagazzinava il granoturco, consegnato scalarmente al mugnaio, che lo ritornava sotto forma di farina per la polenta, “spezzanele” per i polli, crusca per il maiale. Il tutto lo si riponeva nel “cassone” a scomparti, da dove lo si prelevava con la sessola. Ai “poareti” che regolarmente chiedevano la carità nelle corti contadine, veniva data mezza sessola di farina gialla perché potessero farsi la polenta, ben sapendo che poi l’avrebbero barattata in vino. Un po’ di frumento e granoturco noi bambini lo portavamo in chiesa, in sacchetti di carta che ci venivano distribuiti a Scuola di Dottrina, per sensibilizzarci all’offerta. A seconda di come era

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andata l’annata, e dopo aver pagate le pendenze, mio nonno decideva quanta offerta fare alla Chiesa e, se c’erano i mezzi economici, decideva se poteva far sposare qualcuno degli otto figli e figlie, o comperare qualche attrezzo per la fattoria. All’inizio dell’autunno il fienile si riempiva con l’ultimo taglio di erba cresciuta sotto le vigne e lungo i fossi, o con l’erba medica. Inoltre si riempiva il silos di “erba da bò”, un miscuglio di sorgo e altre erbe consistenti e pesanti seminate dopo il frumento, e che maceravano nel silos, il progenitore dell’insilato “ceroso”. Intanto ai buoi e alle vacche si davano da mangiare i “colletti” (la parte superiore delle barbabietole con attaccate le foglie, recisa con un colpo secco di falce curva), sia freschi che asciugati al sole per una lunga conservazione. Nel periodo in cui le vacche mangiavano i “colletti” freschi, molto diuretici, bisognava prestare attenzione ad entrare in stalla per non venire investiti da sostanza maleodorante, lanciata dalla coda del bovino agitata nel tentativo di scacciare qualche mosca! Si immagazzinavano anche le “polpe”, il residuo della lavorazione delle barbabietole, in un’ampia buca nella terra, per darle come pasto invernale ai soddisfatti bovini, dato il sapore zuccherino che le “polpe” o “ciance” conservavano. Alla caduta completa delle foglie degli alberi che sostenevano le viti, o delle siepi delimitanti i campi, si iniziava la “smaja”, il taglio dei rami cresciuti negli ultimi anni. Si ricavavano pali per sostenere le viti, manici per le forche, fascine da immagazzinare nel “fascinaro”, indispensabili per il fuoco del camino che aveva funzione di riscaldamento, di cottura della polenta, di produrre braci per scaldare il letto e di unione della famiglia, dando luce, tepore e faville da commentare. In mezzo all’autunno, il ricordo dei morti. Ricordo alimentato anticipatamente nei dopo cena del mese di ottobre che precedeva il giorno dei defunti il due di novembre, con preghiere e litanie in un improbabile latino, e l’immancabile rosario recitato a mani giunte e con un ginocchio appoggiato alla sedia del tuo posto a tavola. Era il modo per ringraziare l’Altissimo del raccolto ricevuto e ricordare i propri morti per gli insegnamenti di vita, e dei modi per perpetuarla, ricevuti.


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L’oro bianco del Polesine Nella campagna di Grignano Polesine la famiglia Beretta coltiva da più di duecento anni la propria terra, da trenta è impegnata nella produzione di Aglio Bianco del Polesine, vera eccellenza del territorio

Bianco brillante, bulbo compatto, aroma intenso e lunga conservabilità, sono queste le caratteristiche dell’aglio del polesine che la famiglia Beretta coltiva da trenta anni nella propria campagna di Grignano Polesine con metodi tradizionali, la produzione del seme è ancora manuale, e grande attenzione all’ambiente. Un prodotto di grande qualità, figlio di un instancabile lavoro che ha portato attraverso selezioni e miglioramenti a qualità uniche come il suo profumo dolce e marcato e il gusto persistente

Aglio sott’olio Beretta Una specialità per l’aperitivo o come contorno di pranzi e cene d’estate, l’aglio sott’olio in tre preparazioni: • Gustoso - pizzaiola • Piccante - peperoncino • Naturale - erbette • Buono, croccante, gustoso e non si ripropone…

L’aglio Beretta può essere acquistato presso il punto vendita aziendale in via della Comune, 15 a Grignano Polesine (Rovigo) oppure nei mercatini di Abano, Montegrotto, Noventa Padovana, Maserà, Milano e Arona. Per l’elenco completo dei mercatini consultare facebook

Aglio, antibiotico naturale L’aglio fa bene, è un antibiotico naturale grazie dell’allicina, il principio attivo che possiede un forte potere antisettico, ma la sua funzione risulta positiva per combattere anche altri disturbi come l’esaurimento fisico o le malattie nervose ed è un regolarizzatore della pressione. Questo perché attiva la circolazione, aiutando il corretto funzionamento del cuore

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Il prato in rotolo permette di evitare tutte le fatiche e le possibilità di insuccesso che sono connesse ad un’operazione complicata come la semina. Senza contare poi, che con il prato in rotolo bastano tre giorni per avere un giardino praticamente perfetto, con la certezza che duri una vita

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INGIROPIEDANDO di Emanuele Cenghiaro

CON LA VENDEMMIA MODERNA

è andata persa quasi ogni tradizione

Molti dei riti che accompagnavano la raccolta e la trasformazione dell’uva in vino ormai non esistono più. L’antica data di Santa Eufemia, che dava il via ai lavori, oggi è anticipata di un mese

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rriva la vendemmia, evento importante per un’agricoltura che nel settore vitivinicolo trova il suo punto di forza. Ci chiediamo se a questa importanza corrisponda anche un permanere di tradizioni storiche e popolari, almeno nel territorio padovano. Per capirlo ho provato a sentire qualche azienda e, con sorpresa, è emerso che no, ormai è rimasto ben poco. Ma qualcosa c’è. Iniziamo con il dire che la crisi della viticoltura vissuta nel Settecento e soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, quando la produzione venne pressoché azzerata, forse ha fatto perdere qualche tradizione che magari si trascinava dal medioevo. Visto che il vino ci arriva dall’antichità tramite i benedettini, sarebbe logico attendersi qualche tradizione in campo religioso: ma all’apparenza non è così. Qualche

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testo sulle tradizioni popolari ricorda che i santi erano sempre coinvolti in tutte le attività della terra e l’uva non poteva esserne esente. A decretare l’inizio della vendemmia, infatti, era a S. Eufemia, la santa del 16 settembre. Nessuno lo ricorda più, ma la cosa è plausibile secondo Artenio Dal Martello de La Mincana: “Oggi le vendemmie iniziano a fine agosto, ma teniamo conto che coltiviamo vitigni più precoci che da noi un tempo non c’erano; inoltre, il clima è cambiato e le uve maturano prima. Per noi è inconcepibile ma è probabile che un tempo si iniziasse a vendemmiare a metà settembre”. Artenio Dal Martello


INGIROPIEDANDO Forse una prova c’è: la grande festa dell’Uva del padovano, quella di Vo, giunta nel 2016 alla 66° edizione e celebre per i carri allegorici fatti con l’uva, inizia proprio a ridosso di S. Eufemia, la terza settimana di settembre. S. Eufemia non è ancora in pensione! Anche la festa di Soave, nata nel 1929 e considerata la più antica in Italia, quest’anno è iniziata proprio il 16 settembre. PriSant’Eufemia ma della vendemmia andavano preparati gli attrezzi per la vinificazione, che inizia con l’arrivo in cantina delle prime uve. Una tradizione che rimane e si fa come una volta è la vendemmia a mano. “È vero che ormai - dicono al Consorzio di tutela dei vini Doc Colli Euganei (che ha sede a Vo, dove c’è anche un museo del vino) - almeno la metà della vendemmia si fa con mezzi meccanici, ma dove questi non arrivano perché il terreno non lo permette, oppure dove si punta a ottenere vini di particolare qualità e servono occhi oltre alle braccia, e obbligatoriamente nel caso dei passiti, è necessaria la vendemmia manuale”. Certo, ormai non si sono più frotte di lavoratori stagionali, bastano poche persone; una volta, come per la mietitura, tra famiglie vicine ci si dava una mano e si facevano a turno i vigneti di una: anche questo oggi non c’è più. Motivo per cui non vi sono più neanche le grandi feste di fine raccolto, le “vanseghe” o “galzeghe” che si facevano per ringraziare tutti per l’aiuto. C’è ancora più di qualche azienda, però, che ha mantenuto la tradizione di offrire a tutti i lavoratori e familiari un pranzo o una cena. “Da noi è d’obbligo fare bigoli con le “sarde”, baccalà e musso”, un menù energizzante”, racconta Alberto Bellucco della Roccola di Cinto Euganeo. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, complici anche i numeri ridotti di manodopera richiesta, non sono gli immigrati i protagonisti della vendemmia ma, tra parenti, stagionali “storici” e studenti in cerca di raggranellare qualche soldo, gli italiani. L’altro aspetto spettacolare della lavorazione dell’uva, oggi del tutto in disuso, è la pigiatura con Alberto Bellucco i piedi: un lavoraccio che

Visto che il vino ci arriva dall’antichità tramite i benedettini, sarebbe logico attendersi qualche tradizione in campo religioso: ma non è così

poco aveva a che fare con le immagini, tramandate in certi dipinti, di giovani ragazze festanti che, più che lavorare, sembravano danzare dentro i tini. Qualche cantina celebra l’inizio della vendemmia facendo una dimostrazione di questo vecchio metodo, magari facendo provare l’ebbrezza dei piedi nudi nell’uva ai bambini, come la cantina di Giorgio Salvan, figlio di Urbano, primo presidente della Doc. Ma queste uve poi diventano vino, magari un prodotto per pochi eletti? “Sarebbe impossibile rivela Salvan - perché con questo sistema il prodotto prende così tanta aria che invece di fare una produzione di qualità se ne faGiorgio Salvan rebbe una peggiore!”

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INGIROPIEDANDO

La Graspìa, il vino dei contadini Visto che siamo in tema di vendemmia, ci sono un paio di prodotti dell’uva che si stanno perdendo. Il torbiolino, ad esempio, che qualche festa autunnale o “bettola” propone ancora, è nient’antro che il primo mosto, fermentato in tutto o in parte (e quindi il prodotto si può trovare dolce e poco alcolico oppure secco e di maggior grado). Del tutto scomparsa, invece, è la “graspìa”, detto anche il vino dei contadini. La facciamo breve: dopo la fermentazione, quando il vino veniva travasato, rimanevano le vinacce dette nel Veneto “graspi”. Che cosa farne? Grappa, è la risposta che verrebbe oggi automatica. Già, ma non solo: per le famiglie rurali le vinacce erano la base per un’altra bevanda, la graspìa appunto. Che si faceva versando acqua calda per farla macerare sulle vinacce (a volte si riavviava anche una leggera fermentazione). Ne usciva una bevanda di grado alcolico molto basso, annacquata, che veniva bevuta nella quotidianità da tutta la famiglia, anche i bambini, lasciando il vino buono per le feste, la vendita o i “paròni”. “Ricordo una famiglia che prendeva una botticina alta e stretta - racconta ancora Salvan - e dentro ci metteva le vinacce, dei limoni come conservanti e dei sassi per premere il tutto. Poi aggiungevano acqua: questa era la graspìa. L’operazione veniva ripetuta più volte. Perché oggi non si fa più? Un tempo, dopo la spremitura rimaneva ancora molto liquido nelle vinacce e la cosa

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aveva senso: oggi con i mezzi meccanici non rimane quasi nulla. In secondo luogo, oggi il vino non manca e, se proprio si vuole, basta allungare il vino con l’acqua e si ha un aperitivo migliore”. Ma la graspìa non si beveva solamente: c’era chi la utilizzava per le conserve. Ne sono un esempio le cosiddette Composte di Montorso, che si fanno ancora oggi e anzi sono un prodotto a Denominazione comunale Deco. Si ottengono facendo macerare le verze con la graspìa; ne risulta un prodotto acidulo, contorno perfetto per le carni di maiale.


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25 SET TEMBRE, Podere Villa Alessi propone “Festa della Vendemmia”

Un appuntamento da non perdere per conoscere da vicino il mondo dell’enologia euganea e per rivivere un antico rito Podere Villa Alessi è la casa delle stagioni, l’agriturismo cambia i suoi menù con il volgere delle pagine del calendario, portando in tavola solo il meglio che il periodo offre, ma qui, nel cuore di Faedo, il cibo non è solo una questione di piatti, la campagna del podere ogni autunno restituisce la ricchezza degli euganei: olio, vino, marmellate, miele e ovviamente quelle tradizioni che da secoli ne accompagnano la realizzazione. Tra queste, la più sentita è forse proprio la vendemmia, a cui è dedicata, come succedeva una volta, una vera e propria festa. Come di consuetudine il prossimo 25 settembre il vigneto didattico, che raccoglie circa 140 varietà di viti, alcune diventate ormai rarissime, diventerà il cuore pulsante della giornata, dal mattino si potranno fare lunghe passeggiate guidate lungo i filari, inoltre chi vorrà pranzare potrà farlo grazie ad un menù a tema, mentre il pomeriggio sarà dedicato alla cantina con la gara della pigiatura dell’uva: un vero divertimento per

i giovanissimi. La festa, infatti, è dedicata alla famiglia, alla socialità, all’ambiente, nel rispetto di quell’antico spirito che vedeva in questo “lavoro” un momento di gioia e di abbondanza da condividere con gli altri. Ma a Podere Villa Alessi, saranno anche altri i momenti di festa dedicati all’autunno e alla sua dispensa: per parteciparvi basterà restare aggiornati sulla pagina facebook: “Agriturismo Podere Villa Alessi”, le opportunità saranno tantissime. APPUNTAMENTI FINO ALLE PORTE DELL’INVERNO • “Festival dei salumi di Podere Villa Alessi” • “A tavola con le api”, un modo divertente per scoprire il mondo delle api e per provare in prima persona l’arte della smielatura • “Un connubio possibile: Vino e Pizza” • “A tavola con l’olio novello”, degustazioni della nuova spremitura e presentazione in esclusiva del nostro nuovo amaro di olive euganee

PODERE VILLA ALESSI È AGRITURISMO, ALLOGGIO, VINOTECA, RISTORANTE E FATTORIA DIDATTICA Qui si può acquistare vino, olio extravergine d’oliva, miele, confetture, consumare gustosi spuntini e condividere il piacere di stare in un posto unico

AGRITURISMO PODERE VILLA ALESSI - Via San Pietro, 6 - Faedo di Cinto Euganeo - PD Tel. 0429 634101 - Fax 0429 634009 - www.villalessi.it - info@villalessi.it


