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Il miraggio della parità
di Ludovica Zichichi e Alessia Negrini
La fatica di essere mamma
di Camilla Lombardi e Giulia Palma
Molestie, un sintomo del gender gap
di Nadia Anzani
Soldi, l’ultimo tabù
di Matteo Durante
Nell’inferno delle donne
di Guido Mattioni
Il gender gap economico: un approccio psicologico
di Fiorella Chiappi
Conoscenza e collaborazione per la parità di genere
di Maria Pungetti
Il mio nome è Bond...Eurobond
di Francesco M. Renne
Cannoni d’Italia
di Matteo Durante
Zes unica, un successo a metà
di Adriano Giannola
Usa-Cina, la tensione corre sui social
di Claudio Plazzotta
L’isola dei desideri
di Theodoros Koutroubas
PROFESSIONI
Le prime rughe del lavoro
di Giacomo Panzeri
Se cominciamo a parlare
come ChatGpt
di Emanuela Griglié
Non si lavora più
solo per il pane di Giovanni Colombo
Il clima presenta il conto
di Lorenzo Fantini
Art Déco, tra raffinatezza e glamour
di Romina Villa
La dura vita del bomber
di Carlo Bertotti
L’avvocato che visse più volte
di Roberto Carminati
L’Editoriale
di Marco Natali
News From Europe
a cura del Desk europeo di ConfProfessioni
Pronto Fisco
di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi
Welfare e dintorni
Un libro al mese
di Luca Ciammarughi
Recensioni
di Luca Ciammarughi
In vetrina
in collaborazione con BeProf
Post Scriptum
di Giovanni Francavilla




Dottore commercialista e Revisore Legale. Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento Finanze – Area Reddito d’Impresa. Membro dell’Advisory Board Assoholding. Autore di numerosi libri in materia fiscale e articoli su riviste di settore. Relatore in eventi delle principali organizzazioni convegnistiche.
Managing Director e Partner di Boston Consulting Group (BCG). Ricopre il ruolo di Leader globale per i temi di ESG Risk & Compliance e Climate&Sustainability in Insurance.
Laureato in Economia all’università Bocconi, ha studiato un anno negli Stati Uniti presso la Northwestern University di Chicago. Ha inoltre conseguito un Master with distinction in Business Administration all’INSEAD.
Presidente della Svimez, è professore ordinario di Economia bancaria presso la facoltà di Economia dell’Università di Napoli Federico II - Dipartimento di economia politica. È stato componente del consiglio di amministrazione del Banco di Napoli. È consigliere di amministrazione dell’Animi, dell’Associazione fra le Casse di risparmio italiane, dell’Associazione studi e ricerche per il Mezzogiorno-SRM, e membro della Commissione Cultura–Sezione italiana dell’Unesco.
Professore Associato dell'Università Cattolica di Lovanio, dove insegna “Comunicazione – Marketing politico e lobbying” a livello di laurea magistrale, nonché Sociologia politica a livello universitario. Attualmente è Direttore generale e senior policy advisor del Consiglio europeo delle professioni liberali (Ceplis).
«La Certificazione della parità di genere ha suscitato grande interesse e si sta diffondendo con grande velocità; ciò a riprova dell’importanza
che le aziende e le organizzazioni del nostro Paese attribuiscono al ruolo
delle donne nel mondo del lavoro».
— Eugenia Roccella, Ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità

Lelio Cacciapaglia
Adriano Giannola Theodoros Koutroubas
Lorenzo Fantini


Nato a Udine nel 1952, ha vissuto a Milano quarant’anni, spesi in importanti quotidiani, settimanali e mensili, ricoprendo tutti i ruoli, da cronista a vicedirettore, incarico che però, da insofferente qual è alle scrivanie, ha lasciato sua sponte per ritornare al ruolo a lui più congeniale, quello di inviato speciale, in viaggio intorno al mondo e attorno all’uomo. Dal 2015 vive nella Repubblica di San Marino, che ama in quanto luogo di sorrisi e Antica Terra della Libertà, pur senza mai dimenticare la sua “casa lontano da casa”, la bellissima Savannah, in Georgia, dov’è cittadino onorario dal 1998.
Ragioniere commercialista e revisore, è faculty member CUOA Business School; formatore in materie finanziarie e fiscali, è esperto in fiscalità degli investimenti, governance societaria e finanza d'impresa. Relatore in numerosi convegni, scrive per diverse testate e ha pubblicato la raccolta di scritti “Economicrazia” (Edizioni Il Vento Antico, collana Uomo & Economia, 2019/2020).
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Guido Mattioni Francesco M. Renne

EDITORIALE

di Marco Natali
In tempi non sospetti, il prof. Giulio Tremonti aveva pronosticato il fallimento della globalizzazione. Una previsione che, oggi, sembra realizzarsi sotto i nostri occhi. La libera circolazione di merci, uomini e idee si scontra con politiche protezionistiche che mettono in discussione i principi su cui si è fondata l’economia mondiale. Ma fino a che punto potrà arrivare questo conflitto? In un mondo iperconnesso, dove i dati corrono su reti e satelliti, è difficile pensare a un ritorno a un’economia puramente regionale. I dazi imposti da Trump, ad esempio, segnano un cambiamento significativo, ma il futuro della globalizzazione non si limita a questa semplice polarizzazione. La sfida è più complessa: la nostra economia globale è sempre più interconnessa, ma al tempo stesso sempre più soggetta a forze che ne minano l’integrazione.
Ci troviamo di fronte a un cambiamento radicale nelle relazioni commerciali e industriali, dove le regole del gioco potrebbero essere riscritte. Ciò non significa, però, la fine della globalizzazione, ma piuttosto la nascita di un nuovo ordine economico, dove i mercati dovranno adattarsi a nuove dinamiche, più fratturate, ma ancora interdipendenti. La globalizzazione ha portato enormi vantaggi, ma ora dobbiamo affrontare le sue contraddizioni. I professionisti dovranno essere pronti a navigare in un contesto economico che, pur continuando a evolversi, sarà sempre più influenzato da politiche nazionali e regionali che cercano di riappropriarsi di spazi di potere. È un periodo che richiede capacità di adattamento, visione strategica e soprattutto un forte spirito di innovazione. La sfida per i liberi professionisti, dunque, è quella di trovare un equilibrio tra l’opportunità di accedere a mercati globali e la necessità di affrontare un panorama in rapido cambiamento. Il futuro è incerto, ma è anche pieno di opportunità per chi saprà coglierle.
NUMERO
I fatti, le analisi e gli approfondimenti dell’attualità politica ed economica in Italia e in Europa. Con un occhio rivolto al mondo della libera professione

COVER STORY


IL MIRAGGIO DELLA PARITÀ
di Ludovica Zichichi
e Alessia Negrini
Osservatorio delle libere professioni

Aumenta la presenza femminile nella libera professione, ma il settore continua a essere caratterizzato da profonde disparità di genere in termini di reddito, distribuzione territoriale e settoriale. Ma è il divario retributivo a causare una criticità strutturale, evidenziando la necessità di politiche mirate per favorire l’equilibrio di genere e garantire pari opportunità di crescita professionale
Negli ultimi quindici anni, la libera professione in Italia ha subìto un’evoluzione significativa, sia dal punto di vista numerico sia nella composizione per sesso. In particolare, il numero di libere professioniste è cresciuto sensibilmente con ritmi più sostenuti rispetto ai colleghi uomini, determinando una trasformazione della struttura demografica del settore. Tuttavia, persistono disparità rilevanti in termini di reddito, distribuzione settoriale e territoriale.
Dal 2009 al 2023, il numero di liberi professionisti in Italia è aumentato di circa 211 mila unità (+18,4%), passando da 1,15 milioni a 1,36 milioni. Il contributo femminile a questa crescita è stato preponderante: le donne sono aumentate del 49% (+157.500 unità), mentre gli uomini hanno registrato un incremento più modesto (+6,5%, pari a 53.500 unità).
Questo fenomeno ha portato la quota di professioniste a salire dal 28% nel 2009 al 35,3% nel 2023. Nonostante la crisi economica del 2020 ha avuto un impatto negativo, con una riduzione del numero complessivo di professionisti, che ha colpito in misura maggiore la componente femminile, nel 2024 si osserva una ripresa significativa, che potrebbe favorire un recupero della quota di donne nella libera professione.
LA PROFESSIONE INVECCHIA
Oltre alla dimensione numerica, è interessante osservare il cambiamento demografico della categoria.
L’invecchiamento della popolazione attiva ha avuto un impatto anche sulla libera professione: oggi, metà dei professionisti uomini ha più di 50 anni, mentre nel 2009 la mediana era 44 anni. Per le donne, l’età mediana è passata
da 40 a 45 anni. Il segmento femminile della libera professione risulta, dunque, mediamente più giovane rispetto a quello maschile, sebbene anch’esso stia invecchiando. L’analisi delle fasce di età mostra che la crescita più elevata, in termini relativi, si è verificata tra le professioniste over 55.
LA RIPRESA DEL MEZZOGIORNO
A livello geografico, il peso della componente femminile nella libera professione varia sensibilmente. Nel 2023, la quota di professioniste era compresa tra il 38% e il 35% nel Centro-Nord, mentre nel Mezzogiorno scendeva al 32,2%.
Nonostante il divario storico tra Nord e Sud, negli ultimi anni la crescita della presenza femminile è stata più intensa nel Meridione, contribuendo a ridurre leggermente lo squilibrio. Le regioni con la mag-

giore incidenza di donne professioniste sono Emilia-Romagna, Molise, Liguria e Lazio, con valori superiori al 39%, mentre Calabria, Sardegna e Campania registrano le quote più basse (circa il 30%).
CAMICI E TOGHE IN POLE POSITION
L’analisi settoriale rivela una distribuzione fortemente polarizzata della presenza femminile. Nel settore "Sanità e assistenza sociale", le donne rappresentano il 51,9% del totale dei professionisti, mentre nelle professioni legali costituiscono il 43,1%. In ambiti come l’ingegneria, la finanza, il commercio e l’immobiliare, invece, la presenza femminile è significativamente inferiore, oscillando tra il 22% e il 24%.
Questo suggerisce una segregazione settoriale, con le donne più concentrate in ambiti tradizionalmente legati all’assistenza e ai servizi alla persona.
REDDITI A CONFRONTO

Redditi medi annui dei professionisti iscritti alla Gestione Separata, dei professionisti iscritti alle Casse di previdenza, dei dipendenti privati e dei dipendenti pubblici, e gap reddituale tra uomini e donne. Anno 2023
I dati 2023 di fonte Adepp si riferiscono al 2023 come anno di denuncia
Fonte: elaborazioni Osservatorio delle libere professioni su dati Inps e Adepp
TUTTI I NODI DEL PAY GAP
Un aspetto particolarmente critico riguarda il divario reddituale di genere. Secondo i dati delle Casse previdenziali, nelle denunce del 2023 il reddito medio annuo dei professionisti era di circa 44 mila euro, ma con differenze marcate tra uomini e donne.
Il reddito medio maschile si attestava attorno ai 54 mila euro, mentre quello femminile era di circa 29 mila euro, con un gap di 25 mila euro. Le differenze erano evidenti anche su base territoriale: al Nord, i professionisti percepivano mediamente quasi 55 mila euro annui, contro i 30 mila euro del Mezzogiorno.
La percentuale di reddito femminile rispetto a quello maschile risultava del 51,5% al Nord, del 51,3% al Centro e del 54,6% al Sud. Anche l’età incide significativamente sul reddito. Il divario di genere
5 PRIORITÀ STRATEGICHE
è relativamente contenuto nelle fasce più giovani, ma si amplia in età più avanzata. Tra i professionisti di 51-60 anni, il reddito medio femminile era di circa 37.400 euro, rispetto ai 67 mila euro degli uomini, evidenziando una forbice di quasi 30 mila euro. Tra i 41-50enni, la differenza era di circa 27 mila euro, mentre tra i 61-70enni si attestava sui 24 mila euro.
Uno sguardo ai dati della Gestione Separata Inps conferma questo scenario. Tra il 2014 e il 2023, il numero di professionisti iscritti è cresciuto notevolmente, passando da 259 mila a 415 mila. Ancora una volta, le donne hanno guidato questa crescita, arrivando a rappresentare quasi il 48% del totale.
Il Nord ha registrato il maggior incremento assoluto, mentre il Mezzogiorno ha segnato la crescita percentuale più alta. Tuttavia, sul piano retributivo, il divario
LAVORO
5 PRIORITÀ STRATEGICHE
Costruzione di un mercato occupazionale più equo, capace di garantire pari opportunità di accesso, avanzamento di carriera, competitività e flessibilità
COMPETENZE
Garanzia di pari opportunità nello sviluppo delle conoscenze e delle abilità, con focus sulle discipline Stem
REDDITO
TEMPO
POTERE
Diminuzione del gender pay gap e disparità salariale tra i laureati
Riequilibrio della distribuzione dei compiti e accudimento tra i sessi
Rafforzamento della presenza femminile nelle posizioni decisionali e negli organi di governance a livello politico, economico e sociale
Fonte: Osservatorio delle libere professioni
Anno 2023
Fonte: elaborazioni Osservatorio delle libere professioni su dati Istat
di genere resta evidente: le donne guadagnano in media circa il 71% in meno rispetto agli uomini. Anche per questi professionisti, la differenza è minore tra i giovani e si amplia con l’età.
IL DIFFERENZIALE RETRIBUTIVO
Il confronto tra i redditi dei liberi professionisti e quelli dei lavoratori dipendenti offre ulteriori spunti di riflessione. I dati mostrano che, in tutti i casi, le donne percepiscono compensi inferiori agli uomini. Il divario reddituale a favore degli uomini varia da circa 25 mila euro per i professionisti iscritti alle Casse private a circa 7.300 euro per quelli iscritti alla Gestione Separata Inps.
La situazione appare particolarmente critica per le professioniste iscritte alle Casse, con possibili ripercussioni sui percorsi di carriera. Mentre per gli uomini la libera professione può rappresentare un’opportunità per ottenere redditi più
elevati, per le donne il settore pubblico offre mediamente compensi migliori. I professionisti iscritti alle Casse guadagnano in media il 30% in più rispetto ai dipendenti pubblici, mentre le libere professioniste iscritte alle Casse percepiscono un reddito inferiore del 10% rispetto alle lavoratrici pubbliche.
Questa differenza di prospettiva reddituale emerge con ancora maggiore evidenza se si osserva la percentuale del reddito femminile rispetto a quello maschile: le donne libere professioniste percepiscono solo il 54% del reddito dei colleghi uomini, mentre tale percentuale sale al 77% per le dipendenti pubbliche.
Inoltre, secondo i dati Istat sulle Forze di lavoro, tra il 2018 e il 2023 si registra una tendenza tra le giovani laureate a preferire il lavoro dipendente rispetto alla libera professione, probabilmente per la ricerca di maggiori tutele e stipendi più alti. ■
LA FATICA DI ESSERE MAMMA
di Camilla Lombardi e Giulia Palma
Osservatorio delle libere professioni
Le donne percepiscono la maternità come un ostacolo significativo alla carriera. Ritardano la nascita del primo figlio e spesso non usufruiscono delle misure di sostegno disponibili. Un’indagine dell’Osservatorio delle libere professioni punta il dito sulla necessità di interventi mirati a migliorare il supporto alla genitorialità tra i liberi professionisti


La maternità è un ostacolo che rischia di compromettere la carriera di una libera professionista. E anche per questo motivo un sempre maggior numero di donne che operano nell’ambito delle professioni legali, sanitarie, economiche e tecniche, tende ad avere il primo figlio oltre i 30 anni. Sono due dati allarmanti che emergono da un’indagine su “Le priorità strategiche per la parità di genere nelle libere professioni” condotta dall’Osservatorio delle libere professioni nel 2024, che è stato presentato lo scorso 11 marzo 2025 durante l’evento: “Parità di genere e differenziale retributivo. Le professioniste”, promosso da Confprofessioni e da Noi Rete Donne. L’indagine condotta dall’Osservatorio delle libere professioni nel 2024, su un campione di circa 1.300 professionisti iscritti alla Gestione Professionisti di Ebipro, ha analizzato le tutele esistenti e l’impatto della genitorialità sulla carriera, evidenziando criticità e possibili interventi per favorire la parità lavorativa.
LA PAURA DI FAR FIGLI
Il primo dato che balza all’occhio è la percezione della maternità sulla carriera: quattro professioniste su cinque ritengono che diventare mamma possa compromettere la carriera, con una sensazione più marcata tra le donne più giovani (83%). Ma anche tra le over 45 la percentuale resta alta (77%), suggerendo un problema strutturale nella compatibilità tra maternità e sviluppo professionale. Non meraviglia, dunque, che le libere professioniste dedicano di spostare in là negli anni la nascita del primo figlio. Dall’indagine emerge che l’età media delle donne alla nascita del primo figlio è pari a 32,5 anni, in linea con il dato nazionale del 2023. Un dato che conferma la tendenza a posticipare la maternità per motivazioni legate alla carriera e alla stabilità lavorativa. Inoltre, analizzato la condizione occupazionale delle donne al momento della nascita dei figli emerge come il 61% delle donne

era libera professionista, mentre il 34% era dipendente e ha successivamente cambiato inquadramento. Questo permette di distinguere tra chi ha potuto beneficiare delle tutele del lavoro dipendente e chi ha vissuto la maternità con minori garanzie.
L’IMPATTO DELLA MATERNITÀ
L’impatto della genitorialità sull’attività professionale presenta differenze di genere significative. Solo il 36,6% delle donne dichiara di non aver subito cambiamenti dopo la nascita di un figlio, contro il 68,3% degli uomini. Le donne sono più frequentemente costrette a modificare gli orari di lavoro (16,2%), delegare attività (13,8%) o comprimere i tempi lavorativi (13,2%). Gli uomini, invece, riportano cambiamenti meno incisivi: solo il 10% ha dovuto delegare compiti e l’8,2% ha ridotto il tempo dedicato al lavoro (Figura 1). Le differenze nell’impatto della maternità sull’attività

