Il Libero Professionista Reloaded #34

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LA ROTTA GIUSTA

PER LEGGERE L’ARTICOLO

(clicca sul titolo dell’articolo per accedere ai link)

I mercati non si fermano di Alessandro Cianfrone

Un piano per crescere all’estero di Luca Savino

Made in Italy, sfida globale oltre i dazi di Dante Cruciani

La persona giusta al posto giusto di Andrea Barabino

Rivoluzione in culla di Alessandro Rosina Pnrr, il rush finale di Laura Ciccozzi

Caccia aperta ai cervelli Usa di Matteo Durante

Romania, un colpo ai sovranisti di Theodoros Koutroubas

PROFESSIONI

Professionisti, i più affidabili

di Camilla Lombardi e Ludovica Zichichi

Formazione, tutti i nodi al pettine di Antonio Capone

Giovani ingegneri, fuga dall’Italia di Isabella Colombo

Al lupo al lupo! di Francesco Orifici

Il declino del metaverso (e altre meteore) di Claudio Plazzotta

Al servizio dei bambini e delle loro famiglie

di Antonio D’Avino

Sulle orme di Lorenzo Lotto di Romina Villa

L’ultima birra è sempre la prossima di Roberto Carminati

L’Editoriale di Marco Natali

News From Europe a cura del Desk europeo di ConfProfessioni

Pronto Fisco di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi

Welfare e dintorni

Un libro al mese di Luca Ciammarughi

Recensioni di Luca Ciammarughi

In vetrina in collaborazione con BeProf

Post Scriptum di Giovanni Francavilla

Laureato in Economia e commercio presso l’Università di Torino è socio fondatore dello studio Airenti & Barabino, Commercialisti Associati. È referente del Gruppo di lavoro “Rapporti internazionali” dell’Ordine dei dottori commercialisti ed esperti contabili di Torino. Dal gennaio del 2022 ricopre la carica di presidente dell’Osservatorio internazionale dell’Ocdec di Torino. È membro del Comitato scientifico dell’Associazione internazionalizzazione commercialisti ed esperti contabili e componente della Commissione Internazionalizzazione delle imprese del Cndcec. Dal gennaio di quest’anno ricopre la carica di Senior Advisor di Apri International, società di Confprofessioni dedicata al supporto di professionisti e associazioni coinvolti nelle politiche di internazionalizzazione.

Laureato in Psicologia del lavoro nel 1993, consulente aziendale per lo sviluppo delle risorse umane, si è occupato di politiche attive del lavoro sui territori dirigendo l’Azienda Speciale della Camera di Commercio di Grosseto. Nel 2001 è diventato esperto del Gabinetto del Ministro del Lavoro Roberto Maroni sui temi della formazione e dell’orientamento. In questo ruolo ha partecipato all’ implementazione della riforma del mercato del lavoro. Ha collaborato alla nascita dei Fondi Interprofessionali. Nel 2005 viene nominato Direttore Generale dell’I.S.F.O.L. (oggi I.N.A.P.P.). Nel 2018 è Direttore della Confindustria Toscana Sud e dal novembre 2024 è Direttore delle Aree Operative di Sviluppo Lavoro Italia. È stato docente in numerosi Master e Corsi presso le Università La Sapienza di Roma e L’Università di Siena.

Dottore Commercialista è Ceo di Apri International e si occupa di internazionalizzazione e finanza d’impresa. Docente presso NIBI (Nuovo Istituto di Business Internazionale) di Promos Italia, ricopre anche la carica di Senior Advisor di DII Desert Energy. Nel corso degli anni ha acquisito una larga esperienza nei mercati emergenti e in quelli dell’area del Golfo.

Medico Veterinario con un corso di perfezionamento in Sanità Animale e in Igiene dei Prodotti della Pesca, da 30 anni è titolare di Clinica Veterinaria per piccoli animali. Ricopre la carica di presidente ANMVI Lombardia ed è membro del Consiglio Direttivo ANMVI, della Giunta esecutiva di Confprofessioni Lombardia e della Consulta Randagismo della Regione Lombardia.

« Il sostegno a 360 gradi all’export italiano è priorità di politica estera di questo Governo. Il nostro export potrà aumentare rilanciando la produzione attraverso, in primo luogo, l’abbattimento del costo dell’energia. Si tratta di accelerare la penetrazione delle esportazioni italiane in mercati ad alto potenziale, mentre lavoriamo in parallelo per sostenere l'export anche nei mercati tradizionali».

— Antonio Tajani, ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale

Andrea Barabino
Alessandro Cianfrone Francesco Orifici
Antonio Capone

Professore ordinario di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell'Università Cattolica di Milano, dove dirige inoltre il "Center for Applied Statistics in Business and Economics" (Laboratorio di statistica applicata alle decisioni economico aziendali). Ha insegnato alle Università di Padova, Sassari, Milano-Bicocca. È stato membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Statistica (anni 2010-2014). È coordinatore scientifico dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, dell'Osservatorio sulla Condizione giovanile della Regione Lombardia. Consigliere esperto del CNEL di nomina del Presidente della Repubblica (D.P.R. 05/05/2023). Ha svolto il ruolo di esperto in Commissioni ministeriali, Tavoli di lavoro Istat e Programmi della Commissione europea.

Dottore commercialista in Milano e Praga, consulente in materia di compliance societaria, analisi e sviluppo dei passaggi generazionali e attività di restructuring. Opera nell’ambito del precontenzioso e contenzioso tributario. Sindaco e amministratore in società quotate, è commissario straordinario in procedure di amministrazione straordinaria. Docente di economia aziendale all’Università di Trieste. È componente della Commissione Diritto Societario dell’ODCEC di Milano. Ha all’attivo diverse pubblicazioni.

Il Libero Professionista

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Alessandro Rosina Luca Savino

Globalizzazione, innovazione e nuovi mercati: la sfida dei professionisti italiani

Èun grande paradosso quello in cui viviamo. Da un lato la dimensione internazionale è soverchiante con i conflitti ma anche le tante sfide economiche che dominano lo scacchiere mondiale; dall’altro siamo presi d’assalto da una dimensione personalistica, quasi ombelicale in cui il privato domina sul pubblico, le sfide interne parlano un linguaggio divisivo, particolare e non universale.

Decifrare questo nuovo vocabolario non è semplice: non lo è per nessuno, nemmeno per noi professionisti chiamati a rispondere a questa sfida non per i nostri studi ma per la tenuta sociale ed economica del Paese.

Il presidente Sergio Mattarella ci ha ricordato con forza che «stare fermi non è più un’opzione». Di fronte alle molteplici crisi che attraversano l’Europa, questa esortazione vale per ogni settore: dalla difesa all’energia, dalla competitività all’innovazione. Anche i professionisti sono chiamati a rispondere con prontezza e responsabilità a questi cambiamenti, perché le sfide globali richiedono un impegno collettivo e consapevole.

Anche Mario Draghi ha sottolineato come l’ordine mondiale sia profondamente mutato, e come i rapporti commerciali, soprattutto con gli Stati Uniti, si siano ridefiniti in modo decisivo. La strategia economica che

dobbiamo seguire è chiara: investire, e farlo in fretta, per non perdere terreno nel contesto globale sempre più competitivo e interconnesso.

Quando si parla di innovazione, il pensiero corre subito a tecnologia e intelligenza artificiale, oggi sempre più presenti nelle nostre vite e nelle nostre professioni. Ma l’innovazione è molto più ampia: riguarda nuovi modelli organizzativi, sostenibilità ambientale, inclusione sociale e persino i cambiamenti nei comportamenti collettivi. In questo scenario i professionisti hanno un ruolo chiave da svolgere, non solo come utilizzatori di nuove tecnologie, ma come portatori di una visione etica capace di guidare un progresso equilibrato e responsabile.

E allora, ricordiamolo: l’apertura ai nuovi mercati non riguarda solo le grandi imprese, ma anche i liberi professionisti. Oggi nessuna realtà imprenditoriale o studio professionale può permettersi di ignorare le opportunità offerte dall’internazionalizzazione.

Essere accanto a queste realtà significa costruire insieme nuove opportunità e sviluppare competenze sempre più internazionali, una leva fondamentale per il futuro del lavoro e delle nostre comunità. E’ l’era in cui si richiama il ruolo decisivo dei pontieri. E noi lo siamo dentro e fuori la nostra categoria, dentro e fuori i confini nazionali. Siamo ponti economici, ma anche sociali.

La globalizzazione, l’innovazione e l’apertura ai nuovi mercati non sono semplici tendenze, ma la realtà che plasma il nostro presente e il nostro futuro. I professionisti italiani hanno davanti a sé una sfida impegnativa, ma anche una straordinaria opportunità: quella di essere protagonisti attivi del cambiamento, portando il valore del sapere, della competenza e della responsabilità al centro dello sviluppo sociale ed economico.

I fatti, le analisi e gli approfondimenti dell’attualità politica ed economica in Italia e in Europa. Con un occhio rivolto al mondo della libera professione

COVER STORY

I MERCATI NON SI FERMANO

di Alessandro Cianfrone

Il mutato contesto geopolitico impone a imprese e professionisti di riconfigurare le loro strategie nei processi di internazionalizzazione verso nuovi hub regionali. Africa, Asia centrale, Medio Oriente e America Latina rappresentano le nuove frontiere per l’export italiano. Ma serve una governance multilivello che sappia coniugare politiche pubbliche, investimenti mirati, incentivi alla formazione internazionale, accordi bilaterali per la mobilità delle competenze. Come emerge dall’Annual international meeting 2025

La geografia economica si è trasformata, i modelli di business si fanno più agili, le filiere si riconfigurano, le relazioni economiche si moltiplicano verso nuovi hub regionali. Africa, Asia centrale, Medio Oriente e America Latina diventano così aree strategiche non solo per l’export manifatturiero, ma anche per i servizi professionali.

In questi contesti, la domanda di consulenza fiscale, legale, ingegneristica, ambientale, sanitaria e tecnologica cresce di pari passo con i bisogni di sviluppo locale e attrazione di investimenti. È qui che entra in gioco il sistema professionale italiano: un comparto che unisce competenze avanzate, cultura del progetto e visione integrata.

Dai commercialisti agli architetti, dagli avvocati agli ingegneri, dai consulenti del lavoro ai tecnici della sostenibilità, il ventaglio di figure coinvolte è ampio. Ed è proprio la loro azione congiunta a

poter rappresentare un motore di internazionalizzazione efficace, inclusivo e di qualità. Lo scorso 21 maggio Palazzo Rospigliosi a Roma ha ospitato la terza edizione dell’Annual international meeting (Aim), evento di riferimento per il mondo delle libere professioni italiane che si proiettano verso i mercati esteri, ma anche un momento di confronto strategico sul ruolo delle competenze professionali nell’apertura ai nuovi mercati globali. Tema portante di quest’anno: “Globalizzazione, innovazione e apertura ai nuovi mercati: teorie e processi per l’internazionalizzazione”.

OBIETTIVO AFRICA

Tra i mercati analizzati all’Aim 2025, l’Africa occupa una posizione centrale. Un continente in profonda evoluzione, dove demografia, urbanizzazione e digitalizzazione stanno trasformando economie

e stili di vita. Ma è soprattutto nel settore dell’energia che l’Africa rappresenta una frontiera chiave. Secondo dati Ispi, entro il 2040 la domanda elettrica dell’Africa subsahariana potrebbe quadruplicarsi. Il solare fotovoltaico, in particolare, è destinato a diventare la prima fonte di generazione elettrica, superando l’idroelettrico. L’Africa dispone del 60% del potenziale solare globale, ma finora ha attratto solo il 2% degli investimenti mondiali nelle rinnovabili. Una contraddizione che evidenzia il bisogno di nuove partnership e competenze.

L’Italia ha confermato il proprio sostegno per la costruzione delle infrastrutture del Corridoio di Lobito, approvando uno stanziamento massimo di 320 milioni di euro. Tale annuncio è stato fatto durante il vertice del G7 del giugno 2024, e rientra nel Piano Mattei, parte integrante del Partnership for Global Infrastructure and In-

vestment (PGII), e del programma GlobalGateway dell’Unione Europea, che mira a mobilitare fino a 300 miliardi di euro in investimenti pubblici e privati fino al 2027. Tanti sono i vantaggi che l’Italia può trarre da questi investimenti, soprattutto per le aspettative delle tante aziende italiane.

Su questo fronte, i professionisti italiani possono giocare un ruolo decisivo. Gli esperti di progettazione ambientale, ingegneria energetica, auditing tecnico, normative di conformità e gestione del territorio sono risorse sempre più richieste nei Paesi africani che puntano sulla transizione ecologica.

Ma anche esperti di fiscalità internazionale, di contrattualistica cross-border e di digitalizzazione dei servizi pubblici possono offrire un contributo concreto allo sviluppo sostenibile.

Il ponte di Lobito in Angola

L’ALLEANZA TURCA

Rilevante, altresì, l’interesse dell’Italia a intavolare un dialogo politico e ad instaurare una forma di collaborazione con la Turchia, in particolare nel Corno d’Africa, nel Mediterraneo orientale, nei Balcani e in Libia. Probabilmente siamo l’unico Paese europeo ad avere delle buone relazioni con Ankara.

È molto importante osservare la capacità strategica di Erdogan, che ha posizionato il suo Paese su vari fronti: dall’ex Sahara spagnolo ai Balcani, dal Caucaso al Mar Rosso e scendendo sulle coste africane fino al nord del Mozambico.

UNA GOVERNANCE MULTILIVELLO

Un altro pilastro dell’Aim 2025 è la riflessione sul rapporto tra innovazione e professioni. L’intelligenza artificiale, l’automazione dei processi amministrativi e l’uso di piattaforme collaborative stanno

cambiando radicalmente il modo di lavorare anche per i liberi professionisti. In questo scenario, non si tratta solo di “adattarsi”, ma di guidare l’innovazione, dotandosi di nuove skill e proponendo modelli professionali che siano al passo con l’evoluzione tecnologica.

Per farlo, è necessaria una governance multilivello: politiche pubbliche, investimenti mirati, incentivi alla formazione internazionale, accordi bilaterali per la mobilità delle competenze. Ecco perché l’AIM ha coinvolto il Sistema Italia con Maeci, Sace, Ice-Agenzia, Simest, Unioncamere, insieme a camere di commercio internazionali e reti imprenditoriali.

Tra i progetti di punta, il Friendship Italia-Kenya Project, che ha portato in Italia giovani professionisti kenioti per un percorso immersivo tra imprese, studi professionali e mentoring. A dimostrazione di L'Annual international meeting, promosso da Confprofssioni e Apri International

come la collaborazione tra professionisti di Paesi diversi possa tradursi in trasferimento di know-how, sviluppo locale e creazione di reti stabili.

L’Aim non è solo un convegno: è un laboratorio, una piattaforma di idee, contatti e strumenti operativi. È il luogo in cui si delinea il futuro del lavoro professionale in chiave globale. In una fase in cui l’internazionalizzazione non riguarda più solo le grandi imprese, ma anche i singoli professionisti, AIM diventa uno spazio indispensabile per confrontarsi, aggiornarsi e costruire alleanze.

Come ha sintetizzato il Presidente di Confprofessioni Marco Natali, in vista dell’evento: «Il nostro Paese ha tutto ciò che serve per esportare valore: idee, competenze, affidabilità. I professionisti sono l’anima di questa proiezione. L’Aim è la nostra bussola per orientarci nei mercati che cambiano».■

Una fase dei lavori dell'Aim 2025

UN PIANO PER CRESCERE ALL’ESTERO

Stato, Regioni e università ricoprono un ruolo strategico per il successo delle operazioni di internazionalizzazione delle nostre aziende. Perché in un mondo instabile e sempre più frammentato, la concorrenza globale non può più essere affrontata solo facendo leva sui prezzi o sulla qualità dei prodotti. Ci vuole un sistema Paese in grado di accompagnare e supportare le proprie imprese oltre i confine nazionali

Oggi le imprese italiane interessate ad affacciarsi sui mercati esteri si misurano con uno scenario globale sempre più complesso. La ripresa del protezionismo, in particolare da parte degli Stati Uniti, i conflitti armati in Ucraina, Medio Oriente e in alcune aree dell’Africa sub-sahariana, nonché le crescenti tensioni commerciali tra le grandi potenze, stanno ridefinendo gli equilibri internazionali influenzando profondamente le strategie di internazionalizzazione. In questo contesto, le istituzioni hanno un ruolo cruciale da svolgere per accompagnare le imprese – in particolare le Pmi – in un percorso strutturato di apertura ai mercati garantendo strumenti efficaci, stabilità normativa e visione strategica. Tre in particolare sono le leve che le nostre istituzioni possono attivare:

1. Sostegno strategico tramite intelligence economica e diplomazia commerciale. Una delle priorità per il decisore pubblico è la creazione

di una vera “intelligence economica pubblica”, coordinata tra Ministero degli Affari Esteri, Ice, Sace, Simest, Mit e le rappresentanze regionali. Serve un sistema integrato di analisi dei mercati esteri che identifichi opportunità e rischi geopolitici in tempo reale, specialmente in aree ad alto potenziale ma a rischio politico.

2. Rafforzamento della diplomazia commerciale anche attraverso accordi bilaterali. Mirati in grado di compensare gli effetti negativi dei dazi e delle barriere non tariffarie imposte da attori come gli Stati Uniti. L’Italia potrebbe agire in ambito U per negoziare condizioni più favorevoli per i propri settori economici chiave come agroalimentare, meccanica e moda, colpiti dalle misure protezionistiche statunitensi.

3. Finanza pubblica e strumenti a fondo perduto o a tasso agevolato. Nel 2025, molte imprese si sono trovate in difficoltà nell’affrontare i costi di accesso ai mercati esteri: fiere, adattamento dei prodotti, certificazioni, costi legali, consulenza. Lo Stato e le Regioni dovrebbero ampliare gli strumenti di sostegno diretto, includendo: voucher per l’internazionalizzazione; contributi a fondo perduto per la partecipazione a fiere; prestiti agevolati tramite Simest; supporto nella protezione del credito per Paesi a rischio.

Inoltre andrebbe avviata un’azione coordinata per rafforzare la capacità amministrativa delle imprese, attraverso sportelli regionali unificati e l’integrazione delle misure nei fondi strutturali 2021–2027.

RETI DI IMPRESE

E per aiutare le Pmi italiane a trovare occasioni di business oltrefrontiera, Stato e

Regioni dovrebbero promuovere politiche attive per la creazione di reti di impresa per l’export, favorendo così la condivisione di risorse e servizi; la creazione di consorzi per l’export digitale e di piattaforme logistiche italiane nei porti.