DIVINO PARLAR di Silvano Bizzaro - Sommelier s.bizzaro@alice.it

Vendemmia 2016, UN’ANNATA CHE PROFUMA DI OTTIMISMO Le prime informazioni che arrivano dalle cantine su questo primo scorcio di stagione, lasciano presagire una produzione ottima, almeno per quanto riguarda i bianchi

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ia con forbici e cassette, è iniziata la vendemmia anche nella zona nelle nostre Doc: Bagnoli, Corti Benedettine, Merlara, Colli Euganei, i primi grappoli di Glera, Chardonnay, Pinot Bianco e Moscato, che diventerà Fior d’Arancio, sono già in procinto di essere trasformati in spumanti e vini con bollicine. L’annata dal punto di vista climatico è stata tutto sommato soddisfacente soprattutto in quest’ultimo periodo con temperature e irraggiamento solare molto simili alla scorsa annata, che a parere di molti produttori e addetti ai lavori è stata una delle migliori degli ultimi 15 anni. Le aspettative di una buona vendemmi dal resto sono state ribadite anche in occasione di un recente convegno organizzato da Veneto Agricoltura, dove, appunto, oltre alle previsioni di una buona raccolta è stato tracciato l’identikit delle ultime stagioni, caratterizzate da quell’ormai irreversibile cambiamento climatico orientato verso temperature sempre più alte, ma che nell’anno in corso ha trovato l’eccezione di una prima primavera siccitosa e piogge spostate dopo il 25 aprile, mentre l’inizio e la tarda estate sono state caratterizzate da temperature tutto sommato miti e con una buona escursione termica tra il giorno e la notte. Questo ha comportato, in alcune zone, in posticipo della vendemmia di 8-10 gg rispetto all’anno precedente. Dal punto di vista fitosanitario, dunque, dopo le difficoltà

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iniziali (maggio-giugno) tendenzialmente avverse, le uve hanno trovato ottime condizioni nel periodo luglio-agosto riequilibrando le sorti della vendemmia e limitando pure i trattamenti in agricoltura. Unico neo: il fenomeno incalzante del “mal dell’Esca”, che porta i grappoli ad essere spargoli, ma non sarà questo a compromettere gli esiti di una stagione che almeno per i bianchi si mostra già in tutto il suo favore, l’incognita semmai sarà sui rossi la cui vendemmia, nel momento in cui questo articolo è stato scritto, non è ancora cominciata. Dunque su queste prime uve a bacca bianca senza sbilanciarmi posso dire che la loro produzione è aumentata dal 3 al 5%, ma per addentrarmi nei valori di questa vendemmia posso tranquillamente dire che dalle cantine mi arrivano positive informazioni per il grado zuccherino, molto buono per pinot Grigio e Chardonnay (sui 12% vol.) con discreto livello di freschezza e acidità, quindi avremo vini dal bouquet profumato con aromi intensi, buon livello di freschezza e acidità, vini d’annata in media con quelli dello scorso anno. Per quanto riguarda i vini rossi ci aggiorniamo al prossimo numero di Con i piedi per terra, a quanto già si dice pare, almeno nelle nostre zone, che non sarà un’annata da grandi vini riserva, come lo è stato invece nel 2015, ma lasciamo pure il tempo al tempo e alle botti il vino…


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Il Pianzio

la stagione più bella inizia con la vendemmia

La famiglia Selmin è nel pieno della sua attività, nei vigneti il lavoro è frenetico, in cantina è tutto un ribollir di tini ed è il momento giusto per fare una visita

Dopo un anno di lavoro arriva infine il momento della

I PROSSIMI APPUNTAMENTI:

vendemmia. L’Attesa è finita, non si può sbagliare

• “Cena della Vanzega”: appuntamento aperto a tutti

questo momento e per questo è importante seguire la

quelli che vorranno festeggiare con noi la vendemmia

maturazione di ogni vitigno, di ogni filare: assaggiare,

appena conclusa. Ritrovo giovedì 20 ottobre ore 19:30

analizzare... Con un occhio si guarda al tempo e a volte

presso il Ristorante Belvedere, Via Siesa, 5 - Galzigna-

ci vuole coraggio ad aspettare ancora per arrivare alla

no Terme (PD). Per informazioni 049 9130422

maturità ottimale, quando si teme che il maltempo possa

• “ Colli Euganei, sentieri e vino”: domenica 23 ottobre

danneggiare tutto. Ma l’esperienza a questo serve, il

escursione a piedi con guida e degustazione finale.

resto è passione e poi l’amore per il proprio lavoro fa

Partenza dall’azienda ore 15:00

dimenticare che in campagna non ci sono orari, se si

• “Cantine Aperte a San Martino”: Domenica 13 No-

deve finire si sta anche fino a tardi. E del resto per noi è il

vembre vi accoglieremo con degustazioni, spun-

momento più importante dell’anno, nonché un momento

cetti e numerose altre attività fino al tramonto.

di lavoro collettivo gratificante ed allegro. Un momento di

Per informazioni 049 9130422 - www.ilpianzio.it.

festa che volentieri condividiamo con chi ci vuole venire a trovare… basta prenotare

IL PIANZIO di Selmin Soc. Agr. - Via Pianzio, 66 - 35030 Galzignano Terme (PD) Tel./Fax 049 9130422 - Cell. 393 7699836 - info@ilpianzio.it - www.ilpianzio.it - Seguici su Facebook


LA FORMA DEL LATTE di Michele Grassi

La demonticazione: LE MANDRIE SCENDONO DALLE ALTURE

Gli animali sono stanchi, affaticati dalle lunghe camminate al pascolo, la quantità di latte è calata così come la qualità dei suoi componenti. Storicamente con questo latte si producevano formaggi di scarso valore come gli stracchini

L

a stagione delle vacanze è al termine, l’estate ha portato il sollievo del riposo e a molti la soddisfazione per aver raggiunto i rifugi o le malghe del Veneto. I pascoli sono stati sfruttati e i malgari stanno preparandosi a demonticare, raccogliendo gli attrezzi utilizzati durante l’estate nelle strutture che li hanno ospitati, e mungendo per gli ultimi giorni le lattifere, ora stanche di percorrere i ripidi pascoli. Solitamente le aziende che gestiscono le malghe sono piccole realtà agricole che salendo alla montagna lavorano duramente per trasformare un eccellente latte in burro e formaggio di alta qualità, a volte capace di stagionare fino all’estate successiva. La trasformazione casearia, che consente al casaro di ottenere un formaggio della tipologia d’alpe a pasta semigrassa, avviene tutti giorni con il latte della mungitura serale, parzialmente scremato per affioramento, miscelato, la mattina, con quello fresco appena munto. I componenti del latte, proteine, grassi e carica batterica, sono quantitativamente e qualitati-

vamente diversi in funzione dell’alimentazione, delle variazioni stagionali, del clima e delle condizioni di salute degli animali che vivono allo stato brado, tanto da determinare variazioni, anche sostanziali, delle caratteristiche organolettiche del formaggio. I cambi di stagione rappresentano i periodi dell’anno nei quali le lattifere risentono particolarmente delle mutazioni climatiche. Ciò determina la variabilità, anche giornaliera, delle caratteristiche del latte tanto che il casaro deve modificare la metodologia di trasformazione. Le malghe del Veneto, sono dislocate in ambienti molto diversi fra loro, sulle Prealpi soprattutto del veronese e del vicentino e sulle Alpi dolomitiche spesso a quote ben superiori ai 2000 metri sul livello del mare. Le diversità ambientali e le tecniche di produzione, molto spesso frutto della tradizione, caratterizzano la biodiversità del formaggio ottenuto da latte d’alpeggio. Negli ultimi anni il prolungarsi dell’inverno ha creato non poche difficoltà alla monticazione, giunta tardiva, determinando uno sposta-

In alto: La “desmontegada” è un momento gioioso per il malgaro, perché chiude un duro periodo di lavoro per tornare alla tranquilla permanenza in fondovalle

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LA FORMA DEL LATTE I cambiamenti climatici, così evidenti negli ultimi anni, hanno determinato lo spostamento anche della demonticazione, solitamente a metà di settembre, momento i cui avveniva il passaggio dalla stagione calda a quella fredda e l’arrivo della prima neve mento della produzione di formaggio, della sua maturazione e, naturalmente della sua vendita durante il periodo turistico estivo. Non sempre le mutazioni climatiche portano difficoltà alla trasformazione, anzi, la diversa crescita delle essenze, alimentazione naturale delle lattifere, influenza la qualità del latte che, in particolare nel periodo di passaggio dall’inverno alla primavera è particolarmente idoneo per fare formaggi di media e lunga stagionatura. Sulle montagne venete i nostri nonni sostenevano che nel mese di marzo veniva prodotto il miglior formaggio dell’anno, soprattutto se da latte munto in concomitanza del calo di luna. In altre regioni come la Toscana e Lazio, vigeva la tradizione di fare Marzolina o Marzolino dal latte munto dalle capre o dalle pecore che iniziavano a salire i pascoli collinari. Sulle montagne del Veneto i detti popolari hanno ancora una ragione per essere sostenuti, il malgaro non trascura mai gli effetti della stagione, si preoccupa di non lavorare il latte durante un temporale, o di zangolare la panna con il sole cocente, utilizzando più l’esperienza che la scienza. La primavera, nel mese di giugno, concede alla montagna il verde brillante dell’erba fresca. In pochi giorni i germogli sbucano dal terreno reso arido dalla neve appena sciolta trasformandosi in agili fili dai quali successivamente esploderanno incantevoli fioriture, alimento carico di sostanze nutritive per gli animali al pascolo. Il calore estivo arriverà alla montagna solo nel mese di luglio quando il sole scalderà i pascoli modificando le caratteristiche delle essenze presenti. La monticazione continuerà fino a metà di settembre o ai primi di ottobre, e le erbe perderanno quel bel verde brillante caratteristico della primavera inoltrata. Il formaggio ottenuto nei vari momenti dell’alpeggio acquisirà caratteristiche sempre diverse dal punto di vista organolettico, gli odori e gli aromi lattici e vegetali si modificheranno e la maturazione del formaggio, conservato in ambienti naturali, sarà completa nei primi mesi dell’autunno. Dal punto di vista nutrizionale il formaggio d’alpeggio a latte crudo assume importanti caratteristiche già dopo 60 giorni di maturazione,

fra le quali l’alta qualità delle proteine e del grasso che determina l’aumento degli acidi grassi insaturi o polinsaturi come gli omega-3 e omega 6 capaci di prevenire le malattie cardiovascolari. I cambiamenti climatici, così evidenti negli ultimi anni, hanno determinato lo spostamento anche della demonticazione, solitamente a metà di settembre, momento i cui avveniva il passaggio dalla stagione calda, a quella fredda, che portava spesso le prime nevicate. È un momento gioioso per il malgaro, perché chiude un duro periodo di lavoro per tornare alla tranquilla permanenza in fondovalle. In molte valli alpine la demonticazione, la desmontegada, viene festeggiata con manifestazioni popolari, ballo e gastronomia di montagna, che prevedono la vestizione degli animali con collari variopinti, drappi fioriti e campanacci a festa anche di enormi dimensioni. Pare che gli animali sentano quest’evento, sono stanchi, affaticati dalle lunghe camminate al pascolo. La quantità di latte è calata così come la qualità dei suoi componenti. Storicamente in altre regioni come la Lombardia, con il latte delle lattifere affaticate dal pascolo si producevano formaggi di scarso valore come gli stracchini. Il malgaro è felice, la stagione estiva in alpeggio è terminata, la maggior parte dei formaggi prodotti è stata venduta, soprattutto ai turisti che hanno potuto gustare aromi intensi di pascolo, ora è giunto il momento del riposo, almeno per gli animali, mentre il malgaro torna alle sue funzioni di allevatore, ma già con il pensiero di predisporre mente spirito e attrezzi, per la successiva estate in malga.

In molte valli alpine la demonticazione, la desmontegada, viene festeggiata con manifestazioni popolari, ballo e gastronomia di montagna, che prevedono la vestizione degli animali con collari variopinti, drappi fioriti e campanacci a festa anche di enormi dimensioni

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“Sono i giorni più belli dell’anno. Stare nei campi per vendemmiare e poi nella penombra della cantina, impegnati in mille lavori, è il nostro mestiere, cambiare è quello della stagione: caldo non fa più, freddo non

Il vino deciso, onesto e maturo emblema del carattere dei fondatori di questa azienda

SERPRINO FRIZZANTE – Doc Colli E.

la vendemmia è la stagione più bella

STRADELLA – Doc Colli Euganei Merlot

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ALGIO – Doc Colli Euganei Cabernet Sauv.

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Il Merlot che nelle diverse annate ha saputo distinguersi tra i vini rossi nelle Selezioni enologiche dei Colli Euganei. È il vino della tradizione che sta bene insieme ai piatti di carne saporiti

La tipica bollicina di espressione euganea, alternativa al Prosecco, ideale per: apertivi, antipasti e pesce

ancora. Ma è qui, nei passi che dividono la campagna dalle botti, sotto la luce di questo tempo nuovo, che vengono al mondo le nostre bottiglie in cui si depositano le fatiche di un anno e i profumi più profondi della nostra terra collinare. Questo è il momento della verità, da un bicchiere di mosto capiremo quanto la Natura è stata benevola e anche quanto noi lo siamo stati con lei. Più avanti, voi tutti potrete assaporare quanto è profondo questo nostro rapporto con la terra che ormai si rinnova da oltre cento anni” Famiglia Dal Martello

La Mincana - Via Mincana, 52 - 35020 Due Carrare (PD) - Tel. 049 525559 - Fax 049 525499 www.lamincana.it - info@lamincana.it


Il riso IL PANORAMA GASTRONOMICO

di Mario Stramazzo

UNA DELLE IMMAGINI DEL VENETO, MA NON GRAZIE A VENEZIA Oggi le preparazioni a base di riso sottolineano i momenti eletti come i giorni di festa o le cerimonie, ma non è sempre stato così C’è stato un tempo in cui era il cibo dei poveri

L

a storia della coltivazione del riso e del suo consumo nella pianura padana e nel nostro Veneto, non è poi così antica come possono far credere molte tradizioni gastronomiche, pur se ammantate dalla patina del tempo. Prova ne è che il veneziano “risi e bisi” o il più padovano “risi e fasoi” e così pure tutti gli altri risotti che mai fantasia culinaria abbia saputo inventare, portando la nostra terra sulla cima della cultura gastronomica in materia, sono “invenzioni” che risalgono a non più di cinque o sei secoli fa. Un’inezia se paragonata alle origini del riso e del suo consumo come insostituibile alimento nei paesi d’oriente. E’ qui che i più antichi reperti relativi al riso, trovati nell’attuale Indonesia, risalgono al 7000 a.C. ed è dall’Asia o dalla Mesopotamia che il riso arrivò agli arabi, i quali poi esportarono la sua coltivazione nel nord Africa, in Spagna e in Sicilia; probabilmente prima dell’anno 1000 d.C.