FIG.1 - "COME È CAMBIATA LA TUA ATTIVITÀ LAVORATIVA IN SEGUITO ALLA NASCITA DI TUO FIGLIO?"
Divisione per sesso, rispondenti donne e uomini con figli. Dati 2024
Non è cambiata
Ho cambiato orari di lavoro
Ho dovuto delegare parte del mio lavoro ad altri
Svolgo le stesse attività in meno tempo
Ho ridotto la mole di lavoro
Ho cambiato lavoro
Mi sono avvalsa di aiuti per la famiglia
Non è cambiata
Ho dovuto delegare parte del mio lavoro ad altri
Svolgo le stesse attività in meno tempo
Ho cambiato orari di lavoro
Ho ridotto la mole di lavoro
Ho cambiato lavoro
Fonte: Indagine sulla genitorialità realizzata dall'Osservatorio delle libere professioni
professionale non sono solo per sesso, ma anche per profilo professionale. Infatti, distinguendo tra libere professioniste e lavoratrici dipendenti, emerge che il 39,7% delle professioniste non ha subito cambiamenti, ma una quota rilevante (18,8%) ha dovuto delegare parte del lavoro. Tra le ex dipendenti, il 29,2% ha modificato gli orari di lavoro, evidenziando la necessità di maggiore flessibilità nelle professioni autonome. Anche perché le tutele esistenti risultano poco conosciute e poco utilizzate, soprattutto tra e libere professioniste.
Infatti, il 74% delle donne non ha usufruito di misure di sostegno alla genitorialità. Circa la metà delle donne dichiara di non esserne a conoscenza, il 32% indica che le misure non erano previste dal proprio contratto, mentre il 12% non ha potuto accedervi a causa degli impegni lavorativi. Questo evidenzia una grave carenza informativa e strutturale nelle politiche di supporto (Figura 2). La principale fonte di sostegno per le libere professioniste è rappresentata dalle Casse di previdenza (82%), seguite dall’Inps (17%). Tuttavia, la percezione di adeguatezza di queste misure è estremamente bassa: il 77% delle rispondenti le giudica insufficienti, solo il 13% ne ha un’opinione positiva e il 10% non ha una posizione chiara. L’indagine evidenzia una chiara necessità di interventi mirati a migliorare il supporto alla genitorialità tra i liberi professionisti. La scarsa conoscenza delle tutele esistenti e la loro inadeguatezza richiedono interventi mirati, sia a livello informativo che strutturale. Le politiche future dovrebbero puntare su una maggiore diffusione delle informazioni relative alle tutele, sull’ampliamento delle misure di conciliazione vita-lavoro e su incentivi economici per supportare la genitorialità nelle libere professioni. Solo attraverso un approccio integrato sarà possibile garantire pari opportunità lavorative e una migliore qualità della vita per i professionisti con figli. ■
FIG.2 - "HAI FATTO RICORSO A MISURE A SOSTEGNO DELLA GENITORIALITÀ?"
Rispondenti donne libere professioniste alla nascita di almeno un figlio. Dati 2024
Non ne ero a conoscenza
Non erano previste dal contratto di lavoro Impegni di lavoro
Fonte: Indagine sulla genitorialità realizzata dall'Osservatorio delle libere professioni
L’analisi del campione

L’analisi del campione ha rivelato una prevalenza di rispondenti donne (55%) rispetto agli uomini (45%), nonostante la platea degli iscritti alla Gestione Professionisti Ebipro sia per il 70% composta da uomini. Questo dato potrebbe riflettere un maggiore interesse femminile per il tema della genitorialità o una diversa propensione a partecipare a indagini su questo argomento.
L’82,5% del campione ha figli, con una leggera prevalenza tra gli uomini (86,3%) rispetto alle donne (79,5%). Analizzando la distribuzione per fasce d’età, emerge una maggiore concentrazione di donne tra i 45-54 anni (33,9%) e di uomini tra i 55-64 anni (36,9%), in linea con la composizione per età dei professionisti iscritti a Gestione professionisti Ebipro. La distribuzione per settore lavorativo mostra una differenziazione per sesso.
Le donne si concentrano prevalentemente nelle attività di consulenza del lavoro (32%) e nei servizi di commercialisti e revisori contabili (25%). Gli uomini, invece, si concentrano principalmente tra i commercialisti (31,7%), seguiti dagli studi odontoiatrici (17,5%) e dai consulenti del lavoro (16,2%). ■
MOLESTIE, UN SINTOMO DEL GENDER GAP
di Nadia Anzani
In Italia il 13,5% delle donne ha subìto molestie sul luogo di lavoro. Percentuale che sale al 21,2% con l’abbassarsi dell’età. E il mondo della libera professione non fa eccezione. Un fenomeno trasversale che riguarda tutti gli ambiti lavorativi e i gradi di istruzione. Intervista a Daniela Carlà
, questi gli anni che mancano per raggiungere la piena parità di genere. A dirlo è stato il Global gender gap report 2023, pubblicato dal World Economic Forum. Nel frattempo, le donne continuano a essere pagate meno degli uomini e quindi ad avere una pensione più bassa; a metterci più tempo per trovare un’occupazione pur avendo curricula scolastici migliori di quelli degli uomini; a faticare per raggiungere posizioni apicali nelle aziende private e nella pubblica amministrazione e continuano a subìre violenze e molestie. Anche sul luogo di lavoro. Secondo la più grande indagine Ue sulla violenza di genere condotta da Eurostat, dall’Agenzia per i diritti fondamentali e dall’Eige, una donna occupata su 3 a livello europeo (30,8%), subisce molestie sul lavoro nel corso della sua vita. Percentuale che sale a 41,6% per le giovani donne (2 su 5). In Italia la musica non cambia. In base alle ultime stime dell’Istat, il 13,5% delle donne di 15-70 anni, che lavorano o hanno lavorato, ha subìto molestie sul lavoro e la percentuale che riguarda le più giovani (15-24 anni) sale al 21,2%. Si tratta per lo più di sguardi inappropriati, offese, battute a sfondo sessuale, proposte indecenti, ricatti fino ad atti più gravi come la molestia fisica. «Le molestie sono un sintomo e rivelano una disparità di potere tra il genere maschile e quello femminile nella società come nel lavoro e sono presenti in tutti i settori produttivi, pubblici e privati», afferma Daniela Carlà, Dirigente Generale della Pubblica Amministrazione e promotrice di Noi Rete Donne, organizzazione nazionale attiva da oltre 15 anni per sostenere la democrazia paritaria.
D. Anche nel mondo delle libere professioni?
Assolutamente sì. Le molestie esistono in qualsiasi ambito lavorativo. Il mondo delle libere professioni, del resto, non è

certo esente dalla disparità di potere tra uomini e donne: vi è un problema di progressione di carriera, di salari, di presenza femminile negli organi apicali e negli organismi di categoria. Ma è un fenomeno ancora difficile da inquadrare perché non esistono ricerche sul settore nel suo complesso. Ci sono indagini sulle giornaliste e una indagine sulle archeologhe, che è stata presentata nel corso dell’incontro “Parità di genere e differenziale retributivo. Le professioniste”, organizzato da Confprofessioni e da Noi Rete Donne. Ma il tema andrebbe maggiormente approfondito e analizzato. Anche perché non è vero che, come erroneamente si è portati a pensare, in ambienti lavorativi culturalmente avanzati le molestie non esistono.
Il fenomeno è trasversale, esattamente come quello della violenza sulle donne. Anzi, dall’indagine Istat 2024 emerge che il numero delle molestie sarebbe maggiore nel caso di lavoratrici con un alto titolo di studio. Questo fa riflettere: potrebbe trattarsi di una maggiore consistenza del fenomeno, ma anche di una maggiore percezione e consapevolezza dovuta proprio al livello culturale. Inoltre, le molestie riguarderebbero le più giovani. Anche qui è evidente come possano condizionare complessivamente il successivo iter nella progressione lavorativa. Insomma, è un fenomeno sul quale dobbiamo accentuare l’attenzione, finora riservata principalmente alle lavoratrici dipendenti - sia pubbliche che private - o alle lavoratrici autonome in settori e segmenti più fragili e più vulnerabili. Il mondo delle professioni - ordinistiche e non - se ne deve assolutamente fare carico, riflettendo su ingressi e progressioni nelle carriere, ruoli apicali, assetti organizzativi di Enti e Casse. Ad esempio, i modelli organizzativi devono tener conto dei rischi sul piano della legalità e della corruzione. Il focus va posto anche sulle molestie e sui ricatti nell’ambito lavorativo, non solo nell’interesse delle professioniste donne, ma in quello più generale dell’autorevolezza delle libere professioni nel futuro.
D. Nei diversi ambiti socio culturali esistono tratti che differenziano le molestie?
Uno: il diverso grado di consapevolezza e di percezione che se ne ha. Come dicevamo le molestie aumentano con l’aumentare del titolo di studio. Ma lo ribadiamo: ciò non significa che le laureate siano più molestate delle diplomate, ma potrebbe dipendere da una loro maggior consapevolezza del problema e questo vale anche per le libere professioniste. D’altro canto, dalle indagini Eurostat emergerebbe che la Finlandia è il paese europeo più inte-


Daniela Carlà, Dirigente Generale della Pubblica Amministrazione e promotrice di Noi Rete Donne
ressato al fenomeno: vogliamo crederci? Insomma tutto il mondo delle libere professioni è sicuramente interessato con peculiarità proprie ed è arrivato il momento di occuparcene seriamente. In caso di molestie, è sempre negativo l’atteggiamento di attendere l’esito - quando vi è la denuncia - delle indagini sul versante giudiziario. Esistono anche altri strumenti che vanno attivati, da quello disciplinare alla previsione di adeguate sanzioni anche quando sono coinvolte - e non si può mai escludere - figure apicali.
D. Il fatto che molte libere professioniste abbandonino il posto di lavoro per motivi familiari e/o personali, come rilevato anche dall’ultima indagine dell’Osservatorio delle Libere professioni, le espone maggiormente a molestie?
In genere la decisione di abbandonare un posto di lavoro non nasce dall’oggi al domani, ma viene maturata dopo aver vissuto un periodo difficile, magari di precarizzazione. Un contesto di fragilità in cui gli elementi che possono indurre a una maggiore ricattabilità si accentuano. Ma ci sono anche altri aspetti per i quali siamo autorizzati a pensare che il mondo delle libere professioni non sia esente da molestie.
D. Quali?
L’apparente parità di ruoli negli studi professionali medio piccoli, dove raramente esiste un organigramma, è un altro aspetto di criticità perché poi, nella realtà di tutti i giorni, i rapporti scorrono su canali più incerti dando vita a un contesto opaco dove facilmente possono verificarsi molestie. Si tratta di supposizioni, ovviamente, visto che non abbiamo dati concreti in mano. Anche per questo il mondo delle molestie nelle libere professioni dovrebbe essere indagato in modo

sistemico. Una riflessione a parte merita il ruolo degli Organismi di parità che possono svolgere un’importante funzione nel dare continuità all’interesse sul tema e a collocarlo nel giusto contesto, quale articolazione del più generale tema della parità e pari opportunità. Vi è stata una recente sentenza, nel novembre dello scorso anno, che ha ritenuto infondato un appello di qualche Comitato di pari opportunità (Cpo) e di alcune professioniste rispetto all’Ordine dei Commercialisti, relativo al ruolo e alla natura del Cpo. Le appellanti intendevano, anche in ragione degli interessi costituzionalmente rilevanti oggetto dell’attività dei Comitati, rivendicarne il ruolo di autonomi organismi elettivi. Non sono stati di questo avviso prima il Tar e poi il Consiglio di Stato che li hanno ritenuti mere articolazioni interne degli Organi territoriali e del Consiglio Nazionale. Sul punto occorrerà ritornare, eventualmente anche in via legislativa. Un ruolo fondamentale – e qui Noi Rete
Donne ha proprio caratterizzato la sua attività – spetta ai ministeri vigilanti per ottenere, attraverso un esercizio corretto e non miope e parziale dell’attività di vigilanza, il riequilibrio di genere negli Enti e nelle Casse.
D. Cosa si sta facendo per contrastare il fenomeno delle molestie sul lavoro?
Con la Legge 4 del 2021, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 26 gennaio, l'Italia ha ratificato la Convenzione sulla violenza e le molestie dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), che stabilisce standard per luoghi di lavoro liberi da violenza e molestie. Si ribadisce così che i datori di lavoro sono tenuti ad adottare misure pratiche per combattere questi fenomeni e mettere in atto le strutture necessarie per creare un'atmosfera di tolleranza zero nei confronti della violenza negli ambienti di lavoro. Le molestie infatti, incidono sul benessere psicofisico del lavoratore e delle lavoratrici. La conoscenza del fenomeno dimostra che le molestie sessuali sul posto di lavoro riguardano soprattutto le donne.
D. È sufficiente o andrebbe fatto altro?
Credo sia opportuno configurare la molestia sul posto di lavoro come autonoma fattispecie di reato e non mera degradazione del reato di violenza. Uno stimolo viene dal recente Disegno di legge del Governo che prevede la configurazione del femminicidio come fattispecie autonoma di reato. Insomma sono indispensabili - se vogliamo affrontare seriamente il fenomeno e contrastarlo efficacemente - una molteplicità di iniziative sul versante di una migliore conoscenza, dell’articolazione della stessa in relazione alla specificità dei settori, della previsione anche normativa di uno specifico reato, dell’attivazione di
misure disciplinari e deontologiche professionali, dell’accuratezza degli assetti organizzativi, della formazione a tutti i livelli, della responsabilizzazione rispetto al legame tra molestia e disparità di potere. Il vero punto è proprio questo ed è su questa disparità di potere che occorre lavorare con urgenza per stabilire in ogni luogo criteri equilibrati a vantaggio del merito. Sino a ora se ne è parlato troppo poco e ancora meno si è fatto. ■



SOLDI, L’ULTIMO TABÙ
di Matteo Durante

Le donne hanno una relazione complicata con il denaro. Il tasso di alfabetizzazione finanziaria è inesistente. E la violenza economica è molto diffusa ma non viene riconosciuta. Tre le strade da percorrere: promuovere la direttiva sulla trasparenza salariale; supportare la conciliazione tra lavoro e vita familiare; normalizzare l’argomento del denaro anche a casa.
Parla l’economista femminista Azzurra Rinaldi
La paghetta? «Un utile strumento, non un premio!». L’empowerment femminile? «Comincia dall’indipendenza economica delle donne. Che da noi non esiste». Il denaro? «Per gli italiani è un argomento tabù». Il femminismo? «Non è contrario di maschilismo. Ma parità di diritti: come possiamo non dirci femministi oggi?». È chiacchierando con Azzurra Rinaldi - economista femminista, docente di Economia Politica all’Università Unitelma Sapienza di Roma, direttrice della School of Gender Economics, co-fondatrice di Equonomics, per l’equità di genere all’interno di aziende e istituzioni - che ci si rende davvero conto di quanta strada ci sia ancora da fare, per migliorare le competenze finanziarie e contrastare la violenza economica.
D. Davvero oggi, in Italia, paese del G7, c’è ancora bisogno di questo?
Sì, perché il nostro tasso di alfabetizzazione finanziaria è praticamente inesistente: secondo Eurostat, siamo ultimi
in Europa. Su una valutazione da 0 a 20, siamo al 10,7, sotto la media OCSE. Ed è, purtroppo, una situazione stabile, senza tendenze al miglioramento. E senza significativi differenziali di tipo territoriale o di genere. Un dato che riflette un problema culturale più ampio: non amiamo parlare di denaro, considerandolo spesso un argomento scomodo o volgare.
D. Da dove nasce questo fastidio, secondo lei?
La ritrosia verso il denaro nasce da un’impostazione educativa che si tramanda di generazione in generazione. Da piccola, ad esempio, a casa mia c’era una regola: non si parlava di soldi a tavola. Ma ciò contribuisce a creare l’idea che i soldi siano un tema negativo o inappropriato. Eppure il denaro ci permette di vivere, scegliere, progettare. Nei paesi anglosas -