Inoltre si potrebbe incentivare la creazione di hub logistici italiani all’estero attraverso partenariati pubblico-privati, per accorciare le catene di fornitura e superare i colli di bottiglia doganali.

Ma l’export, quando raggiunge una determinata soglia, manifesta la necessità di valutare anche l’apertura su nuovi mercati di una struttura dedicata.

FORMAZIONE E COMPETENZE

Va poi detto che per avere successo un’operazione di internazionalizzazione richiede figure professionali altamente specializzate. Per questo le istituzioni dovrebbero investire in programmi di alta formazione sull’export management

Le istituzioni hanno un ruolo cruciale da svolgere per accompagnare le imprese – in particolare le Pmi – in un percorso strutturato di apertura ai mercati garantendo strumenti efficaci, stabilità normativa e visione strategica

in collaborazione con università, Its e camere di commercio italiane ed estere. Andrebbero infatti promossi tirocini e borse di studio per giovani export manager, favorendo la mobilità internazionale e la conoscenza dei mercati extra-Ue. In parallelo si potrebbe introdurre un credito d’imposta per la formazione aziendale sull’export.

NON SOLO DIGITALIZZAZIONE

Ma c’è anche un altro step importante da prendere in considerazione per fare del business oltrefrontiera una leva di crescita economica strategica. In un mondo in cui i requisiti Esg sono sempre più centrali per accedere ai mercati e agli investimenti internazionali, infatti, l’internazionalizzazione va pensata come parte integrante della transizione ecologica e digitale.

E anche in questo caso il ruolo delle istituzioni è fondamentale perché le Regioni possono integrare tali azioni nei loro programmi Por-Fesr, promuovendo filiere produttive ad alta sostenibilità e visibilità internazionale. In questo quadro anche le Università possono avere un ruolo strategico mettendo a punto nuovi corsi sulle tematiche sopra descritte con l’obiettivo di formare nuove figure professionali e strategiche per supportare lo sviluppo delle nostre imprese.

Anche con l’ausilio della intelligenza artificiale con la consapevolezza che quest’ultima non può essere è risolutoria ma, se usata in modo appropriato, può indubbiamente accelerare i processi. Particolare da non trascurare in un periodo storico come quello attuale dove il fattore tempo rappresenta una delle leve principali per restare competitivi sui mercati.

Del resto oggi la concorrenza globale non la si affronta solo puntando sui prezzi o sulla qualità, ma sempre più sulla capacità sistemica di un Paese di accompagnare le

proprie imprese oltre i confini nazionali. In un mondo instabile e sempre più frammentato, la politica industriale – nazionale e regionale – deve dotarsi di strumenti flessibili, multilivello e coordinati.

Solo così l’Italia potrà valorizzare pienamente le sue eccellenze produttive, rafforzando la propria presenza nei mercati mondiali con resilienza e lungimiranza.■

MADE IN ITALY, SFIDA GLOBALE OLTRE I DAZI

Con una bilancia commerciale positiva, il nostro Paese vanta una solida tradizione nell’export di alta qualità in tutto il mondo. Tuttavia, il contesto geopolitico, segnato da conflitti regionali, nuove alleanze politiche e cambiamenti nelle strategie commerciali globali, sta mettendo a dura prova le imprese italiane. Che ora guardano ai mercati emergenti per mantenere la loro posizione sul mercato globale. Grazie al network dei professionisti

«L’Italia è una potenza mondiale dell’export, che vale il 40% del Pil. Siamo il 6° esportatore mondiale, la seconda economia al mondo e la prima in Europa per diversificazione merceologica di beni esportati. Siamo presenti in pratica in ogni settore. Con 623,5 miliardi di euro, l’export italiano nel 2024 ha visto una lieve riduzione in valore (-0,4%) risultante da una moderata contrazione nell’area Ue e dal record dell’export verso i Paesi extra UE, con 305,4 miliardi di euro (+1,2%)».

Il ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale Antonio Tajani parte da qui per illustrare il Piano d’azione per l’export italiano nei mercati extra-Ue ad alto potenziale: un articolato programma che punta a raggiungere 700 miliardi di esportazioni entro fine legislatura. Obiettivo difficile ma non impossibile, tenuto conto che il surplus commerciale del nostro Paese ha registrato un balzo del 61% nel 2024, raggiungendo quota 54,9 miliardi di euro.

Bisogna, tuttavia, fare i conti con la realtà. Il contesto geopolitico in continua evoluzione, segnato da conflitti regionali, nuove alleanze politiche e cambiamenti nelle strategie commerciali globali, sta mettendo a dura prova la capacità dell’Italia di mantenere la propria posizione sui mercati internazionali. Da una parte, il conflitto in Ucraina, l’aumento delle tensioni tra Stati Uniti e Cina, l’impressionante recrudescenza del conflitto israelo-palestinese, così come le politiche protezionistiche in diverse aree del mondo, sono solo alcuni degli elementi che contribuiscono a un quadro internazionale instabile. Dall’altra, il rallentamento dell’economia globale, le sanzioni economiche e il rischio di interruzioni nelle catene di approvvigionamento globali sono fattori che minacciano la competitività del made in Italy sui mercati internazionali.

Insomma, la globalizzazione sta facendo i conti con un progressivo ritorno al nazionalismo economico. Paesi come gli Stati Uniti e la Cina stanno incentivando la produzione domestica e limitando l’accesso ai loro mercati per i prodotti esteri, attraverso dazi o regolamentazioni più stringenti. Tanto per avere un’idea: nel 2024 l’export italiano verso gli Stati Uniti valeva quasi 65 miliardi di euro, mentre le esportazioni verso la Cina superavano i 15 miliardi di euro.

Non sarà semplice mantenere lo stesso ruolino di marcia. E mentre la politica europea e le diplomazie internazionali si sforzano per scongiurare una guerra commerciale senza frontiere e, al tempo

stesso, espandere la rete di accordi di libero scambio verso mercati emergenti; imprese e professionisti italiani si preparano a ridefinire le proprie strategie di internazionalizzazione, per aprire una nuova stagione di rilancio economico basata su competenze, investimenti e sinergie pubblico-private.

La materia è scottante: in gioco c’è la sopravvivenza di intere filiere produttive italiane, disorientate dall’instabilità economica e politica che si è venuta a creare dopo la decisione dell’amministrazione Trump di imporre pesanti dazi che colpiscono indiscriminatamente l’Europa e il resto del mondo. In questa cornice con molte ombre e poche luci, l’Annual international meeting, promosso da Confprofessioni in collaborazione con Aprinternational, ha acceso un faro sulle nuove dinamiche della globalizzazione, dell’innovazione e della diplomazia economica,

La terza edizione dell’Annual International Meeting, promosso da Confprofessioni in collaborazione con Aprinternational, si è svolta il 21 maggio scorso a Roma, nella cornice di Palazzo Rospigliosi

SCOPRI DI PIÙ

riunendo a Roma lo scorso 21 maggio tutti i protagonisti della crescita del sistema Italia nel mondo, istituzioni, imprese e liberi professionisti.

Un parterre d’eccezione che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Shadrack Mwangolo Mwadime, ministro del Lavoro del Kenya; Marco Natali, presidente di Confprofessioni; Luigi Carunchio, presidente Aprinternational; Marco Minniti presidente Med-Or – Italian Foundation; Letizia Moratti, membro del Parlamento europeo; Pietro Francesco De Lotto, presidente Eesc-Ccmi; Maria Elena Boschi, capo gruppo di Italia Viva alla Camera; Alberto Bagnai, vicecapogruppo della Lega alla Camera; Andrea Di Giuseppe, Componente della commissione Affari Esteri e Comunitari della Camera; Antonio Misiani, vicepresidente della commissione Bilancio del Senato; Nazario Pagano, presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera; Giuseppe

I lavori dell'Aim 2025
Maria Elena Boschi, capo gruppo di Italia Viva alla Camera

Tripoli, segretario generale di Unioncamere; l’ambasciatore Fabrizio Lobasso, vice direttore generale per la Promozione del Sistema Paese e direttore centrale per l’internazionalizzazione economica Maeci; Giuseppe Romano, coordinatore della Zes Unica; Francesca Alicata, relazioni esterne Simest.

UN NETWORK STRATEGICO

Nell’affollata sala di Palazzo Rospigliosi si respirava un’aria di concreta determinazione, tesa a definire una strategia nazionale per l’internazionalizzazione fondata su competenze, investimenti e sinergie pubblico-private, valorizzando il contributo dei liberi professionisti come interpreti delle sfide globali. A tracciare la rotta, è stato il presidente di Confprofessioni Marco Natali: «L’internazionalizzazione non è più una frontiera, ma il cuore della contemporaneità. E i liberi professionisti si confermano attori fondamentali nella costruzione di un sistema Italia competitivo poiché, accompagnando le imprese nei percorsi di internazionalizzazione, trasformano visioni e strategie in azioni concrete».

L’obiettivo di costruire un network tra professionisti e imprese per favorire l’accesso a nuovi mercati trova terreno fertile nel sistema imprenditoriale italiano. Secondo i dati di Unioncamere, circa il 45% delle Pmi italiane che si espandono sui mercati esteri si affidano a professionisti esterni per la gestione di aspetti chiave come la consulenza legale, fiscale, e la pianificazione finanziaria. Ma non solo. La figura del libero professionista in ambito internazionale è fondamentale anche per la gestione della comunicazione, del marketing e dell’adattamento dei prodotti ai diversi contesti culturali. Giuseppe Tripoli, segretario generale Unioncamere non ne fa un mistero: «Le imprese italiane stanno andando molto avanti sul fronte dell’internazionalizzazio-

Marco Natali, presidente di Confprofessioni

Luigi Carunchio, presidente Aprinternational

ne. L’export aiuta le aziende a crescere e a diventare più competitive occorre, però, allargare questa platea ad almeno altre 20 mila imprese che sono nelle condizioni di poter affrontare i mercati internazionali. Il Pnrr sta aiutando questo processo, ma sarà importante che dopo giugno 2026 ci siano strumenti finanziari per continuare a sostenere questo sforzo». E da Bruxelles, Letizia Moratti, membro del Parlamento europeo, appoggia l’idea.

«L’internazionalizzazione dell’economia del nostro Paese rimane fondamentale anche per il nostro Pil. Dobbiamo pensare alla competitività come condizione di sistema e puntare sulle competenze economiche e legali dei professionisti». Magari istituendo una rete di sportelli europea che offra assistenza ai professionisti e alle piccole e medie imprese nei processi di alle prese con la conquista dei mercati esteri.

Giuseppe Tripoli, segretario generale di Unioncamere
Letizia Moratti, membro del Parlamento europeo

LE NUOVE ROTTE

Di fronte alle incertezze dell’attuale scenario geopolitico, imprese e professionisti hanno già cominciato a disegnare le nuove rotte dell’internazionalizzazione.

Pur mantenendo ben saldi i piedi sui mercati maturi (Germania, Stati Uniti, Francia, Spagna, Svizzera e Regno Unito nel 2024 hanno importato complessivamente oltre 70 miliardi di euro di prodotti e servizi made in Italy), oggi la parola d’ordine è “diversificare”, mettere a fuoco i Paesi emergenti più promettenti.

Nella wishlist della Farnesina spiccano

Turchia (con 17,6 miliardi di euro di export italiano, in crescita del 23,9% rispetto al 2023), Emirati Arabi (7,9 miliardi +19,4%), Messico (6,6 miliardi +7,4%), Arabia Saudita (6,2 miliardi + 27,9%, e Brasile (5,8 miliardi +8,1%) e ancora India, Algeria, Sudafrica, Vietnam, Asia centrale… Va aggiunto che in molti di questi Paesi l’Unione europea ha avviato negoziati per

la finalizzazione o il rinnovo di accordi di libero scambio di ampia portata e le ambasciate italiane stanno lavorando al progetto “Diplomazia della crescita”, lanciato lo scorso anno dal ministro Tajani.

FOCUS SULL’AFRICA

«L’Italia e l’Europa si trovano di fronte a una nuova sfida economica: aprire ai mercati emergenti dell’Asia, dei paesi arabi e del Golfo», ha commentato Marco Minniti, presidente Med-Or – Italian Foundation. «La partita si è avviata con la questione dei dazi, ma ora è il momento di una strategia più ampia. Da un punto di vista geostrategico, l’Italia si configura come un ponte naturale tra Occidente e Global South, al centro del Mediterraneo».

Secondo Minniti, questo posizionamento influirà non solo sulle dinamiche economiche, ma anche sugli equilibri geopolitici mondiali. «Il Piano Mattei, intuizione vincente per il rilancio della cooperazio-

Marco Minniti, presidente Med-Or – Italian Foundation

ne con l’Africa e il Mediterraneo allargato, entra ora nella sua seconda fase e cresce l’attenzione sul ruolo strategico della Turchia, sempre più cruciale».

La conferma arriva dall’Ambasciatrice della Turchia in Italia, Elif Çomoğlu Ülgen che sottolinea il ruolo crescente della Turchia negli investimenti africani, sottolineando come l’Italia rappresenti un partner ideale per questa espansione. Secondo Ülgen, l’Africa non solo possiede enormi risorse naturali, ma vanta anche una forza lavoro giovane e dinamica, essendo il continente con la popolazione più giovane al mondo. Questo elemento, unito alla volontà di crescita e sviluppo, rende l’Africa una regione chiave per il futuro economico globale.

PROFESSIONISTI AL CENTRO

Tuttavia, la diversificazione dei mercati porta con sé un aumento dei rischi legati alla sicurezza degli scambi e alla stabilità politica delle nuove destinazioni, oltre che nuovi costi per penetrare in nuovi territori e la difficoltà di garantire una logistica efficiente. E qui entrano in gioco i professionisti. «L’internazionalizzazione delle pmi è resa complessa dalle incertezze legate ai dazi americani, che spingono le imprese a cercare nuovi mercati» e come ha sottolineato Maria Elena Boschi (Italia Viva), «per affrontare questa sfida servono professionisti preparati e un sostegno concreto del sistema Paese».

In effetti, le competenze richieste ai liberi professionisti si stanno rapidamente evolvendo da consulenti a partner strategici delle imprese. «La rete capillare dei liberi professionisti sul territorio, unita alla capacità di anticipare le trasformazioni dei mercati, li rende punti di riferimento essenziali per le imprese che vogliono crescere all’estero», ha ricordato Luigi Carunchio, presidente di Aprinternational, sottolineando l’importanza delle

“skills” necessarie per assistere le imprese nei processi di internazionalizzazione. Non è più sufficiente, infatti, una profonda conoscenza delle normative locali, ma anche una visione globale e una capacità di analizzare le dinamiche economiche internazionali, interpretare correttamente le politiche commerciali dei Paesi, le tendenze di sviluppo e le opportunità offerte da accordi internazionali, come quelli fra l’Unione europea e altre aree del mondo.

Oggi, l’internazionalizzazione delle Pmi italiane non si limita più a una semplice consulenza tecnica. I liberi professionisti, infatti, sono diventati veri e propri partner strategici nelle fasi di espansione internazionale. Non sono più solo dei fornitori di servizi specialistici, ma spesso entrano nel cuore della strategia aziendale, collaborando con le imprese per individuare le giuste opportunità, scegliere i mercati da penetrare e pianificare l’ingresso a livello locale. ■

Elif Çomoğlu Ülgen, ambasciatrice della Turchia in Italia

LA PERSONA GIUSTA AL POSTO GIUSTO

Andare all’estero per continuare a crescere. Una scelta che sempre più aziende made in Italy decidono di fare. Ma per evitare errori che potrebbero compromettere il successo finale dell’operazione è bene affidarsi a un professionista di fiducia. Un ponte di collegamento strategico con il mercato target

Espandersi sui mercati esteri per rafforzare la propria presenza commerciale, produttiva o la logistica in modo da diversificare il rischio per area geografica; accrescere il know-how aziendale; aumentare la competitività nella combinazione dei fattori produttivi. Queste le motivazioni che spingono le imprese made in Italy a guardare ai mercati internazionale con un interesse crescente. Si tratta però di un’operazione tutt’altro banale e in quanto tale da pianificare nei minimi dettagli con l’aiuto di professionisti seri e preparati anche perché richiede una trasformazione degli assetti organizzativi manageriali e finanziari.

Tre gli step principali da seguire: analisi, o autoanalisi delle peculiarità dell’azienda, e del suo potenziale, per verificare la capacità di avviare il processo di internazionalizzazione; studio approfondito del mercato estero o dei mercati target; definizione degli obiettivi dell’impresa: la mancanza di una precisa strategia può incidere negativamente sul risultato finale.

COMPETENZE TRASVERSALI

Ma, in un periodo di rapidi cambiamenti come quello che stiamo vivendo, caratterizzato dall’arrivo repentino di nuovi dazi e sanzioni commerciali, incerti per entità e durata, e con un panorama geopolitico in evoluzione come mai era capitato in tempi recenti, per valutare le variabili che possono incidere sull’esito dell’investimento sono più che mai necessarie competenze trasversali.

Anche se, bassi livelli di imposizione fiscale, una ridotta burocrazia locale, il riconoscimento delle principali convenzioni internazionali in materia di diritto e di fiscalità internazionale, nonché l’avvio di processi di liberalizzazione sia fiscale sia giuridica, sono fattori positivi che incidono sulla scelta dei mercati sui quali si intende investire.

IL RUOLO DEL COMMERCIALISTA

E visto il clima di incertezza generale, il processo di internazionalizzazione può avvenire per gradi e con modalità diverse: l’impresa può aprirsi verso un altro Paese attraverso distributori, o con un ufficio di rappresentanza, oppure scegliere di avere una rete commerciale propria, oppure ancora con un insediamento produttivo, a seconda del tipo di attività, delle dimensioni e delle sue disponibilità finanziarie.

Qualsiasi sia la modalità scelta è importante appoggiarsi a un commercialista di fiducia in grado di supportare il management per: l’autoanalisi preliminare delle potenzialità dell’azienda; la scelta del tipo di soggetto giuridico; la “compiance” fiscale; la scelta della struttura di governance e della reportistica; gli aspetti contrattuali specifici; la ricerca dei consulenti sul posto. Il commercialista è la persona a cui affidare il ruolo di

collegamento con i professionisti locali, con riferimento alla consulenza legale e fiscale, all’assistenza contabile, alla gestione delle risorse umane. Quella del commercialista italiano è l’unica professione, nel panorama internazionale, che ha formazione contemporaneamente economica e giuridica, in grado non solo di fornire consulenza contabile e tributaria, ma anche contrattuale, societaria e di “governance”, e spesso anche del lavoro.