Ma fu solo attorno alla fine del 1500 che la coltura del bianco cereale si diffuse ampiamente anche nelle regioni più a Nord, soprattutto fra Piemonte, Lombardia, Emilia e Veneto. Regione, quest’ultima, che secondo la visione dell’allora imperante stato di Venezia non si presentava proprio con le caratteristiche ideali dei terreni atti alla coltivazione del riso, visto che il bisogno di prosciugare i campi e derivare corsi d’acqua era ritenuto troppo oneroso per lo Stato Veneziano che, certo, investiva in tal senso, ma solo per la salvaguardia finale della sola città capitale della Serenissima. Fortunatamente, per le sorti del riso, furono determinanti le iniziative individuali di alcuni proprietari terrieri, che decisero di porre a risaia le loro terre sia per la riqualificazione di tanti spazi acquitrinosi che per la redditività di aree fino ad allora considerate inutili. L’oryza sativa in questo diventò strategica ed è da questa varietà di riso che prendono vita le diverse varietà usate nelle nostre cucine: come, ad esempio, i semi-fini, cui appartengono il Centauro, il Selenio, il Balilla e il Vialone Nano; i fini, come il Ribe, il Ringo, l’Ariete, il Bonnet Bell, l’Europa, il Giara Molo, il Pierina Marchetti, il Riva e, ancora, i superfini come il Volano, il Baldo, il S. Andrea, il Roma, l’Arborio e il Carnaroli. Di gran moda, quest’ultimo, tra i cuochi stellati e blasonati o fra gli “self-safe chef”, ma non certo il preferito dalle buone forchette di formazione più nostrana e

L’oryza sativa, è da questa varietà di riso che prendono vita le diverse varietà usate nelle nostre cucine

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IL PANORAMA GASTRONOMICO verace che invece, forse più rispettosi della cucina della nonna per il risotto, preferiscono il Vialone Nano. Quest’ultimo, infatti, è maggiormente indicato per risotti morbidi e cremosi, mantecati e all’ “onda” come prevede la nostra tradizione gastronomica, il Carnaroli, invece, si presta maggiormente per risotti sgranati, come quelli all’isolana o alla mantovana. Dunque non è solo una questione di gusti, o di bocche raffinate, la scelta ha un suo fondamento organolettico che diventa fondamentale dopo la brillatura. Infatti i chicchi di riso di entrambe le varietà sarebbero incommestibili se consuma- È in oriente che sono stati rinvenuti i più ti così come antichi reperti relativi al riso, trovati nell’attuale Indonesia, risalgono al 7000 a.C. Fuli offre la rono gli arabi, invece, a esportare la sua natura. Noi coltivazione nel nord Africa, in Spagna infatti siamo e in Sicilia; probabilmente ancora prima abituati a ve- dell’anno 1000 d.C. dere il chicco, ossia il frutto secco, svestito dai suoi involucri: il più esterno, ricco di silice, è rappresentato dalle glume fiorali, mentre i più interni sono costituiti dal pericarpo e dagli strati aleuronici, ed è solo dopo raffinazione o “sbiancatura” che i chicchi diventano quell’alimento energetico, in grado di fornire, da solo, dalle 330 alle 370 kcal per ogni 100 grammi di materia prima. Anche il suo impego come cibo eletto per sottolineare feste e momenti importanti è una conquista arrivata con il tempo, alle origini il riso era un alimento destinato alle tavole più povere anche se, è giusto dirlo, non mancava di certo nei menù confezionati a Palazzo Ducale per le cerimonie diplomatiche. Il celebre “risi e bisi”, infatti, è confermato da molte fonti documentaristiche come piatto forte delle solennità in occasione di San Marco, patrono della città lagunare e forse è proprio per questo che oggi lo troviamo tra gli alimenti più nobili in tutti i sensi. Vero o no, alla fine è forse più vero il no, nel senso che in realtà nella città del leone alato ci misero un bel po’ a comprendere la grande forza del riso come alimento, introducendolo solo come “spezieria”, fra i prodotti importati e commercializzati dall’oriente, e riducendolo ad appannaggio dei soli galenici e speziali che lo indicavamo come “bianco mangiare”, capace di porre rimedio ai disturbi gastroenterici, agli sta-

Curiosità

“Risi, bisi e fragoe” e la sua onda

Per uno strano caso del destino, in pieno Risorgimento, Giuseppe Verdi si trovò ad avere il cognome ideale per fungere da anagramma a “ Vittorio Emanuele Re d’Italia” quando inneggiare a tale possibilità significava essere imprigionati se non fucilati dalle truppe austriache che presidiavano quella parte d’Italia chiamata regno Lomabardo-Veneto dai dominatori d’Asburgo. Buon gioco dunque per i lombardi inneggiare e scrivere sui muri di Milano “Viva Verdi “ senza destare sospetti ma buon gioco fu anche per i veneti ripescare il risi e bisi dalla storia gastronomica della Serenissima, ormai assoggetta al giogo austriaco. Piatto al quale furono aggiunte le fragole per diventare un “risi, bisi e fragole“, proprio per inneggiare ai colori della futura bandiera d’Italia. Senza che i “crucchi riuscissero a capire del perché di tanto amore per quello che ai loro occhi era solo una minestra di riso. Sbagliando! Perché oltre a non essere una minestra il risi bisi e fragole non era nemmeno un risotto ma un risotto all’onda. Che viene chiamato in questo modo perché a fine preparazione, quando si muove con un colpo secco la pentola, il risotto crea una specie di onda sulla superficie. Se è troppo “bagnato” o troppo secco l’onda non la fa. Uno dei segreti del risotto all’onda è la mantecatura che va fatta con una componente grassa, come il burro, e generalmente con il formaggio grana padano o parmigiano reggiano ricordando che per un’onda perfetta il burro va tenuto in freezer qualche ora. Quando si manteca, lo shock termico tra il riso caldo e il burro freddo aiuterà il rilascio del cosiddetto latticello che da quella tipica consistenza morbida del risotto all’onda.

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IL PANORAMA GASTRONOMICO ti debilitanti o quale antiemetico e antidiarroico. Dai campi di Venezia al campo gastronomico del mondo dei cuochi, il passo dunque non fu breve, e fu solo alla fine del Rinascimento che venne eletto come il protagonista delle minestre, definite risotti, ma anche grande alleato per la farcia di antipasti e contorni o per la preparazione di dolci. A decretarne il successo, più che l’intraprendenza marciana, deve essere stato il suo valore alimentare e la sua versatilità nel rendersi davvero, con poca quantità di qualche altro ingrediente aggiuntivo, un piatto più che gratificante. Ecco è proprio in questa oculatezza, nel gestire gusti e sapori anche nell’estrema povertà endemica del Veneto rurale di ieri, che il riso è diventato una delle bandiere alimentari della nostra regione. Basta scorrere la “carta” di un qualsiasi ristorante di casa nostra per trovarlo “maritato” con una serie infinita di prodotti non certo nobili: dalle tradizionali rigaglie di pollo (fegatini e cuoricini), ai funghi, al radicchio, alle erbe di campo e via-via una lista che arriva a contemplare anfibi e pesci, come le ormai introvabili rane, gli altrettanto rari pesci gatto o i ghiozzi, meglio noti in area lagunare come “gò”. Che nel menù dello stellato Caffè Quadri di Piazza San Marco, forse per ironia della sorte visto che un tempo fu il salotto buono dei Dogi, è ancora uno dei piatti in gran voga.

Il celebre “risi e bisi” è confermato da molte fonti documentali come piatto forte delle solennità in occasione di San Marco, patrono della città d Venezia

Il ciclo del riso

1) Le attività iniziano nel mese marzo quando i terreni, dopo essere arati, vengono livellati 2) Ad aprile-maggio è il momento della semina. Esistono due tecniche per seminare il riso: una a secco, ovvero sul terreno asciutto, oppure sulla risaia già allagata. A decretare la tecnica è il tipo di terreno. 3) Per la coltivazione del riso è necessaria una grande quantità di acqua il cui livello nelle risaie deve essere continuamente corretto regolando le chiuse: diminuito nei periodi piovosi e aumentato in quelli più secchi. La funzioni principali dell’acqua sono quelle di attenuare gli sbalzi della temperatura e di controllare le erbe infestanti che vengono eliminate per soffocamento 4) In autunno il riso raggiunge la maturazione, la risaia viene svuotata dall’acqua e il terreno comincia ad asciugarsi: può cominciare la raccolta.

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5) Il riso raccolto si chiama “risone” e non è ancora pronto per essere lavorato, perché ha un grado di umidità troppo elevato: siamo attorno al 18-25% e per questo deve essere essiccato in un silos che abbasserà l’umidità al 13%, permettendone la conservazione. 6) Segue la raffinazione. Il primo stadio è la sbramatura, durante il quale viene tolta la “lolla”. Attraverso il passaggio del chicco in caduta libera tra due pietre (che ruotano in senso contrario l’una all’altra) viene tolta la prima parte di protezione del chicco. A questo punto abbiamo il riso integrale, cioè ancora ricoperto dalla pula, una membrana ricca di fibra. Segue poi la fase di sbiancatura dove il riso con più passaggi viene lavorato all’interno di un cilindro dentro al quale ruota una pietra che per abrasione toglie le altre parti esterne del chicco.


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AZIENDA AGRICOLA VITIVINICOLA

Gastaldi Gabriele

Il buon vino come si faceva una volta Sette ettari di vigneto condotti nel rispetto dell’ambiente e della più profonda tradizione del vino genuino

Da Settant’anni, generazione dopo generazione, portiamo avanti il nostro lavoro tra vigneto e cantina nel rispetto dell’ambiente e della nostra tradizione. La vendemmia per noi è una grande festa, il momento in cui raccogliamo il frutto del nostro lavoro durato un anno. Sono i nostri stessi clienti ad aiutarci nella raccolta, selezionando a mano i grappoli, in ragione del livello di maturazione degli acini; questa collaborazione la consideriamo un’operazione trasparenza: un modo per fare conoscere come nasce la qualità dei nostri vini

“La nostra attenzione nel produrre è rivolta alle esigenze dei nostri clienti, sempre più attenti alla qualità e alla genuinità del prodotto che scelgono di portare a tavola”

Gabriele Gastaldi

Durante la vendemmia sono possibili anche le VISITE DI SCOLARESCHE con piccoli laboratori in cantina per assistere da vicino al miracolo che ogni anno trasforma l’uva in vino

I nostri vini tipici IGT e DOC Corti Benedettine del Padovano • Merlot IGT • Cabernet IGT e DOC • Raboso IGT • Raboso rosato IGT • Bianco da tavola

• Chardonnay IGT • Sauvignon IGT • Moscato Spumante • Prosecco Extra Dry • Raboso Passito “Silio”

VENDITA VINO SFUSO – CONSEGNA ANCHE A DOMICILIO Via Motte, 7 - Candiana - Tel e fax 049 5349478 - ggastaldi@tiscali.it -

Azienda Agricola Gastaldi Gabriele


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A Corte Gemma le noci con il cuore dentro

La noce fa bene al cuore. Grazie ad una cospicua presenza di Omega 3 e Omega 6 è l’alternativa vegetariana al pesce. Un consumo di 40-80 gr al giorno, in una dieta equilibrata, aiuta la pulizia delle arterie, contrasta il colesterolo cattivo, previene le malattie dell’età senile come l’Alzheimer e la depressione Collaboriamo da quattro anni con l’associazione Cuore Amico di Chioggia

Nei pressi di Cona, precisamente a Monsole, sul confine tra la provincia di Padova e Venezia, la famiglia Filippi/Sturaro conduce la propria azienda agricola specializzata nella produzione di noci Lara e nell’allevamento di bovini

Ottobre, in questo mese a Corte Gemma quasi tutto gira attorno alle noci, proprio in questi giorni infatti si sta compiendo la raccolta dei frutti di oltre 12 mila alberi che crescono su 35 ettari di campagna. Lara è il nome della varietà coltivata qui, una noce scelta per la sua dolcezza che ben si presta a diversi impieghi, soprattutto nel campo dolciario. Un prodotto di altissima qualità, in virtù del fatto che la filiera è controllata e gestita totalmente dall’azienda nell’assoluto rispetto dell’ambiente. Proprio per questo Corte Gemma ha scelto di certificarsi “Friend of the Earth”. Il controllo dell’intera filiera trova la sua chicca nello spaccio aziendale km0, qui potrete trovare noci di tutte le misure nelle confezioni più svariate, nonché numerosi prodotti a base di noci come il celeberrimo nocino e diverse preparazioni di pasticceria secca come i zaeti, la crostata e la sbrisolona. Lo spaccio è anche una fornitissima macelleria Km0 certificata QV, dove potrete trovare i migliori tagli delle carni di Limousine e Charolaise allevati in azienda insieme ad un’ampia gamma di lavorati già pronti, pensati per andare incontro alle esigenze delle famiglie di oggi. Consigliato e richiestissimo è l’hamburger “Corte Gemma” con speckradicchio e noci: da provare e riprovare!

Il successo della noce ha spinto la comunità di Monsole ad organizzare la “Festa dea Nosa” in collaborazione con Corte Gemma. Un appuntamento giunto al terzo anno che riscuote sempre più presenze grazie alla qualità del servizio e del prodotto. Vi aspettiamo il 16 ottobre (per info e prenotazioni 3391926500)

Anche l’allevamento viene condotto in un’ottica di ciclo chiuso. Ogni elemento ritorna alla terra in forma di risorsa puntando su una filiera di produzione corta, l’unica che garantisce assoluta qualità e certezza del prodotto, perché interamente tracciabile. La nostra carne vanta il marchio QV: Qualità Verificata.