Azzurra Rinaldi

soni è più normale parlarne apertamente tra amici, e persino tra sconosciuti. Da noi, soprattutto per le donne, resta un tabù: non mi capacito del perché a tavola si possa parlare di attualità, di sport o di libri, ma non di soldi. La vera rivoluzione culturale in questo Paese è normalizzare questo argomento, rendendolo parte della nostra quotidianità.
D. Il suo libro lo denuncia fin dal titolo: Le signore non parlano di soldi. Perché?
Parlare di soldi si interseca con il canone della femminilità: non è considerato “femminile”. Ma ciò perpetua uno schema che depotenzia le donne, cioè alimenta la percezione che una donna indipendente economicamente sia "fastidiosa". E infatti, il 42% delle donne italiane non ha un conto corrente personale. E il nostro tasso di occupazione femminile è il più basso del G7. Senza considerare che il 73% delle donne esce dal mercato del lavoro
dopo essere diventata madre. Il problema è che la libertà si raggiunge più facilmente quando si ha il controllo del proprio denaro. E l’indipendenza economica è fondamentale anche per le donne vittime di violenza, perché la prima domanda che si pongono è: "Se me ne vado, come farò a gestirmi autonomamente?".
D. Sta parlando di violenza economica? Può spiegare di cosa si tratta?
La violenza economica è molto diffusa ma non viene riconosciuta. Nella definizione nella Convenzione di Istanbul del 2011, consiste in tutte quelle condotte che limitano o negano l’indipendenza economica della donna. Un uomo che dice “Non lavorare, a te penso io” perpetua una forma di violenza economica.
Anche nelle separazioni, il mantenimento può diventare un’arma di ricatto. Non è solo una questione di reddito: si tratta di potere e di controllo.
D. Ma non è altrettanto vero che le donne si occupano dei conti di casa?
Le donne hanno spesso una relazione complicata con il denaro. Culturalmente, sono state educate a gestire i soldi in casa, ma non al di fuori. Questo riflette un modello patriarcale che assegna alle donne un potere limitato. Eppure, durante la pandemia, è emerso che i fondi gestiti dalle donne erano meno volatili rispetto a quelli gestiti dagli uomini, grazie a una loro maggiore propensione all’empatia e alla stabilità.
D. Come se ne esce?
Bisogna agire su più livelli. Primo: le istituzioni devono promuovere politiche di uguaglianza, come la direttiva UE del 2023 sulla trasparenza salariale. Ma a me personalmente non dispiacerebbe che venisse presentato un disegno di legge per cui a ogni contratto di lavoro per le donne, si preveda anche l’apertura di un conto corrente.
Secondo: dal punto di vista delle aziende, le donne vanno supportate nella conciliazione tra lavoro e vita familiare.
Terzo: siccome le persone sono il motore del cambiamento, individualmente dobbiamo fare di più: normalizzare l’argomento del denaro anche a casa.
La paghetta, per esempio, non dovrebbe essere un premio, ma uno strumento, senza discriminazioni di genere, per insegnare ai bambini e alle bambine a costruire una relazione sana con il denaro e a comprendere il valore del risparmio e del tempo. Non ha importanza la somma, importate è non entrare nel merito di come verrà spesa. In Italia non ci sono studi, ma negli Usa è assodato che alle figlie venga data una paghetta che è la metà di quella allungata ai loro fratelli maschi...
D. È anche per questi approcci che si considera un’economista femminista?
Economista femminista può sembrare una definizione divisiva, ma non lo è. Nella teoria economica c’è un ambito di ricerca chiamato "economia femminista", con un approccio che mette al centro concetti come cura e responsabilità, spesso ignorati dall’economia mainstream, focalizzata solo sulla cieca fiducia nel profitto. Mi viene da sorridere a doverlo specificare, ma essere femminista non significa essere contro gli uomini, piuttosto lottare per la parità di diritti. Credo sia fondamentale per costruire una società più giusta e inclusiva. ■


NELL’INFERNO DELLE DONNE
di Guido Mattioni
Si chiama Ciudad Juarez, la città di confine tra Usa e Messico dove è nato il termine femminicidio.
Statistiche approssimative parlano di 3.000 vittime strappate alla vita in modo barbaro dai primi anni Novanta a oggi. Crimini rimasti quasi tutti impuniti


L’Inferno delle donne è là, in Messico, nello Stato di Chihuahua, oltre l’Interstate numero 10, sull’altra sponda del Rio Grande, oltre chilometri e chilometri di patetici muri tirati su dagli americani, altissimi ma inutili, perché incapaci di arginare la fuga dei disperati di ogni sesso ed età. Anche quelli catturati dal Border Patrol e rimandati oltre confine. Tanto ritornano, lo fanno appena possono, dopo aver messo da parte un altro pugno di dollari. C’è chi lo ha fatto anche sei o sette volte di seguito, vai e vieni. È l’inarrestabile testardaggine dei derelitti; quella di chi, tanto, non ha nulla da perdere, se non la vita, pur di fuggire da un “qualcosa” che comunque vita non è.
Per vederlo, l’Inferno delle donne, non c’è bisogno di arrampicarsi fino ai 2.192 metri del Monte Franklin, che domina El Paso, in Texas. Basta affacciarsi a un balcone, al secondo piano di un qualsiasi motel di questa insipida città di 700 mila anime, di qua dal confine. L’Inferno - senza coperchio - è là davanti, oltre l’autostrada, oltre al fiume e al di là di quei muri. Spuntato e cresciuto come un cancro, ha un nome che fa paura soltanto a pronunciarlo, dimenticato probabilmente anche da Dio: Ciudad Juarez, un milione e mezzo di abitanti, la bordertown più pericolosa al mondo, un’orrenda battigia di sabbia e polvere, intrisa di sangue e di droga, dove finisce per spiaggiarsi la schiuma dei peggiori criminali. A Juarez c’è tutto: dalla pedopornografia al commercio dei bambini per il traffico d’organi, dal libero smercio d’armi all’andirivieni incontrollato di esplosivi per i terroristi di tutto il mondo. Tanto, lì la legge non c’é.
PIÙ DI 3 MILA VITTIME
Ciudad Juarez è però – direi soprattutto - l’Inferno delle donne. Lo è da decenni e continua a esserlo. È stato l’Inferno per migliaia, quasi tutte giovani e giovanissime, che vi hanno concluso il loro breve e
sfortunato viaggio terreno. Le statistiche, approssimative e al ribasso, calcolate sui pochi dati certi disponibili, perdipiù viziati dall’indifferenza e connivenza delle locali autorità e di una sedicente Polizia, parlano di almeno 3 mila vittime strappate alla vita in modo barbaro dai primi anni Novanta a oggi. Crimini rimasti quasi tutti impuniti. Tanto che la parola “femminicidio” è nata proprio qui. A coniarlo fu la poetessa Susana Chavez, attivista dei diritti delle donne, poco prima di essere uccisa anche lei. Perché parlava troppo. Perché denunciava. Perché pestava piedi intoccabili. Perché era troppo scomoda, insomma. Aveva 36 anni, Susana. Era il gennaio del 2011.
LE CROCI DI EL PORVENIR
Per vedere e capire meglio, bisogna però spostarsi poco più a sud di El Paso. Fermare l’auto, scendere e stringere gli occhi,

guardando oltre quelle inutili reti, meglio se con un binocolo. Perché là, in territorio messicano, in un non-luogo chiamato El Porvenir, spicca una macchia rosa. Basta mettere a fuoco: è il colore di tante croci di legno. Sono state piantate nella sabbia, in ricordo e omaggio alle ragazze che a Ciudad Juarez perdono la vita nel più atroce dei modi: violentate, torturate, mutilate, quasi sempre strangolate e spesso fatte a pezzi. Lasciandone poi quel che resta dove capita, a calcinare sotto il sole, fino a quando le loro madri, vestite di nero, arrivate lì da tutto il Continente e aiutate dai volontari del Centro de Dreechos Humanos de las Mujeres o di Justitia Para Nuestras Hijas, non ne ritrovano qualcosa per poter dare loro un nome: un pezzo d’abito, una scarpa, una catenina lasciata lì dai mostri perché senza valore. Questo luogo di dolore si chiama Campo Algodonero. Ogni croce un nome, appun-


to: Esmeralda, Juliana, Maria, Veronica, Mayra… Scritti a mano, spiccano in blu sul rosa, andando a comporre un’altra linea divisoria, ogni anno più lunga, quella che segna il confine – un altro confine! – tra il mondo civile e l’orrore.
LAVORO E MACHISMO
Le vittime di questa carneficina senza fine erano e sono perlopiù giovanissime operaie delle maquilladoras, le aziende sorte in territorio messicano dopo la firma, il 1° gennaio 1994, dell’accordo di libero scambio NAFTA. Sottoscritto da Stati Uniti, Messico e Canada nel vano tentativo di arginare l’immigrazione clandestina, fu poi sciolto nel giugno 2020. Ma quelle fabbriche – nomi famosi, perlopiù dell’industria elettronica – sono però rimaste.
E preferiscono assumere solo personale femminile: sia perché più disciplinato, sia perché dotato di mani piccole e dita minuscole, essenziali per maneggiare microchips e altre minuterie. Così ogni sera, finito di lavorare, quelle poverette accorse qui da tutto il Centro e Sud America per poter mantenere, a casa, genitori e fratelli, percorrono strade non illuminate o prendono sgangherati bus senza vigilanza per fare ritorno alle loro baraccopoli. Attirando così a Juarez, negli anni, anche schiere di pervertiti e maniaci che sanno di avere mano libera e di rimanere impuniti. A questi mostri si aggiunge l’invidia ostile e spesso violenta di tanti maschi della bordertown, rimasti senza lavoro “per colpa” – così pensano - di quelle incolpevoli ragazze. Ma se per tanti la reazione si ferma alle parole, per altri va oltre, in un Paese dove, peraltro, la cultura machista e la violenza sulle donne, anche in casa, sono da sempre diffuse piaghe sociali. Ciudad Juarez è questo e altro. Una città di fatto “governata” da una dozzina di cartelli della droga in guerra tra loro e dove, al mattino, a un angolo di strada, può capitare di vedere la testa mozzata
di uno spacciatore che aveva sconfinato in zona altrui. Viene lasciata lì, a muto ma convincente monito per chi avesse la malaugurata idea di imitarlo. Eppure, è a Juarez che arrivano a migliaia, ogni giorno, nella speranza di guadare di notte quel fiume, con l’acqua fetida che gli arriva al collo, di attraversare poi – nel buio - quell’autostrada a otto corsie e di scavalcare finalmente quei muri oltre ai quali c’è un sogno, quello americano. O almeno quello che loro pensano essere tale. Perché comunque sia, come canta Thom Cachon in una sua struggente e dolente ballata, intitolata Juarez, Mexico: Non voglio morire in queste strade in cambio di nulla
Non intendo fare la fame ogni giorno Ho deciso di andare
Non importa dove andrò Mi basta che sia lontano da Juarez, Mexico. ■


PAGINA A CURA
del Sindacato
Nazionale Psicologi
Liberi Professionisti (Plp)

di Fiorella Chiappi
Presidente Cpo di Plp

Il gender gap economico: un approccio psicologico
In Europa, il gender gap è in media del 13%, mentre il divario retributivo si attesta al 29% (Report Eiopa 2024). Questo scarto è evidente nei paesi con una maggiore incidenza di part-time femminile e interruzioni di attività professionale. Le implicazioni sono chiare: le donne guadagnano meno, accumulano minori contributi previdenziali e percepiscono pensioni più basse. Tuttavia, queste disuguaglianze non sono solo numeri: sono radicate in meccanismi culturali, sociali e psicologici che influenzano comportamenti e scelte nel mondo del lavoro.
Questo risultato è legato a diversi fattori, tra cui il predominio del caregiver femminile e la persistente mancanza di misure efficaci per conciliare vita familiare e professionale. Si tratta di ostacoli che non solo impediscono la parità di genere, ma frenano anche la crescita economica del paese. Come rileva Paola Profeta, professore ordinario di Scienza delle Finanze dell’Università Bocconi, un rapido sviluppo della parità
di genere potrebbe aumentare il Pil pro-capite europeo dal 6,1% al 9,6% entro il 2050, con un impatto ancora maggiore nei paesi come l’Italia, dove il divario di genere è più marcato, arrivando fino al 12%.
Nonostante i rilevanti cambiamenti legislativi, l’Italia fatica a raggiungere un’uguaglianza di genere effettiva nel lavoro. Questo ritardo è legato anche alla persistenza di tratti culturali risalenti alla Controriforma, che ha radicalizzato la divisione dei ruoli di genere: la donna incaricata della cura familiare, l’uomo della gestione economica. Sebbene, nel nostro Paese, dal 1945 in poi ci sia stata una grande transizione legislativa verso la parità, è mancata una corrispondente transizione culturale. Questo gap ha lasciato intatte molte convinzioni tradizionali sui ruoli maschili e femminili, generando visioni contraddittorie e alimentando, come rileva l’Istat, il persistente radicamento di stereotipi di genere tra uomini e donne, che alimentano quelle distorsioni cognitive che sono i gender bias.
Marie Scholer e Lucian Pătulea, esperti dell’Eiopa, sostengono che sul gender gap pensionistico europeo influiscano convinzioni prevalenti tra le donne, come la scarsa attenzione agli obiettivi economici a lungo termine, al reddito pensionistico e all’investimento per la pensione privata.
Sebbene questa visione sia in parte corretta, è inefficace e rischiosa, se limitata alla “mancanza” di competenze femminili. È inefficace perché la mancanza di consapevolezza non riguarda solo le donne, ma è il frutto di un modello culturale che coinvolge entrambi in vari ambiti della vita. È rischiosa perché, concentrandosi troppo sulla “mancanza” femminile, si rischia di colpevolizzare le donne e non affrontare i problemi strutturali e culturali che alimentano il gap.
Il contrasto al gender gap richiede un approccio multidimensionale: legislativo, operativo, culturale, psicologico e formativo. La competenza finanziaria delle donne è fondamentale, come rileva Azzurra Rinaldi, docente di Economia politica presso l’Università Unitelma Sapienza di Roma (vedi intervista a pag. 30), e dovrebbe essere estesa anche agli uomini, non limitandosi alla semplice conoscenza dei concetti finanziari, ma includendo la comprensione delle implicazioni economiche a lungo termine, come il reddito delle pensioni e l’importanza degli investimenti per il futuro.
Inoltre, l’educazione finanziaria, che va oltre la formazione tecnica, deve tenere conto del funzionamento dei bias cognitivi, di quelle distorsioni che, come evidenziato dal premio Nobel per l’economia nel 2022 Daniel Kahneman e Amos Tversky, se non consapevoli e gestiti, possono influire sulle decisioni economiche. Poiché molti ostacoli alla consapevolezza finanziaria e previdenziale sono legati a visioni stereotipate dei ruoli maschili e femminili, è necessaria anche una progressiva consapevolezza critica così come la crescita di una cultura che riconosca l’importanza sociale ed economica della parità lavorativa. ■
PAGINA A CURA
dell’Associazione
Ingegneri Liberi Professionisti

di Maria Pungetti Presidente di Confprofessioni
Emilia Romagna

Conoscenza e collaborazione per la parità di genere
La parità di genere, su diversi fronti e per quanto riguarda le professioni e i settori lavorativi ritenuti maggiormente “maschili”, è una questione culturale. Da ingegnere e libera professionista, vorrei porre l’accento sulla necessità di abbandonare per sempre l’approccio che vede la donna adatta soltanto a certe attività, studi, interessi; bensì come una persona che può arrivare dove vuole e fare ciò che vuole, al pari degli uomini.
Può suonare forse banale ma, se ci soffermiamo a riflettere, tutto inizia in famiglia e poi a scuola, con la percezione che un bambino ha della società attraverso la dimensione domestica che vive ogni giorno. L’insegnamento sulla parità di genere dato con l’esempio è ciò che i piccoli assorbono e
restituiranno attraverso l’accettazione che qualunque sia il progetto di vita scelto, sulla base della propria passione, indipendentemente dal sesso, potrà essere realizzato. L’abbattimento degli stereotipi è possibile se si continua ad accrescere, fin dalla tenera età, la consapevolezza che nulla è precluso alle donne, che possono intraprendere percorsi di studi scientifici, che possono svolgere qualsiasi attività e raggiungere qualsiasi obiettivo senza rinunciare alla propria femminilità.
Personalmente non avrei mai fatto le mie scelte professionali se non avessi vissuto a fianco di una madre che ha scelto l’indipendenza economica, laureandosi a pieni voti in matematica e di un padre che svolgeva con passione una professione tecnico-creativa che ha sempre condiviso, aprendomi la conoscenza ad un’attività tecnico-scientifica esclusivamente maschile.
Un altro aspetto importante da valorizzare, sempre nell’ottica della creazione di una cultura generale da diffondere senza sosta all’interno della rete sociale, è la collaborazione tra uomini e donne. Non schieramenti contrapposti, non rivalità, non prevaricazione né eliminazione del supporto maschile bensì collaborazione. Collaborazione per permettere alle donne di studiare, laurearsi, avviare un’attività, essendo magari al contempo
figlie, mogli e madri; collaborazione per non calpestarne i diritti fondamentali, in famiglia come sul lavoro (studio, retribuzione, welfare...); collaborazione nel non diffondere stereotipi e luoghi comuni che ne annientano valore e potenzialità; collaborazione perché uomini e donne non sono nemici ma, insieme, possono rappresentare una “bomba” di efficienza e conoscenza.
Quindi cosa possiamo fare per consolidare ciò che abbiamo raggiunto e ottenere ciò che non abbiamo ancora? Se nella parità di genere vogliamo che le donne possano esercitare le professioni tecniche e contribuire alla ricerca scientifica dobbiamo diffonderne la conoscenza nelle scuole di ogni ordine e grado, nelle aziende e in ogni ambito sociale e culturale. Una volta raggiunta, per evitare che le donne vengano penalizzate nel momento della costruzione della famiglia, dobbiamo spingere verso maggiori sostegni alla genitorialità, alla cura parentale e, in generale, potenziare il welfare pubblico e privato, non abbassando i livelli di retribuzione e di grado raggiunti nella loro carriera.
Tanti anni di attività sindacale in Asso Ingegneri Architetti mi autorizzano a dire che questo è sempre stato il disegno della nostra associazione e per questo ci siamo sempre attivamente impegnati e battuti ... e io continuerò a farlo con grande passione! ■
Le storie, i personaggi e le notizie di primo piano commentate dalle più autorevoli firme del mondo della politica, dell’economia, dell’università e delle professioni