È poi indispensabile usare il commercialista come ponte fra le normative del Paese target e quelle italiane per far sì che l’avventura imprenditoriale si svolga nella piena “compliance” delle normative interne. Prezzi di trasferimento, norme sulle controlled foreign companies, monitoraggio valutario, aspetti previdenziali per il personale inviato all’estero sono alcune delle problematiche da considerare. Ma è anche importante non trascurare le problematiche che riguardano le perso-

ne fisiche coinvolte nell’attività all’estero, connesse al cambio di residenza fiscale, a obblighi di monitoraggio fiscale, alla tassazione dei redditi, agli aspetti previdenziali ed a quelli civilistici (diritto di famiglia). Non facile nei paesi extraeuropei è l’ottenimento del visto d’ingresso a scopo di lavoro. Noi siamo abituati a un’Europa senza frontiere e può essere una sorpresa constatare quanto sia complicato potersi trasferire in un Paese extra Ue, per questo è consigliabile informarsi in anticipo sulle pratiche necessarie, anche avvalendosi di professionisti locali.

GLI ERRORI DA EVITARE

Passaggi scontati? Non proprio. Diversi, infatti, sono i passi falsi o gli errori di sottovalutazione che le aziende spesso commettono quando decidono di espan-

dersi sui mercati esteri. Alcune per esempio credono di risolvere i loro problemi nazionali andando all’estero. E non c’è nulla di più sbagliato, perché si decide di andare oltrefrontiera nel momento in cui si è forti nel proprio Paese. Altre imprese, invece, non effettuano un’accurata ricerca preliminare nel paese target.

Un passaggio indubbiamente costoso ma fondamentale se si vogliono evitare brutte sorprese e si punta al successo dell’operazione. Questo significa che per andare all’estero occorre disporre delle risorse economiche necessarie. Così come è fondamentale ricercare assistenza professionale in loco. Altro frequente errore è non pensare a un disaster recovery, ossia a un piano B, alla via d’uscita qualora le cose non andassero come previsto. ■

Le storie, i personaggi e le notizie di primo piano commentate dalle più autorevoli firme del mondo della politica, dell’economia, dell’università e delle professioni

PRIMO PIANO

RIVOLUZIONE IN CULLA

Anche in Svezia stanno diminuendo le nascite, ma questo non significa che le politiche di welfare e di genere non funzionino. Anzi. Sono in continuo working in progress per adattarsi alle nuove esigenze della società e del mercato del lavoro che sono in costante cambiamento. E il calo delle nascite attuale, nei Paesi nordici e non solo, è il segnale della necessità di sperimentare nuove misure

L’Umanità si trova nel mezzo di una transizione demografica, un processo che dagli alti rischi di morte e dagli elevati livelli di fecondità del passato sta portando a un nuovo (teorico) equilibrio su livelli bassi. All’epoca dell’Unità d’Italia il rischio di morte entro il primo anno di vita era superiore al 20%, meno della metà dei nati arrivava all’età dei propri genitori e l’aspettativa di vita era attorno ai 30 anni. Oggi un bambino che nasce ha una probabilità vicina a 1 di attraversare incolume tutte le fasi della vita fino all’età anziana (l’aspettativa di vita è oggi superiore agli 82 anni). Bastano oggi, quindi, due figli per sostituire in media i due genitori. Se la fecondità rimane posizionata sopra tale livello la popolazione va a crescere, tendenzialmente fino all’infinito. Se si colloca sistema-

ticamente sopra la popolazione va a diminuire, tendenzialmente fino all’estinzione. Rispetto alla popolazione mondiale e nel lungo periodo, dal punto di vista teorico ci si può aspettare che la fecondità si stabilizzi attorno a due, oppure ci siano fasi di oscillazione tra valori inferiori e valori superiori a tale soglia. Quello che attualmente si osserva è, invece, che tutti i paesi arrivati nella parte finale della transizione demografica sono andati a collocarsi sotto il tasso dei due figli per donna. La popolazione di un paese, però, non necessariamente diminuisce e la forza lavoro può rimanere solida, a fronte di un aumento della componente anziana, se la fecondità non scende troppo sotto la soglia di due e la riduzione delle nuove generazioni viene compensata da adeguati flussi migratori.

Questo è stato finora il caso della Svezia, ma anche di altri paesi (come la Francia, del Regno Unito, degli Stati Uniti).

IL CASO SVEDESE

La Svezia è stata tra i paesi precursori della transizione demografica. La mortalità inizia a mostrare segnali di diminuzione già dalla prima metà dell’XIX secolo, con conseguente progressivo aumento dell’aspettativa di vita. I paesi scandinavi sono stati anche i primi a ridurre la fecondità a due figli per donna e a scendere sotto tale livello. L’aver favorito la partecipazione femminile al mercato del lavoro ha portato negli anni Settanta a ricadute negative sulla fecondità svedese. Nel 1978 il numero medio di figli risultava sceso a 1,6 mentre in Italia era ancora vicino a 2. Il percorso successivo è però stato opposto. La Svezia ha sperimentato e rafforzato strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia (in termini di politiche pubbliche e welfare aziendale), favorendo anche la condivisione di genere all’interno delle coppie. La fecondità è così tornata a salire vicino a due ad inizio anni Novanta, mentre in Italia è precipitata sotto 1,3. Dato che il mondo è in continuo cambiamento, si trasforma il mercato del lavoro, mutando condizioni e aspettative rispetto ai progetti di realizzazione professionale e di vita, le politiche di genere e familiari vanno considerate un continuo cantiere. Ciò che funzionava per una generazione non necessariamente funziona per quella successiva. La Svezia è uno dei paesi che maggiormente ha sperimento e innovato, con conseguente percorso altalenante:

da una media di 2 figli è scesa a 1,5 a fine XX secolo, è risalita a 2 nel corso del primo decennio del XXI secolo, per poi ridiscendere sotto 1,5 negli anni più recenti.

SOCIETÀ IN EVOLUZIONE

Questo percorso, nonostante la diminuzione negli ultimi anni, non può quindi essere considerato un fallimento delle politiche di genere e familiari. Rimangono due aspetti sostanziali rispetto a paesi in crisi demografica cronicizzata come l’Italia. Mentre il nostro paese - a causa di una fecondità persistentemente sotto 1,5 da quarant’anni - è entrato in una fase di trappola demografica (ovvero di diminuzione dei potenziali genitori), la Svezia ancora può contare su generazioni consistenti in età riproduttiva. Inoltre, se anziché calcolare il dato

congiunturale della fecondità (che risente anche delle fasi di posticipazione della scelta di avere un figlio ma non necessariamente di rinuncia), si prende in considerazione la fecondità effettiva delle generazioni, si nota come la Svezia non sia mai scesa sotto 1,8 figli. La generazione di chi ha oggi 40-45 anni non è sotto tale valore. Mentre la stessa generazione italiana ha avuto poco più di 1,3 figli. È, insomma, vero che oggi la realtà è più complessa, che è in aumento il senso di insicurezza nei confronti del futuro e che sono in mutamento gli orientamenti di valore, ma affermare che le politiche familiari e di genere della Svezia non funzionano più è quantomeno prematuro. Il calo attuale è però senz’altro un segnale della necessità di non accontentarsi delle misure attuali e di sperimentare soluzioni nuove. ■

PNRR, IL RUSH FINALE

Finora l’Italia ha ricevuto 122 miliardi sui 194 assegnati dal Recovery fund. Ma sono stati spesi poco più della metà dei fondi erogati per mettere a terra il 60% dei progetti. Dalle relazioni sullo stato di attuazione del Piano emerge una limitata capacità di spesa. Ora la partita entra nel vivo. Perché il successo del Pnrr si gioca sui risultati del biennio 2025/2026

di Laura Ciccozzi

Ètempo di rendicontazione

per il Pnrr: Corte dei Conti e Governo hanno presentato le rispettive relazioni sullo Stato di attuazione, da cui emerge uno scenario in chiaroscuro. Guardiamo, innanzitutto, al cronoprogramma. Lo scorso dicembre la Commissione europea ha versato all’Italia la sesta rata del Piano, pari a 8,7 miliardi, per il conseguimento dei 39 obiettivi scaduti a giugno 2024.

Contemporaneamente il Governo ha chiesto il pagamento della settima rata, molto corposa, che somma 67 obiettivi e vale 18,3 miliardi. I progetti in chiusura e completati rappresentano il 60,9% del totale e un ulteriore 35% è costituito dai progetti in esecuzione. Tuttavia, il completamento del Pnrr entro il 30 giugno 2026 richiede ancora il

raggiungimento di 284 obiettivi la stragrande maggioranza dei quali, 177, da conseguire nell’ultimo semestre anche a causa dello slittamento in avanti di molti obiettivi rispetto al cronoprogramma originario. In secondo luogo, è utile guardare al portafoglio. L’Italia ha ricevuto 122 miliardi su 194, di cui 43 nel 2024. L’anno scorso il Pnrr è, dunque, entrato nel vivo con la messa a terra di progetti chiave e l’impiego di risorse su larga scala.

Un dato che, tuttavia, non si è ripercosso sulla spesa che a fine 2024 era di 63,9 miliardi (il 52% del totale), con un incremento di soli 18,3 miliardi sul 2023 e pari al 66% di quella programmata entro il 2024 nel cronoprogramma originario. Restano, dunque, da spendere 130 miliardi.

PREFETTURE IN CAMPO

Mentre proseguono le riunioni della Cabina di regia nazionale, il Governo ha istituito anche delle Cabine di coordinamento presso le Prefetture, con l’obiettivo di rafforzare l’attuazione del Pnrr a livello territoriale e di supportare i soggetti attuatori nell’individuazione delle opportune soluzioni alle criticità riscontrate. Nell’ultima relazione il Governo esprime piena fiducia sul raggiungimento degli obiettivi: «è atteso nei prossimi mesi un impatto positivo in termini di velocizzazione della spesa, sia in ragione dell’avanzamento dei lavori, sia grazie alla piena operatività della disposizione introdotta dal decreto – legge 9 agosto 2024, n. 113 che consente di erogare rapidamente in via anticipata ai soggetti attuatori sino al 90% delle risorse cor-

rispondenti ai progetti, in modo da assicurare loro la necessaria liquidità». Se, dunque, i dati attualmente a disposizione evidenziano con chiarezza una capacità di spesa ancora troppo limitata rispetto alle risorse complessivamente disponibili, è altrettanto evidente che ad essere determinanti per il successo del Pnrr saranno i risultati del biennio 2025-2026. La partita è apertissima, ma gli osservatori hanno ben presente il rischio che i nodi verranno al pettine quando ormai non ci sarà più tempo per rimediare ai ritardi. Sembra, peraltro, ormai definitivamente esclusa la proroga del Piano, mentre rimane aperta l’ipotesi ventilata dal Ministro dell’economia Giorgetti di chiedere alla Commissione l’autorizzazione a contabilizzare le spese dopo il 2026.

FOCUS MISSIONE 1

A partire da questo numero della rivista, e per i sei numeri successivi, approfondiremo l’andamento delle missioni del Pnrr, a cominciare dalla Missione 1 – “Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo”. I dati sono estrapolati dalle relazioni sullo stato di attuazione periodicamente presentate dal Governo e dal servizio di monitoraggio online Open Pnrr. Gli investimenti della missione 1 sono molto ambiziosi: 61 misure e 74.887 progetti che valgono 50 miliardi, vale a dire quasi un quarto dell’importo totale del Pnrr e del Piano nazionale complementare.

Gli investimenti sono suddivisi su tre componenti, peraltro molto variegate: digitalizzazione e sicurezza della Pubblica Amministrazione (componente 1); transizione digitale delle imprese e copertura di tutto il territorio nazionale con reti internet a banda ultra–larga (componente 2); maggiore attrattività, sicurezza e accessibilità dei siti storici e culturali, nonché migliore ricettività delle strutture turistiche (componente 3).

SPESA IN LINEA

A fine 2024 la spesa sostenuta nella missione 1 è attestata a circa il 50% del totale, ed è dunque in linea con l’andamento complessivo del Pnrr. Il merito spetta principalmente al piano Transizione 4.0 del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, per favorire il trasferimento tecnologico e promuovere la trasformazione digitale dei processi produttivi e l’investimento in beni immateriali. Del resto, Transizione 4.0 è un incentivo ormai consolidato e che ha già dimostrato di

avere particolare successo tra le imprese e i professionisti. La scelta di rifinanziare l’incentivo con i fondi del Pnrr ha, dunque, consentito di spendere facilmente tutti i 13 miliardi stanziati e l’investimento rientra tra quelli che hanno conseguito la maggiore spesa in termini assoluti, superato solamente dall’Ecobonus. Restano, invece, ancora da spendere 2,5 miliardi per il Piano reti ultraveloci, definito come il più grande investimento pubblico nella digitalizzazione del Paese, e 2 miliardi, gestiti da Invitalia, per le tecnologie a zero emissioni nette.

P.A. DIGITALE

La digitalizzazione della P.A. rappresenta un imponente piano strategico di riforme e investimenti da 9 miliardi, con l’ambizioso obiettivo di trasformare in profondità l’intero settore pubblico. A tal fine, viene finanziato lo sviluppo dell’infrastruttura digitale, attraverso la migrazione al cloud, l’interoperabilità tra i diversi uffici, lo snellimento delle procedure secondo il principio “once only” (secondo il quale le pubbliche amministrazioni devono evitare di chiedere a cittadini ed imprese informazioni già fornite in precedenza) e il rafforzamento della cybersecurity. Un secondo gruppo di investimenti mira a migliorare l’accessibilità dei servizi per i cittadini e le competenze del personale pubblico. Il bilancio appare in chiaroscuro, tra obiettivi raggiunti o che comunque sono in linea con il cronoprogramma – come migrazione al cloud, cybersecurity e assunzioni nella giustizia –e investimenti che, al contrario, scontano preoccupanti ritardi.

A fine

2024

la

spesa sostenuta

nella missione 1 si è attestata a circa il 50% del totale, in linea con l’andamento complessivo

del Pnrr

Tra questi ultimi, digitalizzazione delle amministrazioni centrali, cittadinanza digitale e competenze digitali di base.

Più roseo lo scenario degli investimenti per la valorizzazione del patrimonio culturale e turistico, che valgono circa 6 miliardi, con una percentuale di progetti conclusi o in corso esecuzione pari al 95%. In questa componente, spicca il progetto “attrattività dei borghi”, l’investimento da 1 miliardo per sostenere lo sviluppo economico e sociale dei piccoli Paesi anche al fine di rendere i flussi turistici più sostenibili orientandoli verso luoghi meno conosciuti. Da ultimo, “Caput Mundi”: l’investimento da 500 milioni per il Giubileo, ma con scadenza 2026, che appare ugualmente in linea con il cronoprogramma. ■

CACCIA APERTA

AI CERVELLI USA

Dopo i tagli miliardari dell’Amministrazione Trump alle università e ai centri di ricerca degli Stati Uniti, l’Europa coglie l’occasione per attrarre i migliori talenti e rafforzare la propria capacità scientifica, con un pacchetto da 500 miliardi di euro. Anche l’Italia mette sul piatto 50 milioni di euro. Ma non basta attrarre scienziati, occorre creare un ecosistema europeo per la ricerca

Se non ora, quando? Lo slogan è già stato sentito. Il tema a cui viene associato, forse, no. Eppure è proprio adesso che il futuro della ricerca scientifica, pubblica, europea si trova davanti a una sfida epocale, che potrebbe cambiare senso e direzione allo sviluppo economico del Vecchio Continente. È adesso il momento per aprire i laboratori e i centri di ricerca agli scienziati che negli Stati Uniti stanno vivendo difficoltà, restrizioni se non addirittura vere e proprie bocciature.

FUGA DAGLI STATI UNITI

Negli ultimi anni, gli USA hanno infatti ridotto significativamente i finanziamenti pubblici per l’istruzione superiore, mentre politiche restrittive sull’immigrazione hanno reso più difficile per gli accademici internazionali lavorare negli Stati Uniti. Secondo un report della National Science Foundation, il numero di visti H-1B (quelli per personale altamente specializzato) rilasciati a ricercatori stranieri è diminuito del 25% tra il 2019 e il 2023.

Ma la situazione è peggiorata con l’arrivo di Donald Trump. Il quale, non solo ha preso di petto alcune delle più note università, minacciandole di stoppare l’erogazione di miliardi di contributi, se non avessero concordato con il governo i loro programmi, i criteri di ammissione, di ricerca e di amministrazione. Ma ha anche riorganizzato le agenzie federali scientifiche, orientandone i campi di studio e le disponibilità finanziarie. Così, la National Science Foundation si è vista costretta ad azzerare oltre mille progetti già approvati per circa 740 milioni di

dollari e potrebbe dover affrontare riduzioni di budget fino al 50% nell’anno fiscale 2026. «Una situazione assurda», commenta Roberto Battiston, ordinario di Fisica Sperimentale all’Università di Trento, ed ex presidente dell’Agenzia spaziale italiana. «Uno dei Paesi più all’avanguardia nella scoperta e nella ricerca, si trova sotto attacco, violento e indiscriminato, sulla base di considerazioni politico-elettorali. Per capirci: sono stati fermati programmi a causa di ideologie contrarie al cambiamento climatico o per la presenza di parole associate alla questione del genere o delle mino-

ranze». Queste limitazioni stanno spingendo molti cervelli americani a cercare spazi e risorse altrove. E l’Europa può rappresentare una destinazione attraente: «Oltre alla solidarietà», continua Battiston: «verso i ricercatori americani, che poi sono anche europei, e che sempre con maggior frequenza stanno avanzando richiesta per rientrare in Italia, e in Europa in generale; dobbiamo cogliere l’occasione per trarne un vantaggio. Nel senso di rifondare, e confermare, quell’apertura alla scienza e alla ricerca che ha da sempre caratterizzato l’Europa, storicamente culla della ricerca, dello studio, dell’accademia. Ma dobbiamo essere consapevoli che accogliere questi talenti significa anche investire in laboratori, garantire continuità professionale e promuovere un ambiente accademico inclusivo».

Washington, la protesta degli scienziati contro i tagli al bilancio del governo Doge

Roberto Battiston, ordinario di Fisica Sperimentale all’Università di Trento

MENO ARMI PIÙ RICERCA

Battiston nell’aprile scorso, insieme al filosofo della scienza Silvano Tagliagambe dell’Università di Sassari, ha presentato un manifesto - sagacemente battezzato ReBrain Europe - per chiedere di «accogliere i ricercatori in fuga dagli Stati Uniti e rafforzare la capacità scientifica europea”. Diffuso nelle università e nei centri di ricerca italiani ed europei, il documento ha già raccolto migliaia di firme.

Ancora Battiston: «Così come ci troviamo costretti ad affrontare un programma di riarmo, abbiamo immaginato di riportare al centro del dibattito il pensiero, l’attività di educazione, formazione e ricerca perché è un valore fondante del nostro sistema democratico e della civiltà europea».