IL PUNTO VENDITA È ATTIVO DAL 1° DI OTTOBRE A FINE DICEMBRE esclusivamente nei giorni di venerdì e sabato con orario 8.30 - 12.30 e 15.00 - 19.00 Soc. Agr. Corte Gemma S.s. - Via Venezia, 42 - 30010 Monsole, Cona (VE) Tel. e Fax 0426 308239 - info@cortegemma.it - www.cortegemma.it


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TORTELL AIO MATTO Pasta sempre fresca per ogni stagione La produzione è “su misura”, ogni richiesta viene esaudita sia per i ristoranti, con forniture già in porzioni e paste ripiene pastorizzate per gestire meglio le scadenze, sia per le famiglie: perché qui ogni ricetta trova l’entusiasmo per il gusto della tradizione e la certezza del prodotto fresco Il meglio dei prodotti di stagione uniti al gusto della pasta fatta a mano: è tutto qui il segreto del Tortellaio Matto di Boara Pisani, il resto è passione. Certo, va precisato, che la pasta è realizzata con le migliori farine e semole, solo uova fresche e nessun colorante, mentre i ripieni sono ottenuti con i prodotti del territorio, impiegati secondo tradizione, ma soprattutto secondo stagione. È così che i colori del banco di vendita rispecchiano quelli del paesaggio circostante, e già in questi giorni ha iniziato a comparire il giallo intenso della zucca tra i tortelli, il bruno scuro delle castagne e il viola intenso del radicchio accompagnati dai

profumi dell’autunno come quello dei funghi o della patata americana, con la quale si preparano morbidi gnocchi, i famosi “maneghi” della tradizione polesana. Ma anche le paste trafilate o laminate vengono sistematicamente aggiornate negli aromi o nelle colorazioni, sempre naturali, proposte in abbinata con i sughi preparati “dalla casa”, con lepre, cinghiale, anatra, senza glutammati o conservanti, per accompagnarsi in un matrimonio sincero, rispettoso dei profumi caratteristici che anticipano l’arrivo della stagione fredda.

PRODOTTI DISTRIBUITI

SERVIZI

• PASTA TRAFILATA: Bigoli, linguine, maccheroncini, caserecce, bigoli mori (con farina macinata a pietra), spaghetti alla chitarra. • PASTA LAMINATA: Tonnarelli, papardelle, tagliatelle, taglioni, tagliatelline da brodo • PASTA COLORATA: Nero di seppia, Cacao, Pasta verde (spinaci, basilico, prezzemolo), Pasta rossa (bietola, pomodoro, peperoncino). • GNOCCHI: In diversi sapori: di patate, di zucca, con le patate americane, con scamorza. • PASTA RIPIENA: Tortellini di carne. Ravioli in diverse misure, formati e sapori • GASTONOMIA: Selezione di proposte pronte, anche su richiesta. Non il classico take away ma il sano gusto di mangiare slow, prodotti di qualità • SUGHI: All’amatriciana, al pomodoro, alla puttanesca, all’arrabbiata. Ragù alla bolognese, d’anatra, di cinghiale • DOLCI: Meringhe, Sbrisolona e tante dolci idee per la vostra tavola.

Pasta su ordinazione, Pasta fresca, Pasta fresca pastorizzata

INDIRIZZI E CONTATTI Tutti i prodotti possono essere acquistati presso il punto vendita di via I Maggio, 57 a Boara Piasani, tutte le mattine dalle 8.30 alle 12.30 e dal giovedì al sabato anche al pomeriggio con orario 16.30-19.30. Aperto anche la domenica dalle 9.00 alle 12.30, Il laboratorio è sempre operativo per ordini e prenotazioni, i mattarelli si fermano solo il lunedì. Presto anche on-line visitando il sito: www.iltortellaiomatto.it. il

TORTELL AIO MATTO

IL TORTELLAIO MATTO Sas via I Maggio, 57 - Boara Pisani - Cell. 345 1060541 www.iltortellaiomatto.it - info@iltortellaiomatto.it - Seguici su Facebook e Twitter per tutte le novità


ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE

Le giuggiole, del Prof. Adriano Mollica

TONICI NATURALI PER CURARE ASTENIA E AFFATICAMENTO FISICO E MENTALE Consumate sotto forma di estratto o tintura madre, sono ottime per alleviare l’ansia con effetti simili a quelli del più famoso ginseng. Aumentano le capacità cognitive dell’essere umano e la capacità di sopportare lo stress

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el nono libro dell’Odissea, Omero narra che romani lo importarono per primi in Italia e lo chiamaUlisse e i suoi uomini portati fuori rotta da una rono zizĭphus (o zizĭphus). Si presenta come albero tempesta, approdarono all'isola dei Lotofagi e può arrivare ad avere notevoli dimensioni che va in Tunisia (secondo alcuni l'odierna Djerba, che le dai 5 ai 12 metri di altezza; la struttura dell'albero è carte nautiche antiche riportano con il nome di Lopiuttosto articolata ed i rami sono contorti con una tophagitis). Alcuni dei suoi uomini una volta sbarcati corteccia molto corrugata, spesso ricoperti di spine. per esplorare l'isola, si lasciarono tentare dal frutto Si narra che proprio da una varietà di giuggiolo fosse magico del loto, che fece ricavata la corona di Il giuggiolo (Ziziphus jujuba Mill.) stata loro dimenticare mogli, faspine di Cristo. Il giuggiolo è una pianta a foglie decidue miglie e la nostalgia di casa. produce, oltre che un gran della famiglia delle Rhamnaceae, È probabile che il loto di cui numero di fiori di piccole parla Omero sia proprio lo viene chiamato anche “dattero dimensioni dal colore bianZizyphus lotus, un giuggiolo co verdastro, dei frutti simili cinese” in quanto il sapore selvatico e che l'incantesinell’ aspetto e nel colore ad dei frutti essiccati mo dei Lotofagi fosse proun’ oliva, con buccia di coloè simile a quello dei datteri vocato dalla bevanda alcolire variabile dal verde al bruca che si può preparare coi frutti del giuggiolo. no rossastro e polpa bianca-giallastra. È in grado di Il giuggiolo (Ziziphus jujuba Mill.) è una pianta a fosopravvivere ad inverni freddi fino a una temperatura glie decidue della famiglia delle Rhamnaceae, viene di -15 °C e non ha particolari esigenze di terreno. La chiamato anche “dattero cinese” in quanto il sapocrescita della pianta è molto lenta ed è quindi raro re dei frutti essiccati è simile a quello dei datteri. È trovare alberi di mole significativa. Esemplari di una spesso utilizzato come pianta ornamentale. Si ritiene certa età si sono collocati presso vecchie case coloniche il giuggiolo sia originario dell'Africa settentrioche o cascinali abbandonati. In molte realtà rurali era nale e della Siria e che sia stato successivamente coltivato nella zona più esposta al sole, ed adiacenesportato in Cina dove viene coltivato da millenni. I te alla casa, poiché si riteneva che fosse una pianta

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ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE portafortuna. I frutti, le giuggiole, se raccolti quando non ancora maturi (presentano un colore verde uniforme), hanno un sapore simile a quello di una mela aspra. Con il procedere della maturazione tuttavia, il colore si scurisce, la superficie si fa rugosa e il sapore diviene via via più dolce, fino ad assomigliare a quello di un dattero. Le giuggiole si consumano sia fresche, sia quando sono leggermente raggrinzite. C'è un solo nocciolo all'interno del frutto, simile a quello di un'oliva. Le giuggiole sono frutti che oggi compaiono con sempre minore frequenza sulle nostre tavole. Se ne trovano raramente nei supermercati e sui banchi dei mercati, invece un tempo questi frutti erano molto apprezzati e utilizzati largamente nella medicina tradizionale. Oggi le giuggiole si trovano soprattutto nelle zone del nord-est italiano, particolarmente in Veneto e i frutti si consumano nel mese di settembre-ottobre. Secondo gli scritti di Erodoto, le giuggiole potevano essere usate dopo aver fermentato, per produrre un vino, le cui più antiche preparazioni risalgono agli Egizi e Fenici. Si mangiano crude sia da fresche che essiccate e in cucina si utilizzano per la preparazione di composte e marmellate, oltre che di dolcissimi sciroppi e liquori. Nel 1612 il Vocabolario dell’Accademia della Crusca riportava l’espressione metaforica “andare in brodo

di giuggiole” che indica qualcosa di dolce e buono, è da secoli sinonimo di “gongolare” ovvero “andare in estasi”. Tuttavia l’origine di questo detto è misteriosa e forse può essere ricondotta all’ antica pratica contadina di conservare le giuggiole mature in vasi, da cui per infusione si otteneva un succo liquoroso dolcissimo, che veniva definito “Brodo di Giuggiole”. Ancora oggi ad Arquà Petrarca, dove i giuggioli sono piantati nei giardini di molte abitazioni, le giuggiole sono utilizzate per realizzare ottime confetture, sciroppi e il famoso brodo di giuggiole, un antico liquore. Tale liquore a bassa gradazione alcolica, deriva dall'infusione naturale delle giuggiole e di altra frutta; di colore rossastro ha un gusto dolce, vellutato e caratteristico, è ottimo come dopo cena, come digestivo e come liquore da meditazione.

Le giuggiole sono utilizzate nella medicina cinese per curare problemi respiratori, per alleggerire infiammazioni alla gola, raffreddori, bronchiti. Sono inoltre ricche di vitamina C e altri antiossidanti e proteggono il sistema cardiovascolare, irrobustiscono il sistema immunitario, contrastano la sinusite; contengono sali minerali quali potassio e magnesio. Secondo recenti studi scientifici, i frutti sono efficaci nell’alleviare gli stati d’ansia, il nervosismo, la depressione e l’insonnia, inoltre sono ottimi tonici naturali in caso di astenia e affaticamento fisico e mentale. Infatti le giuggiole potrebbero essere consumate sotto forma di estratto o tintura madre, per alleviare l’ansia con effetti simili a quelli del più famoso ginseng, aumentando le capacità cognitive dell’essere uma-

no e la capacità di sopportare lo stress. Hanno un blando effetto lassativo. Purtroppo, le giuggiole insieme a nespole, azzeruole, corbezzoli e sorbe, fanno parte di quei frutti ormai dimenticati che nei secoli scorsi erano estremamente apprezzati, mentre attualmente, stanno scomparendo dai grandi mercati. È tuttavia facile reperirle presso coltivazioni casalinghe di appassionati. La giuggiola dei Colli Euganei è inserita nell’Elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e nel Comune Arquà Petrarca vi è una festa completamente dedicata alle giuggiole, che si svolge nei primi giorni di ottobre a cui gli appassionati e i curiosi non possono certo mancare.

Ad Arquà Petrarca le giuggiole sono utilizzate per realizzare ottime confetture, sciroppi e il famoso brodo di giuggiole, un antico liquore a bassa gradazione alcolica, derivato dall'infusione naturale delle giuggiole e di altra frutta; di colore rossastro ha un gusto dolce, vellutato e caratteristico, è ottimo come dopo cena, come digestivo e come liquore da meditazione

Usi medicinali delle giuggiole

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Saccisica, PERCORSI DA CONOSCERE di Efrem Tassinato

PICCOLI SANTUARI SU “LA VIA DI KAROL” L’Itinerario Europeo dei Piccoli Santuari che collega Roma a Wadowice in Polonia, dove è nato papa Paolo II, passa anche dalla Bassa Padovana toccando ben cinque luoghi della fede popolare: il Santuario della Madonna delle Grazie di Piove di Sacco, il Santuario del Cristo ad Arzerello, il Santuario della Beata Vergine della Misericordia di Terrassa Padovana e i monasteri benedettini di Correzzola e di Legnaro

I

l territorio tra Padova e Chioggia della Wigwam Loil recupero degli itinerari religiosi costituisca oggi una cal Community Saccisica è giusto sul percorso de qualificante opportunità di valorizzazione del territoLa Via di Karol, l’Itinerario Europeo dei Piccoli Sanrio in termini culturali e turistici. E non bisogna pensatuari che ai suoi terminali ha Wadowice in Polonia e re a una nicchia dove la terza età impera, anzi. Una Roma. Ovvero, il luogo dove è nato e “tutto ha avuto voce particolare è quella dei giovani che desiderano inizio” e dove ebbe termine il viaggio terreno di Papa sempre più ritrovarsi, motivati da una comune condiSan Giovanni Paolo II, al secolo Karol Woytjla. visione dei valori. Accanto alle motivazioni spirituali i In Saccisica, questo percorso di turidati del turismo religioso testimoniano smo religioso - ma che è anche di invito il potenziale del bene religioso come all’incontro tra le Comunità Locali delle risorsa per lo sviluppo sostenibile del regioni attraversate nei cinque Paesi territorio. (Polonia, Slovacchia, Austria, Slovenia e Un programma di visita tipo si può reItalia), perciò anche di promozione dei alizzare in un weekend con ristoro coi rispettivi territori, culture e prodotti tipici prodotti tipici locali - come Lardo della – propone ben cinque luoghi della fede Saccisica e Dolcetti di Pontelongo - al popolare: il Santuario della Madonna Wigwam Circolo di Campagna Arzereldelle Grazie di Piove di Sacco, il Santualo, dove sarà illustrato l’intero itinerario rio del Cristo ad Arzerello, il Santuario de La Via di Karol. Il pernottamento per della Beata Vergine della Misericordia famiglie e piccoli gruppi si potrà prenodi Terrassa Padovana, appena ai martare presso i B&B mentre per i gruppi gini della Saccisica propriamente detta un po’ più consistenti, all’Hotel La Corte e quindi i monasteri benedettini di Corche offre alloggio tra le antiche mura rezzola e di Legnaro. I dati dimostrano Il Cristo ligneo del Santuario del Monastero Benedettino di Correzdi Arzerello quanto la conoscenza, la promozione e zola.

GLI INDIRIZZI WIGWAM CHEQUE: B&B El Rustego - via Garibaldi, 18 - Casalserugo (PD) Tel. 346 6213419 - info@bbelrustego.it www.bbelrustego.it (Wigwam Cheque 10%) B&B Vecchio Ponte - via C. Giorato, 75 Ponte San Nicolò (PD) - Tel. 049 717981 Cell. 349 7910202 - smonker@libero.it (Wigwam Cheque accettati 10%)

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Hotel La Corte - via Petit Foret, 6 - Correzzola (PD) Tel. 049 5807277 - Cell. 334 6750739 lacortehotel@gmail.com - www.lacortehotel.info (Wigwam Cheque 10%) Wigwam Circolo di Campagna Arzerello - via Porto, 8 Piove di Sacco (Pd) - Tel. 049 9704413 - 333 3938555 arzerello@wigwam.it (Degustazioni prodotti tipici locali ed altri servizi Wigwam Cheque 10%)


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LA RECENSIONE di Renato Malaman

Al Portico

PROSCIUTTO DA AMARCORD L’ex osteria di Conetta ancora oggi presenta fra i suoi “must” un crudo di Parma di alta qualità artigianale. Il successo del locale della famiglia Vegro nasce da una scelta rigorosa di materie prime e da una passione non comune per le cose buone

?