PRIMO PIANO

IL MIO NOME È BOND... EUROBOND

Il Parlamento europeo ha approvato il piano ReArm Ue. Un pacchetto da 800 miliardi di euro per finanziare le spese della difesa attraverso debito comune europeo. Che andrà a pesare in gran parte sui bilanci dei singoli Stati. Ma per attuare il programma di sicurezza e difesa, l’Europa deve ripensare la sostenibilità fiscale e finanziaria del bilancio dell’Unione. Fin dalle fondamenta
di Francesco M. Renne

Si è parlato tanto, in passato, dell’esigenza di un “debito comune” a livello europeo. Se ne è discusso a più riprese, anche recentemente con i (ripetuti) interventi dell’ex premier e già Governatore della Bce, Mario Draghi. Ed è tornato di attualità con il piano di difesa comune, il ReArm Ue approvato pochi giorni fa dal Parlamento europeo, con 419 voti a favore, 204 contrari e 46 astenuti. Il piano prevede, appunto, 150 miliardi di euro di “nuovo” debito comune attraverso un apposito strumento ad hoc da strutturare (oltre ad una spesa aggiuntiva – in deroga alle regole di bilancio del Patto di stabilità e crescita, riattivato da poco – di circa l’1,5% del Pil per ciascun Paese, quindi per altri 650 miliardi circa). Ma, invero, pochi sono consapevoli che il debito comune esiste già. E per circa ben 600 mi-
liardi, che hanno ad oggi sostenuto i progetti Next Generation EU e Sure (nati per reazione alla pandemia, che assorbono, rispettivamente, circa il 60 e il 22% del suo ammontare), oltre che la parte emessa dal fondo salvastati (il Mes, per circa il 10%) e il sostegno (fino ad oggi) all’Ucraina. Insomma, ancora sconosciuto ai più, esiste già ed è destinato a crescere, per sostenere le spese aggiuntive di difesa, da un lato, e per supportare le transizioni economiche (ambientale, digitale e energetica) in corso. Pare quasi sentirlo dire «Bond; eurobond», parafrasando una celebre battuta dell’agente segreto cinematograficamente più famoso di tutti i tempi; il cui richiamo pare essere peraltro di estrema attualità, tenuto conto –appunto – delle attuali tensioni geopolitiche in cui siamo ripiombati. Ma, sotto il profilo tecnico, il tema

verte sulla sua sostenibilità e sugli effetti che avrà sui bilanci pubblici e su cittadini e contribuenti. Perché sempre debito è, e qualcuno, prima o poi, dovrà pur (forse) ripagarlo.
UN MACIGNO DA 55 TRILIONI
Il tema non è solo una questione europea. Il debito pubblico nei Paesi occidentali (Ocse) ammonta a circa 54/55 trilioni di dollari e le nuove emissioni annue si aggirano intorno ai 16 trilioni di dollari (previsto in aumento fino a 17, nel 2025), di cui l’80% per rifinanziamento di debito pubblico preesistente. Ciò comporta un dato aggregato di debito/Pil medio pari a circa l’84%, i cui costi incidono ad oggi per circa il 3,3%. Peraltro, debito complessivamente detenuto dalle banche centrali per 12/13 trilioni di dollari (in calo negli ultimi due anni) e soggetto a proprietà estera (rispetto al singolo Paese emittente) per circa il 34/35%. Un mercato (finanziario) enorme, dunque; oggetto di investimenti finanziari massicci anche dai risparmiatori privati (sia direttamente che tramite fondi) e che sconta il rischio-solvibilità dei singoli Paesi emittenti. Per fare un parallelo, l’Italia ha raggiunto uno stock di debito pari, secondo gli ultimi dati disponibili, a circa 2.980 miliardi di euro (quasi 3 trilioni), che poggia su un Pil atteso in crescita (per il 2025) di circa l’1/1,2% (stime governative). Secondo le analisi dell’Osservatorio sui Conti Pubblici dell’Università Cattolica, però, la stima di crescita del Pil nel 2025 sarà (molto) più contenuta, pari a solo lo 0,4/0,5%, che porterebbe a un maggior deficit dello 0,3% rispetto alle previsioni e a un maggior debito sul Pil stesso dell’1,5%, portandolo al 138,4% (quasi 34 miliardi


di differenza). Incidentalmente, va detto che ciò non comporterebbe nuove violazioni del Patto di stabilità e crescita europeo, poiché nella nuova versione vi è la possibilità di scostamento se in presenza di minor Pil, ma semmai unicamente un ritardo nell’uscita dalla procedura di infrazione per (precedente) deficit eccessivo (come per altri Paesi, tra cui la Francia), dal 2026 al 2027.
QUALE DEBITO?
Ora, intendiamoci, un conto è parlare di (maggiore) debito comune che sostituisca parzialmente il debito dei singoli Paesi membri, riducendone quindi il rischio percepito; altro è parlare di (maggiore) debito comune per ulteriori spese, destinate a sostenere investimenti in alcuni segmenti delle economie nazionali e/o a rispondere ad esigenze di difesa da minacce esterne.


Altro ancora è parlare di debito comune destinato a sopperire spesa pubblica corrente dei singoli Stati (ad esempio sanità e welfare). A ciascuna differente ipotesi si associano diversi effetti tecnici e finanziari, in termini di rischio percepito, sostenibilità e – nondimeno – fattibilità delle (nuove) emissioni. Va detto infatti che, sotto il profilo finanziario, emissioni europee gioverebbero di un minor costo per interesse rispetto ad emissioni dei singoli Paesi (soprattutto quelli maggiormente indebitati come l’Italia) e, al contempo, sarebbero graditi anche dagli investitori professionali, che avrebbero così un minor rischio emittente e potrebbero allocare maggiori risorse finanziarie nell’area europea. Ma, al contempo, per rendere proceduralmente fattibili (e sostenibili nel tempo) tali emissioni, occorrerebbe mettere mano a una revisione delle regole del bilancio europeo e della fiscalità necessaria ai rimborsi.
E ciò, andando verso una maggiore cessione di sovranità tributaria dai Paesi membri, a favore dell’Unione. A meno che non si intenda ricorrere (solo) a forme – però fattibili probabilmente solo per singole emissioni destinate a specifiche progettualità – di “matusalem financing” (ovvero forme senza scadenza di rimborso), redimibili solo se richiamate dall’emittente in specifiche situazioni (ad esempio a conclusione del progetto finanziato) e con cedole maggiori rispetto a titoli ordinari. Insomma, probabilmente servirà un mix, ma sicuramente ripensare la sicurezza e la difesa porta con sé anche il ripensare (forse ancor più necessariamente) – e fin dalle fondamenta – la sostenibilità fiscale e finanziaria del bilancio dell’Unione europea ■
INDEBITAMENTO LORDO, INDEBITAMENTO NETTO, REQUISITI DI RIFINANZIAMENTO E LIVELLI DI DEBITO IN ESSERE I livelli di indebitamento e di indebitamento lordi sono destinati ad aumentare nel 2024-25, con l’indebitamento netto che supera ancora i livelli pre-pandemia e i requisiti di rifinanziamento che raggiungono un livello record.
Fabbisogno lordo di indebitamento
B. Requisiti di indebitamento netto e di rifinanziamento
Requisiti di rifinanziamento
Fabbisogno di indebitamento netto
Fabbisogno di indebitamento netto
Deficit fiscale
Fonte: GLOBAL DEBT REPORT – OECD 2025
D. Debito negoziabile in essere del governo centrale
C. Fabbisogno netto di indebitamento rispetto ai saldi fiscali
CANNONI D’ITALIA
di Matteo Durante
Negli ultimi 5 anni l'industria bellica nazionale è cresciuta del 138% piazzando il nostro Paese al sesto posto nella top ten degli esportatori mondiali. Due le condizioni che consentirebbero al mercato europeo e italiano delle armi di continuare a crescere: avere una strategia e una pianificazione dettagliata del piano ReArm Europe. Ed essere meno dipendenti dagli Usa. In caso contrario il rischio è diventare semplici fornitori di componenti per i sistemi statunitensi


Dal decimo al sesto posto nella top ten degli esportatori mondiali, con un balzo in avanti del 138% in più. È quello che ha compiuto il comparto bellico italiano, nel quinquennio 20202024, con una quota del 4,8% sul totale. Il dato è stato messo nero su bianco dall’ultimo rapporto del Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), l’istituto indipendente su sviluppo degli armamenti, spese militari e disarmo. Nessun Paese al mondo ha registrato un aumento così significativo, in percentuale, nelle vendite di armi pesanti.
I GIGANTI MADE IN ITALY
I nomi che dominano, all’interno di questo settore, sono piuttosto noti. Leonardo - partecipata al 30% da Ministero dell’economiaè il big player, con ricavi superiori ai 12 miliardi di euro, grazie alle esportazioni di sistemi di difesa avanzati, tra cui elicotteri, elettronica e tecnologie per la cyber difesa. Fincantieri, altro gigante della cantieristica navale a controllo statale, con una storica attività nelle navi da crociera, negli ultimi anni ha incrementato notevolmente la propria produzione di navi da guerra; mentre MBDA Italia, parte del gruppo multinazionale MBDA (controllato da Airbus, BAE Systems e Leonardo), è tra i leader mondiali nel settore missilistico.
E ancora: Beretta, le cui armi sono in dotazione alle Forze Armate e di Polizia Italiane e di innumerevoli paesi esteri; Iveco Defence Vehicles (veicoli per la difesa e di protezione civile); Avio Aero (produzione di componenti e sistemi per l’aeronautica) e Avio Spa-

ce Propulsion (sistemi di propulsione spaziale e tattica); Thales Alenia Space Italia (progettazione di sistemi satellitari); ELT Group (sistemi di Difesa Elettronica).
Sorprendentemente, benché l’Ucraina, a seguito del conflitto in corso con la Russia dal 2022, sia diventata uno dei più grandi importatori di armamenti italiani, l’area di destinazione principale delle armi italiane è stato il Medioriente, con una quota del 13%.
800 MILIARDI PER REARM
Un mercato destinato a crescere ulteriormente dopo l’annuncio di ReArm Europe, il piano di riarmo europeo lanciato a inizio marzo dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, che prevede fino a 800 miliardi di euro di investimenti nel-

la difesa, 150 dei quali finanziati tramite prestiti europei, mentre i restanti 650 miliardi da bilanci statali fuori dal patto di stabilità.
Fondi straordinari che gli Stati europei sono invitati a usare per aumentare, nell’arco di 4 anni, le proprie spese di difesa, per una cifra equivalente al massimo all’1,5% del loro Pil. Guardando all’Italia, tale aumento equivarrebbe a 40 miliardi di euro l’anno: dai 33 attuali (pari all’1,6% di Pil) a 70 miliardi nel 2029. Tradotto: un fiume di denaro, pronto a irrigare le aree della produzione bellica, in grado di piegare la traiettoria dell’industria europea verso una "economia di guerra". Ma solo in teoria.
Lo dice chiaro Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, rivista di politica e analisi militare, che del piano dà un giudizio caustico e severo. «Quello annunciato dalla Presidente della Commissione Europea è, per ora, solo un programma finanziario, ma manca di un progetto concreto», afferma Gaiani, criticando l’assenza di una pianificazione dettagliata che vada oltre gli obiettivi economici. «Sembra più un’iniziativa per salvare alcune industrie tedesche in difficoltà, che un vero piano strategico di difesa. Tra l’altro sarebbe stato utile che questo programma venisse dettagliato, presentato e discusso in Parlamento, l’unico organo europeo eletto dai cittadini. Invece stiamo solo parlando di un programma finanziario basato sul fatto che gli Stati europei si possano indebitare per la propria difesa, in deroga al rapporto deficit-Pil, cioè quello strumento con cui l’UE
ha messo in difficoltà molti Paesi del sud Europa, come l’Italia o la Grecia», aggiunge Gaiani.
Il piano di riarmo europeo prevede una spesa significativa, ma Gaiani avverte che la realizzazione di questo programma non avverrà a breve termine. «L’Europa si è notevolmente indebolita, negli ultimi tre anni, a livello militare ed economico, fornendo all’Ucraina la gran parte delle munizioni e dei mezzi militari a disposizione che, accanto alle forniture americane, non sono serviti a far vincere la guerra all’Ucraina. In più, oggi l’Europa non può più contare sull’energia e il gas russi, non ha più certezza dei rifornimenti energetici e vive in balia degli sbalzi dei prezzi. In questo momento, qualunque produzione industria-


le, compresa quella bellica, costa molto di più, visto che le materie prime sono cresciute dell’80120%. Quindi lanciare un piano di riarmo in queste condizioni equivale a un disastro economico. Perché se anche si raddoppiasse la spesa militare - per l’acquisto di armamenti e tralasciando le voci per gli stipendi, l’addestramento, le infrastrutture - noi spenderemmo di più per comprare di meno. E con tempi di consegna molto più lenti che compirebbero il percorso di riarmo non prima di sette o otto anni».
L’INFLUENZA DEGLI USA
Ad agitare ulteriormente le acque per l’industria bellica italiana, ed europea, c’è poi strategia geopolitica ed economica degli Stati Uniti, sotto la presidenza di Donald Trump. Secondo Gaiani, la
politica di Trump è mossa da due fattori: «Intanto, l’iniziativa per raggiungere la pace in Ucraina è mirata a riprendere le relazioni con la Russia. Per poter negoziare con la Cina, con la Corea del Nord, con l’Iran, stretti alleati di Mosca, gli Usa hanno bisogno dell’appoggio di Putin. E per averlo sono pronti a un accordo sull’Ucraina, anche sacrificando i rapporti con i loro alleati europei. In più a Trump l’Europa interessa nel momento in cui gli europei acquistano armi americane, anche perché Trump prevede di ridurre la spesa militare di un terzo (dai 900 miliardi di dollari di oggi circa a 600 miliardi). Dovrà ritirare truppe dall’estero, ridurre le forze armate, tagliare gli acquisti di armamenti e per non danneggiare la produzione bellica interna occorre che altre nazioni, come ad esempio i paesi della NATO europei, acquistino armi in America, dove - rispetto all’Europa - l’industria bellica produce più rapidamente, anche grazie a riserve di investimenti molto ampie».
E infatti, tornando ai numeri del rapporto Sipri, è evidente la crescente dipendenza europea dagli acquisti di armamenti “Made in USA”. Negli ultimi cinque anni, le esportazioni di armi americane in Europa sono aumentate di oltre il 30%, e nei paesi della NATO le importazioni di equipaggiamenti militari sono più che raddoppiate (più 155 per cento).
Con un mercato europeo che si appresta ad attingere agli 800 miliardi del piano ReArm Europe, Gaiani teme che le industrie europee, tra cui quella italiana, possano venire schiacciate dalla concorrenza USA:
«Se l’Europa continua ad acquistare armi americane, l’industria europea, compresa quella italiana, rischia di diventare un semplice fornitore di componenti per i sistemi statunitensi», avverte Gaiani.
DIFESA COMUNE EUROPEA
Per evitare questo rischio, una strada pragmatica e percorribile può essere quella di un’ulteriore integrazione delle industrie della difesa a livello europeo, creando consorzi per lo sviluppo di armamenti comuni, come nel caso di MBDA, una delle principali aziende missilistiche del mondo, che include anche partner tedeschi, britannici e francesi. Conclude Gaiani: «Una scelta di difesa comune europea, concreta e fattibile, si può raggiungere, spingendo i Paesi europei a mettere insieme


la propria industria di difesa, definendo programmi congiunti a livello Stati Maggiori delle Forze Armate, sviluppando o decidendo di acquisire prodotti e armamenti comuni. Diverso il discorso sull’esercito comune europeo: è impossibile ipotizzare una forza armata congiunta, perché l’Europa non è una federazione di Stati. E il Maryland e il Texas stanno a Washington, diversamente da come Parigi e Roma guardano a Bruxelles. In Europa la sovranità degli Stati comprende anche la capacità di difesa. Ma il vero problema è che siamo portatori di interessi diversi». ■
Gianandrea Gaiani , III Convegno Machiavelli Difesa
ZES UNICA, UN SUCCESSO A METÀ