Cinquecento milioni di euro, tanto ha promesso la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen, per attrarre nel Vecchio Continente i cervelli Usa. “Choose Europe for science” è il nome del piano presentato in Francia alla presenza del Presidente Emmanuel Macron

Da parte sua, l’Europa a inizio maggio ha avanzato, per il periodo 2025-2027, un ambizioso pacchetto da 500 miliardi di euro per attrarre i migliori talenti scientifici, americani e non solo. Questo investimento, presentato alla Sorbona di Parigi dal presidente francese Emmanuel Macron e dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, rappresenta un tentativo di ridefinire le gerarchie globali della scienza. Il capitolo innovativo del piano è la creazione di quella che la stessa von der Leyen ha definito: «una "super sovvenzione" di 7 anni per offrire una prospettiva a lungo termine ai migliori ricercatori», per concentrarsi nella ricerca, senza la "distrazione" di reperire i finanziamenti ogni anno. Eppure, la conferenza Choose Europe for Science, scelta come piattaforma per l’annuncio, ha messo in evidenza non solo le opportunità, ma anche le contraddizioni interne al progetto europeo: non pochi Paesi, tra cui l’Italia, non hanno visto di buon occhio il protagonismo del leader francese, esprimendo riserve sul modo in cui il piano è stato strutturato e comunicato.

LA RISPOSTA ITALIANA

E infatti l’Italia ha risposto con un’iniziativa parallela: un bando del Miur da 50 milioni di euro destinato ai ricercatori internazionali che vogliano trasferirsi da noi. Settori come supercalcolo, biotecnologie avanzate e tecnologie quantistiche sono stati identificati come prioritari, con l’obiettivo di rilanciare il sistema scientifico nazionale e invertire la tendenza alla fuga di cervelli. «È un segnale importante», osserva Battiston, «ma

serve una visione di sistema, in un contesto con caratteristiche necessariamente europee. L’iniziativa di Macron, sempre pronto a prendere la palla al balzo, manifesta la classica realtà di un’Europa formata da 27 Paesi che però, anche sulla ricerca, continuano a fare una corsa individuale. E l’iniziativa italiana per dare ai ricercatori opportunità di tipo analogo, temiamo che dovrà scontrarsi con meccanismi burocratici difficili da superare. La realtà», continua Battiston: «è che stiamo parlando di numeri piccoli. Perché secondo uno studio dell’Accademia dei Lincei, l’Europa deve affrontare il problema delle disuguaglianze interne. Paesi come la Germania investono fino all’1,1% del loro PIL in ricerca pubblica, altri - come la Romania - non superano lo 0,15%, mentre l’Italia si attesta intorno allo 0,6%. Tale Il presidente Usa Donald Trump

divario rischia di frenare l’efficacia di qualsiasi piano di rilancio. Tanto che se cercassimo di portare a un livello mediano gli investimenti in tutta l’Europa, dovremmo investire tre/quattro miliardi all’anno, per i prossimi dieci/ quindici anni. La vera taglia del problema è che l’Europa non sta giocando un ruolo da protagonista: il piano presentato può sembrare di alto profilo ma è quantitativamente modesto e a corto raggio, a fronte di una prospettiva di medio-lungo termine, come quella che richiede la ricerca scientifica, spesso lunga, lenta e faticosa».

LA SFIDA SI VINCE UNITI

Il rischio, come hanno evidenziato le polemiche intorno a Choose Europe for Science, è che le tensioni tra i membri possano minare l’efficacia di qualsiasi progetto europeo. Se alcuni Paesi si sentissero esclusi o penalizzati nella distribuzione dei fondi, l’intera iniziativa perderebbe di efficace e credibilità. «L’Europa deve imparare a parlare con una sola voce», conclude Battiston. «Oggi abbiamo l’opportunità di farlo: cerchiamo di essere ospitali con questi ricercatori di altissimo livello - alcuni dei quali europei di ritorno - e usiamo questo argomento per fare emergere come l’Europa debba tornare a fare ricerca, a metterla ricerca come elemento fondante. Perché, per esempio, avremmo bisogno di un Cern per la medicina, un Cern per la biologia: ossia strutture eccellenti in tutti i settori della ricerca. Il momento storico ce lo consente: non basta attrarre ricercatori, ma creare un ecosistema europeo che li supporti e li valorizzi nel lungo periodo». ■

ROMANIA, UN COLPO AI SOVRANISTI

Le elezioni presidenziali in Romania si sono consumate tra carte bollate, ricorsi alla Corte costituzionale e vere o presunte ingerenze di Paesi stranieri. Alla fine l’ha spuntata il filo-europeista Dan. Che al ballottaggio ha ribaltato il risultato del primo turno vinto dall’euroscettico Simion. Ma la partita è ancora aperta e l’estrema destra combatterà fino all’ultimo voto per governare il Paese

Finalmente Bruxelles può tirare un sospiro di sollievo: le elezioni presidenziali in Romania segnano un primo duro colpo ai sovranisti d’Europa. Dopo un primo turno delle elezioni presidenziali del 4 maggio scorso che ha portato il 38enne sovranista, filo-trumpiano ed euroscettico George Simion, leader dell'Alleanza per l'Unione dei Romeni, a un passo dalla presidenza della Romania, il ballottaggio del 18 maggio scorso ha ribaltato il risultato del primo turno, decretando la vittoria del sindaco liberale ed eurofilo di Bucarest, Nicusor Dan Un’elezione a dir poco tormentata e che molti osservatori hanno definito come un “referendum per l’anima del Paese”.

Riavvolgiamo il nastro. Nel dicembre scorso la Corte costituzionale rumena aveva annullato il risultato delle elezioni presidenziali di novembre 2024 vinte dal candidato indipendente Călin Georgescu - teorico della cospirazione anti-Nato che sosteneva legami più stretti con la Russia e aveva posizioni apertamente populiste e di estrema destra - accusato di non aver dichiarato le fonti di finanziamento utilizzate per promuovere la sua candidatura sui social network e denunciando ingerenze da parte di Mosca.

A pochi giorni dalla vittoria dell’europeista Dan, la musica è la stessa ma a parti invertite. Questa volta tocca al nazionalista Simion, uscito sconfitto dal ballottaggio. Il 20 maggio scorso ha presentato ricorso alla Corte costituzionale rumena, chiedendone l’annullamento per “interferenze esterne” e accu-

sando Francia e Moldavia di aver manipolato il processo elettorale. Accuse poi respinte all’unanimità dalla Corte costituzionale e bollate come “prive di fondamento”.

L’INNO ALLA GIOIA DELL’UE

Quasi tutte le capitali dell’Ue hanno festeggiato: «Immagina di avere un presidente chiamato Nicky! Questo è ciò per cui hanno appena votato i rumeni: un matematico pacato e un po’ geniale, che tutti chiamano per nome», scriveva in tono trionfante il sito web della Bbc. I sovranisti Viktor Orban in Ungheria e Robert Fico in Slovacchia non avranno un terzo alleato nell’area dei Balcani, la Romania continuerà a sostenere l’Ucraina. Dal canto suo, Ursula von der Leyen ha scelto di celebrare la vittoria di Dan su X: «Il popolo romeno si è recato in massa

George Simion, leader dell'Alleanza per l'Unione dei Romeni

alle urne. Ha scelto la promessa di una Romania aperta e prospera in un’Europa forte. Insieme manteniamo questa promessa».

IL MATEMATICO

Dan sembra davvero un uomo di valore: nato nel 1969 nella provincia di Brasov, ha studiato matematica a Bucarest e a Parigi prima di conseguire un dottorato di ricerca presso l’Université Paris 13. Politicamente attivo contro la corruzione e a favore della conservazione del patrimonio, con idee centriste, ha vinto un seggio in Parlamento nel 2016 ed è stato eletto sindaco di Bucarest nel 2020 e nuovamente nel 2024 presentandosi come candidato indipendente. Dopo essere arrivato secondo con il 21% dll preferenze al primo turno, dietro al 41% di Simion, Dan ha ottenuto un convincente 53,60% al secondo turno grazie a una massiccia mobilitazione degli elettori sia del Paese che della diaspora.

La sua vittoria è frutto del suo background politico: un candidato del cambiamento, politicamente non affiliato a partiti, critico nei confronti del sistema e con posizioni filo-occidentali che contrastavano con la retorica aggressiva ed euro scettica del suo avversario: caratteristiche che hanno convinto la classe media urbana a recarsi in massa alle urne per sostenerlo.

IL NUOVO ESECUTIVO

La partita, però, non è ancora finita e il rischio di vedere la Romania voltare le spalle a Bruxelles è ancora appeso a un filo. Eletto direttamente dal popolo, il presidente ha infatti molti poteri: è a capo della difesa e degli affari esteri e

può anche presentare proposte di legge al Parlamento. Se l’insediamento di Dan a Palazzo Cotroceni a Bucarest, sede del presidente della Romania, è cosa fatta, resta apertissima la corsa a Palazzo Victoria, sede del governo rumeno. Al momento, infatti, la Romania non ha ancora un premier e un governo. A pochi giorni dalla vittoria di Simion al primo turno, il primo ministro Marcel Cioalcu si è dimesso e il suo partito social-democratico è uscito dalla coalizione di un governo che per molti elettori era sinonimo di un “establishment” e, quindi, molto impopolare. Se dall’attuale Parlamento non uscirà alcuna coalizione Dan, icona dell’anti-establishment, sarà obbligato a indire nuove elezioni legislative e, naturalmente, l’estrema destra combatterà fino all’ultimo voto per governare il Paese.

Nicusor Dan, neo eletto presidente della Romania

IL MONITO DI MARGHERITA

Tra tutti coloro che hanno analizzato i risultati delle elezioni e l’attuale situazione politica del Paese, l’endorsement della principessa Margherita, a capo della casa reale e figlia dell’amatissimo ultimo re Michele I di Romania, i cui funerali nel 2017 avevano riconciliato l’intera nazione, suona come un monito per l’anima del Paese (e per l’Europa): «le elezioni attuali sono un grido di disperazione proveniente dal cuore degli elettori che si sentono ignorati e trascurati dal nostro attuale sistema politico. Dobbiamo ripensare il modo in cui operano le nostre istituzioni. Dobbiamo offrire all’elettorato rumeno soluzioni politiche reali, non giochi di coalizione. E dobbiamo combattere il crescente cinismo tra i nostri giovani riguardo all’onestà e all’efficienza della governance». E forse le élite europee dovrebbero, per una volta, dare ascolto a una principessa. ■

Călin Georgescu, candidato indipendente filorusso

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NEWS FROM EUROPE

Le news più rilevanti dalle istituzioni europee selezionate dal Desk europeo di ConfProfessioni

Commercio digitale, alleanza Ue-Singapore

L’Unione europea e Singapore hanno siglato un accordo di Commercio Digitale (Digital Trade Agreement, Dta) che segna una svolta nelle loro relazioni economiche e commerciali. A seguito della conclusione politica dei negoziati avviati nel 2023, il 25 luglio 2024, il Consiglio ha autorizzato la Commissione a firmare la Dta del 14 aprile 2025, uno strumento giuridico autonomo, distinto dall’Accordo di Libero Scambio UE-Singapore del 2019, che fornisce un quadro normativo chiaro per le imprese che operano nel settore digitale. Ad apporre la propria firma, sono stati il commissario europeo per il Commercio e la Sicurezza Economica, Maroš Šefčovič, ed il ministro singaporiano per le Relazioni commerciali, Grace Fu Hai Yien. L’accordo stabilisce norme ambiziose per facilitare il commercio digitale, proteg-

gendo nel contempo i diritti dei consumatori e la privacy Sono previsti meccanismi per garantire flussi di dati transfrontalieri affidabili, vietare la localizzazione forzata dei dati e affrontare gli ostacoli ingiustificati al commercio digitale. Il Dta affronta anche temi cruciali come la sicurezza delle transazioni elettroniche, la lotta alle comunicazioni di marketing indesiderate e la cooperazione normativa. Dopo la firma, che ricordiamo, da sola, non costituisce un consenso giuridicamente vincolante, l’accordo dovrà ora passare alla fase di ratifica secondo le procedure interne di entrambe le parti. Per l’Ue, ciò includerà l’approvazione del Parlamento europeo. Il testo sulle doppie imposizioni completo è già stato reso disponibile come allegato alla decisione del Consiglio del 14 aprile 2025.

LEGGI IL COMUNICATO STAMPA
L'UE E SINGAPORE FIRMANO L'ACCORDO SUL COMMERCIO DIGITALE

Europa, il Continente

dell’Intelligenza Artificiale

La Commissione europea ha presentato l’AI Continent Action Plan, una strategia per fare dell’Ue un leader globale nell’intelligenza artificiale. L’iniziativa è stata annunciata dalla Presidente Ursula von der Leyen durante l’AI Action Summit, tenutosi a Parigi a febbraio. Il piano promuoverà le capacità di innovazione dell’Unione nel settore attraverso azioni e politiche incentrate su cinque pilastri (supercomputer e gigafactory; accesso a grandi volumi di dati; settori strategici; formazione; semplificazione normativa) che mirano a trasformare il tessuto industriale e scientifico europeo in una potenza globale dell’innovazione. I prossimi step prevedono tre consultazioni pubbliche (legislazione su cloud, IA applicata, Unione dei dati) e dialoghi strutturati con imprese e autorità pubbliche. Secondo la vicepresidente esecutiva per la Sovranità tecnologica, la sicurezza e la democrazia, Henna Virkkunen: «Il piano d’azione definisce i settori principali in cui è necessario intensificare gli sforzi per rendere l’Europa un continente leader dell’IA. Ci stiamo adoperando per un futuro in cui l’innovazione tecnologica traini l’industria e i servizi pubblici, apportando benefici concreti ai nostri cittadini e alle nostre imprese attraverso un’IA affidabile».

Quarto rapporto Schengen: oltre i confini degli stati nazionali

Nel 2025 lo spazio Schengen celebra un traguardo importante: i quarant’anni dalla firma dello storico accordo che ha sancito l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne tra gli Stati aderenti. A distanza di quattro decenni, la Commissione europea ha pubblicato la sua quarta relazione annuale sullo stato di Schengen, evidenziando i progressi compiuti nel ciclo 2024-2025 e delineando le priorità per l’anno a venire. Con quasi 450 milioni di cittadini che ne beneficiano ogni giorno, Schengen si conferma la colonna portante del mercato interno dell’Unione europea. Oltre a facilitare gli spostamenti quotidiani di persone e merci, ha consolidato l’identità europea e contribuito alla crescita economica, attirando nel solo 2024 oltre mezzo miliardo di visitatori, rendendola ancora una volta la destinazione turistica più visitata al mondo. La Commissione sottolinea come, nel tempo, Schengen sia divenuto un sistema robusto, dove il coordinamento tra Stati membri, supportato dalle istituzioni europee, ha migliorato la gestione delle frontiere esterne, la sicurezza interna e le politiche migratorie. Un momento storico nel 2025 è rappresentato dalla piena adesione di Bulgaria e Romania all’area Schengen.

Programma LIFE, l’Europa investe 86 milioni di euro

La Commissione europea ha annunciato un investimento di 86 milioni di euro per sostenere cinque nuovi progetti strategici integrati nell’ambito del programma LIFE, lo strumento di finanziamento dell'Ue per l’ambiente e l’azione per il clima, con l’obiettivo di migliorare la resilienza climatica e la sicurezza idrica in Europa. I fondi previsti, serviranno a sostenere i progetti nell’ambito dei bandi del 2023 e saranno assegnati a iniziative in Danimarca, Estonia, Polonia, Slovenia e Islanda. Questi finanziamenti aiuteranno le autorità nazionali, regionali e locali ad attuare la legislazione nazionale ed europea in materia di ambiente e clima, mobilitando anche risorse aggiuntive da fondi europei, nazionali e privati. I progetti in questione contribuiscono alla visione di un’Europa a impatto climatico zero entro il 2050, migliorando la gestione delle risorse idriche, affrontando le emergenze ambientali, riducendo le emissioni di CO₂ e proteggendo ecosistemi vulnerabili. Oltre a questo pacchetto di investimenti, la Commissione ha anche approvato il programma di lavoro LIFE 2025–2027, con un budget complessivo di 2,3 miliardi di euro destinati a sostenere l’economia circolare, la biodiversità, l’energia pulita e l’adattamento ai cambiamenti climatici.

Analisi, tendenze e avvenimenti del mondo professionale, raccontati dai protagonisti delle professioni

PROFESSIONI

PROFESSIONISTI, I PIÙ AFFIDABILI

di Camilla Lombardi e Ludovica Zichichi

Procedure operative ben definite, sistemi di rendicontazione precisi e controlli interni che permettono di gestire le attività in modo più trasparente ed efficiente. Le attività professionali rappresentano il benchmark di riferimento in termini di affidabilità fiscale. Che cosa dice l’analisi dell’Osservatorio delle Libere Professioni

Su un totale di circa 2,7 milioni di contribuenti, il 44,7% ha ottenuto un punteggio Isa uguale o superiore a 8, soglia oltre la quale si attivano le premialità previste dalla normativa. Tuttavia, tale percentuale varia sensibilmente in funzione del macrosettore di attività: le attività professionali si attestano al 56,9%, mentre manifatture, commercio e servizi si collocano tra il 41% e il 44%.

Il dato più basso si registra nel settore agricolo, con una quota di affidabili pari al 34,7%. Il settore professionale risulta essere l’unico in cui la maggioranza dei contribuenti supera la soglia dell’affidabilità, distanziando di quasi 13 punti percentuali la media nazionale.

AFFIDABILITÀ A CONFRONTO

Il ruolo della natura giuridica dell’attività economica si dimostra altrettanto rilevante. Le persone fisiche registrano, in media, livelli di affidabilità superiori a quelli delle società. Tra i professionisti, il 58,4% delle persone fisiche supera la soglia di 8, contro il 51,7% delle società di persone e solo il 39,0% delle società di capitali. Tale andamento è riconducibile, almeno in parte, alla struttura delle società tra professionisti (Stp) e delle società tra avvocati (Sta), dove la doppia fatturazione delle prestazioni – società verso cliente, professionista verso società – può comportare una riduzione artificiale del reddito dichiarato dalla società stessa, influenzando negativamente il punteggio Isa. Questo fenomeno è particolarmente marcato proprio

nel settore professionale, dove la distanza tra persone fisiche e società di capitali è più ampia che altrove (19,4 punti percentuali). Tuttavia, è interessante notare che con riferimento al 2022 – anno più recente disponibile per questo dato alla data di stesura dell’articolo – i professionisti che operano attraverso società di capitali raggiungono comunque un punteggio medio di affidabilità pari a 6,6 su 10, leggermente superiore al valore medio generale delle società di capitali, che è di 6,3. In termini ancora più ampi, possiamo dire che, a parità di forma giuridica, le attività professionali tendono a risultare più affidabili rispetto agli altri comparti economici. Il confronto longitudinale tra il 2018 e il 2023 evidenzia un miglioramento generalizzato della compliance fiscale. La quota

QUOTA DI CONTRIBUENTI CON PUNTEGGIO ISA UGUALE O SUPERIORE A 8, DIVISIONE PER MACROSETTORE ECONOMICO E NATURA GIURIDICA

Anno 2023.