PERCHÈ

Recensione

Renato Malaman, noto enogastronomo padovano, visita per la nostra rivista i ristoranti della Bassa Padovana, dell’area euganea e dei territori limitrofi più ricchi di tradizione, per raccontare storie, personaggi e piatti che nel tempo li hanno resi celebri. Esprimendo anche una sua valutazione sulla qualità attuale della proposta

S

elezione! Selezione al limite del maniacale. Per il palato dei clienti ma anche per soddisfare una propria passione. Tiziano Vegro s'è innamorato del proprio lavoro proprio perché gli piacciono la ricerca del prodotto "giusto" e il confronto continuo con chi ne sa di più. La lista dei fornitori di fiducia è lunghissima: Gianni Frasi - uno dei più famosi torrefattori italiani di caffè, selezionatore di pepe di Sarawak e musicista blues - c'è entrato quando ancora non era una stella polare del settore. Vegro è il titolare dell'Antica Trattoria "Al Portico" di Conetta di Cona, borgo di poche anime al confine tra le province di Venezia e di Padova. Al Portico è un locale di tradizione che ha costruito la sua fama sul prosciutto. Sul Parma in particolare. Ancora oggi il locale affetta dalle 15 alle 16 cosce al mese, tutte provenienti da un piccolo produttore artigiano di Langhirano: stagionatura 30-36 mesi. Al Portico (che all’inizio era un’osteria - casolino) si sono fermate generazioni di "pendolari" del mare, specie quando quella di Cona era l'unica strada per raggiungere Sottomarina. Il locale lo aveva fondato papà Ferdinando, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. All'inizio furono trippe, rane e "pasta e fagioli". Ferdinando ha cucinato persino quando era prigioniero in Germania. Tiziano Vegro ha preso il timone del locale all'inizio degli anni '90 e ha trasformato la trattoria in una sosta gourmet, capace di coniugare qualità e semplicità. Parte del successo della cucina va ascritto alla moglie Maruzzella e, oggi, anche al figlio Giovanni, cresciuto a suon di stage importanti eppure così bravo a fare sintesi semplice di concetti complessi. Completa il quadro familiare la figlia Francesca in sala, aria sbarazzina ma competenza adeguata. Assaggiamoli alcuni piatti del "Portico" (che da gennaio sarà anche pizzeria gourmet). Il prosciutto di Parma che Vegro seleziona non è più una sorpresa: giusta marezzatura, morbidezza. Che è buono lo si intuisce anche dal colore. Ideale d'estate con melone o fichi e d'inverno con altri abbinamenti. La parte finale delle cosce viene utilizzata per insaporire in cottura la pasta e fagioli, uno dei piatti must del locale. Lo assaggiamo: viene preparata con i fagioli di montagna, i Sarconi Igp della Basilicata, che vengono ridotti in crema. Un filo d'olio (fra i tanti in carta, una Garda

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Tra i must del locale le rane fritte, risotti, pasta fatta in casa e la carne alla griglia, selezionata con un’azienda locale


LA RECENSIONE La “pasta e fasoi” preparata con fagioli di montagna della Basilicata è insaporita con la parte residua delle cosce

Dop) esalta l'insieme. Questo è un piatto su cui si può andar sicuri da Vegro. Come le coscette di rane fritte, che alla clientela più giovane fanno storcere il naso, mentre ai più avanti con l'età ricordano quando il piccolo anfibio veniva catturato nei fossi. Il gusto è gradevole, non ricorda l'ambiente dello stagno. Le paste fatte in casa: altro punto di forza di Maruzzella per la loro “generosità” di ingredienti. In tavola i tagliolini con i finferli e un assaggio di gnocchi di ricotta con pinoli e pomodoro (stimolante il gioco di consistenze). Da provare anche le fettuccine al ragù d’anatra che Vegro prepara con carne della varietà Muller, le anatre bianche. È autoprodotto anche il Carpaccio di manzo ottenuto da lunga frollatura e sapiente marinatura: la carne è di un bel colore rosato chiaro uniforme e sembra sciogliersi in bocca. La qualità della carne, selezionata con un’azienda locale (la Pantano di Arre), è evidente anche nella grigliata o nel filetto. In autunno da non perdere il risotto con i porcini, dove il prodotto nostrano di bosco fa la differenza. Ecco: l’orgoglio di Vegro è di far percepire la differenza della materia prima che seleziona. Dall’insaccato ai formaggi, dall’aceto al sale, dalle verdure della giardiniera al radicchio di Treviso. “Da noi niente dado o insaporitori”, dice. Naturalmente anche i dolci sono fatti in casa. Periodicamente al Portico si tengono dei corsi di aggiornamento, di cucina e di pasticceria. Tra i “maestri” anche Sergio Mei del Four Season di Milano. Per la pizza (che Vegro non vuole chiamare così perché sarà una sorpresa) Zaghini e Bosco. Insomma, immersa nella campagna accostata all’ultimo lembo dell’Adige c’è un’oasi gourmet di inaspettato valore. Inaspettato meno per chi Vegro lo frequenta da anni e conosce bene Il giornalista Renato Malaman la sua passione vera per le cose con Tiziano Vergo, la moglie Maruzzella buone. e i figli Francesca e Giovanni

La Pagella

di Con i piedi per terra

⊲ Uso delle materie prime del territorio

⊲ Piatti in menù che seguono la stagionalità ⊲ Rielaborazione dei piatti della tradizione secondo fantasia e creatività ⊲ Accoglienza ⊲ Abbinamento vini ⊲ Rapporto qualità-prezzo


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Osteria Vineria

Un sentimento sincero per i sapori genuini A Borsea l’originale locale coniuga alle eccellenze della macelleria un’ospitalità raffinata e decisamente di buon gusto I sensi del gusto e dell’olfatto sono i sensi dell’uomo più direttamente collegati alla memoria, al tema del ciclico ritorno e dunque alle tradizioni delle stagioni contadine di cui l’autunno è certamente la più benevola per quantità e qualità delle materie prime che mette a disposizione. Oltre a ciò che in campagna in questa stagione matura, va ad aggiungersi la disponibilità di quello che spontaneamente la natura offre. Non è un caso, dunque, che la maggior parte delle ricette tradizionali siano legate alla stagione autunnale, come non è un caso che all’Osteria Vineria Le Carni il menù sia la corretta interpretazione gastronomica ed enologica dei sapori legati a questa parte del calendario, ovviamente in chiave Polesana. Sì perché, in questo speciale luogo, sospeso tra macelleria e ristorante, la linea della cucina segue rigorosa le ricette genuine delle nostre case di un tempo, abbandonando ogni sofisticheria per la ricercatezza nell’originalità dei sapori. “Il nostro ristorante si pone a metà strada tra la bottega e la casa - spiega patron Marco Verza - qui si può fare la spesa, ma poi se in cucina non si ha tempo, una cena o un pranzo da noi è come mangiare in famiglia”. La carne e i prodotti di norcineria sono il trionfo dell’oste-macellaio, la scelta, di fatto, è quella di una bottega delle carni con una selezione attentissima alla qualità che premia gli allevatori locali, ma la cucina si estende oltre il bancone ed è qui che entra in scena la moglie Vania con una carta dei piatti che fa onore ai suoi avi e segue quel principio che il cibo migliore è quello semplice preparato secondo stagione, a patto però di saperlo cucinare. E l’antica arte dei fornelli in via Savonarola a Borsea si è ricavata un ruolo importante, proprio come nume tutelare di tutta quella ricchezza che il Polesine offre con l’arrivo dei primi freddi. Così le paste fresche fatte in casa diventano regine incontrastate di minestre e minestroni, i tortellini si sposano solo con i brodi eletti ottenuti da galline o capponi, i bolliti sono una benedizione a patto che vengano serviti con il “cren”, ossia l’accento rodigino sul sapore delle carni, come tutto polesano è lo spezzatino di somarino, con polenta erbe di campo e “fasoi in potacin”. Tra i sapori rustici non mancano quelli della trippa o del “risotto con il prete”, autentica ricercatezza della casa, e grande importanza ha il compendio enologicograzie ad una cantina fornita delle migliori bottiglie di diverse celebrate etichette, ma che strizza volentieri l’occhio ai vini locali perché la stessa filosofia del cibo vale anche per il vino: tradizioni e territorio vengono sempre prima di tutto.

L’Osteria Vineria è aperta tutti i giorni a mezzogiorno e dalle 17.00 all’1.00. La domenica le pentole riposano OSTERIA VINERIA LE CARNI via Savonarola, 60/C - 45030 Borsea (RO) - osteria@lecarniborsea.it -

- Per prenotazioni 389 5281555


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n t o a i r o F DI

CORNOLEDA

UN OLIO EXTRAVERGINE DA OSCAR IN VIA CORNOLEDA A CINTO EUGANEO E QUASI TUTTO PRONTO PER LA NUOVA STAGIONE OLEARIA, INTANTO LA PRODUZIONE 2015 È STATA INSIGNITA DI PREMI E RICONOSCIMENTI INTERNAZIONALI È sempre la qualità a fare la differenza, soprattutto se si parla di extravergine di oliva. Una qualità, tuttavia, che per quanto riguarda gli extravergine etichettati Cornoleda è ribadita dai premi che il rinomato frantoio di Cinto Euganeo ha messo in bacheca. Grazie ai premi ottenuti ai principali concorsi Internazionali del settore quali: AIPO, DOMINA INTERNATIONAL OLIVE OIL CONTEST e OSCAR OLIVE OIL uniti alla presenza nelle principali guide internazionali come la GUIDA OLI GAMBERO ROSSO E FLOS OLEI, Devis e Jaci hanno visto riconosciuto anche quest’anno il frutto del loro lavoro di olivicoltori e frantoiani e premiata la loro scelta di puntare sulla produzione di alto livello. Perché per fare un ottimo extravergine non basta spremere le olive, bisogna invece curare la loro maturazione in campo, scegliere il momento giusto della raccolta anche in base alla varietà e alla stagione in corso, evitare ossidazioni e deterioramenti che possano portare a difetti nel prodotto finale attraverso un processo di frangitura, condotto nella più rigorosa osservanza dei valori della materia prima.

DALLA METÀ DI OTTOBRE ALLA FINE DI NOVEMBRE, IL RITO DELL’OLIO NUOVO Al Frantoio di Cornoleda fervono i preparativi per la nuova campagna olearia e le aspettative sono alte visto che la stagione è stata perfetta. Le tante giornate di sole degli ultimi mesi lasciati alle spalle, hanno reso inutile qualsiasi intervento tra i sei mila ulivi della proprietà e di sicuro i profumi e i sapori ne usciranno intensificati. Tra tutti spiccheranno l’amarognolo e il piccantino che sono la vera cifra dell’extravergine euganeo. L’occasione giusta per degustare l’olio nuovo potrebbe essere proprio una visita al frantoio durante il periodo della lavorazione, Devis e Jaci sono disponibili per assaggi e visite guidate

E vasta l’offerta del Frantoio di Cornoleda spaziando dai monovarietali come Rasara, el Matosso, Leccino e Grignano ai blend di cui fanno parte il pluripremiato Green Selection e il bio. Tra le etichette non manca la DOP Veneto Euganei e Berici ottenuta rispettando rigorosamente il disciplinare di produzione.

FINO A NATALE SIAMO APERTI PER VOI TUTTI I GIORNI, VENITECI A TROVARE FRANTOIO DI CORNOLEDA S.A.S. di Zanaica Devis & C. • via Cornoleda, 15/B • 35030 Cinto Euganeo (PD) Tel. 0429 647123 • Mob 380 7177284 • www.frantoiodicornoleda.com • info@frantoiodicornoleda.com

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IL PANORAMA GASTRONOMICO di Martina Toso

PATATA AMERICANA DE.CO. DI ANGUILLARA

Ingrediente speciale in cucina

Nel centro di produzione forse più famoso in Veneto del celebrato tubero, da anni ci si è posti il tema del suo impiego in cucina affidando alle mani di abili chefs la realizzazione di un menù di gala che prevede il suo utilizzo dall’antipasto al dolce

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a patata americana sta all’autunno quasi per antonomasia, per essere quel prodotto che tradizionalmente nelle nostre case viene consumato con l’arrivo dei primi freddi per completare il pasto. Preparata prevalentemente lessa, rappresenta un compendio a metà strada tra la frutta e il dessert, una preparazione un po’ più articolata si prepara invece in Polesine, sostituendo nell’impasto degli gnocchi la patata comune con quella americana: sono i famosi “maneghi” serviti con burro fuso, zucchero e cannella. La storia popolare degli impieghi in cucina di questo straordinario prodotto si ferma qui, forse per la sua breve storia o forse per l’estrema povertà con la quale avevano a che fare le cucine delle case delle nostre campagne fino a non molti decenni fa, ma in realtà la patata americana è molto duttile e si presta a molti impieghi. Lo dimostra il ricco ricettario che, edizione dopo edizione, è andato definendosi in occasione della Festa della patata americana De.Co. di Anguillara, dove ormai da quasi dieci anni la cena di gala - che fa da apripista all’evento locale - ha impegnato validissimi chefs nell’interpretare questo prodotto in menù sempre diversi. “La patata americana è un prodotto estremamente duttile - spiega lo chef Davide Filippetto, che da anni si occupa dei piatti della rassegna anguillarese - il

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suo gusto dolciastro si presta a contrasti e accompagnamenti che oggi sono molto ricercati in cucina. Per questo sta bene con gli agrumi, con la selvaggina o con il fegato. Un piatto che mi diverto a preparare, anche perché mette insieme un prodotto rustico come la patata americana e uno ricercato come il fegato d’oca, è appunto patata americana, fichi e fois grass, ma starebbe bene anche con i formaggi e ovviamente nei dolci. Serve comunque molta attenzione nel prepararla, non tanto per la cottura in quanto sono solo tre i procedimenti: lessata in acqua, al vapore o al forno, ma per il suo alto contenuto di amidi e zuccheri che potrebbe sovraccaricare eccessivamente i valori nutritivi del piatto, nonché i sapori diventando stucchevoli. Anche il contenuto d’acqua potrebbe essere un problema, per gli gnocchi o per le farce, ad esempio, consiglio vivamente di evitare la lessatura della patata, in quanto farle assorbire ulteriore umidità potrebbe compromettere l’impasto, portando all’eccedenza di farina (nel caso degli gnocchi) o rendendo il risultato finale molliccio e poco apprezzabile al palato. Dunque meglio scegliere una cottura al forno. Comunque sia, la cucina è sperimentazione e la patata americana, anche per suo basso costo, si presta ad essere un prodotto con il quale divertirsi ai fornelli, basta un po’ di fantasia”.