Nel 2024 il sistema ha mobilitato investimenti per 7 miliardi di euro, grazie anche al boom di crediti d’imposta e all’autorizzazione unica che ha semplificato l’insediamento di 413 imprese nel Meridione. Ma resta il nodo dei porti e delle zone doganali. Perché senza una chiara visione strategica della funzione logistica da sviluppare, le misure di decontribuzione fiscale rimangono meri strumenti di compensazione per le carenze infrastrutturali e logistiche del Sud
di Adriano Giannola

Il 14 dicembre 2024 il Mattino di Napoli commentava i “trionfali” i risultati conseguiti dalla neonata Zes Unica (Zesu) del Mezzogiorno: 6.885 soggetti hanno richiesto il credito d’imposta per investimenti nella zona economica speciale unica per un valore di 2,551 miliardi di euro. La gran parte delle 413 autorizzazioni uniche rilasciate nell’anno (300 delle quali da agosto) sono per imprese che hanno per la prima volta colto l’opportunità di investire nel Mezzogiorno.
L’effetto traino della Zesu trova conferma nei dati più aggiornati relativi al Pil, all’export e all’occupazione relativi al 2024. Complessivamente, gli investimenti ammontano a 7 miliardi di euro: 2,5 miliardi di credito d’imposta (misura è confermata nella legge di Bilancio 2024 per 1,6 miliardi ed altri 1,6 miliardi assegnati ad agosto, per fare fronte al forte interesse suscitato); 2,5 miliardi di risorse delle imprese, mentre altri 2 miliardi sono investiti dalle aziende che senza ricorrere al credito d’imposta sfruttano la Zesu solo per la semplificazione burocratica: un formidabile fattore di attrattività che in 30 giorni o poco più assicura in un unico titolo quello che in precedenza era spalmato in ben 37 autorizzazioni procedurali.
Indubbiamente risultati straordinari, grazie ai quali il Sud si conferma locomotiva della Nazione pur in assenza di un ben definito Piano Strategico che dovrebbe puntare a ridurre nei prossimi tre anni il gap del tasso di occupazione fermo al 48% nel Mezzogiorno e al 68% in Italia rispetto al 75, 4% della media europea.
MODELLI A CONFRONTO
L’evoluzione che ha portato alla ribalta la Zes Unica pone a confronto due modelli che si sono susseguiti: il prototipo del 2017 prevede zone economiche speciali strettamente collegate a porti e definisce un preciso assetto territoriale ed operativo che prevede spazi rigidamente identificati con aree retroportuali destinate ad ospitare attività produttive connesse e promosse dallo scalo marittimo e aggiunge il compito di individuare e perimetrare un’area doganale interclusa nella quale l’esercizio di attività produttive goda del regime di esenzione di imposta nella misura in cui le produzioni sono finalizzate all’esportazione. Come noto le Zes, varate nel 2017, nel primo quinquennio hanno proceduto a rilento, di fatto scontando un non semplice


periodo di assestamento che ne ha fortemente condizionato l’operatività; solo nell’ultimo biennio (2022/2023) avevano cominciato a manifestare un significativo dinamismo, grazie alla “sopravvenuta” conclusione della laboriosa e accidentata procedura che ha portato alla definizione della “autorizzazione unica” all'origine dei lusinghieri risultati che hanno salutato l’avvio della nuova Zes unica. L’entrata in vigore del Decreto Sviluppo del ministro Raffaele Fitto nel 2023 ha cancellato gli aspetti identificativi delle Zes/2017 attribuendole una indifferenziata operatività su tutto il territorio del Mezzogiorno. In altri termini si conviene sulla opportunità di non individuare ex ante ambiti territoriali come centri strategicamente individuati per promuovere lo sviluppo. Il che allenta o relega in secondo piano il vincolo selettivo che individua nel mare e nei porti l’ambito operativo Zes.
INFRASTRUTTURE
Un aspetto cruciale che differenzia la Zes unica dalle otto Zes/2017 è, infatti, il legame del tutto diverso e non sistematico tra mare e territorio che la caratterizza. Nel modello “autentico” delle Zes/2017 le zone economiche speciali fungevano da promotori specializzati nella crescita territoriale, strutturata su porti adeguati, efficienti, dotati retroporti e interporti adeguatamente operativi. Il fatto che nessuna delle Zes italiane tranne che nel porto di Brindisi e di Cagliari abbia provveduto dal 2017 a istituire “zone doganali intercluse” è stato il macroscopico tallone di Achille che le ha rese sostanzialmente evanescenti. La Zes unica da questo punto di vista non ha velleità


di essere una Zona Doganale Interclusa per tutto il Mezzogiorno, a meno di non realizzare formalmente l’impossibile compito di rendere il Mezzogiorno l'Irlanda del Mediterraneo. Quindi, le sorti magnifiche e progressive della Zesu saranno tali se si consoliderà il ruolo delle Autorità Portuali che in ordine sparso ma strategicamente organizzato, siano capaci di offrire almeno quegli otto retroporti e le altrettante Zone Doganali Intercluse che dovevano essere l’essenziale Dna delle Zes/2017.
Il fatto che in tema di “riforma delle Dogane” si inizi a discutere è un buon segnale in vista di un possibile sviluppo che consentirebbe alla Zesu di affiancare all’efficace traino dell’autorizzazione unica l’accelerazione che il privilegio doganale potrà apportare a un Piano Strategico consapevole. Sarebbe auspicabile che le otto Zes originarie mantenessero i loro tratti “in purezza” per guidare la riconversione logistica complessiva indispensabile per la ripresa del Sud come secondo motore d’Italia. Il concorso delle autorità portuali appare infatti essenziale per consolidare i fattori di sviluppo logistico degli auspicati ed efficienti retroporti e degli ancor più auspicati privilegi doganali per attrarre investimenti. Un percorso che dovrebbe proporsi di incidere su aspetti strutturali del sistema logistico italiano, puntando sulla mobilità integrata tra mare, ferrovia e strade. Il Mediterraneo rimane un’opportunità strategica che può essere colta posizionando il Mezzogiorno al centro del sistema logistico europeo perseguendo la prospettiva di far cre-
scere la “Rotterdam del Sud” a partire da Genova, e Trieste fino ad Augusta operativa come un’unica rete funzionale. Desta quindi preoccupazione che il progetto europeo TEN-T, che mira a collegare il Tirreno e l’Adriatico attraverso infrastrutture strategiche, sia stato per l’ennesima volta posticipato e traguardato al 2030. Un rinvio tecnico che allude piuttosto all’inerzia rispetto a priorità palesi e conferma una persistente carenza di visione. La necessità di attrarre investimenti nei centri logistici strategici, ovvero i porti, garantisce il futuro della Zes Unica che, altrimenti, appare incerto specie in questa fase nella quale il Pnrr si avvia al tramonto. Alla Cabina di Regia della Zes Unica spetta l’onere di definire con chiarezza le priorità e per quali prospettive. ■


USA-CINA, LA TENSIONE CORRE SUI SOCIAL
di Claudio Plazzotta
La guerra commerciale tra Washington e Pechino si combatte, senza esclusione di colpi su più fronti. Succede nel cinema, con il Dragone che chiude le sale ai colossal di Hollywood; nei social network, con il braccio di ferro su TikTok; nel comparto delle auto elettriche, tanto care a Musk e sull’intelligenza artificiale, con i cinesi che spaventano Wall Street
Pochi numeri sono sufficienti a capire cosa potrebbe accadere tra Stati Uniti e Cina, tenuto conto dei loro attuali rapporti piuttosto tesi, tra imposizione di dazi e screzi diplomatici. La Cina vive di esportazioni: nel 2024 il surplus commerciale di Pechino nei confronti del mondo intero, come appena comunicato dalla Amministrazione generale delle dogane in Cina, è stato pari a 992 miliardi di dollari. E, di questi, 361 miliardi di dollari sono il surplus cinese verso gli Stati Uniti. Perciò, la Cina avrebbe grandi difficoltà a rompere con Washington, da cui dipende un terzo dei suoi guadagni nella bilancia commerciale (361 miliardi su 992).
IL DEBITO PUBBLICO USA
Si legge spesso, tuttavia, che la Cina avrebbe in mano buona parte del debito pubblico americano, potendo quindi “ricattare” gli Stati Uniti con la minaccia di vendere titoli e mettere così in crisi l’economia a stelle e strisce. Falso: il debito pubblico Usa ammonta a 36,2 mila miliardi di dollari, dei quali solo 759 miliardi sono in mano cinese, circa il 2% (fonte: Us treasury department).
Una quota importante, ma che da sola non sarebbe in grado di rappresentare alcuna minaccia per l’economia statunitense. A differenza degli Stati Uniti, che sono il più grande produttore al mondo di petrolio e gas (fonte Iea-International energy agency), infine, la Cina non è autonoma quanto a materie prime come gas e petrolio, che continua a importare sempre più massicciamente dalla Russia (fonte Iea). Quindi, valutando semplicemente i rap-

porti bilaterali Usa-Cina, ogni persona di buon senso è in grado di comprendere come, in caso di escalation, a rimetterci sarebbe soprattutto Pechino.
LA CINA CHIUDE LE DOGANE
C’è tuttavia da capire se l’ordine mondiale saprà accettare ancora per molto tempo una situazione in cui la Cina tende a chiudersi alle importazioni, che nel 2024 sono cresciute di appena il 2,3% (fonte: Amministrazione generale delle dogane in Cina), mentre continua a inondare il mondo coi suoi prodotti (export del 2024 a +7,1%, secondo l’Amministrazione
generale delle dogane in Cina), dai manufatti alla tecnologia e le auto. Un tempo le aziende occidentali puntavano ai mercati cinesi, dall’alimentare, alla moda, il lusso o l’automotive. Ma dopo una ventina di anni di apertura, diciamo tra la metà degli anni 90 e la metà degli anni 10 del Duemila, Pechino ha tirato le redini sviluppando propri marchi un po’ su tutti i fronti, in un riflusso autarchico.
HOLLYWOOD NON COMPATIBILE
Succede anche nel settore del cinema, che da sempre è stato il classico strumento di soft power degli Stati Uniti, è un esempio perfetto. Fino al 1994 in Cina non erano ammessi film stranieri.
Poi, piano piano, ecco le prime aperture, qualche co-produzione, fino alle oltre 60 pellicole americane distribuite nel 2018. Tanto che Hollywood inizia a guardare al mercato cinese come a uno dei più strategici per le sue produzioni. Ma dall’aprile 2018 l’Ufficio cinema cinese passa sotto il controllo diretto del Dipartimento propaganda del Partito comunista.
E le cose cambiano, poiché molti titoli Usa vengono considerati “incompatibili coi valori del Partito”. Nel 2016 i film cinesi valevano il 58% del mercato nazionale, per poi salire al 64% nel 2019, e all’85% degli incassi nel 2024.
Hollywood, perciò, viene di fatto espulsa. E nelle attuali riunioni sui business plan dei vari blockbuster, i colossi Disney, Universal o Warner Bros. ormai non tengono più in considerazione gli incassi in Cina: se arrivano, tanto di guada-

gnato, ma non entrano più nella costruzione di un piano di sviluppo di un film.
Nel 2024 sul mercato cinese sono stati distribuiti complessivamente 501 titoli, di cui 425 cinesi e 76 stranieri: al primo posto per incassi il cinese Yolo (472 milioni di dollari al box office), seguito da Pegasus 2 e Successor.
Il primo film straniero è all’ottavo posto, Godzilla x Kong: the new empire, con 130 milioni di dollari di incassi, seguito dal giapponese Il ragazzo e l’airone e da Alien: Romulus. Il cinema, in Cina, non sta tuttavia vivendo una fase di grande salute: il box office è calato del 23% nel 2024 a 5,8 miliardi di dollari (rimane comunque il secondo mercato al mondo), con i biglietti che costano sempre di più e un
Le attività di TikTok negli Stati Uniti, per motivi di sicurezza nazionale, dovranno passare di mano e non essere più sotto il controllo cinese. Uno sgarbomiliardario che irrita le autorità di Pechino
pubblico che diventa più vecchio: i giovani, infatti, preferiscono intrattenersi coi formati corti dei social.
BRACCIO DI FERRO SU TIKTOK
E, a proposito dei social, ecco anche la grana TikTok a creare tensioni tra Usa e Cina. Il social network controllato dalla cinese Bytedance (un colosso che vale 312 miliardi di dollari) ha circa due miliardi di utenti al mondo, dei quali 170 milioni negli Stati Uniti.
Per il 2025 si stima che TikTok possa raggiungere i 32,4 miliardi di dollari di ricavi (+24,5% sul 2024), dei quali circa 12 miliardi negli Usa, che pesano, quindi, per il 37% dei ricavi complessivi di TikTok. Ma le attività di TikTok negli Stati Uniti, per motivi di sicurezza nazionale (questioni di dati sensibili e di privacy), dovranno
passare di mano e non essere più sotto il controllo cinese. Uno sgarbo miliardario che irrita le autorità di Pechino.
Se TikTok dovesse proprio chiudere i battenti negli Usa (ma non accadrà) ecco che Warc Media stima che circa il 15% dei ricavi pubblicitari di TikTok verrebbe intercettato da Facebook, il 40% da Instagram, il 20% da YouTube il 10% da SnapChat e il 15% da altre piattaforme.
LA GUERRA DELLE E-CAR
Con Elon Musk così prepotentemente affiancato al presidente Usa Donald Trump, è naturale che le scaramucce Stati Uniti-Cina sui business in cui Musk è direttamente coinvolto diventino ancora più rilevanti sul tavolo da gioco. Ad esempio, il colosso automobilisti-
co cinese Byd sta ormai spazzando via Tesla dal comparto delle auto elettriche, con listini prezzi del 40% più bassi. E i dazi non freneranno questo processo.
E pure nel campo della intelligenza artificiale, le nuove iniziative cinesi di Deepseek e Manus AI spaventano Wall Street e fanno crollare tanti titoli del comparto, da Nvidia in giù.
Insomma, mosse e contromosse sulla scacchiera, in una battaglia che, tuttavia, non conviene a nessuno portare a livelli di guardia. E poi, suvvia, Trump compie gli anni il 14 giugno, e il presidente cinese Xi Jinping il 15 giugno: quale occasione migliore di un summit del compleanno con tanto di candeline spente e pax commerciale? ■

L’ISOLA DEI DESIDERI

di Theodoros Koutroubas
Direttore generale Ceplis

La Groenlandia è finita al centro del risiko geopolitico. La sua posizione strategica e le sue risorse minerarie fanno gola all’amministrazione Trump. I suoi abitanti spingono per l’indipendenza dalla Danimarca. E le elezioni dell’11 marzo scorso hanno decretato la vittoria dei conservatori indipendentisti. Che però bocciano le mire espansionistiche del tycoon americano
Fino al 5 novembre scorso, il giorno dopo le elezioni presidenziali americane che hanno regalato a Donald Trump un trionfo personale quasi senza precedenti, la Groenlandia, l’isola più grande del pianeta, era una sonnolenta parte artica del Regno di Danimarca, con solo pochi visitatori attratti dai suoi paesaggi ghiacciati, maestosi e praticamente vergini. Abitata da meno di 60 mila persone, l’80% delle quali sono Inuit, l’isola di 2.166 km2 è governata da Copenaghen dal XVIII secolo, prima come colonia e poi come provincia della nazione.
Durante gli anni ‘70 la Danimarca avviò un processo di autonomia che consentì alla Groenlandia di ottenere pieni poteri sui suoi affari giudiziari e sulle sue risorse naturali, mentre l’inuit groenlandese
è stato dichiarato l’unica lingua ufficiale. Oggi l’isola è una regione autonoma del Regno di Danimarca con un proprio Parlamento, un proprio governo ed elegge due membri tra i 179 seggi del Parlamento danese. La difesa della Groenlandia è interamente sotto il controllo dall’esercito danese attraverso diverse basi militari, mentre l’economia locale è ancora in gran parte basata sulla pesca, su una debole industria turistica (nella capitale Nuuk solo ora si sta costruendo un piccolo aeroporto internazionale che potrebbe consentire voli diretti oltreoceano) e su generosi contributi finanziari danesi. Ciò tuttavia non scoraggia la maggior parte dei nativi della Groenlandia dal sognare l’indipendenza, ed è qui che entra in gioco il signor Trump, l’ex e attuale presidente degli Stati Uniti d’America.