Fonte: elaborazioni a cura dell'Osservatorio delle libere professioni su dati MEF • Creato con Datawrapper

L’analisi elaborata dall’Osservatorio delle Libere Professioni fornisce un quadro dettagliato della distribuzione dell’affidabilità fiscale tra i contribuenti italiani soggetti agli Indici Sintetici di Affidabilità (Isa). A distanza di sei anni dalla loro introduzione, gli Isa si confermano come strumento centrale nella valutazione del comportamento fiscale dei titolari di reddito d’impresa e da lavoro autonomo.

Il punteggio, calcolato su una scala da 1 a 10, viene utilizzato dall’Amministrazione finanziaria per premiare i contribuenti più affidabili e orientare l’azione di controllo verso i soggetti con maggiore rischio fiscale. In questo contesto, il 2023 segna un consolidamento del trend positivo osservato negli anni precedenti, con una crescita dell’affidabilità complessiva rispetto al 2018, ma anche una marcata differenziazione tra categorie produttive e forme giuridiche

di contribuenti affidabili è cresciuta mediamente di circa cinque punti percentuali (dal 39,4% al 44,7%), ma l’incremento più marcato è tra le attività professionali, che guadagnano 9,2 punti nello stesso periodo. Le manifatture seguono con un +5,5, mentre commercio e servizi mostrano una dinamica più contenuta. Il settore agricolo rappresenta un’eccezione negativa, con una flessione complessiva tra 2018 e 2023 di 5,8 punti, registrando una ripresa solo nel 2022.

MEDICI IN POLE POSITION

Nel dettaglio settoriale, l’indice di affidabilità fiscale relativa – che misura la quota di contribuenti con punteggio Isa superiore a 8 rispetto alla media nazionale – mette in luce le forti differenze all’interno del tessuto economico italiano. A trainare la classifica sono le attivi-

tà professionali, con le sanitarie in testa: qui l’indice raggiunge quota 166,6, segno che la percentuale di soggetti “affidabili” è del 66% più alta rispetto alla media del Paese. Nell’ambito professionale, seguono gli studi notarili (141,5), i servizi forniti da commercialisti, ragionieri, periti commerciali e consulenti del lavoro (132,7), le attività degli studi di ingegneria (124,2), e gli studi di geologia (122,5). Insomma, tutte le professioni mostrano una propensione alla compliance fiscale ben sopra la media. Non sono solo i professionisti a distinguersi. Anche alcuni comparti del commercio performano bene, come gli intermediari del commercio (137,8) e il comparto del commercio all’ingrosso di macchine utensili (129,9). Molto diversa, invece, la situazione in settori come noleggio, pubblici esercizi e pesca, dove l’indice di affidabilità si ferma ben al di sotto della media nazionale.

PROFESSIONI PIÙ AFFIDABILI

Alla data di redazione, la classifica per gruppo di settore è aggiornata fino al 2022 e mostra, dal 2018, una crescita selettiva dell’affidabilità. Il commercio all’ingrosso di prodotti intermedi e rottami guadagna 15 posizioni, passando dal 18º al 3º posto, con un incremento di 15 punti nella quota di contribuenti affidabili. Segnali positivi provengono anche da alcuni settori manifatturieri e professionali, come l’industria del legno e gli studi tecnici. I comparti legati alle attività professionali hanno registrato un significativo aumento dell’affidabilità fiscale. In particolare, il settore sanitario ha visto crescere la propria quota di ben 11,4 punti percentuali, confermandosi al primo

posto in classifica. Anche le attività di architettura, ingegneria e servizi tecnici hanno mostrato un progresso rilevante, con un incremento di circa 9 punti. Questo miglioramento ha consentito al comparto di salire di tre posizioni, passando dal decimo al settimo posto nella graduatoria. Di segno opposto è l’evoluzione dell’agricoltura, che retrocede dal 13º al 37º posto, e del commercio al dettaglio alimentare, che perde 25 posizioni, passando dall’11º al 36º posto. Nel complesso, il report restituisce un quadro in cui l’attività professionale rappresenta il benchmark di riferimento in termini di affidabilità fiscale. L’elevata compliance del comparto riflette un insieme di fattori: procedure operative ben definite, sistemi di rendicontazione precisi e controlli interni che permettono di gestire le attività in modo più trasparente ed efficiente. ■

FORMAZIONE, TUTTI I NODI AL PETTINE

Troppa distanza tra le istituzioni pubbliche e private chiamate a programmare e gestire i processi formativi. Un problema che limita l’accesso alla formazione soprattutto nelle microimprese e nel lavoro autonomo. Per invertire la rotta occorre un unico sistema di definizione e classificazione delle competenze, ma anche nuove tipologie di finanziamento pubblico e nuovi metodi di erogazione dei corsi di aggiornamento. Con un occhio all’intelligenza artificiale

Irapidi mutamenti economici, tecnologici e geopolitici in atto, stanno modificando non solo i sistemi produttivi e finanziari, ma anche le dinamiche attraverso cui è possibile realizzare processi di sviluppo d’impresa ma, ancor di più, di crescita ed integrazione sociale e produttiva dei singoli individui.

In un periodo in cui nel nostro Paese i dati ci restituiscono percentuali e valori assoluti di massima occupazione, resta alta la percezione di disagio e difficoltà di partecipazione al mondo del lavoro.

La rapida trasformazione in atto verso nuovi lavori e nuove competenze rende, anche in costanza di attività d’impresa e contrattuale, la dimensione del lavoro al tempo stesso fonte di incertezza e di ricerca verso risposte adeguate ai contesti di volta in volta mutevoli. In tale scenario assumono sempre più importanza strumenti di accompagnamento alla lettura ed alla formulazione della risposta che i singoli soggetti, giovani in cerca di occupazione ed occupati, devono essere in grado di fornire.

La formazione continua e le misure di politica attiva assumono allora un carattere ben più ampio rispetto alla semplice preparazione ed acquisizione di skills utili per l’ingresso nel mondo del lavoro o per le transizioni scuola/lavoro e lavoro/lavoro.

Oggi più che mai è necessario mettere a disposizione di tutti i cittadini l’accesso a strumenti in grado di implementare conoscenze e competenze che caratteriz-

zano i nuovi modi di lavorare, ma soprattutto che aiutino ad agire attivamente in tutte le occasioni di cambiamento sia dentro che fuori i contesti lavorativi.

FONDI AFFIDABILI

Il presidio fornito oggi dai fondi interprofessionali rappresenta, al fianco degli altri strumenti di politiche attive gestite da soggetti privati e pubblici, una colonna portante della infrastruttura verso cui orientare la ricerca di risposte operative. La dimostrazione, in venti anni di storia, dell’importanza ed affidabilità dei fondi interprofessionali è un fatto acquisito, ma questo non può non farci interrogare su quali scenari sarà necessario affrontare in un prossimo futuro e come il sistema della formazione continua e delle politiche attive in Italia debba prepararsi per affrontare le nuove sfide che da questi scenari derivano.

È quindi opportuno e necessario avviare serie riflessioni ed aprire una stagione di rigenerazione dell’attuale sistema della formazione continua quale strumento essenziale nel più ampio quadro dello sviluppo del nostro paese.

I NODI IRRISOLTI

La governance del sistema è sicuramente un aspetto non risolto del nostro impianto. La distanza esistente tra le diverse istituzioni pubbliche e private chiamate a programmare e gestire i processi operativi, rappresenta un problema, non già dal punto di vista delle responsabilità formali assegnate quanto, soprattutto, riguardo i metodi di accesso e di gestione delle azioni formative. Diversi sistemi

regionali, diversi fondi interprofessionali, come pure molteplici ulteriori iniziative private e pubbliche, non aiutano la comprensione dei criteri di accesso alla formazione e generano squilibri nei diritti dei cittadini e delle imprese, scoraggiandoli definitivamente ad investire su programmi formativi collettivi ed individuali.

Da tempo si esprime l’esigenza di una maggior integrazione tra questi sistemi. Un unico sistema di definizione e classificazione delle competenze, un tavolo congiunto di programmazione, criteri di gestione uniforme, rappresentano al fianco di una revisione in alto delle risorse disponibili per la formazione continua, alcuni degli elementi essenziali per adeguare il governo del sistema alle sfide che si trova ad affrontare.

MICROIMPRESE PENALIZZATE

Un altro tema emergente da affrontare per il futuro della formazione continua in Italia è quello legato alle opportunità di accesso per i lavoratori delle piccole e piccolissime imprese come pure degli imprenditori e dei lavoratori autonomi in generale. Dalla nascita dei fondi interprofessionali ad oggi non è mai stato affrontato nella adeguata misura questo tema che pur riguarda una fetta molto ampia delle imprese nel nostro Paese.

Infatti, se è pur vero che una larga parte dei lavoratori afferiscono ad imprese in grado di intercettare le opportunità offerte dai fondi interprofessionali, ce ne sono molti, titolari di partita Iva e dipendenti di microimprese ai quali tali op-

portunità sono negate. Nuove tipologie di finanziamento pubblico e nuovi metodi di erogazione della formazione, sono necessari se non vogliamo far perdere l’opportunità di crescita ad una fetta importante della forza produttiva complessiva.

LA SFIDA DELL’AI

Un ultimo tema saliente, vale la pena ricordare, se vogliamo aprire un percorso di modernizzazione del nostro sistema di politiche per la formazione: quello tecnologico con particolare riferimento allo sviluppo dell’intelligenza artificiale.

Non si vuole affrontare qui il tema di come questa tecnologia sta cambiando i lavori e quindi le competenze necessarie alla loro

esecuzione, quanto piuttosto accendere un riflettore sull’effetto dell’AI sui processi formativi e sui metodi di gestione ed erogazione della formazione. Non può sfuggire come le recenti applicazioni, peraltro in via di rapido sviluppo, stiano modificando i paradigmi della formazione classica.

Il gruppo classe, le sedi, la didattica e finanche i docenti, sono elementi che possono essere messi in discussione attraverso le applicazioni dell’intelligenza artificiale.

Se vogliamo quindi esaminare le sfide dei sistemi della formazione e delle politiche attive per il futuro non possiamo fare a meno di riconsiderare i nostri sistemi anche alla luce di questa rivoluzione tecnologica in atto. ■

GIOVANI INGEGNERI, FUGA DALL’ITALIA

Gli ingegneri italiani sono sempre più richiesti all’estero per competenze e preparazione. E l’Italia fatica a trattenerli: poche opportunità, scarsa innovazione e stipendi bassi spingono i migliori talenti verso mercati più dinamici

Amati all’estero e incompresi in Italia: è il destino dei nostri giovani ingegneri, tra le categorie più rappresentate quando si parla di fuga dei cervelli. Secondo i dati del Rapporto AlmaLaurea sulla mobilità internazionale, a un anno dalla laurea lavora all’estero il 4,0% degli italiani e a 5 anni il 5,5%. Analizzando nel dettaglio i dati, il 13% sono ingegneri di area ICT e il 5,8 di area industriale. E in genere sono i più brillanti, cioè quelli che, sempre secondo AlmaLaurea, hanno voti più alti e un percorso di studi regolare. Mancanza di opportunità in patria? Sì, ma non solo.

A leggere bene i dati, se il 27,4% sceglie di andare via proprio per questa ragione, il 32% dichiara di aver lasciato il nostro Paese perché ha ricevuto un’offerta di lavoro interessante da parte di un’azienda che ha sede all’estero.

La differenza è sostanziale perché non solo le aziende straniere hanno una forte capacità di attrazione nei confronti dei nostri laureati, ma gli ingegneri italiani sono anche tra i più ricercati. «In questi ultimi mesi abbiamo registrato una crescita di richieste tra il 15% e il 20%, soprattutto in alcuni settori specifici come aerospaziale, elettronico, informatico e soprattutto energetico, dove nei prossimi anni arriveremo a toccare anche il 25% di crescita», spiega Alessandro Rosati, Ceo di Agap2, multinazionale di consulenza operativa specializzata nel mondo dell'ingegneria e dell'IT. «Gli ingegneri che concludono un percorso di studi nelle nostre università hanno una preparazione eccellente e ri-

conosciuta a livello internazionale, quindi sono, per certi versi, più preparati rispetto ad altri colleghi europei ad affrontare le sfide del mondo del lavoro».

FORMAZIONE POCO PRATICA

È quasi paradossale che la formazione dei nostri ingegneri risulti più attraente nei Paesi esteri mentre in Italia si continua a registrare un gap di competenze tra le aziende che cercano profili specializzati e i giovani laureati ai quali mancano esperienze pratiche: il centro studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri evidenzia come il 58,7% delle assunzioni sia considerato difficile, con picchi del 65% per i profili del ramo elettronico e dell'informazione. Il motivo? Ridotto numero di candidati disponibili e, in alcuni casi, una preparazione non adeguata alle

esigenze del mercato, spesso perché di livello troppo alto rispetto alle esigenze di tipo più “tecnico”. «È riconosciuto che nelle nostre università manca la componente pratica e che i nostri laureati soffrono dello storico scollamento tra mondo della formazione e mondo del lavoro. La nostra è una formazione più accademica, orientata alla ricerca, con una preparazione teorica molto importante» spiega Maria Pungetti, ingegnere e presidente di Confprofessioni Emilia-Romagna.

«È quindi probabile che questa solida conoscenza teorica, fatta di metodo e di approccio analitico alla soluzione dei problemi, costituisca basi molto forti quando poi, all’estero, i nostri laureati vengono a contatto con i vari rami di specializzazione». Non è un caso che in alcuni settori, per esempio l’aerospaziale, le università La Sapienza di Roma e Federico II di Napoli risultino tra le prime 20 al mondo secondo i prestigiosi ranking QS e Shanghai.

STIPENDI TROPPO BASSI

All’attrazione delle aziende estere, va aggiunto il fatto che il ritardo tecnologico delle imprese italiane spesso scoraggia i profili più qualificati: in altre parole, i nostri laureati brillanti non intendono impiegare le proprie competenze in ambienti lavorativi tradizionali e poco innovativi. «Soprattutto in alcuni settori, come per esempio la meccatronica, sono poche le aziende con forte capacità di attrazione», aggiunge Pungetti. «A spostare l’ago della bilancia, poi, quando si tratta di espatriare, incide anche la valutazione eco-

Maria Pungetti, presidente di Confprofessioni Emilia Romagna

Alessandro Rosat, Ceo di Agap2

nomica e di welfare». Basta dare uno sguardo agli annunci di lavoro nei principali portali: lo stipendio annuale medio di un ingegnere informatico in Italia è di circa 34mila contro i 67mila del Regno Unito e i 65mila della Germania. «Anche le prospettive di carriera sono diverse» continua Pungetti. «Quando si cambia azienda, per esempio, in Italia spesso ci si ritrova quasi a dover ripartire da zero mentre nel Regno Unito l’esperienza pregressa conta, viene valorizzata. C’è meritocrazia e le aziende sono più al passo con le sfide globali».

AEROSPAZIO, ENERGIA E IT

Ma quali sono i settori che all’estero richiedono proprio i nostri ingegneri? «Aerospaziale, per progetti complessi legati alla progettazione, costruzione e manutenzione

Il ritardo tecnologico di molte imprese

italiane spesso scoraggia

di velivoli, satelliti e sistemi di difesa» spiega Rosati. «Ma anche elettronica e informatica per intelligenza artificiale e sistemi di cybersicurezza. Infine, il settore energetico: la crescente domanda di soluzioni sostenibili ha creato una forte richiesta di ingegneri da impegnare nell’ottimizzazione dei processi di produzione e distribuzione dell’energia».

I Paesi più attrattivi sono il Nord Europa, la Svizzera, la Germania e il Nord e Sud America. «Negli ultimi anni abbiamo notato un aumento di partenze, con una pausa durante la pandemia che ha frenato gli spostamenti quasi del tutto, soprattutto verso queste destinazioni» spiega Rosati. «Stiamo continuando a perdere competenze e capitale umano, ma speriamo che ci sia presto un'inversione di marcia». ■

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AL LUPO AL LUPO!

La presenza di Canis Lupus italicus sta aumentando sul territorio nazionale. E ora, secondo Ispra, in Italia ce ne sono più di 3.300. Fenomeno che ha spinto alcuni a interrogarsi sulla necessità di continuare a proteggere questo animale un tempo a rischio estinzione per i danni che può procurare alla pastorizia e per i possibili rischi per l’incolumità pubblica. Ma non è proprio così

Da qualche tempo in Italia ci si sta interrogando sull’ opportunità di continuare a proteggere la sottospecie Canis lupus italicus, animale che in passato è stato sull’orlo dell’estinzione. Si tratta di una sottospecie riconosciuta circa un secolo fa, ma identificata come geneticamente distinta dal Canis lupus solo recentemente. A mano a mano che la sua presenza è diventata più significativa (si ritiene da dati Ispra che in Italia siano presenti più di 3.300 lupi), è aumentata la preoccupazione di alcune categorie per i danni che possano procurare alle attività economiche legate all’allevamento o per i possibili rischi per l’incolumità pubblica.

In questo clima di crescente allarme dell’opinione pubblica, ben alimentata dai social che rilanciano di continuo e con ripetitività singoli e sporadici episodi di aggressioni all’uomo o agli animali domestici, una categoria quale quella dei cacciatori non ha perso l’occasione per abbracciare la causa, perorando con ogni mezzo la necessità di iniziare la caccia di contenimento, e ben sappiamo quanto questa riceva ascolto presso i Palazzi della politica, soprattutto se affianca gli interessi degli agricoltori e degli allevatori. Si potrebbe parlare quindi, non senza poche ragioni, di una guerra al lupo da parte del cosiddetto “mondo rurale”, quello che a volte guarda con diffidenza coloro che etichetta come “i Professori”: i biologi, gli etologi, i naturalisti, i veterinari esperti in comportamento, gli esperti di gestione del territorio, coloro che a loro dire non si sporcherebbero le scarpe con la terra ma sa-

rebbero soliti pontificare su libri e riviste, avendo perso il contatto col mondo produttivo e reale.