IL PANORAMA GASTRONOMICO Menù della cena di Gala della Patata Americana De.Co. di Anguillara 2016

Entrée

Panella di Ceci soffiata, composta di Patata Americana De.Co. all’arancia e Anguilla Affumicata Piccolo Gâteau di Patata Americana De.Co. e Asiago Vecchio di malga, Chutney di Zucca Polpettina del Cortile e Patata Americana De.Co. in crosta croccante con provetta di Passionfruit

Antipasti

Baccalà in due cotture, Fritto in Crosta di Pane e Mantecato, Agrodolce di Patata Americana De.Co. e Pistacchi Vellutata di Patata Americana De.Co. alla Crème fraîche, composizione di Trombette nere, Rape e crocchetta di Sarde

Primi

Patata Cotta alla brace, ripiena di Cotechino al Cucchiaio ricomposta, Germogli e fondente di Taleggio Maccheroncini ripieni di Patate Americane, burro emulsionato allo Zafferano e ragù di Ossobuco di Vitello, Gremolada

Secondo

Cosciotto di Maialino da Latte in cottura di Erba Luigia Carciofi confittati e saor di Patata Americana De.Co.

Pre - Dessert

Zuppetta fredda di Patata Americana De.Co. e Pere al Vin Brulé, Soffici di Yogurt e Olio di Mandarino

Dessert

Panna Cotta di Patata Americana De.Co., Cioccolato, More e Polline Caffè e piccola Sacher di Patata Americana

Nella foto lo chef Davide Filippetto, la sua cucina affronta con tecniche moderne i piatti tipici della cucina veneta

Patata Americana di Anguillara, dal Brasile alla De.Co.

Il documento più antico che riguarda la presenza della patata Americana ad Anguillara Veneta, si trova nell’archivio della Società d’Incoraggiamento dell’Agricoltura di Padova. Porta la data del 1853 e riguarda l’allora parrocco del paese rivierasco all’Adige, don Isidoro Piovan, che già al tempo coltivava a patate americane una superficie di 3.430 metri quadri, poco meno di un campo, ubicato nei pressi della riva sinistra dell’Adige, ricavando 5.500 libbre di prodotto e un utile di 333,75 lire. La diffusione di questa coltivazione, tuttavia, avviene dopo un cinquantennio quando iniziò ad essere coltivata con buon successo dai primi emigrati che rientrarono in paese dal Brasile. Pare, infatti, che la sua mancata diffusione fosse legata al fatto che non era ancora stata messa appunto la sua riproduzione: della patata Americana viene piantumata la pianta ottenuta per talea non per semina del tubero, come avviene con la patata comune. E a quanto attestano le memorie paesane sono stati proprio li immigrati di ritorno a portare le talee ad Anguillara, immergendole in grandi tinozze piene d’acqua per avitare il loro appassimento durante il lungo viaggio di rientro dal Nuovo Mondo. L’immediata fortuna, circoscritta al comune di Anguillara Veneta, si spiega con le caratteristiche di indiscussa unicità dei terreni alluvionali, con la successiva bonifica e con la situazione fondiaria, che nell’arco dei secoli ha caratterizzato questa particolare località del Basso Padovano. Oggi la produzione di patata americana interessa oltre Anguillara i comuni limitrofi di Boara Pisani, Stanghella, Solesino e Pozzonovo, per una superficie che copre appena 40 ettari di terra. Si tratta di una produzione piuttosto piccola che non supera i mille quintali l’anno, ma è qui che si nasconde il segreto della sua qualità perchè in questi limiatati numeri esiste la possibilità di condurre la sua coltivazione secondo i canoni dell’agricoltura tradizionale, senza alcuna concimazione, nè uso di trattamenti antiparassitari, come del resto è previsto dal disciplinare di produzione affidato direttamente al Ministero per le Politiche Agricole. La patata Americana di Anguillara, infatti, è un prodotto De.Co. (Denominazione Comunale d’origine) non si tratta di un vero e proprio marchio, ma rappresenta un riconoscimento concesso dall’Amministrazione Comunale per questa produzione strettamente collegata al territorio e alla sua collettività.

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Il dialetto,

UNA FORMA DEL PAESAGGIO Se cambiano i lineamenti dell’orizzonte, cambia anche il modo di chiamare le cose. Perché esiste un rapporto tra la lingua e i luoghi, il numero di cose “piantate” sui quei luoghi e la confidenza che l’uomo ha con questi

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fficialmente la lingua veneta è classificata fra le lingue viventi nel catalogo “Ethnologue”, lo schedario che raccoglie tutte le lingue ancora attive nel mondo. Parlata da circa tre milioni e mezzo di persone fuori dal Veneto, rimane una lingua ancora ben presente nell’area istriano-dalmata e sopravvive nelle zone raggiunte dall’immigrazione veneta tra la fine dell’Ottocento e il dopoguerra. Tuttavia da qualche anno registra una regressione all’interno dei confini della nostra regione. Secondo i dati dell’Istat la percentuale di chi continua a parlare la lingua degli antenati oscilla tra il 40 e il 50% dei quasi cinque milioni di individui che formano la popolazione veneta, ma se da questa togliamo gli anziani e le persone di bassa scolarizzazione, per il quale il veneto è sempre stato la lingua esclusiva, ci si accorge che le cose stanno cambiando. Se ne era accorto ancora decenni fa Luigi Meneghello, il grande scrittore vicentino, autore di libri di successo come Libera nos a Malo, Pomo pero, I piccoli maestri, mettendo l’idioma in relazione ai cambiamenti sociali innescati con la nuo-

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va ricchezza raggiunta, con i simboli del nuovo status che necessariamente ha richiesto il taglio netto con ogni richiamo al mondo della povertà contadina, alle strettezze e alle tribolazioni, sentite come “cose in dialetto”. “Vediamo benissimo che sta nascendo qualcosa di nuovo - scriveva - in principio sembrano assurdità e ghiribizzi, poi ci si accorge che occupano le strade, le osterie, le case, diventano il fondo del paese, e i ghiribizzi siamo noi”. La lingua, infondo, è una forma di registrazione del “sensibile” un codice che cambia con il cambiare delle cose. Per questo la

Luigi Meneghello


Dialetto e teatro, PAESAGGI SONORI

morte di una lingua non dovrebbe spaventare più di tanto, al più dovrebbe spaventare il come cambiano le cose, la loro direzione, ed è qui che anche il relitto di un dialetto potrebbe prestare soccorso, perché anche nella banalità di un nome proprio si potrebbero percepire le distanze, il numero dei passi che vanno in un’altra direzione. Le storture venete di un “Bepi”, di un “Menego”, di un “Bastian”, affibbiate un tempo come bisogni apotropaici di una fede ingenua e una vita condotta nella continua protezione dei Santi, se confrontate con agli attuali Brian, Rayan, Kevin o Maicol, segnalano una frattura profonda anche nel modo in cui si percepiscono le cose sensibili. Non è una questione di laicità o di religione, il punto è invece il rapporto con il paesaggio. In poche lettere si sente che oggi quell’antica precarietà dello stare al mondo è venuta meno, che i riferimenti dello spazio sono più ampi e che una certa fascinazione per la spregiudicatezza o per l’esotico spinge oltre il mondo noto. Un tempo era proprio il dialetto a restituire la posizione esatta dell’area di provenienza, dalle macro-aree provinciali, dove il ragazzo passava dall’essere “butelo” veronese, a “putelo” rovigoto o “toso” padovano, alle vere e proprie sfumature di circostanziazione locale, in grado di mettere in evidenza differenze anche tra paesi confinanti: bastava la “cèsa” al posto della “cìesa” e la provenienza era già una questione nota. Perché le parole cambiano, evolvono, in base ai luoghi, al numero di cose “piantate” sui quei luoghi e la confidenza che l’uomo ha con queste. Le parole nel loro circuitare libero, prima dell’etere, hanno sempre sbattuto contro le forme rigide del paesaggio ed è per questo che lungo le anse di un fiume troviamo meno varianti rispetto a quelle che si possono trovare oltre le due sponde. È qui, per descrivere le cose pratiche di un mondo pieno di biodiversità, dove l’ambiente cambia in ragione della propria natura geologica anche dentro a distanze limitatissime, che nasce la ricchezza del nostro dialetto, con l’obbligo di raccontare pure i particolari come l’odore o il gusto Carlo Goldoni

GOLDONI DESTINATO A RIMANERE UNICO

Non sono molti gli autori teatrali che hanno scritto in dialetto, certo Carlo Goldoni forse vale per tutti, ma la lingua del popolo è sempre stata usata poco. Secondo te perché? “In realtà Goldoni non scrive in dialetto, scrive nella sua lingua: il veneziano che fino allo sfacelo di Venezia rimane la lingua ufficiale dello stato, usata anche per gli atti legali e amministrativi. Chi scrive in dialetto, il pavano, semmai è Ruzzante. Poi non è vero che il dialetto è usato poco in teatro, anzi esiste una produzione copiosa di commedie in vernacolo, ma che per lo più sono produzioni parrocchial-popolari con canovacci legati a storie minime, vita di paese, nate senza responsabilità culturali e per questo non sono entrate nel Panteon del teatro. Ma la stessa cosa è successa anche per la letteratura, tolti Meneghello, Zanzotto, Camon e pochi altri, manca un cantore del veneto che abbia raggiunto la scena internazionale”. Manca qualcosa da raccontare? “Infondo no, ci sarebbe molto da dire, ma come popolo siamo poco propensi a portare in scena i fatti nostri. Più che altro ci si limita ai tic sociali, per ridere. Il teatro dialettale è quasi sempre comico e del resto la nostra società fino a ieri ha vissuto il dramma della povertà, ha patito i luoghi asfittici dei piccoli comuni, è stata più presa dal tirare avanti piuttosto che riflettere sulla propria condizione e il teatro, nel suo essere una forma di intrattenimento popolare, ha evitato la pesantezza dell’esistenza per essere “divertissement”. Per raccontarci servirebbe la tragedia, ma chissà come verrebbe in dialetto”. Insomma il dialetto rimane ancorato alla commedia dell’arte… “Direi di sì, il dialetto si lega a maschere e se non sono quelle di Arlecchino o Pantalone sono quelle della servetta o del carabiniere ingenuo che ancora oggi il cinema usa in forme stereotipe”. Tu usi il dialetto nelle tue opere? Raramente, ma nei tanti spettacoli che ho ambientato nel Medioevo ho cercato di costruire una lingua tra l’italiano e il pavano per rendere l’idioma di quel tempo. Di che cosa è fatto, invece, il tuo linguaggio teatrale? “Di musica, immagini e testi aulici” Piero Dal Pra’, pittore e fotografo, ma soprattutto scenografo, autore di testi teatrali e anima della compagnia Prototeatro di Montagnana, insieme alla moglie Adele Dall’aglio, da ormai 45 anni. Tanti i titoli di successo che hanno caratterizzato la lunga storia della compagnia: da Sinopie, a Stella Nigra fino a lavori recenti come “Bar sport”

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PAESAGGI SONORI impietoso, certo, per la lingua di Goldoni e Ruzzante, ma è un esempio calzante per dimostrare che la lingua non è una questione di cultura, ma che a volte può tornare ad essere la via più spicciola per indicare l’appartenenza ad un luogo. Ci potrebbe essere della nostalgia nel vedere le cose cambiare, ma del resto la lingua dei veneti è già cambiata mille volte. Ogni epoca ha imposto le sue condizioni, i veneti antichi parlavano una lingua con un alfabeto etrusco che è sparito quasi del tutto tra i veneti romanizzati. Con L’area in cui il dialetto veneto è parlato i nuovi dominatori anche le parole hanno cambiato da “freschin”, soprattutto là dove non c’è traduzione suoni. Secondo gli scritti di G.B. Pellegrini (1977 e italiana o di altra lingua per indicare una fragranza 1991) esiste l’ipotesi che l’antica lingua venetica abbia così sfaccettata. Esistono parole in dialetto che restiesercitato qualche influsso sul latino volgare parlato tuiscono i colori dell’acqua nei suoi minimi passaggi dagli antichi Veneti romanizzati nell’area centro-meridi sfumatura, la consistenza della crosta della neve o dionale e che quindi si potrebbe ritenere che l’erede ancora la natura della terra, è in questo che la lingua della “veneticità” originaria sia il veneto della pianuè paesaggio. Se cambia il paesaggio, cambia anche ra padovana, in parte vicentina e polesana (pavano), la lingua, perché - come sosteneva Meneghello - con non il veneziano che invece è stata la lingua imposta la morte di un dialetto non muore solo un modo diverdurante gli anni della dominazione della Serenissima. so di chiamare le cose, ma Non si trattò di un’azione muoiono le cose stesse. Le parole nel loro circuitare libero, coercitiva, ma successe Ecco, se il paragone è corcon i romani e continua prima dell’etere, hanno sempre retto, registrando il distacad accadere ora, ossia il sbattuto contro le forme rigide co dalla lingua è possibile dialetto delle campagne oggi capire quanto velo- del paesaggio ed è per questo che di terraferma, che erano cemente ci stiamo allonta- lungo le anse di un fiume troviamo state le capitali dei veneti meno varianti rispetto a quelle nando anche dall’ambienantichi, venne a qualificarsi te. Non è un caso che le come rozzo e poco adatto che si possono trovare oltre prime parole ad andarsene per gli atti legali e ammile due sponde siano state quelle tecniche nistrativi del nuovo stato dei mestieri di un tempo, parole prevalentemente ledominante. Ma ogni cultura di passaggio ha lasciato gate alla campagna e al suo basso orizzonte come la sua impronta nel vernacolo: di origine celtica sono “làghena”, “talponara”, “ragagnaro”. Non siamo più parole dell’area montana come sbaro (cespuglio) contadini, tra i nuovi mestieri c’è il “wedding-planner” carànto (terreno roccioso), braghe, tamìso, di origie i luoghi sono diventati “location”. Se oggi esiste la ne germanica sono invece tacón, broàre, sbregàre. necessità di nascondere il proprio retroterra sotto All’influenza greca nella nostra laguna dobbiamo paagli esercizi di dizione, vuol dire che si sta per tagliarole come góndola, angùria, pantegàna, pirón e due re il rapporto con il territorio locale, per abbracciarne parole-bandiera del Veneto sono, inoltre, di recentisuno più vasto, per diventarne parte, per mimetizzarsima acquisizione in quanto ascrivibili alla fase della visi dentro con l’aspirazione di sentirsi cittadini del dominazione asburgica (1797-1866) ossia: schèi, demondo, in perfetto allineamento con la prospettiva rivante dalla prima parte di Scheidemünze, “moneta dilatata dello spazio moderno. Oggi la tecnologia, la spicciola”, letta come era scritta nei centesimi austriarete, le comunicazioni ci rendono semplice l’essere ci e spriz, ossia il bisogno di allungare con dell’acqua qui e contemponeamente altrove in un paesaggio i nostri vini, troppo pesanti per i palati abituati alla birvirtuale dove i segni della stanzialità non hanno senra. Fatto sta che oggi spriz appartiene all’intero lessiso e per questo viene comodo rimuoverli, ma è piutco italiano, come del resto lo è ciao, lo “s-ciao vostro” tosto quando l’altrove viene qui che gli elementi del derivato dalla reverenza affettata aristocratica del salocale tornano ad essere strumenti di captazione e luto veneziano in forma di sottomissione. Insomma la l’adesione all’idioma è già una forma di integrazione. lingua necessariamente è lo specchio del mondo che C’è gente che si sorprende positivamente nel sentire abbiamo davanti perché ha valore pratico, serve per gli immigrati bestemmiare! “La saracca” e “il porco”, orientarsi e spiegarsi quanto accade all’interno del evidentemente, accorciano le distanze! Il paragone è paesaggio.