ALTA TENSIONE
Oggettivamente, il controllo della Groenlandia è strategico per la sicurezza degli Stati Uniti ed è per questo che la superpotenza mantiene una grande base militare sull’isola. Già nel 1946 il presidente americano Harry S. Truman offrì 100 milioni di dollari alla Danimarca per acquistare l’isola. I danesi ovviamente rifiutarono, ma un accordo bilaterale di difesa con gli americani venne firmato nel 1951, consentendo agli Usa di mantenere le loro basi militari. Le relazioni tra Stati Uniti e Danimarca, paese membro della Nato, proseguirono senza grandi scossoni fino al 2019, quando il presidente Trump tornò alla carica per acquistare l’isola: «In sostanza è un grande affare immobiliare. Si possono fare molte cose». Già all’epoca le sue parole vennero accolte con ilarità e indignazione sia in Danimarca (e Groenlandia) che a livello internazionale, e la questione venne archiviata. E arriviamo ai giorni nostri. Tornato alla Casa Bianca il tycoon americano ha cominciato subito a martellare in modo aggressivo il suo desiderio di impossessarsi della Groenlandia in un modo o nell’altro, senza escludere l’uso della forza.
La Danimarca ha reagito sia simbolicamente che attivamente. Re Federico X ha cambiato lo stemma reale per dare un posto più prominente all’orso della Groenlandia e all’ariete delle isole Faroe. Il primo ministro Mette Frederiksen ha fatto il giro le capitali europee per chiedere che l’Ue si unisca nel respingere i piani del presidente americano, annunciando al contempo un massiccio investimento
nella sua presenza militare sull’isola, con l’obiettivo di rassicurare Washington che nessun nemico della Nato utilizzerà il territorio contro i suoi interessi. Queste reazioni, tuttavia, non sono riuscite a dissuadere Donald Trump dal perseguire ulteriormente il suo obiettivo, cercando di influenzare le elezioni e spingere i groenlandesi tra le braccia degli Usa.
VINCONO I CONSERVATORI
In un simile contesto, le elezioni dello scorso 11 marzo per il rinnovo dei membri dell’assemblea legislativa autonoma dell’isola hanno conquistato una visibilità internazionale mai vista prima nella storia della Groenlandia. Le urne hanno premiato il Partito Democratico di centro-destra “Demokraatit” dell’opposizione che ha più che triplicato il suo elet-
torato rispetto al 2021, ottenendo il 30% dei voti e sconfiggendo la coalizione di sinistra del governo uscente. “Demokraatit” sostiene l’indipendenza della Groenlandia, ma a differenza di altri partiti che chiedono un referendum rapido, ritiene che questo obiettivo possa essere raggiunto solo gradualmente, una volta che il territorio sarà economicamente più sviluppato.
SECCO NO A TRUMP
Il presidente del partito vincitore, Jens-Frederik Nielsen, ha apertamente condannato la retorica annessionista di Trump, così come hanno fatto tutti gli altri leader locali del partito in una dichiarazione congiunta dopo le elezioni: «Noi, tutti i presidenti di partito, non possiamo accettare le ripetute dichiarazioni sull’annessione e il controllo della Groenlandia.
Come presidenti di partito, troviamo questo comportamento inaccettabile nei confronti di amici e alleati in un’alleanza di difesa». Una posizione netta e trasversale che è stata salutata dal primo ministro danese, sottolineando che il Regno ha «una chiara aspettativa che le altre nazioni rispettino la nostra integrità territoriale». Nonostante queste dichiarazioni, la questione dell’indipendenza è tutt’altro che chiusa. I nazionalisti di Naleraq, un partito locale che sostiene legami più stretti con gli Stati Uniti e spinge per un rapido referendum sull’indipendenza dalla Danimarca, ha raddoppiato i suoi voti ed è arrivato secondo dopo i Democratici. Il suo leader, Pele Broberg, ha co-firmato la dichiarazione congiunta dei suoi pari, ma Trump ha espresso grande soddisfazione per

il buon punteggio elettorale di Naleraq.La posizione geografica strategica della Groenlandia la rende un territorio prezioso per qualsiasi potenza che aspiri alla supremazia globale, e l’attuale amministrazione degli Stati Uniti non nasconde tali ambizioni sotto un linguaggio diplomatico. In un incontro con Trump, il Segretario generale della Nato, l’olandese Mark Rutte, si è guardato bene dal prendere posizione sulle mire del suo interlocutore sull’isola, e ha scelto una linea soft, sottolineando l’importanza della sicurezza nella regione artica. In definitiva, i groenlandesi potrebbero dover imparare che i loro sogni di indipendenza sono probabilmente incompatibili con un mondo che sta prendendo le distanze dal diritto internazionale e si sta costantemente orientando verso il realismo politico. ■

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NEWS FROM EUROPE
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L’Ue rafforza la difesa misure urgenti contro le minacce
“L’Unione europea è a un bivio: la sicurezza del continente è sotto attacco e il Parlamento europeo chiede un’azione immediata”. Con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astensioni, lo scorso 12 marzo l’Aula ha approvato una risoluzione non vincolante che sollecita misure straordinarie per la difesa comune. Nel documento, l’Europarlamento ha sostenuto il piano “ReArm Europe” e ha proposto l’emissione di obbligazioni europee per finanziare investimenti militari su larga scala, utilizzando anche fondi inutilizzati dei coronabond. In questo contesto la Banca europea per gli investimenti
dovrebbe abolire le restrizioni sui finanziamenti alla difesa e di emettere debito vincolato, affinché l’Ue possa diventare un pilastro della sicurezza globale e rafforzare il sostegno all’Ucraina. Il Parlamento ha poi invitato i partner internazionali a rimuovere le restrizioni sull’uso delle armi occidentali contro obiettivi russi. Mosca, sostenuta da Cina, Corea del Nord e Iran, è indicata come la più grave minaccia diretta e indiretta per l’Europa. Per una risposta efficace, il Parlamento Ue ha chiesto un’industria della difesa più integrata, decisioni rapide e un Consiglio dei ministri della Difesa Ue.

PARLAMENTO EUROPEO PLENARIA
Lavoro del futuro, nasce l’Unione delle Competenze

Il 5 marzo 2025, la Commissione europea ha lanciato l’iniziativa “Unione delle Competenze” per rafforzare il capitale umano e la competitività dell’Ue. Il progetto punta a fornire ai cittadini europei strumenti per affrontare un mercato del lavoro in continua evoluzione, incentivando la mobilità delle competenze e l’innovazione. Tra i pilastri dell’iniziativa, il miglioramento delle competenze di base con il Basic Skills Support Scheme, l’incremento della formazione Stem per le transizioni digitali e verdi, e la creazione di posti di lavoro di qualità attraverso una nuova strategia per l’istruzione e la formazione professionale. La Commissione rafforzerà inoltre il Patto per le Competenze, garantendo formazione continua per lavoratori a rischio disoccupazione e istituendo le EU Skills Academies. Un altro punto chiave è la facilitazione del reclutamento transfrontaliero con il riconoscimento automatico delle qualifiche e la promozione di una laurea europea. Previsto anche un piano per attrarre talenti globali, con una dotazione di 22,5 milioni di euro, e una strategia per i visti dedicata a studenti e ricercatori di alto livello. Per garantire governance e monitoraggio, sarà creato l’Osservatorio europeo sulle competenze e un Board di esperti che guideranno le politiche Ue.
Semestre europeo: lavoro, competenze e inclusione sociale
Il Parlamento europeo ha definito le priorità sociali e occupazionali per il Semestre europeo 2025. Questo processo annuale di coordinamento economico mira a favorire la convergenza sociale, con un focus su occupazione, competenze e lotta alla povertà. Nel 2030, il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali si propone di raggiungere tre obiettivi principali: garantire che almeno il 78% della popolazione tra 20 e 64 anni sia occupato, che il 60% degli adulti partecipi annualmente a formazione, e ridurre di 15 milioni il numero di persone a rischio di povertà o esclusione sociale. Sebbene l’occupazione stia progredendo (75,3% nel 2023), le competenze e la povertà restano problematiche. La Commissione europea ha individuato i Paesi con i maggiori rischi di divergenza sociale, tra cui Bulgaria, Italia, Spagna e Romania, che necessitano di interventi mirati per una crescita inclusiva. In risposta, il Parlamento ha approvato una relazione che propone misure per migliorare l’accessibilità agli alloggi, la salute mentale, e l’equilibrio tra vita privata e lavorativa.
IL PE DELINEA LE PRIORITÀ ECONOMICHE

Strasburgo: priorità su economia, lavoro e competitività

Oltre alla risoluzione sul semestre Europeo, Strasburgo ha adottato anche la risoluzione sulle priorità sociali e occupazionali. Quest'ultima evidenzia il ruolo delle Pmi nell’innovazione e nella creazione di posti di lavoro di qualità. Si insiste sulla riduzione degli oneri burocratici per le imprese, senza sacrificare gli standard sociali, e su maggiori investimenti in formazione per colmare la carenza di manodopera e regolamentazioni sull’uso dell’intelligenza artificiale nei luoghi di lavoro. Le misure proposte includono il rafforzamento degli investimenti pubblici e privati, la creazione di un Fondo europeo per la sovranità, il sostegno alla transizione verde e digitale, oltre a strategie per la sicurezza delle materie prime critiche. Queste risoluzioni tracciano un percorso per un’Europa più competitiva, resiliente e socialmente equa, combinando crescita economica e tutela dei diritti fondamentali.
Analisi, tendenze e avvenimenti del mondo professionale, raccontati dai protagonisti delle professioni

PROFESSIONI

LE PRIME RUGHE DEL LAVORO

di Giacomo Panzeri

In Italia il tasso di disoccupazione è sceso al 5,7%, il più basso da quando esistono le serie storiche. Nonostante ciò continuiamo a essere il fanalino di coda in Ue. I dati critici? Poche donne e giovani al lavoro e l’aumento delle assunzioni tra gli over50. Dagli anni 90 il nostro Paese registra un forte calo della natalità che porta inevitabilmente all’assottigliarsi della fetta di giovani in età di lavoro.
E la prossima ondata di pensionamenti dei baby boomer rischia di peggiorare la situazione

Impercettibili, così si potrebbero definire i movimenti verso il basso o verso l'alto che, di mese in mese, registra il mercato del lavoro nazionale da inizio anno. Ma una notizia positiva c’è: nel quarto trimestre 2024 il tasso di occupazione si è attestato al 62,2%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Un leggero passo in avanti, che viene avvalorato dal calo del tasso di disoccupazione sceso al 5,7%, il più basso da quando esistono le serie storiche. Nonostante tutto, però, l’Italia resta il fanalino di coda nelle statistiche Ue sull’occupazione. Per capire come mai occorre focalizzarci su due dati. Il primo è quello che riguarda il tasso di occupazione delle donne che in Italia è al 53,1% contro una media Ue del 66,3%, vale a dire 13,2 punti di distacco, in aumento rispetto ai 12,8

punti del quarto trimestre 2023. La situazione è particolarmente critica per le donne tra i 25 e i 54 anni, dove il tasso di occupazione è del 64,6%, ben al di sotto della media europea del 77,8%.Il secondo riguarda le nuove generazioni. Nel nostro Paese, solo il 19,2% dei giovani tra i 15 e i 24 anni lavora, contro una media Ue del 34,8%. Il divario, che si attesta a 15,6 punti, è aumentato di un punto rispetto al 2023. Per i giovani uomini, la situazione è leggermente migliore, con un tasso di occupazione del 23,6%, ma comunque inferiore alla media europea del 36,9%.
Anche la riduzione degli inattivi, calati di 158mila unità a inizio anno stando all’Istat, riguarda solo e unicamente uomini e lavoratori anziani. Per le donne, in un anno, il tasso di inattività è rimasto stabile, mentre tra i giovanissimi under 25 gli inattivi sono cresciuti di 116mila unità. Unico trend in salita è quello che riguarda i lavoratori maschi il cui tasso di occupazione è del 71,3%, con un divario rispetto alla media Ue ridotto a 4,1 punti.
ASSUNZIONI DEGLI OVER50
C’è poi un terzo elemento che emerge dai dati e che fa riflettere ed è l’aumento del tasso di occupazione fra gli over50 (sia uomini che donne). A dirlo sono, come sempre, i numeri. Rifacendoci al grafico in figura 1, possiamo infatti notare come la variazione degli occupati nella fascia d’età dei 35-49enni sia rimasta tendenzialmente quella con l’andamento più stabile mentre quella degli over 50 abbia avuto, in particolare dopo il covid, una crescita tendenziale positiva. Negli ultimi 20 anni infatti i giovani nel mercato del lavoro

sono calati in media del 1,7% ogni anno, la fascia 35-49 è rimasta stabile, mentre gli over 50 sono cresciuti in media del 5% ogni anno. Un caso unico nel contesto dei Paesi europei, dovuto in parte all’aumento dell’età pensionabile e in parte all’impatto demografico dell’invecchiamento della popolazione su quella in età di lavoro. Dagli anni Novanta, infatti, il nostro Paese sta registrando un forte calo della natalità che porta inevitabilmente all’assottigliarsi della fetta di giovani lavoratori.
Questa preferenza per gli over 50 riflette anche il fatto che le fasce d’età più giovani per trovare condizioni lavorative migliori devono frequentemente cercarle all’estero (come in qualsiasi dinamica migratoria). Stando al rapporto “I giovani e la scelta di trasferirsi all’estero”, presentato dalla Fondazione Nord
Est al Cnel all’inizio del 2025, negli ultimi 13 anni oltre mezzo milione di giovani italiani tra i 18 e i 34 anni hanno lasciato il Paese per cercare opportunità oltrefrontiera. C’è poi da dire che i lavoratori in fasce d’età più avanzate hanno dalla loro sia un potere contrattuale maggiore sia su uno skill set che li rende, dal punto di vista di chi assume, più validi - elemento da considerare anche alla luce di una propensione più bassa al cambio del posto di lavoro rispetto alle generazioni più giovani. Anche dal punto di vista istituzionale si è spinto poi in questa direzione: la “legge Fornero” ha garantito una serie di sgravi e incentivi per le aziende disposte ad assumere over50 che sono stati rinnovati pure nel 2024. Da questo quadro appare quindi chiaro che non siano necessarie soluzioni di
OCCUPATI 2005-2024
particolare lungimiranza: un mercato del lavoro attrattivo è quello che paga bene e che non lascia gli incumbent al margine, marcando ulteriormente la dualizzazione tra chi è già “dentro” e chi vi si approccia - anche perché in un mercato europeo in cui le persone transitano liberamente, queste migliori condizioni si possono andare a cercare altrove.
NUOVI SCENARI DA GESTIRE
Un quadro complesso, quindi, che non esclude l'apertura di nuovi scenari come quello che si avrà «con il pensionamento, seppur ritardato, della generazione dei baby boomer», commenta Francesco Seghezzi, Presidente di Fondazione Adapt. «Evento che inevitabilmente impatterà sul mercato del lavoro nazionale anche perché
A destra occupati in migliaia, a sinistra variazione % anno precedente
sarà impossibile compensarlo con le generazioni successive, più ridotte anche se con livelli di istruzione superiori. Questa dinamica dovrebbe fin da subito orientare le politiche del lavoro e dell’innovazione sia rispetto al rapporto tra flussi migratori e lavoro sia rispetto al ruolo che l’automazione può avere», dice ancora Seghezzi. L’alternativa? «Un’economia meno produttiva, più povera e destinata allo svuotamento». Il che significa attuare al più presto piani strutturali che favoriscano l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani attraverso una formazione mirata e incentivi alle imprese. Ma anche avviare politiche attive del lavoro, pensare a investimenti nella formazione e a un reale potenziamento dei servizi di welfare. E siamo già in ritardo. ■
Fonte: Elaborazione su dati