PASTORIZIA IN CRISI

In Italia la crisi della pastorizia è legata a questioni ben più profonde che passano dalla competitività dei prodotti nazionali con gli altri Paesi, alla disponibilità di lavoratori del settore, alla questione delle mafie dei pascoli. Affermare che il problema della pastorizia sia il lupo è offensivo per l’intelligenza di chi studia seriamente il problema e di chi cerca di fare impresa in questo settore in maniera moderna, per intenderci si tratta del classico specchietto per le allodole: la politica potrebbe incidere maggiormente se volesse occuparsi del cuore del problema. C’è da dire che questo dibattito non è presente solo in Italia, visto

che proprio a livello comunitario recentemente il Comitato permanente della Convenzione di Berna ha deciso il declassamento dello status della specie che è passata da “rigorosamente protetta” a “protetta”, consentendo di iniziare un percorso normativo dei singoli stati membri verso la cacciabilità del lupo. Resta il fatto che il lupo italiano è una sottospecie morfologicamente e soprattutto geneticamente distinta dal lupo europeo e meriterebbe, con diritto, un suo diverso status di protezione. Spiace che sui media nazionali la questione venga di solito liquidata con superficialità come una guerra tra allevatori ed animalisti: in realtà una buona fetta di coloro che si oppongono alla caccia al lupo sono esperti conservazionisti e le motivazioni sono scientifiche e non sentimentali.

IL RUOLO DELLA POLITICA

Nelle aule del Parlamento negli ultimi tempi sono stati organizzati alcuni incontri in cui i politici hanno avuto modo di incontrare esperti con posizioni differenti, Ispra stessa è stata ascoltata e ha posto molta attenzione sull’attuale numerosità dei lupi in Italia e sulla loro crescita numerica negli ultimi decenni. Questi dati positivi vengono spesso utilizzati in maniera strumentale lasciando intendere che si potrebbe assistere, se non si intervenisse, a una crescita incontrollata del lupo. Non si tiene conto del fatto che il lupo fino al 1975 era ormai scomparso da buona parte della penisola e presente solo nei Parchi abruzzesi, sul Pollino e sulla Sila, e che dal punto di vista della conservazione della specie questo rappresenti un enor-

me successo. Da quelle regioni si è poi espanso negli anni occupando ampi territori raggiungendo anche le Alpi. Il lupo però, per le sue caratteristiche biologiche ed etologiche, in un areale non tende a superare determinati numeri, quindi in definitiva si autoregola, in base alla disponibilità di prede naturali. Al contrario la caccia può compromettere i ruoli del branco, in genere composto da 7-8 individui, rendendolo incapace di praticare la caccia di gruppo ai grandi ungulati selvatici (cervi, cinghiali, caprioli), spingendoli alla caccia di prede più facili, come gli animali domestici e gli ovini non adeguatamente custoditi. I danni provocati dai lupi in questi anni sono stati quantificati con una certa precisione: Ispra parla di circa 8.000 animali predati all’anno di cui l’80% sono ovicaprini, con indennizzi di circa 1.800.000 euro l’anno.

Quello che non ci è noto è quanti siano, fra questi, quelli provocati dagli ibridi, soggetti frutto di incrocio fra lupo e cane, fenomeno legato a filo doppio a quello del randagismo ma anche al vagantismo, ossia all’omessa custodia di cani domestici. Gli ibridi hanno perso gran parte dell’ancestrale diffidenza del lupo nei confronti dell’uomo, iniziando ad avvicinarsi ai luoghi abitati, cosa che il lupo normalmente si guarda bene dal fare. Gli allevatori andrebbero incoraggiati con incentivi a proteggere gli animali con recinzioni elettrificate e a dotarsi di cani Pastori maremmano abruzzesi, possenti animali da guardiania che fin dall’epoca romana sono stati selezionati per tener lontani efficacemente i lupi dalle greggi. Ricordo

Affermare che il problema

della pastorizia

sia il

lupo è offensivo per l’intelligenza di chi studia il problema e di chi cerca di fare

che il progetto europeo Life mette a disposizione somme rilevanti per i risarcimenti e per la conservazione delle specie a rischio estinzione, e col declassamento del livello di protezione, non si potrebbe più accedere a finanziamenti europei, di conseguenza le spese per i risarcimenti potrebbero restare in carico a Regioni e Province autonome con danno ulteriore per i cittadini.

NON SOLO DANNI

Molto più arduo quantificare il beneficio di avere un predatore come il lupo sul nostro territorio. Pensiamo, per fare solo un esempio, agli enormi danni che alcune epidemie come la Peste Suina Africana (P.S.A.) arrecano al comparto legato alla suinicoltura e alle produzioni tipiche italiane, quali quella del prosciutto. La diffusione della P.S.A. è legata alla presenza incontrollata del cinghiale, di cui il lupo è l’unico predatore naturale, possiamo quindi ben comprendere il suo ruolo quale regolatore naturale dell’esubero della fauna selvatica fondamentale per il controllo delle malattie infettive. La riclassificazione del lupo è già in vigore nella Convenzione di Berna dal 7 marzo 2025. Ma spetterà allo Stato Membro Italia stabilire come e dove applicare sul proprio territorio il declassamento del lupo da specie “rigorosamente” protetta” a specie semplicemente “protetta”. Infatti, la coesistenza con il lupo potrà essere riequilibrata con la caccia selettiva nei territori considerati hot spot di conflitto, sulla base di dati certi. Non si potrà violare il nuovo principio costituzionale che tutela animali, biodiversità ed ecosistemi, (articolo 9). Non si potrà nemmeno violare il nuovo articolo 41 del-

la Costituzione in base al quale la legge italiana indirizza e coordina l’attività economica anche tenendo conto di fini “ambientali”. Non potrebbe esserci una più autorevole declinazione del principio One Health: una salute unica per uomini, animali e ambiente.

NESSUN PERICOLO PER L’UOMO

Per chi infine tema di incontrare mai un lupo: il lupo è naturalmente schivo e difficilmente capiterà di vederlo, lui sentirà a distanza il nostro odore, i rumori dei nostri passi e le nostre voci. Si allontanerà silenzioso e forse ci osserverà da lontano, immobile, ma noi non lo scorgeremo a causa del suo perfetto mimetismo. Per poterlo osservare occorrono studio del territorio, conoscenza della specie, pazienza, levatacce notturne, mimetismo e… tanta fortuna. ■

Il lupo in italia

Per assicurare il mantenimento, a livello nazionale, di uno status di conservazione favorevole della specie sono necessari dei dati scientificamente attendibili su scala nazionale che potranno anche indirizzare azioni di mitigazione dei conflitti con le attività umane, favorendo la coesistenza uomo lupo.

ISPRA su mandato MiTE coordina le attività

Per la regione Alpina è coordinato dal Centro Grandi Carnivori nellʼambito del progetto LIFE WolfAlps EU

Per la regione Appenninica è coordinato da 20 tecnici incaricati da Federparchi

Esperti ISPRA con il supporto di un pool di ricercatori universitari hanno definito unʼarea di studio: 1.000 celle di dimensioni 10X10 km

3.000

CELLA 10X10KM

La stima della distribuzione e dellʼabbondanza della specie sono state estrapolate a livello nazionale dallʼanalisi dei dati raccolti nelle celle indagate utilizzando i più recenti ed avanzati modelli statistici prodotti dalla comunità scientifica

Le stime di abbondanza per le regioni alpine e per le regioni dellʼItalia peninsulare sono state prodotte in maniera indipendente con i medesimi modelli statistici. I due valori risultanti e i rispettivi livelli di incertezza sono stati integrati, ottenendo una stima di abbondanza complessiva a livello nazionale

Viene fornita in due mappe distinte ottenute da una base metodologica comune

PRESENZA DEL LUPO (periodo 2020/2021)

DOCUMENTATA ( è stata accertata la presenza del lupo)

NON DOCUMENTATA

4-28

28-50

50-72

REGIONI ALPINE

Sono state campionate il 100% delle celle di presunta presenza della specie ottenendo una mappadi distribuzione minima

REGIONI PENINSULARI

Le aree di colore sfumato nella penisola indicano la probabilità di presenza della specie ( non sono stati rilevati dati di presenza)

PROBABILITÀ DI PRESENZA IN %

72-90

90-99

NEGLI ANNI ʻ70

La specie era ridotta a circa un centinaio di individui concentrati nellʼItalia centrale e meridionale

NEGLI ULTIMI DECENNI

la specie si è espansa naturalmente nellʼItalia peninsulare, dove oggi occupa la quasi totalità degli ambienti idonei e nelle regioni alpine, dove si è registrato lʼincremento più significativo

DATABASE NAZIONALE con i segni di presenza e i risultati delle analisi genetiche

DEFINIZIONE DI PROTOCOLLI

STANDARDIZZATI di raccolta dati che potranno essere riutilizzati in futuro per analizzare la dinamica della popolazione

STIMA DELLʼIMPATTO DEL LUPO SULLE ATTIVITÀ

ZOOTECNICHE IN ITALIA analisi del periodo 2015 – 2019

IL MONITORAGGIO MOLECOLARE DEL FENOMENO DELLʼIBRIDAZIONE

ANTROPOGENICA tra lupo e cane domestico in Italia peninsulare ha fornito una base di dati per permettere in futuro di monitorare questa grave minaccia alla conservazione del lupo italiano

LA RETE LUPO è uno dei risultati più importanti di questo lavoro, patrimonio per la conservazione della biodiversità a scala nazionale nel lungo termine

PUBBLICAZIONE DI ARTICOLI SCIENTIFICI sui metodi e i risultati del monitoraggio per assicurare la trasparente circolazione e verifica dello studio da parte della comunità scientifica

Sono state campionate il 35% delle celle identificate idonee (tenuto conto della maggiore estensione dellʼareale di presunta presenza della specie).Per estrapolare i risultati versoil restante 65% di celle, si sono utilizzati modelli statistici ottenendo una mappa di probabilità di presenza

IL DECLINO DEL METAVERSO (E ALTRE METEORE)

Per anni ci hanno bombardato sulle tendenze tecnologiche e sociologiche che avrebbero dovuto rivoluzionare il nostro lavoro e la nostra vita. Dallo smart working alla blockchain, dalla domotica ai cibi green. E invece… Scoppiati come una bolla di sapone

Aquesto punto dovremmo essere seduti belli comodi in smart working nelle nostre case, ormai quasi tutte in campagna perché le città sono luoghi orrendi e inumani. Abitazioni ovviamente gestite dalla domotica, con smart speaker seminati in ogni stanza e con megaschermi da 70 pollici sui quali vedere i film (che non vanno più in sala perché il cinema è morto) sgranocchiando biscotti di farina di grillo, per poi immergerci nel metaverso anche tramite visori pazzeschi, magari facendo shopping di Nft utilizzando criptovalute. E invece? Come sono andate, veramente, le cose? Vale davvero la pena fare una riflessione su come sia complicato superare il bombardamento di tendenze, sviluppi tecnologici e sociologici che per molto tempo vengono dati per scontati ma che poi, nella realtà, non si verificano e rimangono solo fenomeni di cui si è parlato tanto sui media.

METAVERSO, NTF & CO.

A fine ottobre 2021 Mark Zuckerberg cambiava addirittura il nome della sua azienda: da Facebook a Meta, in pieno delirio da metaverso. Un mondo nel quale avremmo dovuto immergerci indossando visori di ultima generazione, tra realtà aumentata e realtà virtuale, popolato di avatar e di Nft, non fungible token, ovvero certificati digitali, registrati sulla blockchain, che rappresentano la proprietà di un bene unico, sia esso digitale (come un’opera d’arte digitale o un oggetto da collezione) che fisico (come un immobile). Quando, però, anche Francesco Facchinetti si è messo a parlare di metaverso e di Nft in vendita, era

intuibile che la fine fosse vicina. E, come ha sempre amato ripetere l’imprenditore e digital evangelist Marco Camisani Calzolari, «il metaverso esiste già e si chiama Internet, che non è di nessuno. Il metaverso, nella accezione di Meta e di tutti gli altri che dicono di costruire metaversi, non esiste, e probabilmente non esisterà mai. In genere parliamo di piccoli siti che buttano dentro un po’ di 3D e pensano di aver inventato il metaverso. E neppure i videogame in 3D sono metaverso. Con i giochi, semplicemente, si fanno un sacco di soldi, così come è accaduto con le grandi truffe delle criptovalute o degli Nft, che si sono rilevate fuffa allo stato puro».

DOMOTICA, CHI L’HA VISTA?

Le nuove case, degli italiani e in tutti i paesi occidentali, avrebbero dovuto essere invase dalla domotica, gestite tramite comandi vocali impartiti agli smart speaker, altro oggetto indispensabile e certamente diffuso in tutte le stanze. Tuttavia i secchi ordini “Alexa, abbassa le luci della sala”, oppure “Hey Google, alza le tapparelle” non hanno attecchito. Come indica una ricerca del Politecnico, nel 2024 le vendite di smart speaker in Italia sono in calo del 4% rispetto al 2023 (in linea con il calo mondiale del 5%). Di sicuro piacciono i sistemi di videosorveglianza e in generale relativi alla sicurezza, o quelli che consentono di gestire il riscaldamento o il raffreddamento a distanza (che però sono anch’essi in calo del 5%). Ma tutto il resto? Ad esempio i frigoriferi che ti dicono cosa comprare o la lavatrice che parte in autonomia negli orari in cui si consuma meno elettricità?

Bisogna ammettere che gli italiani comprano elettrodomestici smart (+13% nel 2024 sul 2023), ma solo quattro su 10, una volta acquistati, vengono connessi alla rete (Osservatorio del Politecnico di Milano), e comunque in genere sono usati come i vecchi elettrodomestici, in modalità off line. Insomma, parlare con la lavatrice o discutere col frigorifero non ha scaldato i cuori. E i recenti fatti di cronaca, con hacker che si sono introdotti nella videocamera di un’aspirapolvere intelligente (quelli che si muovono in autonomia sul pavimento) scattando di nascosto foto alle persone in casa, non depongono certo a favore di questa tendenza verso la casa smart.

SMART WORKING BYE BYE

La pandemia da Covid del 2020-21 aveva convinto tutti che lo smart working sarebbe stato la colonna portante della organizzazione del lavoro di lì in poi. Tenuto conto pure dei buoni risultati, a livello di produttività, ottenuti in quel periodo. I grattacieli si sarebbero svuotati, gli uffici avrebbero perso di senso, l’aspetto brulicante e iper-attivo delle città sarebbe cambiato per sempre.

Nel 2025 possiamo affermare che lo smart working è diventato uno, ma solo uno, dei vari parametri attraverso cui si giudica la bontà o meno di un posto di lavoro. Tuttavia in Italia, dati Eurostat 2024, allo smart working accede solo il 4,4% del totale della forza lavoro, rispetto a una media Ue attorno al 9%. In particolare, come rileva il Politecnico di Milano, nel 2024 in Italia hanno avuto giornate in smart working solo 3,5 milioni di

lavoratori, in calo dello 0,8% sul 2023, con picchi fino a nove giorni al mese nelle grandi aziende, e di sei giorni nelle piccole e medie aziende. Insomma, sono rimaste tracce di smart working. Ma la gran parte delle persone è tornata a lavorare prevalentemente in presenza.

MEGLIO STARE IN CITTÀ

Sociologi, urbanisti e anche ricerche di autorevoli istituti (citiamo, per esempio, Nomisma nel 2021), in pandemia ma pure nei mesi successivi, avevano dipinto scenari devastanti per le città, ormai agglomerati senza più motivo di esistere, e con famiglie, invece, in fuga verso le campagne, le coste, la montagna, alla ricerca di abitazioni più a buon prezzo, dalla metratura ampia, con giardini, ver-

de, un contatto con la natura, lavorando a distanza. Invece, come spiega bene uno studio realizzato dal Comune di Milano (una delle città più colpite dal Covid e quindi sulla quale le previsioni erano più catastrofiche), in una Italia con la popolazione in calo del 2,9% da qui al 2035, c’è la Lombardia che al contrario sale dell’1,8%, e la città di Milano che addirittura cresce del 5% con 1.460.000 di abitanti previsti nel 2035. Nessuna fuga. Anzi, le città diventano sempre più attrattive.

CINEMA, RITORNO DI FIAMMA

Dotte analisi avevano decretato la fine dei cinema: l’esperienza di visione collettiva di un prodotto audiovisivo non avrebbe avuto più senso in una società frammentata, dove impianti tv casalinghi

sempre più moderni ed efficienti avrebbero fatto perdere di senso l’uscita serale, la ricerca di un parcheggio, il biglietto per la sala da 12-13 euro, i pop corn, la Coca Cola, e, insomma, i 100 euro spesi per una famiglia di quattro persone rispetto alle offerte delle piattaforme in streaming da 5-6 euro al mese tutto compreso. Certo, la pandemia e le sale chiuse o a posti ridotti per due anni e mezzo hanno disabituato il pubblico. Ma, ad esempio, nel primo trimestre del 2025 le presenze in sala in Italia sono state quasi a livello dello stesso trimestre 2019 pre-Covid, con un leggero calo del 6%. Successi italiani come Follemente, Diamanti, Il ragazzo dai pantaloni rosa, Io sono la fine del mondo, Io e te dobbiamo parlare, dimostrano, al contrario, che l’industria cinematografica è viva e vegeta e che l’esperienza in sala richiama ancora tanto pubblico.

MACCHÉ FARINA DI GRILLO

Giusto per fare un tuffo anche nella dimensione culinaria, non dimentichiamo le previsioni di 4-5 anni fa che ci vedevano alle prese con dispense piene di biscotti alla farina di grillo o prodotti alimentari a base di larve di insetti. Era il cibo proteico e green del futuro. Massaie preoccupate, nonne vecchio stampo infuriate, un “ma dove andremo a finire” che echeggiava ovunque. Il 24 gennaio del 2023, dopo una lunga campagna orchestrata da bravi lobbisti, veniva peraltro dato l’ok alla commercializzazione nella Unione europea di prodotti a base di farina di grillo. Ma come è andata a finire?