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ALLA TENUTA CIVRANA L’AUTUNNO È UNA FESTA Appuntamento il prossimo 9 ottobre nella grande campagna di 365 ettari di Pegolotte, per un’intera giornata: laboratori con la vita nei campi per i più piccoli, visite al percorso naturalistico e pranzo o cena in agriturismo La stagione autunnale è forse la più suggestiva per la nostra campagna, colori, profumi e sapori si intensificano. In fattoria è il tempo della raccolta: mele rosse e gialle, pere, maturate naturalmente quasi senza trattamenti, sono pronte per essere spiccate dagli alberi, mentre dagli orti l’andirivieni di casse di zucche, di radicchio, di porri o di melanzane si fa quotidiano sia per approvvigionare il rinnovato punto vendita aziendale che l’agriturismo, perché qui l’offerta è rigorosamente a chilometri zero. Alla Tenuta Civrana le stagioni scorrono come un tempo e anche gli spazi aperti ricalcano la campagna del passato: accanto alle superfici coltivate esistono ambienti naturali quali boschi planiziali, siepi e stagni, che svolgono un importante funzione di fitto depurazione e il momento giusto per conoscere da vicino questa particolare tenuta di 365 ettari e i suoi prodotti potrebbe essere il prossimo 9 ottobre, quando l’intera azienda sarà visitabile in occasione della “Festa d’autunno”. Per tutta la giornata si potrà prendere parte a diverse iniziative gratuite, rivolte soprattutto ai più piccoli: dai laboratori sul campo, come “sunare” il mais

Pegolotte di Cona (VE), Via della Stazione 10 Tel. 333 6662584 • Agriturismo 347 2220023 info@tenutacivrana.it • www.tenutacivrana.it

o pescare con le canne di bambù, all’intrattenimento con i giochi di una volta e con i canti popolari legati all’agricoltura. Come di consueto non mancherà la possibilità di partecipare alla visita guida sui percorsi che attraversano la campagna fino ad un’area naturale con boschi e laghetti dove circa 171 specie di uccelli vi dimorano stabilmente o vi fanno tappa per il “passo” autunnale. Nel cuore della Tenuta, infatti, 60 ettari di terreno sono stati lasciati alla natura, si tratta di una “Zona di protezione speciale” (Zps) strutturata con itinerari, passerelle, ponti e postazioni di avvistamento dei amici del cielo e non solo. L’incontro con animali schivi come tassi, volpi o faine, infatti, non è una rarità e farsi raccontare le loro mille storie dall’esperto Aldo Tonelli, che sarà la guida per tutta la giornata, sarà sicuramente un’esperienza da non dimenticare. Per tutta la giornata funzionerà l’agriturismo, per approfittarne e assaggiare i sapori di questa terra insieme al calore dell’ospitalità e alla buona compagnia basta prenotare…

TENUTA CIVRANA


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Barchessa

Contarini LA GRANDE BELLEZZA PER SOTTOLINEARE I MOMENTI FELICI

La suggestione data dalla bellezza e dai secoli di storia di una Villa Veneta, la pace di un angolo di campagna solcata dall’incedere sinuoso del grande fiume Bacchiglione, la professionalità di persone specializzate nel dare il giusto risalto ad ogni cerimonia: questo è Barchessa Contarini, semplicemente il posto perfetto per vivere le grandi occasioni

Quando l’aristocrazia veneziana sceglieva un posto per

CAMERE E OSPITALITÀ

edificare la propria villa lo faceva con grande scrupolo,

Per l’ospitalità di una tranquilla dimora antica, per la se-

poiché questa oltre ad essere il luogo deputato alla ge-

renità che offre il paesaggio circostante, per la facilità di

stione della campagna doveva essere un emblema del

collegamento con le maggiori città d’arte venete, come

potere della famiglia e una vera “delizia” per il soggiorno

Venezia e Padova. Per gustare i vini tipici delle colline

in campagna. Per questo a fianco di rustiche barchesse

dell’entroterra Euganeo, per rilassarsi nel salutare ed io-

e spaziose aie convivevano sontuosi giardini impreziositi

dato mare della vicina Sottomarina, per le ecologiche

da roseti e peschiere, vialetti e scherzi d’acqua. E il pro-

passeggiate in bicicletta lungo gli argini e le rive del fiume

curatore della Repubblica Francesco Contarini alla fine

Bacchiglione

del Cinquecento scelse un angolo di verde campagna solcata dal Bacchiglione per la gestione dei suoi affari e per la sua dimora. La volle molto bella e così è rimasta sia nella sua preziosa estetica di Villa Veneta che nella sua funzione di luogo di soggiorno e rappresentanza per cerimonie, meeting di lavoro o l’accoglienza di quanti per i propri momenti importanti volesse approfittare del lascito di quel dorato passato. A fianco dei saloni nobiliari affacciati su grandi portali in pietra d’Istria convivono le antiche cucine, dove ancora troneggia maestoso il focolare, la cantina, mentre la barchessa in estetica si accompagna alle linee classiche della villa e tutt’intorno, all’aperto, si espandono i profumi e i colori delle mille essenze del bel giardino all’italiana. L’ospitalità si completa con un servizio di catering impeccabile nella proposta dei piatti come nel servizio e nelle cura dei particolari, perché un momento speciale è davvero speciale se è perfetto. Barchessa Contarini - via San Valentino, 1565/B - 35129 Pontelongo (PD) 049 977 6599 - direzione@barchessacontarini.it - www.barchessacontarini.it


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Al Monastero di Candiana

di Sergio Longhin

RIFIORISCE IL GIARDINO DELL’EDEN Un progetto dell’Associazione Artestoria punta al recupero dell’antico “hortus conclusus” nei pressi del quale venivano coltivate le erbe officinali per la farmacia dei monaci Il Giardino delle delizie, di Hieronymus Bosch, databile tra il 1480 e il 1490, oggi conservato al Museo del Prado di Madrid

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l giardino dell’Eden, di biblica memoria, è un luogo metafisico, trascendente, popolato da piante, fiori e animali di ogni tipo, che le sacre scritture vogliono costruito “nei pressi di una sorgente di acqua pura e fresca”. Più volte nella storia, re, principi e monaci hanno cercato all’interno del loro “hortus conclusus” di riproporre questo luogo incantato di delizie. Anche i monaci candianesi di San Michele, nel corso del XVII secolo dopo aver sistemato chiesa e monastero, ebbero l’idea di costruirvi un pezzo di Eden. Sfruttando l’acqua di una risorgiva che spuntava lì nei pressi del monastero, vi edificarono sopra una grandiosa fontana posta al centro di un giardino all’italiana e, nei pressi, la nuova biblioteca, per custodire e

Sfruttando l’acqua di una risorgiva che spuntava lì nei pressi del monastero, vi edificarono sopra una grandiosa fontana posta al centro di un giardino all’italiana e, nei pressi, la nuova biblioteca, per custodire e tramandare ai posteri il loro sapere 56

tramandare ai posteri il loro sapere. La fontana, oggi demolita al pari dell’antica sorgente, era un chiaro riferimento all’”Albero della Vita”: il suo frutto principale l’acqua, fa nascere e crescere ogni tipo di fiori o frutti, alimento materiale dell’uomo, ma permette di elevare anche il suo spirito, ritemprandone l’anima attraverso gli studi di filosofia e teologia nella vicina biblioteca. L’acqua poi, lentamente defluiva e si raccoglieva nel fosso che ancora oggi costeggia il lato nord della cinta del brolo e qui ristagnava formando una piccola palude. Quest’area, oggi di proprietà della Parrocchia, versa in uno stato di quasi totale abbandono con l’antica mura aggredita dalle erbacce, la stradina bianca che un tempo ne cingeva due lati quasi ine-

Una serie di piastrelle di produzione candianese che ornava la camera del conte Bernardo Clès ora conservata nel Castello del Buon Consiglio di Trento, raffigurate una zanzara, una lepre, una chiocciola e a diverse specie di uccelli tutti tipici di quest’area


ARTETERRA

Il fregio del caminetto sansoviniano di Villa Garzoni a Pontecasale

turchesca per i fiori che vi venivano rappresentati e per la tipologia proveniente dalla costa anatolica. In particolare, ci fa pensare ad una produzione candianese dell’epoca una serie di piastrelle che ornava la camera del conte Bernardo Clès ora conservata nel Castello del Buon Consiglio di Trento, che rappresenta una zanzara (probabile regina incontrastata della nostra zona ieri come oggi), assieme ad una lepre, una chiocciola e a diverse specie di uccelli. A ricordarci che tipi di piante e animali popolavano la nostra terra nel ‘500 ci può essere d’aiuto anche il fregio del caminetto sansoviniano di Villa Garzoni a Pontecasale in cui l’architetto fiorentino scolpisce lucertole, rane, uccelli, serpenti assieme ad ogni sorta di frutti e di piante; un vero e proprio “elogio” della natura di questi luoghi al punto che il fregio viene “sostenuto” con i dovuti onori da due bellissime canefore. L’amore per la natura e la sua attenta e curiosa contemplazione, unite al desiderio di reinterpretarla artisticamente, era la linfa vitale di cui si nutrivano questi artisti del nostro rinascimento. Domenico Martinati, medico e botanico nativo di Pontecasale, attivo alla metà dell’Ottocento, era innamorato di questa nostra palude tanto da raccogliere e descrivere centinaia di piante e da donare all’orto botanico di Padova decine di funghi, di piante grasse, di piante di palude che lui cercava costantemente tra i nostri fossi, e oggi la stessa palude è oggetto di un progetto di recupero a cura dell’”Associazione Candiana Artestoria” che mira a recuperare gli antichi spazi e l’antica flora e fauna locale: un modo per salvare l’antico passato dei luoghi, ma anche un modo per guardare al futuro attraverso un’operazione culturale che va dalla botanica alla sociologia.

sistente, il fosso che raccoglieva tutte le acque dei campi limitrofi ormai in secca. Eppure, tra tutte queste erbe che oggi disprezziamo per il “disordine” che arrecano all’ambiente, vi sono sicuramente quelle da cui i monaci candianesi estraevano le sostanze medicinali per la loro farmacia: pillole, balsami, sciroppi, infusi vari, mentre gli artisti rinascimentali nella natura trovavano l’ispirazione per le loro opere. Agli angoli di una pagina miniata di un salterio da coro attribuita a Giulio Clovio, il più grande miniaturista del tardo cinquecento italiano, nel periodo in cui egli dimorava nel monastero candianese, sono rappresentati alcuni animali tipici della nostra palude all’epoca: un’upupa, un daino, una civetta e un picchio in un’altra pagina miniata dello stesso autore, una vegetazione lussureggiante spunta da ogni angolo e invade con i suoi germogli e fiori ogni spazio della miniatura. Tutti animali e piante che dovevano caratterizzare la palude candianese; animali che poi ricompaiono anche nelle ceramiche “candiaDue miniature attribuite a Giulio Clovio, rappresentano alcuni animali caratteristici ne” dette alla della zona

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Tra ottobre e novembre un ciclo di appuntamenti legati alla storia mantengono alta l’offerta culturale per la visitazione della Città Chioggia e il suo patrimonio sono qualcosa che merita di essere vissuto anche quando l’estate finisce e il mare perde d’essere attrazione per la balneazione. Del resto Chioggia è certo città marittima, ma è anche città d’arte, città storica e terra per tanti prodotti tipici di rinomata fama, che proprio in questa stagione si offrono alla tavola secondo ricette e usanze da secoli tramandate tra le generazioni di entrambe le sponde del Canal della Vena. Un patrimonio che merita non solo di essere esperito, ma profondamente inteso e condiviso ed è per il raggiungimento di questo duplice scopo che la locale Pro Loco lavora instancabilmente con progetti promozionali, di valorizzazione delle tradizioni o di intrattenimento anche in quei mesi in cui la Città e la sua Laguna si accendono di nuovi colori.