SE COMINCIAMO A PARLARE COME CHATGPT
di Emanuela Griglié
Risposte automatiche, traduzioni, post sui social media fino ai saggi, agli articoli sui giornali e ai discorsi pubblici. Le applicazioni come ChatGPT sono sempre più utilizzate per produrre contenuti digitali. Ma c’è un problema. L’IA sta trasformando il linguaggio umano. Con il rischio di omologare il nostro modo di pensare


Testi brevi. Possibilmente con punti esclamativi. E tendenzialmente accomodanti. Spesso, senza neanche rendercene conto, gli scritti che “componiamo” con l’ausilio di qualche app di intelligenza artificiale (IA) hanno queste caratteristiche. Le applicazioni come ChatGPT sono oggi molto utilizzate per produrre linguaggio - da risposte automatiche a traduzioni, da post sui social media a saggi, discorsi e molto altro -. Sono infatti circa 300 milioni gli utenti attivi ogni settimana su ChatGPT, numero che sale a miliardi di utenti se si contano complessivamente tutte le app di intelligenza artificiale generativa in circolazione. Ma si riflette poco sul fatto che l’IA essenzialmente filtra e sceglie le parole. Così, dopo aver imparato a “parlare” dal linguaggio umano ora l’intelligenza artificiale lo sta riplasmando.
MANIPOLAZIONE DI MASSA
Secondo diversi studi, l’IA generativa che attinge ai Large Language Models (LLM) starebbe già lentamente promuovendo l’utilizzo di alcuni termini mandandone in “cantina” altri. Alcune parole saranno probabilmente più dominanti nei set di addestramento dei dati e, quindi, in base alla corrispondenza dei modelli, avranno maggiori possibilità di essere scelte quando l’intelligenza artificiale elabora le risposte. Il professor Iyad Rahwan del Max Planck Institute ha recentemente pubblicato un paper (Empirical evidence of Large Language Model’s influence on human spoken communication) per evidenziare come ChatGPT stia influenzando il linguaggio umano. Lo ha fatto
raccogliendo e analizzando circa 280 mila video di conferenze accademiche e creando un modello per verificare la frequenza dell’apparizione di alcune parole.
Il gruppo di ricerca di Rahwan ha osservato come dopo l’esplosione di ChatGPT (che nel gennaio 2023 ha guadagnato 100 milioni di utenti in soli due mesi dopo il suo lancio) sia cresciuto esponenzialmente nella scrittura accademica l’utilizzo di termini come “delve” (approfondire), “showcasing” (in mostra), “underscores” (sottolineare), “pivotale” (fondamentale), meticulous (meticoloso) che vengono suggeriti con frequenza proprio dall’IA. «Questi risultati forniscono la prima prova empirica che gli esseri umani imitano sempre di più gli LLM nella loro lingua parlata» sostiene Rahwan. «I nostri risultati sollevano preoccupazioni sociali e politiche rilevanti circa il potenziale dell’IA di ridurre involontariamente la diversità linguistica o di essere deliberatamente utilizzata in modo improprio per la manipolazione di massa».
CHATBOT POCO ATTENDIBILI
Ma in che modo la lingua stia cambiando sotto l’influenza dell’intelligenza artificiale non è assolutamente semplice da definire. «Sono strumenti in rapidissima evoluzione. Già tra pochi mesi questa domanda potrebbe avere una risposta diversa», spiega Massimo Palermo, ordinario di Linguistica italiana all’Università per Stranieri di Siena, accademico della Crusca e direttore del Cesim, il Centro Studi L’italiano in Italia e nel mondo. «Di sicuro l’ingerenza dei vari bot non è solo a livello di

Massimo Palermo, Ordinario di Linguistica italiana all’Università per Stranieri di Siena, Accademico della Crusca e direttore del Cesim - Centro Studi L’italiano in Italia e nel mondo

vocabolario ma influisce anche sulla costruzione delle frasi. I testi generati da chatbot sono complessivamente corretti sul piano formale, non sempre attendibili su quello dei contenuti: tendono a rispondere dando sempre ragione all’utente, anche se in modo poco congruo. Pensiamo in particolare alle risposte che iniziano dando sempre ragione al cliente anche se si accingono a confutare il contenuto della domanda. Uno dei rischi che vedo all’orizzonte è quello dell’omologazione: testi che tenderanno ad assomigliarsi tutti. E poi c’è la presenza nascosta dell’inglese, che non significa massiccia presenza di anglicismi ma piuttosto un italiano rimodellato sull’inglese, con una costruzione del testo diversa dalla nostra, con una sintassi lineare e molto più ricca di connettivi oppure con l’uso improprio - per interferenza - di alcune preposizioni. Anche per questo sarebbe auspicabile che in futuro alcuni di questi strumenti fossero sviluppati in Italia e in italiano. Inoltre, credo che la scuola dovrebbe insegnare fin da subito a impiegarli criticamente e consapevolmente, anche perché ormai all’università quasi non c’è tesi o tesina che non sia stata sistemata con ChatGPT o affini».
I PREGIUDIZI DELL’IA
I Large Language Models sono suscettibili di ereditare e amplificare i pregiudizi (bias) presenti nei loro dati di addestramento. La conseguenza è di un trattamento non equo di diversi dati demografici, come quelli basati su etnia, genere, età e gruppi culturali. L’intelligenza artificiale è tutt’altro che neutra e spesso ha tantissimi pre-
giudizi che eredita dai dati di cui si è nutrita e che si riflettono nella scelta di determinate parole. «Uno dei potenziali rischi è sicuramente la persistenza di bias di genere, soprattutto nelle traduzioni», aggiunge Palermo, «quando si passa da lingue che marcano meno il genere come l’inglese a quelle che lo fanno di più come l’italiano ci possono essere errori.
Così vediamo che doctor diventa più spesso dottore, mentre nurse viene tradotto perlopiù come infermiera, riflettendo un pregiudizio sui ruoli sociali di uomo e donna. Queste distorsioni di genere persistono anche quando ci sono nel testo altri indicatori, come i pronomi, che farebbero da spia sul genere del soggetto. Questo genera un costo maggiore nella

revisione dei testi che contengono nomi di professioni al femminile, spesso sottostimati dall’intelligenza artificiale».
IL VOCABOLARIO STEREOTIPATO
Gli effetti di questa contaminazione linguistica, tuttavia, sono ancora poco studiati. L’intelligenza artificiale (AI) è già ampiamente utilizzata nella comunicazione quotidiana, ma nonostante le preoccupazioni sugli effetti negativi dell’IA sulla società, le conseguenze sociali del suo utilizzo per comunicare rimangono in gran parte inesplorate. Una ricerca pubblicata su Nature ha investigato le ripercussioni sociali di una delle applicazioni di intelligenza artificiale più pervasive, ovvero i suggerimenti di risposte “intelligenti” che vengono utilizzati per inviare miliardi di messaggi ogni giorno. Con effetti sia sul linguaggio e che nelle relazioni sociali. L’utilizzo di questo tools infatti aumenta la velocità di comunicazione, l’uso di un linguaggio più emotivo e positivo e spinge i soggetti della conversazione a valutarsi a vicenda come più vicini e più cooperativi. Insomma, siamo nel bel mezzo di una trasformazione anche se è impossibile individuarne la direzione. Ma qualche allarme c’è. Nel corso di diverse generazioni umane, il vocabolario umano potrebbe diventare immensamente più semplice e più stereotipato con una progressiva semplificazione anche della sintassi e della grammatica verso, insomma, un appiattimento generale nel modo di esprimersi. Ma le parole danno forma anche ai pensieri: omologando il linguaggio rischiamo di omologare pure il pensiero. ■
Che cosa sono i modelli linguistici di grandi dimensioni
Imodelli linguistici di grandi dimensioni (LLM, Large Language Models) sono sistemi avanzati di intelligenza artificiale progettati per comprendere, generare e manipolare il linguaggio umano. Questi modelli si basano su architetture neurali avanzate, come i trasformatori (ad esempio, il modello GPT di OpenAI), e sono addestrati su enormi quantità di dati testuali provenienti da libri, articoli e pagine web, il che consente loro di acquisire una conoscenza vasta e profonda di molteplici argomenti. Gli LLM sono caratterizzati da un numero estremamente elevato di parametri (spesso miliardi), che li rende capaci di cogliere le sfumature del linguaggio, inclusi contesti complessi e significati impliciti. Questi modelli sono in grado di eseguire una vasta gamma

di compiti, come la generazione di testo, la traduzione automatica, il riassunto di documenti e la risposta a domande. Grazie alla loro capacità di generalizzare, gli LLM non necessitano di essere addestrati specificamente per ogni singolo compito, ma possono adattarsi dinamicamente a vari scenari. L’addestramento degli LLM avviene principalmente tramite apprendimento non supervisionato, dove il modello apprende dai dati senza dover fare affidamento su etichette predefinite. Questo processo consente loro di “imparare” autonomamente e migliorare continuamente nel tempo. Una delle loro caratteristiche più impressionanti è la capacità di generare contenuti che sembrano essere scritti da esseri umani, grazie alla loro abilità di replicare la sintassi, il vocabolario
e lo stile del linguaggio naturale. Le applicazioni degli LLM sono molteplici e spaziano dalla creazione di assistenti virtuali (come i chatbot) alla scrittura automatica di articoli, alla traduzione linguistica e alla creazione di contenuti creativi. Inoltre, possono essere utilizzati per analizzare il sentimento di un testo o per estrarre informazioni rilevanti da grandi moli di dati. Tuttavia, nonostante le loro enormi capacità, gli LLM presentano anche delle limitazioni. Possono produrre risposte imprecise, generare informazioni fuorvianti e riflettere bias presenti nei dati su cui sono stati addestrati. Nonostante ciò, il loro impatto sul panorama tecnologico e sui settori economici è notevole, aprendo nuove possibilità nel trattamento e nella generazione del linguaggio naturale. ■
NON SI LAVORA PIÙ SOLO PER IL PANE
di Giovanni Colombo
Welfare aziendale, senso di appartenenza, coerenza con i principi personali, percorsi di formazione e di responsabilità sociale sono fattori cruciali per attrarre e fidelizzare i giovani professionisti. Soprattutto oggi, in un mercato del lavoro dove i neolaureati snobbano la libera professione il cambiamento è possibile. Ma richiede impegno, risorse e visione
Esi potrebbe anche cominciare con una citazione da Serie A. Intervistato da una testata sportiva, Mirwan Suwarso, manager indonesiano divenuto presidente del Como calcio per volere dei proprietari multimiliardari - i fratelli Hartono, una delle famiglie più ricche del mondo - ha detto: «Tutti noi vogliamo che Nico Paz possa rimanere con noi. Per sempre, se possibile...». Nico Paz è un giovane, talentuoso, calciatore spagnolo che nella squadra lariana si sta particolarmente distinguendo, attirando non solo l’affetto dei tifosi ma anche le attenzioni e l’interesse delle big del calcio nazionale ed europeo. Ora, uscendo dal campo del calcio mercato e cambiando i nomi dei protagonisti, le parole di Suwarso sono le stesse che molti titolari di studi professionali sono costretti a pronunciare, in riferimento a un giovane professionista brillante che, dopo essersi messo in luce, si guarda intorno e comincia a mandare curriculum altrove. Perché succede? E come possono gli studi professionali evitare di perdere i propri campioni? A maggior ragione, considerando la fatica spesa nell’individuarli, le risorse investite per formarli, la riorganizzazione adottata per inserirli nello staff. Senza contare, poi, il calo di vocazioni tra i giovani neolaureati verso la libera professione.
IL PARADOSSO DI EASTERLIN
Domande che possono sembrare “vecchie”, ma che pretendono risposte nuove: per trattenere un talento non basta più puntare solo sulla proposta economica. Lo dice chiaramente Filippo Poletti, top voice di LinkedIn, esperto di ma-

nagement e strategia aziendale, Executive MBA presso POLIMI
GSOM: «Per attrarre e fidelizzare i giovani professionisti, gli studi devono ripensare il concetto di restituzione, aggiungendo valore in altre forme, perché oggi sono altri i fattori in gioco: il welfare aziendale, il senso di appartenenza, la coerenza con i principi personali, percorsi di responsabilità sociale». Stiamo cioè assistendo alla concretizzazione del paradosso di Easterlin? «L’economista californiano affermava che all’aumentare del reddito, quindi dello stipendio aumenta la felicità, ma solo fino al raggiungimento di un certo livello.
Successivamente, tale incremento non genera ulteriore soddisfazione. E ciò dipende dal fatto che il denaro non è più l’unica misura di valore nello scambio tra tempo e competenze». Concetti che trovano conferma anche nei numeri. Almeno quelli del Talent Trends 2024, condotto da Michael Page Group su quasi 50 mila professionisti qualificati, che ha svelato importanti insights su tendenze e valori della Gen Z (cioè i nati tra il 1997 e il 2012), destinata a costituire più di un quarto della forza lavoro nei paesi OCSE nel 2025. Quando è stato chiesto loro quale sia la priorità principale al lavoro, i cosiddetti "Zoomers" hanno indicato la salute mentale (29%) e l’equilibrio tra vita e lavoro (27%) prima della soddisfazione lavorativa (16%) e dello stipendio competitivo (13%).


LARGO AL BENESSERE
Va quindi delineandosi un perimetro vitale più ampio, entro cui il lavoro - e lo stipendio - è solo uno degli elementi, e neanche il più importante. Per dare un nome a questa nuova scala valoriale, diffusasi dopo il Covid senza distinzione generazionale, Poletti ricorre al concetto di "fullgevity", un termine che coniuga il benessere personale e la longevità professionale.
«La fullgevity è il desiderio di vivere profondamente. Anche in ambito lavorativo. I professionisti, giovani e meno giovani, oggi aspirano a un’occupazione che risuoni con i propri valori, che stimoli la loro crescita, professionale e personale, che contribuisca al loro sviluppo soggettivo. Stiamo parlando di un nuovo paradigma lavo-
rativo. E gli studi devono mettere a loro disposizione gli strumenti che rispondano a questo bisogno. Non basta solo prendersi cura del benessere fisico e psicologico nel breve periodo, bisogna creare spazi - momenti e ambienti - in cui il professionista possa crescere e sentirsi realizzato anche dopo anni di carriera».
IL BINOMIO VINCENTE
Altro elemento centrale per trattenere i talenti è quindi quello della formazione. Ancora Poletti: «I collaboratori vogliono avere accesso a percorsi di formazione continua e possibilità di carriera chiare, altrimenti si sentono intrappolati, come sul tapis roulant: corrono ma da fermi, senza mai arrivare da nessuna parte. Anche perché il Future of Jobs Report 2025, pubblicato a inizio gennaio dal World Economic Forum, sulla base di dati provenienti da oltre 1.000 aziende, rivela come il 39% delle competenze richieste ai lavoratori cambierà entro il 2030, e il 63% dei datori di lavoro che già lo citano come l’ostacolo principale da affrontare».
Numeri che certificano come chi non si adatta rischia di perdere il contatto con le nuove generazioni di professionisti, che chiedono sempre più di crescere e realizzarsi. «Aspetto legato a questo e, secondo me, parimenti fondamentale, è quello del merito. Ossia un chiaro piano premiale, corrispondente a una definizione chiara degli obiettivi.
Obiettivi Smart che offrano ricompense tangibili al merito». Questo approccio non solo aumenta la