Le importazioni di grilli e larve destinate al consumo alimentare

hanno subito un vero e proprio tracollo nel 2024, registrando in Italia una riduzione del 30% rispetto all’anno precedente. Secondo una proiezione Coldiretti su dati Istat, l’afflusso di questi prodotti nella Penisola è passato dai 17.600 chilogrammi del 2023 agli appena 11.500 dello scorso anno, segnale evidente della scarsa accoglienza riservata dai consumatori agli insetti in cucina. A confermare questa tendenza è anche una indagine Notosondaggi, secondo cui il 78% degli italiani esprime un netto rifiuto verso alimenti contenenti insetti, anche se presentati sotto forma di farina. Un dato che dimostra il fallimento delle campagne promosse per incentivarne l’introduzione nella dieta quotidiana, spesso giustificate da presunti benefici ambientali. ■

PAGINA A CURA

FIMP

Federazione Italiana Medici Pediatri

Antonio D'Avino, presidente Fimp

Al servizio dei bambini e delle loro famiglie

Nata a Torino tra gli anni ’50 e ’60 oggi la Fimp è presente su tutto il territorio nazionale. Con una mission che va oltre il ruolo sindacale per abbracciare anche la sfera scientifica e formativa. Obiettivo: consentire ai suoi iscritti di restare costantemente aggiornati

FIMP (Federazione Italiana Medici Pediatri) è il sindacato che riunisce la grande maggioranza dei pediatri di famiglia italiani. Radicata sul territorio, diffusa capillarmente in tutti gli angoli del Paese, la Federazione ha una lunga storia che prende addirittura le mosse dalla Torino tra gli anni ‘50 e ‘60, quando la Fiat predispose una prima forma di assistenza pediatrica per i figli dei propri dipendenti.

Dal nucleo di professionisti e dalla loro associazione che si formò in quel periodo, attraverso una serie di trasformazioni, nacque l'associazione che noi conosciamo la cui importanza è naturalmente aumentata esponenzialmente a partire dall'approvazione, il 23 dicembre del 1978, della legge 833 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale superando così il modello ormai sorpassato delle cosiddette mutue.

FIDUCIA E INNOVAZIONE

Da allora FIMP ha seguito le vicende e le trasformazioni del Servizio Sanitario Nazionale fino ai giorni nostri, passando attraverso diversi momenti qualificanti tra cui si ricorda la legge 189 del 2012, conosciuta come legge Balduzzi, che poneva mano per la prima volta a quella riforma della medicina del territorio di cui ancora oggi si discute anche con proposte controverse come il cosiddetto 'passaggio alla dipendenza' della medicina convenzionata. Ma quello che contraddistingue FIMP, a parte la sua consolidata attività in difesa della categoria, che è perfino ovvia trattandosi di un sindacato, è la consapevolezza di rappresentare attraverso l'operato dei suoi aderenti un modello di assistenza pediatrica basato sulla prossimità e sul rapporto fiduciario pressoché unico in Europa per non dire nel mondo, modello che è un autentico fiore all'occhiello del nostro SSN come del resto certificato da numerose

indagini indipendenti che hanno sottolineato invariabilmente l'enorme gradimento del pubblico nei confronti della pediatria di famiglia.In questo senso, senza far torto a nessuno, FIMP esprime l'orgoglio dei pediatri di famiglia italiani di esser stata capace di sviluppare capacità cliniche e relazionali che di fatto hanno costituito ante litteram una vera e propria sub-specialità della pediatria generale, tanto che oggi le scuole di specializzazione in pediatria prevedono nel secondo triennio anche l'indirizzo di pediatria di famiglia.

FORMAZIONE CONTINUA

Tutto questo ha portato a un allargamento dell'attività di FIMP che non ha probabilmente eguali nel panorama sindacale italiano, nel senso cioè di un'attività scientifica e culturale a tutto tondo che ogni anno permette agli iscritti aggiornamenti efficaci e soprattutto mirati alla specifica attività di pediatri di famiglia. Infatti, pur non essendo in senso stretto una società scientifica, FIMP agisce anche come tale, prova ne è il costante confronto con i cambiamenti imposti dai tempi, per esempio l'attuale dibattito interno al sindacato sulle prospettive concrete offerte dall'intelligenza artificiale per l'assistenza pediatrica. Chi fa parte di FIMP, dai dirigenti a tutti gli iscritti, è fortemente consci di questa responsabilità, proiettare un modello vincente nel futuro consapevoli di una lunga storia. ■

PRONTO FISCO

Le novità tributarie e il loro impatto sulle professioni nel commento di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi

Startup innovative, il work for equity per fidelizzare i professionisti

È una sorta di finanziamento indiretto spesso utilizzato da start up che non dispongono di liquidità per remunerare consulenti qualificati e che, quindi, pagano la prestazione mediante assegnazione di partecipazioni societarie. I benefici per i professionisti

Tra gli interventi previsti a favore delle start-up innovative e Pmi innovative, il decreto-legge n. 179 del 2012 (norma quadro start up innovative) prevede all’articolo 27 agevolazioni di carattere fiscale e contributivo che si applicano agli strumenti finanziari diretti a remunerare consulenze qualificate (work for equity). Il work for equity (wfe) è un contratto che disciplina una particolare modalità di ero

gazione di compenso, posto che questo istituto consente alle “startup innovative” e alle “PMI innovative” di remunerare prestazioni di lavoro esterne quali: collaboratori, consulenti, professionisti e amministratori professionisti tramite l’attribuzione di quote societarie, in luogo di pagamenti in denaro.

I destinatari del work for equity, possono essere solo collaboratori esterni, vale a dire professionisti e fornitori di servizi (anche soggetti societari), ovvero amministratori (con partita Iva). Dunque, i dipendenti e i collaboratori continuativi non possono accedere al work for equity.

Il wfe si sostanzia in una sorta di indiretto finanziamento spesso utilizzata per aziende in fase di start up o in fase di scale up, che non dispongono di liquidità per remunerare il professionista e che, quindi, pagano la prestazione mediante assegnazione di equity (partecipazioni societarie), a fronte di un apposito aumento di capitale sociale o anche in sede di costituzione della società.

Quest’approccio è solitamente utilizzato dalle start up per reperire figure tecniche altamente qualificate e per disporre di risorse strategiche (consulenze aziendali, supporto tecnico, assistenza legale o fiscale) senza necessità di indebitarsi verso il sistema bancario. Inoltre, l’emissione di strumenti partecipativi tramite work for equity può portare

a un rafforzamento patrimoniale dell’impresa, poiché viene realizzato un aumento di patrimonio netto migliorando la solidità patrimoniale e l’immagine dell’impresa sul mercato.

Le figure professionali coinvolte sono le più varie e se il commercialista, l’avvocato e il consulente del lavoro sono i logici candidati all’utilizzo dell’istituto, tenuto conto delle ineluttabili necessità di una società neocostituita in relazione ai relativi adempimenti amministrativi (contabilità, gestione fiscale, contrattualistica, privacy, assunzioni, etc.) anche molti altri professionisti tecnici sono, in relazione all’attività prospettica della start up, tra gli aspiranti candidati. In considerazione dei requisiti richiesti alla start up innovativa il cui oggetto sociale esclusivo o prevalente, deve essere “lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico”, anche ingegneri, chimici, softeristi, periti agrari, etc. sono tra le figure maggiormente richieste aspiranti candidati al work for equity.

Se la sottoscrizione del capitale sociale avviene in sede di aumento del capitale e non in sede di costituzione della società, il professionista ha anche il beneficio di poter sfruttare la specifica agevolazione che consente la detrazione dall’Irpef del 30% (o 50%) dell’apporto contabilizzato dalla società a capitale sociale ed eventualmente a sopraprezzo. Ciò in deroga alla regola generale previste dalla specifica normativa che valorizza solo gli apporti in denaro. ■

WELFARE E DINTORNI

Il Contratto collettivo nazionale degli studi professionali ha costruito un’articolata rete di tutele intorno a tutti coloro che operano all’interno di uno studio professionale. In questa rubrica le ultime novità dalla bilateralità di settore

Cadiprof,

Benessere in

famiglia garanzie più ampie

Cadiprof rinnova anche per l’anno 2025 il progetto Benessere in Famiglia, che prevede il rimborso per le spese psicologiche del lavoratore iscritto alla cassa e dei suoi figli, ma con alcune importanti novità. Se fino al 31 dicembre 2024 il rimborso per il supporto psicologico dei figli con età inferiore ai 18 anni era previsto esclusivamente per i disturbi dell’apprendimento e del neurosviluppo, a partire dal 1° gennaio 2025, vengono ampliati gli ambiti di intervento per il sostegno psicologico dei figli minori di 18 anni, estendendoli a tutte le casistiche. A titolo esemplificativo: criticità dell’età evolutiva; dipendenze, di-

sfunzioni sessuali, traumi; problematiche familiari; disturbi dell’apprendimento e neurosviluppo; nutrizione e alimentazione; umore; ansia; ossessivo-compulsivo; schizofrenia/psicosi… (restano esclusi i costi relativi a interventi per il supporto didattico). Rimangono invariate modalità e massimali di rimborso: presso gli psicologi della rete Cadiprof/ Plp (Associazione degli Psicologi Liberi Professionisti) la percentuale di rimborso è del 50% con massimale annuo complessivo di 350 euro; presso gli psicologi fuori rete la percentuale di rimborso è del 30% con massimale annuo complessivo di 150 euro.

MAGGIORI INFORMAZIONI PRESTAZIONI

Ebipro,

in arrivo due nuovi sostegni

A seguito della deliberazione del Comitato esecutivo di fine 2024, Ebipro Gestione Ordinaria è in procinto di accogliere le domande di accesso a due nuovi sostegni che a breve si aggiungeranno alle misure già esistenti: integrazione indennità di accompagnamento Inps dei familiari e congedo parentale del padre o del monogenitore. Le domande per accedere alle due nuove prestazioni dovranno essere inoltrate esclusivamente dai datori di lavoro attraverso l’Area Riservata del sito www.ebipro. it, seguendo una speciale procedura articolata in due fasi: una richiesta preliminare di autorizzazione all’anticipo (con la documentazione necessaria) e la successiva richiesta di rimborso della somma anticipata al dipendente in busta paga. Per essere ammessi ai benefici, è indispensabile che il datore di lavoro sia in regola con i contributi alla bilateralità e che il dipendente abbia almeno sei mesi continuativi di iscrizione al momento della domanda. Non sono previste finestre temporali per la presentazione delle richieste, ma il rimborso al datore di lavoro dovrà essere richiesto dallo stesso entro tre mesi dall’erogazione dell’anticipo.

Fondoprofessioni, Avviso 04/25, via al secondo sportello

Dal 23 maggio fino al 24 giugno 2025 è possibile presentare a Fondoprofessioni le richieste di finanziamento per i piani formativi nell’ambito del 2° Sportello dell’Avviso 04/25. La dotazione stanziata dal Fondo nell’ambito di questo Sportello è di 400 mila euro, destinata alla realizzazione di piani formativi rivolti a un massimo di tre dipendenti del singolo studio professionale. Attraverso un contributo massimo di 4 mila euro a piano formativo, è possibile ottenere il finanziamento integrale di un percorso personalizzato, realizzabile in affiancamento e sul posto di lavoro. Tramite l’Avviso vengono realizzati percorsi formativi con una durata di almeno 16 ore, rivolti anche al singolo dipendente dello studio professionale. La progettazione dei piani formativi, la presentazione delle domande al Fondo, l’organizzazione dei corsi e la gestione degli adempimenti amministrativi per l’accesso al contributo vengono seguite dagli Enti attuatori accreditati presso il Fondo, per conto degli studi professionali interessati. Questo consente di progettare iniziative formative su misura e, allo stesso tempo, di azzerare gli adempimenti organizzativi e amministrativi a carico dello studio professionale.

Gestione Professionisti, per diaria e fisioterapia rimborsi su BeProf

Tra le novità introdotte nel 2025 in favore dei professionisti titolari di copertura, alcune delle prestazioni a rimborso liquidate da Gestione Professionisti sono state ulteriormente ottimizzate. In particolare, per gli eventi dal 1° gennaio 2025 - è riconosciuta una diaria da ricovero di 50 euro sin dal primo e fino a 90 giorni all’anno, avendo eliminato la carenza prevista per gli eventi fino al 31 dicembre 2024; in caso di Day Hospital è riconosciuta una diaria di 50 euro fino a sette eventi (fino a cinque per gli eventi 2023/2024); per i trattamenti fisioterapici a seguito di malattia effettuati dal 1° gennaio 2025 il massimale è stato incrementato da 150,00 a 200euro, fino a cinque sedute. Queste sono solo alcune delle garanzie del Pacchetto prestazioni, riservate ai professionisti fino a 80 anni di età, titolari di copertura automatica o volontaria Base, Premium o Infortuni&Welfare, che deve essere attiva al momento dell’evento e della richiesta. La domanda di rimborso può essere inoltrata autonomamente dalla propria area riservata BeProf allegando la documentazione prevista.

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Photo adicorbetta
Axel Hütte, Oratorio Suardi, Trescore Balneario, 2023, inkjet print, 157 x 257 cm

Sulle orme di Lorenzo Lotto

L’Accademia Carrara di Bergamo ospita eccezionalmente la Pala di San Bernardino, una tra le opere più significative del pittore veneziano che, in Lombardia, ha lasciato un’imponente eredità artistica

di Romina Villa

Nella pagina a fianco: Dettaglio di Madonna col Bambino e i santi Giuseppe, Bernardino da Siena, Giovanni Battista, Antonio Abate e cinque angeli, nota come Pala di San Bernardino, di Lorenzo Lotto 1521 olio su tela, 287 x 268 cm Bergamo, chiesa di San Bernardino in Pignolo

Percorrendo a piedi Via Porta Dipinta, una delle ripide salite che portano in Città Alta, a un certo punto, sulla sinistra, si nota appena una piazzetta, leggermente rialzata rispetto alla strada, sulla quale si affaccia la chiesa di San Michele al Pozzo Bianco. Se non fosse per il campanile, che spunta da sopra il tetto, non ci si accorgerebbe di questo edificio sacro, dato che la facciata novecentesca lo fa sembrare un palazzo. In effetti è una delle chiese meno battute di Bergamo. Ha origini antichissime e, in seguito, è stata ricostruita a più riprese. L’attuale struttura quattrocentesca, un’unica aula con il tetto ligneo a capanna, termina sul fondo con una serie di doppi arconi ogivali, che determinano lo spazio dell’altare e delle due cappelle laterali. I muri sono un tripudio di affreschi di varie epoche, tra i quali spicca il ciclo di storie di vita della Vergine, affrescate da Lorenzo Lotto nel 1525 e conservate nella cappella alla sinistra dell’altare. Si tratta dell’ultimo capolavoro del pittore veneziano realizzato a Bergamo, la città che lo accolse per dodici anni e che fu testimone, come af-

fermano tanti storici, del periodo più luminoso della sua carriera. I biografi parlano di lui come di un uomo schivo ed inquieto. Era nato a Venezia intorno al 1480 e lì si era formato come artista. Ben presto, però, si era accorto di essere poco avvezzo ai canoni della pittura classica, dettati in laguna da Tiziano e Giorgione. E così aveva lasciato la sua città natale per viaggiare. Treviso, Le Marche, la Roma dei papi, sempre lavorando e apprendendo, ma senza mai riuscire a lasciare il segno. A Bergamo giun-

se nel 1513, dove ottenne l’incarico di dipingere una pala d’altare, nota oggi come Pala Martinengo, dal nome del committente, il capitano di ventura Alessandro Martinengo Colleoni, che pagò all’artista la cifra record di 500 ducati. La pala, oggi conservata nella chiesa dei Santi Bartolomeo e Stefano, fu per Lotto un esordio grandioso e lo fece conoscere alla committenza cittadina e nei territori adiacenti. Bergamo, città posizionata strategicamente lungo le più importanti vie commerciali del nord Italia, era anche

territorio della Serenissima. Nonostante il non facile periodo storico, caratterizzato da continue guerre e pestilenze, il Lotto trovò qui un ambiente consono alle proprie esigenze, sicuramente meno fastoso di quello veneziano e romano, ma pregno di quella devozione popolare e comunitaria che cambiò, da lì in poi, il suo modo di dipingere.

La Pala di San Bernardino (1521), esposta in questi mesi alla Carrara, è un chiaro esempio di questa trasformazione e della maturazione di uno stile personale e autonomo.

LA MOSTRA

Dentro Lorenzo Lotto - la pala di San Bernardino, la fotografia di Axel Hütte è più di una mostra, è un progetto di comunità e di valorizzazione del patrimonio locale, che è partito dalla necessità di spostare fisicamente la pala di San Bernardino in Pignolo (il quartiere o “borgo” adiacente all’Accademia), dall’omonima chiesa, che sarà chiusa al pubblico per diversi mesi, a causa di urgenti lavori di manutenzione delle strutture. L’opera è stata posta in luogo ap-

Lorenzo Lotto, Ritratto Di Giovane, 1500circa, Accademia Carrara Bergamo

Nella pagina a fianco Lorenzo Lotto, Nozze Mistiche di Santa Caterina d’Alessandria, 1523, Accademia Carrara Bergamo

positamente creato, collocata a distanza e ad altezza più consone per una migliore fruizione. Il visitatore potrà immergersi in un luogo raccolto, dove avrà la possibilità di ammirare la pala da molto vicino, per scoprirne i dettagli pittorici e narrativi, non percepibili quando si trova nella chiesa di borgo Pignolo.

Il percorso della mostra inizia al piano nobile, esattamente nella sala 10, dove sono custodite ben sette tele del maestro veneziano, opere che formano uno dei più importanti corpus lotteschi esistenti. I capolavori, che fanno parte della collezione permanente del museo, sono messi in dialogo con i lavori di altri celebri pittori, con i quali il Lotto si era confrontato durante il suo peregrinare, come il veneziano Vivarini, Raffaello, i leonardeschi e i pittori bresciani come il Moret-

Lorenzo Lotto, Madonna col Bambino e i santi Giuseppe, Bernardino da Siena, Giovanni Battista, Antonio Abate e cinque angeli, nota come Pala di San Bernardino, 1521 olio su tela, 287 x 268 cm Bergamo, chiesa di San Bernardino in Pignolo

In pagina dettagli della Pala di San Bernardino

to. Dopo aver lasciato Bergamo, il Lotto era ritornato a Venezia e poi di nuovo aveva ripreso a viaggiare. Negli ultimi anni di vita, aveva deciso di ritirarsi, in veste di oblato, presso la Santa Casa di Loreto, dove morì nel 1554. In seguito, per assurdo, fu quasi dimenticato per secoli. La sua opera fu rivalutata solo verso la fine dell’Ottocento, quando venne riscoperto dalla critica. Bernard Berenson, lo storico dell’arte statunitense, gli dedicò una monografia, pubblicata nel 1954, considerata ancora oggi un testo principe della letteratura artistica. Già nel 1895, lo stesso Berenson aveva suggerito, in una lettera inviata alla collezionista americana Isabella Stewart Gardner, di visitare a Bergamo la chiesa di San Bernardino e, citando la Carrara, di non perdersi In the

L'opera di Lorenzo Lotto fu rivalutata

solo verso la fine dell’Ottocento, quando venne riscoperto dalla critica internazionale

Gallery, the Lottos. Il racconto dentro Lorenzo Lotto prosegue al primo piano dove è stato allestito il progetto del fotografo Axel Hütte, uno tra i più significativi fotografi tedeschi contemporanei. Hütte ha fotografato le pale del Lotto, conservate nelle chiese cittadine e il ciclo di affreschi dell’Oratorio Suardi di Trescore Balneario. Utilizzando solo la luce naturale e quella artificiale presente nelle chiese, il fotografo ha ricreato, con immagini di diversi formati e stampate con differenti tecniche, la sacralità dei luoghi con un piglio documentaristico, ma ugualmente coinvolgente.