PRO LOCO CHIOGGIA Via Felice Cavallotti, 410 (già Calle palazzo) - 30015 Chioggia info@prolocochioggia.org - www.prolocochioggia.org


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I misteri e le leggende saranno protagoniste dei tre appuntamenti legati all’iniziativa dell’UNPLI Spettacoli di Mistero 2016 Chioggia e le streghe

Il mistero della Valle dei sette morti

31 ottobre ore 20.30, Centro Storico

12 novembre ore 15.00, laguna Sud Chioggia

In una città antica come Chioggia le storie e i racconti a sfondo “noir” non mancano e oltre a rappresentare l’opportunità di conoscere con il brivido queste antiche pagine sospese tra storia e racconto, offrono la possibilità ai visitatore di conoscere i luoghi meno noti della città. E dunque sarà dedicata alle streghe la visita itinerante che la pro Loco di Chioggia proporrà nella serata del 31 ottobre. Un viaggio di due ore tra le calli e gli anfratti bui dove un tempo veniva praticata la stregoneria, luoghi rimasti magici perché sospesi tra superstizione e arti occulte. La visita sarà gratuita, il ritrovo è per le 20.30 in Centro Storico

“La leggenda narra di sei pescatori che contravvenendo alle usanze della città uscirono a pescare il giorno dei Morti, al posto dei pesci, però, nelle reti rimase impigliato il cadavere di un morto: senza orecchi, senza naso, in avanzato stato di decomposizione per i troppi giorni passati in acqua”… il resto della storia verrà raccontato sabato 12 novembre durante un’escursione in motonave che ripercorrerà il tragitto di quei pescatori fino a giungere al casone in cui la leggenda colloca i fatti. Al rientro, una racconto teatrale riporterà in vita la storia di Toni Galeto, Nane Vardaore, Momolo Mucia, Nato Stravacao, Gigi Sralocio e Beppo Licatuto per raccontare nel dettaglio come andarono i fatti di quella giornata in quella valle che da allora continua a chiamarsi dei Sette Morti. Il lieto fine della giornata, sarà dedicato ai prodotti del territorio, che verranno serviti in degustazione. Per partecipare è necessario prenotare, i posti sono limitati, inviando una mail a prenotazioni@prolocochioggia.org o accedendo all’apposita pagina nel sito www.prolocochioggia.org. Il costo è di 15 euro

“Strigarie e malie in Clugia”

26 novembre ore 18.00, Centro Storico

"Fossa Clodia" Renzo Cremona racconta una Chioggia inedita

Alcuni secoli fa in Europa la paura della stregoneria portò alla famigerata caccia alle streghe, una bolla del papa Innocenzo VIII del 5 dicembre 1484 dava incarico a Jakob Sprenger e Heinrich Kramer di definire chi erano le streghe e come la legge doveva comportarsi nei loro confronti. I due scrissero un libro intitolato Malleus Maleficarum (Il martello delle streghe) che fu la base di molti processi che si tennero in tutta Europa, nelle grandi città ma anche in quelle piccole come Chioggia. Sabato 26 novembre in centro storico attraverso una piéce del teatro di strada, a cura del Gruppo folcloristico S. Andrea, verrà rievocato un processo di quei giorni bui. La partecipazione è libera

Dopo avere conquistato l'ambito Premio Istrana a Treviso e il Premio Nazionale Candia - Il Gioiello a Massa, il libro di Renzo Cremona, Fossa Clodia, verrà presentato nuovamente al pubblico, sabato 19 novembre alle ore 21.00, presso l’auditorium San Nicolò. Fossa Clodia è un viaggio dentro alla storia della città, a cominciare del titolo che riporta l’antico nome, in quaranta racconti in prosa poetica, alcuni dei quali in un dialetto chioggiotto, vengono raccontati le suggestioni dei luoghi, la singolarità dei personaggi e degli oggetti che ne danno vita e volto: il “somegero”, il “forte San Felice”, la “forcola”, lo “stravedamento” sono solo alcuni particolari di una città unica, magica, piazzata lì nel suo mare, che è accoglienza ma anche isolamento.

19 novembre ore 21.00, auditorium San Nicolò


Centro Sportivo

Sopra Andrea Galesso e sotto Jacopo Dal Moro, due giovani atleti cresciuti sportivamente al centro sportivo Le Tre Piume

Le Tre Piume OBIETTIVO CENTRATO La stagione estiva si è conclusa nel migliore dei modi, crescono le presenze alle manifestazioni e le piazzole ospitano trofei e gare sempre più importanti Con l’arrivo dell’autunno è tempo di bilanci per il centro sportivo Le tre Piume di Agna, e il saldo è molto positivo. Infatti, le manifestazioni e le gare che hanno dato corpo e sostanza al calendario estivo della struttura, hanno riscosso un notevole successo in termini di partecipanti e pubblico, andando ad incrementare le presenze già molto significative degli anni scorsi. Un vero pienone di pubblico ha calcato gli spazi attorno agli “stage” per il tiro ai primi di luglio in occasione dell’Independence Day, la competizione che da cinque anni porta in via Costanze pistoleri e tiratori da ogni parte del mondo, rigorosamente in abiti dell’Old West. Questa particolarissima competizione sta sempre più prendendo i connotati di una vera e propria manifestazione, attesa e seguita da più di un migliaio di persone che oltre allo spettacolo offerto dall’abilità dei tiratori e dei loro costumi folkloristici, partecipano anche agli eventi collaterali della quattro giorni, intrattenendosi a cene e concerti che ovviamente, come per le ambientazioni per il tiro, rispecchiano la più fedele anima “country”. “Per il prossimo anno - spiegano Giovanni e Mario Carli, gestori degli impianti - stiamo già pensando di esportare questo “spettacolo” al di fuori delle recinzioni del centro sportivo, con una sfilata che animerà il centro di Agna”. Segno che anno dopo anno le idee e i progetti dei due padroni di casa non si limitano al solo centro sportivo o alle discipline del tiro al volo, ma cercano il coinvolgimento e ricadute importanti di visitatori per l’intero territorio. Del resto un saggio importante delle

capacità organizzative che caratterizzano Le tre Piume erano state date anche lo scorso anno, in occasione dei Mondiali di Shotgun, grazie anche ad una struttura che è tra le più all’avanguardia in Italia, sia dal punto di vista dei servizi che della sicurezza. E le gare che “pesano”, nel mondo del tiro con le armi, non sono mancate neanche quest’anno, grazie alla Finale della Coppa Campioni della Fossa Universale a squadre che il sette di agosto ha portato i migliori specialisti della disciplina a rompere più piattelli possibile per far propria la “coppa dalle lunghe orecchie”. E tra i 160 tiratori arrivati dall’Umbria, dalla Toscana, dalla Liguria, come dalla Val D’Aosta o dalla Campania la battaglia è stata dura. Alla fina e spuntarla è stata la squadra veneziana de La Fattoria che, tiro dopo tiro, è riuscita a strappare l’ambito premio dalle mani della Contes di Siracusa, detentrice del titolo. Ma i campioni sono scesi in campo anche dal 13 al 15 agosto per partecipare all’ormai collaudato Trofeo della Città della Speranza - la competizione con la quale da dodici anni Le tre Piume aiutano la ricerca sulle malattie oncologiche infantili attraverso la devoluzione dell’intero incasso della cena che conclude la competizione - campioni di solidarietà, visto che la presenza e dunque l’incasso ha superato le cifre donate negli scorsi anni. Le piazzole sono tornate a riempirsi anche in occasione del recente Beretta Family Day, la giornata che l’importante marchio delle armi da competizione dedica alle famiglie, mettendo a loro disposizione i nuovi fucili e prove di tiro con gli

CENTRO SPORTIVO “LE TRE PIUME” via Costanze, 8 - 35021 Agna (PD)


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istruttori per avvicinare sempre più persone a questo sport, merito della presenza dei medagliati del tiro al volo alle recenti Olimpiadi di Rio ma merito anche del fatto che questa iniziativa è ormai di casa al centro sportivo di Agna, un bella giornata all’insegna della famiglia, dell’attività all’aperto e per Giovanni e Mario Carli una bella soddisfazione visto che Beretta sceglie sempre il centro sportivo di via Costanze per la propria promozione e sempre più spesso sostiene anche le iniziative targate Le tre Piume. La stagione non è ancora conclusa: l’1 e il 2 ottobre si disputerà il III trofeo “Ammiraglio Giuseppe Fioravanzo”, la competizione della Marina Militare organizzato dall’A.N.M.I., ma testa ed energie sono già rivolte al calendario per il prossimo anno.

INDIPENDENCE DAY

L’intera struttura è a disposizione per chi vuole mettersi alla prova • 8 CAMPI DA TIRO AL VOLO • nel quale ci si può esercitare in discipline olimpiche come la “fossa”, lo “skeet” e il “double trap” oppure le non olimpiche come la fossa universale, il compact sporting o il trap americano e percorso caccia • 15 STAGE PER IL TIRO CON LA PISTOLA • sia statico che in movimento • PIAZZOLE E BERSAGLI • per il tiro con l’arco • LINEE PER IL TIRO AD AVANCARICA • con vecchi fucili dell’Ottocento • 23.000 m2 ATTREZZATI PER IL SOFT-AIR • • 16 LINEE PER IL TIRO LUNGO • tiro con la carabina a canna rigata da 100 a 200 metri Presto le strutture per “FIELD TARGET” rivolto agli appassionati della carabina ad aria compressa

Orari ORARI TIRO A VOLO dal mercoledì alla domenica dalle 8.30 alle 12.30 e dalle 14.30 alle 19.00 mercoledi sera fino alle 23.00

Alcuni momenti dell’Independence Day, la competizione che da cinque anni porta in via Costanze pistoleri e tiratori da ogni parte del mondo, rigorosamente in abiti dell’Old West

Tutto quello che c’è da sapere del Centro Sportivo Definire il centro sportivo “Le tre piume” un poligono, oppure un centro di “tiro sportivo” è molto riduttivo. L’attività che viene svolta in via Costanze ad Agna, infatti, è ben più articolata e coniuga allo sport anche un servizio di ospitalità, con un ristorante che sforna piatti vini della tradizione locale, e un’area riposo dotata di piscina, che estende il piacere di una giornata all’aria aperta anche ai famigliari dei tiratori. Una piccola oasi verde dotata di ogni comfort, infatti, può essere lo svago perfetto per chi alle sagome o ai piattelli ama il relax di una giornata nella natura. Insomma, è il posto giusto in cui passare le domeniche è ovviamente per chi ama lo sport con le “armi” è un vero e proprio parco divertimenti. Non mancano le attività agonistiche con allenamenti e corsi, seguiti da Giovanni e Mario, per imparare l’antica arte balistica.

ORARI TIRO CON ARMI RIGATE mercoledì pomeriggio dalle 14.30 alle 19.00 sabato e domenica dalle 8.30 alle 12.30 e 14.30 alle 19.00

Il Trofeo Città della Speranza assegnato quest’anno, un’altra opera d’arte uscita dalle mani del maestro vetraio Badioli di Murano

L’1 E IL 2 OTTOBRE

si disputerà il III trofeo “Ammiraglio Giuseppe Fioravanzo”, la competizione della Marina Militare organizzato dall’A.N.M.I.

Tel. 049 9515388 - Fax 049 9519308 - info@letrepiume.it - www.letrepiume.it


NON C’È 2 SENZA 4 ZAMPE di Aldo Tonelli e Beatrice Zambolin

La volpe

NON MANGIA MAI L’UVA SE ACERBA

Poco amata dai contadini e dai cacciatori perché considerata razziatrice, svolge in realtà un importante ruolo ecologico anche nelle nostre campagne controllando le popolazioni di roditori: quali topi, ratti e anche nutrie

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ella favola La volpe e l’uva, l’antico scrittore greco Esopo narra di una volpe che, non riuscendo a raggiungere un grappolo d’uva, desiste dall’impresa incolpando l’acerbità del frutto. Tutti sappiamo il significato morale della favola ma questa storia ha qualcosa di più semplice da insegnarci, ossia che la volpe è un animale onnivoro e apprezza anche tutti i tipi di frutta, bacche e vegetali. In uno studio condotto nella città di Zurigo emerge come in ambiente urbano la frutta caduta rappresenta addirittura il suo alimento principale, seguita dalla carne. La dieta di questo mammifero è adattabile e varia a seconda del luogo, ma di solito si estende largamente agli insetti e si concentra soprattutto su piccoli mammiferi, in particolare roditori, includendo occasionalmente anche uccelli, anfibi, rettili, uova e

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pesci. Grande opportunista, integra i pasti approfittando di carogne e di qualsiasi cosa commestibile incontri. Fatto sfruttato da malintenzionati fuorilegge che, etichettandola a torto come animale nocivo, posizionano illegalmente trappole e bocconi avvelenati per eliminarla, non considerando che la volpe contribuisce al controllo dei roditori (ratti, topi, arvicole) che si aggirano nelle campagne e causando la morte anche di altri animali. Tanto più che tra le prede si annovera anche la nutria, grande roditore di importazione americana di cui si pensa erroneamente non esistano predatori. La volpe si muove a caccia di nutrie preferibilmente nel periodo primaverile ed estivo, quando i piccoli fanno le prime uscite al di fuori della tana, contenendone da subito il numero, e non mancano documentazioni di casi invernali in cui volpi caccia-


NON C’È 2 SENZA 4 ZAMPE no con successo adulti dalle dimensioni analoghe a quelle del predatore stesso. Caccia sempre solitaria e nel suo ambiente naturale con un po’ di fortuna si può scorgerla mentre compie balzi repentini che lasciano cadere l’animale, con le zampe anteriori protese in avanti, su un topolino o un’arvicola, sentiti poco prima sotto il suolo o tra i fili d’erba con il sensibilissimo udito. Con abitudini prevalentemente crepuscolari e notturne, osa aggirarsi di giorno negli ambienti dove non è disturbata, mentre solitamente con la luce del sole riposa tra cespugli o anfratti rocciosi oppure in tane scavate da lei stessa o abbandonate da qualche altro animale, come l’istrice e il tasso, con il quale a volte convive. Vive normalmente in coppia, insieme ai cuccioli, raramente solitaria o in gruppi di al massimo sei individui, strutturati a livello gerarchico e comunicanti tra loro tramite segnali visivi, sonori e olfattivi. È un animale molto territoriale, il cui spazio si allarga per alcune decine di chilometri quadrati, variando a seconda della disponibilità di cibo: più prede offre una zona meno ampia sarà l’estensione dell’area di caccia. Un territorio viene occupato da una sola coppia di volpi, più al massimo qualche errante, solo nei casi in cui venga meno uno dei due membri della coppia o addirittura entrambi, l’area viene invasa da una moltitudine di volpi emergenti che cercheranno di contendersi il territorio finché non verrà ristabilito l’equilibrio. Per questo motivo è molto importante che la coppia dominante venga lasciata indisturbata, pena un’invasione di volpi: un vecchio proverbio dice “Vicino alla sua tana, la volpe non fa mai danno”. Additata come razziatrice di pollame e spietata cacciatrice di lepri e fagiani, è nemica giurata di contadini e cacciatori. In realtà non le si può certo dar la colpa se fa facile bottino con animali semi domestici appena liberati, il cui istinto naturale è addormentato, o se trova la pappa pronta nei pollai. Per questo problema basta perimetrare i pollai con recinzioni alte almeno due metri, meglio elettrificate o ripiegate in sommità verso l’esterno, che scendano nel terreno per almeno mezzo metro. Nella comunità scientifica è noto che

Nella comunità scientifica è noto che la caccia alla volpe non diminuisce i disturbi legati alla sua presenza e non influisce sulle popolazioni, le quali si assestano da sole a seconda della disponibilità di cibo e degli ormoni che regolano la fertilità

Cucciolo di volpe

Vive normalmente in coppia, insieme ai cuccioli, raramente solitaria o in gruppi di al massimo sei individui, strutturati a livello gerarchico e comunicanti tra loro tramite segnali visivi, sonori e olfattivi la caccia alla volpe non diminuisce i disturbi legati alla sua presenza e non influisce sulle popolazioni, le quali si assestano da sole a seconda della disponibilità di cibo e degli ormoni che regolano la fertilità. Un’antichissima credenza giapponese tramanda che quando piove col sole da qualche parte si stanno celebrando le nozze tra due volpi. Quindi veder piovere col sole è qualcosa di magico che porta bene ma vedere la cerimonia nuziale delle volpi porta malissimo: ce lo racconta il grande regista Akira Kurosawa nel primo episodio del suo film “Sogni”.

Volpe che ha predato una giovane nutria

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