Un’occasione per poter leggere meglio i dettagli delle opere e le architetture che le circondano. Infine, al piano terra, il percorso si conclude nello spazio dedicato alla Pala di San Bernardino. In questo dipinto, Lorenzo Lotto ha oramai abbandonato i temi iconografici e compositivi classici per adottare una composizione libera e personale. La Madonna e il bambino, in trono, sono riparati da un grande telo verde scuro, sostenuto da quattro putti. Ai loro piedi, San Antonio Abate, il Battista, San Bernardino e San Giuseppe formano un gruppo animato, ognuno diversamente affaccendato, ma presente coralmente. Sullo sfondo un soave paesaggio di colline e cielo terso. Il Lotto ha preferito l’intimità alla solennità, creando una scena di devozione popolare. L’angelo scrivente, posto al centro, ai piedi della Vergine, sembra complice e ha lo sguardo rivolto all’’osservatore. Quasi un invito a partecipare. Il progetto della mostra è stato realizzato dall’Accademia Carrara

Lorenzo Lotto, Ritratto di Lucina Brembati, 1521-1523 circa Accademia Carrara Bergamo

Axel Hütte, Santo Spirito, Bergamo, 2023, inkjet print, 157 x 187 cm

(che sostiene anche la ristrutturazione della chiesa di San Bernardino), in collaborazione con il Comune, la Diocesi di Bergamo, la Parrocchia di Sant’Alessandro della Croce e la Fondazione Adriano Bernareggi. Oltre al percorso museale, i partner si sono fatti promotori di un tour in città, che tocca i luoghi dove si conservano le principali opere dell’artista.

Oltre a quelli già segnalate, ricordiamo le tarsie del coro absidale della Basilica di Santa Maria Maggiore, realizzate dall’intagliatore Giovan Francesco Capoferri seguendo i disegni che Lorenzo Lotto aveva inviato ai committenti, dopo che aveva già lasciato la città. Un tesoro recentemente riportato all’antico splendore, dopo un puntuale restauro. ■

Axel Hütte, Santi Bartolomeo e Stefano, Bergamo, 2023, inkjet print, 187 x 157 cm

Axel Hütte, Basilica di Santa Maria Maggiore, Bergamo, 2023, inkjet print, 88 x 112 cm

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L’ultima birra è sempre la prossima

Solo le criticità legate al Covid-19 hanno potuto arginare l’ascesa prorompente di un birrificio veneziano che sotto la guida e grazie agli sforzi di un geometra-mastro birraio si stava facendo strada fra eventi e locali dell’area lagunare. Ora al titolare sono restati il gusto, la passione e la creatività

di Roberto Carminati

Quando la spinta viene dalla passione la fatica non si sente né ci si rende conto del passar del tempo e l’amore per il lavoro che ha scelto è ciò che, a quasi trent’anni dall’iscrizione all’Ordine, fa sì che il geometra veneziano Raffaele De Martin si spenda senza sosta nei grandi e nei piccoli cantieri della provincia.

Il fatidico timbro lo ha ottenuto infatti nel 1996 a 24 anni e la sua preziosità gli appare a maggior ragione chiara adesso che ha dovuto relegare a un ruolo di secondo piano un altro dei grandi amori della sua vita: l’arte brassicola.

Il timbro c’entra sempre ed è sempre galeotto perché dal suo numero di iscrizione De Martin ha tratto il nome del birrificio che ha fondato a Mirano sul finire dello scorso decennio: 1913. «Ho seguito un corso professionale da mastro birraio nel 2017», ha detto a il Libero Professionista Reloaded, «presso una scuola di Noventa Padovana in capo a un percorso fatto di ruoli di responsabilità nella cantieristica e in sicurezza come in noti eventi pubblici. L’incontro decisivo perché decidessi di dedicarmi alla produzione di birra è stato quello con l’esperto e conoscitore Dario Bona, mastro birraio del Birrificio Artigianale Veneziano - BAV - di Maerne con il quale ho dato vita alle mie prime ricette e le ho via via perfezionate. L’etichetta è nata quasi per gioco e dialogando a ruota libera sull’impatto dei loghi e dei marchi, da quello che era poco più di uno scarabocchio su carta. Quel che è venuto dopo è il frutto dell’amore per la realizzazione delle cotte con

la macinatura del malto, la scelta di luppoli e lieviti: questo è il senso dell’essere un birraio».

LA POLITICA DEL GUSTO

De Martin, autodefinitosi “il libero professionista del gusto”, ha proseguito: «Mi sono reso conto di come partendo da una base classica come quella di una tradizionale bionda Pils ci si potesse spingere oltre ed evolvere il gusto con la rifermentazione. Ho dato perciò vita alle tre chiare Destra, Sinistra e Centro, che si distinguevano per il loro carattere di volta in volta più o meno speziato; oppure agrumato. Per quanto la mia preferenza andasse più decisamente alla Destra, il pubblico ha invece assegnato i maggiori favori a Centro e di questa ho realizzato ben presto le cotte più importanti facendola diventare un classico della produzione».

Quello che ancora De Martin non poteva sapere è che il successo su una scala ragionevolmente ampia era a portata di mano e il connubio fra la conoscenza tecnica e la fantasia ne sarebbe stato alle fondamenta.

«I primi riscontri soddisfacenti», ha ricordato, «li ho ottenuti con la birra Fede mixando le caratteristiche della IPA con quelle della blanche con buccia di arancia e coriandolo».

Buona parte dell’iniziale offerta è finita fra fusti e bottiglie nelle gole assetate dei partecipanti al Mirano summer festival del 2018 in occasione del quale 1913 è stato il solo birrificio artigianale ad affiancare fra gli stand i più celebri marchi industriali italiani e internazionali. E se De Martin è riuscito a soddisfare

la domanda è anche grazie a una discreta vocazione all’improvvisazione. «Tutto è accaduto repentinamente», ha raccontato, «e mi ha costretto a organizzarmi davvero dall’oggi al domani recuperando un banco spina, i frigoriferi, la cassa e quanto necessario».

UN BOCCALE DI FANTASIA

Il business è rapidamente cresciuto sulla scia della partecipazione ad altri festival e appuntamenti di piazza supportati da grandi sponsor, oltre che della fornitura ai locali o ai supermercati della Serenissima e dintorni.

Di pari passo s’è arricchita l’offerta del Birrificio 1913 e con essa la dotazione tecnologica. Sino allo stop forzato del periodo Covid e alla cessione negli anni immediatamente successivi, De Martin poteva contare su un impianto da 500 litri in doppia cotta (la cotta è la fase di produzione del mosto di birra, ndr), con tre fermentatori da 1.200 litri e due da 1.800 litri complessivi.

«La produzione», ha calcolato, «era pari a 7.000 litri in due-tre mesi e diversificata sia in base ai trend di consumo del momento sia della mia ispirazione e voglia di sperimentare. Per le feste natalizie e San Valentino ho realizzato birre al cioccolato e alla cannella da accompagnare ai dolci di alcune botteghe di pasticcieria. In altre occasioni ho aggiunto alle bionde resine di mugo e cirmolo (varietà di conifera montana, ndr) o - in esclusiva per un ristoratore - anche il finocchietto di Capraia. All’ambiente di lavorazione e confezionamento ho affiancato

una tap-room che ospitava serate gastronomiche tematiche per valorizzare il connubio fra birra e alimentari a chilometro zero». Le difficoltà incontrate nel tentativo di conservare sempre un giusto rapporto fra qualità e prezzi e dedicare al lavoro il tempo che imponeva hanno convinto il mastro birraio a cercare infruttuosamente soci; poi a cedere le apparecchiature principali un paio d’anni orsono. Ma sul brand 1913 il sipario non s’è definitivamente chiuso. «L’idea è dotarmi di un impianto da 50100 litri», ha concluso Raffaele De Martin, «per servire una clientela ridotta e continuare a bere bene. Dal 2023 ho presentato per Natale un’edizione limitata chiamata Last Christmas, poiché pensavo sarebbe stata appunto l’ultima delle mie cotte. Ma il detto non c’è due senza tre è sempre valido». ■

Raffaele De Martin, geometra e mastro birraio

UN LIBRO AL MESE

Le novità editoriali che non possono mancare nella libreria di un professionista

Russia, un paese in cerca di identità

titolo : L’idea russa. Da Dostoevskij a Putin

autore : Bengt Jangfeldt

editore : Neri Pozza

prezzo : 18 euro

pagine : 185

Da quando è scoppiato il conflitto russo-ucraino, molti si sono chiesti quale sia stato il processo che ha condotto la Russia dall’essere percepita come un “paese europeo” (così la definì Putin nel 2002) al proclamarsi il principale Stato dell’Eurasia, un territorio vastissimo che si estende dalla Cina Occidentale fino ai Carpazi, con Russia, Ucraina, Bielorussia come cuore pulsante. Questo libro di Bengt Jangfeldt, professore di lingue e cultura slave all’Università di Stoccolma, fra i maggiori studiosi di letteratura russa, risponde alla questione attraverso una panoramica storica che spiega il formarsi di una “idea russa” dall’epoca di Pietro il Grande fino ai giorni nostri.

Cos’è, questa “idea russa”? Si tratta dell’idea «che la Russia e l’Occidente siano agli antipodi, che il corso storico della Russia sia speciale, che quella russa sia una civiltà fondamentalmente separata

e superiore rispetto a quella dell’Europa occidentale». Partendo dalle riforme attuate da Pietro il Grande a fine Seicento, Jangfeldt passa in rassegna in modo sintetico ma pregnante gli ultimi tre secoli, individuando un dualismo di fondo: da un lato la tentazione di assimilarsi al mondo occidentale, dall’altro la rivendicazione di un’unicità della Russia, evidente anche nel pensiero di Dostoevskij. Questo dualismo traspare, dopo la fondazione di San Pietroburgo (1703), nella presenza di due capitali, l’una più in contatto con l’Occidente e l’altra (Mosca, ovviamente) simbolo della Russia originale, “autentica”, il cuore dell’ortodossia.

Ed è non solo un dualismo geopolitico, ma di civiltà: basti pensare al fatto che uno dei primi provvedimenti di Pietro il Grande fu il divieto di portare barba e baffi, che nella Chiesa ortodossa russa erano invece obbligatori (segno di virilità e devozione).

I cosiddetti “slavofili” – in realtà “russofili” – videro in quelle aperture dello zar Pietro una sorta di peccato originale da estirpare. Come? Riconducendo la Russia su una via propria, alternativa a quella “corrotta” e “marcia” dell’Occidente. E questa via, agli antipodi dalla razionalità illuminista, passa attraverso la rivendicazione di un misticismo prettamente russo e di uno strettissimo legame fra

Chiesa ortodossa e Stato autocratico. Cosa c’è alla base di questa altalena? Chiaramente, il potere. Lo “zar” Putin ha utilizzato il revival di una vecchia idea eurasiatica, formulata dal brillante linguista Trubeckoj, e basata sulla tesi che la civiltà germanico-romana avrebbe un effetto devastante su tutti i popoli che scelgono di essere europeizzati o vi sono costretti, nel momento in cui ha preso atto che il crollo dell’URSS era stato per la Russia una “catastrofe”, a causa di un indebolimento che rischiava di creare un mondo unipolare guidato dagli USA.

Una Russia senza Impero non è niente: in tal senso, anche il periodo sovietico può essere riletto da Putin e dai suoi ideologi come un’esperienza positiva, poiché in fondo basato sulle tradizionali idee del “servire la Madrepatria” e promuovere “i valori della famiglia e della comunità umana”. Attenzione: il libro di Jangfeldt non è fazioso.

Al contrario, lo studioso mette in luce come l’esigenza di una forte identità da parte del popolo russo abbia radici culturali profonde: se da un lato i russi si portano dietro un complesso d’inferiorità legato alla mancanza di un passato glorioso come quello europeo, dall’altro la loro condanna del materialismo individualistico e delle derive più nichiliste del capitalismo deriva da una visione che non può essere liquidata facilmente – e che ci dà materia di riflessione. Ma un dialogo fra “Noi” (come si percepiscono i russi) e “Loro” (gli occidentali) sarà possibile? Jangfeldt non dà una risposta, ma lascia intendere che la mancanza di libertà di stampa e di espressione, di elezioni libere e di un sistema giudiziario indipendente, condannano la Russia a una «sterile introversione nazionale». ■

RECENSIONI

Cinema, balletto, musica e libri. Un vademecum per orientarsi al meglio tra gli eventi culturali più importanti del momento

a cura di Luca Ciammarughi

ARTURO

MICHELANGELI

30 ANNI DALLA MORTE

Il 12 giugno ricorrono i trent’anni dalla morte di Arturo Benedetti Michelangeli, pianista divenuto mito già in vita, sia per la sua arte sopraffina, sia per il velo di mistero che circondava la sua vita e la sua figura. “Ciro”, come veniva chiamato da familiari e amici (dal Cirillino del Corriere dei Piccoli), ha incarnato un perfezionismo intriso di spiritualità, nel quale studio del tocco pianistico e ricerca profondamente introspettiva si uni-

KURT WEILL ALLA SCALA

vano in un’arte che talvolta fu definita “algida”, ma che in realtà mirava a cercare l’essenza attraverso il puro suono, spogliando l’interpretazione da qualsiasi manierismo e da ogni inutile gestualità enfatica. Riascoltare la collezione “The Complete Warner Recordings”, 14 cd che vanno dalla Ciaccona di Bach-Busoni ai Concerti di Ravel e Rachmaninov (il n. 4), è uno dei modi migliori per mantenerne viva la memoria.

SAINT-TROPEZ ATTRAVERSO L’OCCHIO DEI PITTORI

La riduzione degli organici durante la pandemia aveva portato Riccardo Chailly e Irina Brook a creare un piccolo gioiello, il dittico-Weill formato da Die sieben Todsünden e Mahagonny Songspiel. Quella produzione, basata sull’essenzialità e su un focus registico a tematica ambientalista, è divenuta nel maggio 2025 trittico con l’aggiunta dei Songs of Happy End. Nella direzione di Chailly, ha convinto pienamente il raggiungimento di un equilibrio fra la carica abrasiva (sferzante anche a livello politico) della musica di Weill e il lirismo “utopico” insito in songs e chansons come la sublime Youkali. Nonostante l’ottimo cast, la curatissima produzione non è giunta a essere totalmente dirompente, forse per una regia che mirava sì a provocare, ma in modo prudente e un po’ incompiuto.

Teatro della mondanità negli anni sessanta e settanta, oggi Saint-Tropez è una lussuosa località che riesce tuttavia ancora a mantenere un’anima piuttosto autentica. Fra i gioielli della cittadina va annoverato sicuramente il Musée de l’Annonciade, all’interno di una bellissima chiesa sconsacrata accanto al porto, dove è raccolta una non piccola collezione di opere di artisti che vissero o passarono per questo luogo incantato, cogliendone la luce unica. Grande spazio è dato ai fauves, ai puntinisti e ad altre avanguardie di inizio Novecento, con opere eccezionali di Seurat, Signac, Matisse, Marquet, Picabia, Van Donghen, Derain, Bonnard. Colpo di fulmine per i giocatori di pétanque (simile alle nostre bocce) dipinti da Camoin, nella Place des Lices - dove ancor oggi il rito si rinnova quotidianamente.

QUEER DI LUCA GUADAGNINO

Checca era il titolo della prima edizione italiana di Queer, romanzo sperimentale e incompiuto di Burroughs (quando ancora il termine Queer non era diffuso in Italia). Nel film tratto dal romanzo, Luca Guadagnino è riuscito a cogliere pienamente quell’ambiguità dei sentimenti umani (specialmente nel personaggio del giovane Allerton, lo “strano animale” che prima sembra assecondare il corteggiamento del maturo Lee, per poi lasciar andare le cose in una sorta indifferenza) che è così presente in Burroughs, ma anche il senso fatalistico dell’amore di Lee: quest’ultimo non rinuncia ad amare Allerton neppure quando appare chiaro che l’altro non potrà corrisponderlo totalmente, perché semplicemente il suo è in qualche modo un “amore fatale” che va oltre il buon senso o la ragione.

Nelle pagine di Burroughs, percorse dallo spirito “lisergico” tipico dell’autore, le cose “accadono” senza che ci sia mai un senso del tutto chiaro e definitivo. Nel film c’è a tratti un’aura post-romantica che nel libro è assente.

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Non è facile, di questi tempi, affrontare i grandi temi dell’economia e della politica, soprattutto quando si parla di internazionalizzazione, di mercati emergenti, di nuove opportunità di sviluppo all’estero per imprese e professionisti (il tema di copertina di questo numero de il Libero Professionista Reloaded). Può persino apparire assurdo pensare di investire mezzi e risorse in un mondo attraversato da carri armati e aerei da combattimento. Dalla Palestina all’Ucraina, dal Myanmar al Messico, dal Pakistan all’India si contano 56 conflitti di diversa estensione e intensità che solo nel 2024 hanno causato almeno 233 mila vittime. Ma è altrettanto inconcepibile piegarsi davanti alla retorica dei nazionalismi, che mina qualsiasi prospettiva di sviluppo e di pace. Il messaggio che arriva dall’Annual international meeting di Confprofessioni è forte e chiaro: aprire le porte dei mercati per reagire alla follia di una guerra senza confini.

Perché non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla strage dei bambini innocenti nella striscia di Gaza. Non è ammissibile il disprezzo di soldati israeliani per il diritto internazionale, che impone la protezione dei civili intrappolati nelle aree di conflitto armato. Non è umano rimanere indifferenti davanti alla disperazione di una madre che ha perso nove dei suoi dieci figli in un attacco aereo israeliano che ha colpito la sua abitazione mentre lei era in ospedale a curare altri bambini martoriati dalla guerra. Quella donna è la dottoressa Alaa al-Najjar: madre, medico e pediatra. Una professionista che, con la forza della disperazione, non si è sottratta al compito più straziante della sua vita e della sua carriera, costretta a riconoscere i corpi carbonizzati dei suoi figli proprio nell’ospedale in cui lavora.

di Giovanni Francavilla
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