Filippo Poletti, LinkedIn Top Voice
motivazione, ma crea anche un ambiente in cui i collaboratori si sentono partecipi, coinvolti in qualcosa di grande, e non solo un ingranaggio di un meccanismo più ampio e spersonalizzante.
LA FILOSOFIA DEL “VAI E FAI”
Va da sé che nell’idea di coinvolgimento del personale nel progetto lavorativo è insito anche un concetto poco considerato e praticato: la delega. O, come la chiama Poletti, la filosofia del “vai-fai”, cruciale per la crescita e la motivazione del team: «Non basta dire al collaboratore cosa deve fare. Gli va data la libertà di agire, affiancandolo nel processo esecutivo. È una sorta di "pedalata assistita" dove il manager, il capo ufficio, il leader dello studio, diventa il motore che ispira i collaboratori, li spinge verso i loro obiettivi, senza far perdere loro autostima e autonomia. La delega, in concreto, non deve essere vista come un abbandono, ma come processo strutturato, dove il collaboratore ha sia le risorse e il supporto per crescere, sia la responsabilità di agire autonomamente».
Questo tipo di leadership, essenziale per costruire una diversa cultura aziendale, è purtroppo poco coltivata negli studi professionali ancora legati a un modello tradizionale, dove tutto ruota intorno alla figura del titolare. E invece: «Il vero leader è colui che crea altri leader, diceva Corrado Passera e io sono d’accordo. Ciò significa abbracciare un tipo di leadership che non sia autoritaria ma diffusa, che delega ma senza abbandonare: una servant leadership che sia guida e supporto».
CONDIVIDERE UN SOGNO
Se è vero che un leader è colui che ne crea altri, il percorso da fare è quello per cui il titolare dello studio non chiede solo i feedback al proprio collaboratore su quanto fatto. Ma si concentra anche sul «Feed forward. Cioè condividere con lui un sogno, indicargli la strada da percorrere, coinvolgerlo nei progetti futuri. Questo tipo di approccio crea un senso di appartenenza più profondo e prepara i collaboratori a diventare i leader di domani». Appare quindi chiaro che i cambiamenti più significativi che uno studio può intraprendere per trattenere i talenti è abbracciare le buone pratiche delle medie e grandi aziende, senza però perdere la propria identità: «Il cambia-
mento è possibile, ma richiede impegno, risorse e visione», per dirla con Poletti. La chiave è ascoltare le loro esigenze, investire nella loro crescita professionale e personale, e creare un ambiente che stimoli la loro realizzazione: «Erroneamente si può pensare che tutto quello che riguarda il benessere del dipendente sia secondario rispetto allo stipendio.
Oggi non più così: è manifestazione di lungimiranza, nonché un buon aspetto strategico, pensare di offrire cura ai propri dipendenti, perché poi quella cura i dipendenti la restituiscono allo studio». E da un ambiente in cui si pratica la cura reciproca diventa più difficile pensare di andarsene. ■
I collaboratori vogliono avere accesso a percorsi
di formazione continua e possibilità di carriera chiare, altrimenti si sentono come sul tapis
roulant: corrono ma da fermi, senza arrivare da nessuna parte
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Negli ultimi 25 anni numerosi sono stati gli eventi climatici estremi che si sono abbattuti su infrastrutture causando danni per 3.600 miliardi di dollari, di cui 1.000 miliardi solo tra il 2020 e il 2024. Un quadro complesso che vede gli assicuratori progressivamente ritirarsi, rendendo di fatto molte zone uninsurable. Ma sottovalutare l’impatto finanziario del cambiamento climatico potrebbe portare a una riduzione del Pil globale fino al 22% entro il 2100
di Lorenzo Fantini

Il cambiamento climatico non è più un’ipotesi lontana, né una questione esclusivamente ambientale: è realtà e ha conseguenze dirette sull’economia globale. L’inerzia delle aziende davanti alla gestione dei rischi climatici potrebbe infatti tradursi in una perdita economica senza precedenti.
Il report “The Cost of Inaction: A CEO Guide to Navigating Climate Risk ” di Boston Consulting Group in collaborazione con il World Economic Forum, stima una perdita dei profitti fino al 25% entro il 2050, per le aziende che non adottano misure per combattere l’emergenza climatica. Questo dato rappresenta l’ennesimo campanello d’allarme, ma anche un’opportunità per agire con lungimiranza e costruire un futuro più sostenibile. Sta a noi non ignorarla.
D'altro canto, negli ultimi 25 anni sono stati numerosi gli eventi climatici estremi, come tempeste e uragani, che si sono abbattuti violentemente sulle infrastrutture causando danni per 3.600 miliardi di dollari, di cui 1.000 miliardi solo tra il 2020 e il 2024, con conseguenze su catene di approvvigionamento e settori produttivi.
Tuttavia, l’impatto economico non è uguale in tutto il mondo: alcune aree sono particolarmente vulnerabili a causa della posizione geografica e dell’esposizione a fenomeni climatici ricorrenti. In diverse regioni di Europa e Stati Uniti, per esempio, gli assicuratori si stanno progressivamente ritirando, rendendo di fatto molte zone uninsurable, ovvero con
una propensione al rischio tale da non poter più disporre di una copertura assicurativa.
ADATTAMENTO E RESILIENZA
Il progressivo ritiro degli assicuratori non rappresenta soltanto una sfida per le imprese e, di conseguenza, per i cittadini, ma innesca una reazione a catena: la riduzione degli investimenti, l’aumento dei costi di ricostruzione e il deterioramento della sicurezza economica.
Le conseguenze dell’inazione sono già visibili e, secondo l’analisi di BCG, potrebbero portare ad una riduzione del PIL globale fino al 22% entro il 2100.
Di fronte a questo scenario, le aziende si trovano esposte a una duplice minaccia: da un lato, i rischi fisici legati a eventi estremi, sempre più frequenti e distruttivi; dall’altro, i rischi di transizione derivanti dalle trasformazioni economiche e regolatorie necessarie per contrastare il cambiamento climatico.
I rischi di transizione derivano dall’aumento della carbon tax e dalla svalutazione degli asset legati ai combustibili fossili. Con la domanda di carbone destinata a ridursi del 90% entro il 2050, infatti, gli impianti messi in funzione dopo il 2010 non saranno più economicamente sostenibili e non avranno la possibilità di raggiungere la fine del loro ciclo di vita, che dura in media tra i 20 e i 25 anni.
Di conseguenza, le imprese più esposte a tali rischi vedranno aumentare i propri costi operativi,
mentre il valore degli asset fossili potrebbe subire una svalutazione fino al –35% entro il 2030. I dati sono inequivocabili, eppure molte imprese continuano a sottovalutare l’impatto finanziario del cambiamento climatico: la loro percezione è di perdite comprese tra l’1% e il 3%, mentre le stime prevedono fino al 25% di erosione del margine operativo lordo (EBITDA).
SERVE PIÙ PROATTIVITÀ
Investire in soluzioni resilienti e sostenibili non solo permette di mitigare i rischi legati ai fenomeni esterni e all’instabilità economica, ma offre un vantaggio competitivo in un mercato in rapida evoluzione. Ogni dollaro investito in resilienza climatica genera un ritorno economico compreso tra 2 e 19 dollari: la transizione non è

solo una necessità, ma una leva di crescita sostenibile e di creazione di valore duraturo nel tempo.
Chi saprà cogliere questa occasione avrà davanti un mercato in espansione. Alcuni settori lo stanno già facendo e, stando ai dati, a trainare la crescita saranno l’energia alternativa (49% del mercato), i trasporti sostenibili (16%) e i prodotti di consumo eco-friendly (13%): settori che stanno crescendo a un ritmo annuo del 10%-20%, ben al di sopra del tasso di crescita globale.
Anche a livello macroeconomico gli investimenti nella transizione climatica risultano vantaggiosi: per mantenere il riscaldamento globale sotto i 2°C sarebbe necessario destinare circa il 2% del PIL globale alla mitigazione e un ulteriore 1% all’adattamento. Questo impegno iniziale permetterebbe di evitare perdite economiche a lungo termine, stimate tra il 10% e il 15% del PIL mondiale entro la fine del secolo.
La transizione climatica non è soltanto una necessità per evitare crisi future, ma anche un’opportunità per le aziende che sapranno adattarsi. Sebbene la transizione ecologica e la gestione del rischio climatico comportino costi aggiuntivi iniziali, il valore dell’economia verde apre le porte a un mercato in espansione, che punta ai 14.000 miliardi di dollari entro il 2030, dagli attuali 5.000 miliardi. Restare fermi di fronte alla crisi climatica, quindi, non è un’opzione sostenibile né dal punto di vista ambientale, né da quello economico. ■


PRONTO FISCO
Le novità tributarie e il loro impatto sulle professioni nel commento di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi
Detrazioni Irpef 2025: cosa cambia
La manovra per il 2025 prevede importanti novità nel mondo delle detrazioni per le persone fisiche, con variazioni rilevanti soprattutto per quanto concerne i possessori di reddito di lavoro dipendente, i carichi di famiglia, le spese che danno diritto alle detrazioni in genere ed i bonus edilizi
Detrazioni si cambia. La legge di Bilancio 2025 ha introdotto numerosi interventi ad ampio raggio, alcuni dei quali richiederanno necessari interventi interpretativi. È il caso ad esempio del nuovo limite di detrazione previsto per i possessori di reddito superiori a 75 mila euro, che vede introdurre un doppio step di verifica per giungere all’ammontare effettivamente detraibile. Infatti non solo sono previsti dei massimali di detrazione (14 mila euro per redditi tra
75 mila e 100 mila euro e 8 mila euro per redditi tra 100 mila e 120 mila euro), ma vi è anche un sistema di proporzionamento in funzione del numero dei figli a carico del contribuente.
Proprio sui carichi di famiglia vi è poi un ulteriore intervento di particolare rilevanza, dato che viene eliminato il riferimento, per gli “altri familiari”, all’elencazione dell’articolo 433 del c.c., facendosi ora soltanto il richiamo agli ascendenti conviventi.
Sembra una limitazione particolarmente pesante sul piano sociale, in quanto esclude dai carichi di famiglia quelle situazioni in cui magari i genitori anziani, forti delle loro pensioni, provvedono al sostenimento delle famiglie dei propri figli che hanno perso il lavoro (l’effetto paradossale, infatti, è che sopravvive solo la detrazione per i figli, ma non quella per generi/nuore e nipoti).
Peraltro la variazione dei carichi di famiglia pone non pochi problemi, perché al momento si hanno 3 diverse ipotesi di “familiari” da considerare nel Tuir: i) gli ascendenti, che rilevano anche per le spese detraibili per i soggetti a carico (articolo 12 e articolo 15 del Tuir); ii) i soggetti di cui all’articolo 433 del codice civile, che continuano ad essere richiamati per le spese ammesse in deduzione (articolo 10 del Tuir) se sostenute verso detti familiari; iii) i parenti entro il
terzo grado e gli affini entro il secondo, richiamati dall’articolo 5 del Tuir.
Infine consta la novità sui bonus edilizi (in genere), che vedono introdurre una differenziazione per la prima casa, sia in termini di percentuale di detrazione, che (laddove previsto) di massimale di spesa. Qui le problematiche attengono proprio al “requisito prima casa”. Quando deve sussistere? All’inizio dei lavori o può subentrare? Deve riguardare il solo contribuente o anche i familiari? E su quanti immobili può applicarsi la maggiore agevolazione?
Insomma, variazioni importanti che devono essere analizzate con calma. Anche perché bisogna sempre ricordarsi che si tratta di detrazioni e limiti riguardanti il singolo contribuente, potendo pertanto, nei limiti del possibile, gestire le detrazioni tra gli aventi diritto per massimizzare i benefici fiscali. ■
WELFARE E DINTORNI
Il Contratto collettivo nazionale degli studi professionali ha costruito un’articolata rete di tutele intorno a tutti coloro che operano all’interno di uno studio professionale. In questa rubrica le ultime novità dalla bilateralità di settore
Gestione ordinaria, boom di sostegni per i datori di lavoro
Per la Gestione Ordinaria di Ebipro anche il 2024 è stato un anno record per numero di prestazioni erogate. Sul versante delle misure dedicate ai professionisti datori di lavoro (persone fisiche e giuridiche), l’anno passato ha visto un aumento del +13,7% di risorse totali assegnate rispetto al 2023. Con oltre 1,4 milioni di euro somministrati su base nazionale, l’Ente bilaterale ha sostenuto e incentivato 1.782 studi professionali iscritti alla bilateralità, erogando prestazioni che vanno dal
rimborso della formazione obbligatoria fino al sostegno dell’impiego stabile di particolari tipologie di contratti di lavoro. Ed è proprio il capitolo “Incentivi all’occupazione” a registrare nel 2024 le crescite maggiori. Tra personale inizialmente assunto in apprendistato, in sostituzione, a chiamata e in reimpiego, Ebipro conta oltre 750 rapporti di lavoro incentivati a seguito di trasformazione in lavoro subordinato a tempo indeterminato, e stima un importo medio riconosciuto pari a 760 euro.

Malattie rare, il supporto di Gestione
Professionisti
e BeProf Formazione,

Dal 2025 Gestione Professionisti e BeProf agiscono in favore delle malattie rare, circa 8.000 patologie che colpiscono un numero limitato di persone nel mondo. Nell’ambito delle coperture dedicate ai professionisti è stata attivata una garanzia dedicata al rimborso delle spese sostenute dai titolari di copertura, affetti da malattie rare, senza scoperti e franchigie, fino a 250 euro di massimale per visite e/o accertamenti diagnostici anche non attinenti la patologia rara o non effettuabili in regime di esenzione Le spese devono essere sostenute dal 1° gennaio al 31 dicembre 2025, in presenza di prescrizioni del medico di medicina generale (MMG) o dello specialista. Il rimborso e il massimale sono annuali e riferiti al periodo di validità del progetto sperimentale 2025. Ai fini del rimborso può essere presentata un’unica domanda. È, quindi, opportuno attendere di essere in possesso di tutte le eventuali spese utili al raggiungimento del massimale prima di effettuare la richiesta. La domanda di rimborso può essere inoltrata autonomamente dalla propria area riservata BeProf, allegando la documentazione prevista.
GESTIONE PROFESSIONISTI
MAGGIORI INFORMAZIONI
tra opportunità e ostacoli
Giovedì 10 aprile 2025, a Roma, presso l’Auditorium dell’Ara Pacis, si terrà il convegno “La formazione continua tra opportunità da cogliere e ostacoli da rimuovere”. L’apertura dei lavori è prevista per le ore 10.30. Sarà l’occasione per la presentazione del 2° Rapporto sulla formazione continua di Fondoprofessioni, realizzato dall’Osservatorio delle Libere Professioni. Attraverso l’analisi del contesto internazionale, dei trend formativi emersi e delle indagini realizzate sul campo saranno formulate alcune proposte per un pieno sviluppo della formazione continua, con particolare riferimento alla realtà delle micro-imprese. Durante il convegno saranno assegnati agli enti attuatori i riconoscimenti del Premio Chirone 2024 per le best practice formative relative alle categorie attività professionali, aziende, innovazione e propositività dell’ente proponente. Il termine dei lavori è previsto alle ore 14.00. A seguire si terrà la visita guidata al Museo dell’Ara Pacis, previa preventiva registrazione.
PER INFORMAZIONI
06/54210661
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MedicoPerTutti, il servizio di telemedicina aperto a iscritti e familiari

Cadiprof mette a disposizione dei lavoratori iscritti e dei loro coniugi, un’iniziativa unica nel suo genere: un servizio di video-consulto medico. Talvolta, il ritmo quotidiano a cui siamo sottoposti rende poco agevole poter contattare il nostro medico curante; può capitare di avere necessità di un parere medico e di trovarsi ad esempio in una città diversa da quella in cui abitiamo e non sapere a chi rivolgersi. Questo servizio all’avanguardia permette di ricevere un riscontro tempestivo e un primo orientamento medico, con uno dei medici della Centrale Operativa, accessibile dal lunedì al venerdì dalle 08.00 alle 20.00 e il sabato dalle 08.00 alle 18.00. MedicoPerTutti è incluso nel piano di assistenza sanitaria Cadiprof, di conseguenza è fruibile da tutti gli iscritti ed è gratuito. Il servizio è accessibile tramite l’utilizzo dell’apposita App da scaricare sul proprio telefonino (IOS o Android). Prima di scaricare l’App, il dipendente accede alla propria Area Riservata dal sito Cadiprof e clicca su Prestazioni Cadiprof: dal menù seleziona “MedicoPerTutti”. Verrà inviata una mail con il codice di attivazione per abilitare l’utente sulla app.
Gli eventi, le mostre, i film e i libri del momento in Italia e all'estero da non perdere per fare un pieno di cultura e di bellezza

CULTURA
Photo adicorbetta

Art Deco, Palazzo Reale
Ph Carlotta Coppo

Art Déco, tra raffinatezza e glamour
Dall’ l’Exposition internationale des arts décoratifs et industriels modernes, l’evento che decretò l’affermazione dell'Arte decorativa, sono passati 100 anni. Milano celebra l’importante anniversario con una mostra di circa 250 opere tra dipinti, sculture, oggetti d’arredo e molto altro ancora. E Torino la segue.
di Romina Villa
Nella pagina a fianco: Galileo Chini, Allegoria dell’Autunno, 1919 Tempera su carta incollata su quattro pannelli lignei, 380 x 345 cm. Collezione privata V.C.
Gio Ponti, Delle donne e dei fiori, 1925 Orcio della serie Le mie donne, maiolica con smalti azzurri e blu, Società Ceramica Richard-Ginori (Doccia, Sesto Fiorentino). h. 47 x diam. 43 cm. Museo Ginori, Sesto Fiorentino. Esposto nel 1925 a Parigi.
Èpassato un secolo da quell’iconico evento che decretò l’affermazione di una delle correnti estetiche più significative del XX secolo: l’Art Déco. Era infatti il 28 aprile 1925 e a Parigi si apriva l’Exposition internationale des arts décoratifs et industriels modernes. Vi parteciparono le delegazioni ufficiali di ventuno paesi, alle quali si aggiunsero le rappresentanze di aziende private, come i marchi del lusso, i grandi magazzini della capitale francese e testate giornalistiche.
Fino al 30 novembre di quell’anno, milioni di persone affollarono i padiglioni nazionali, edificati per l’occasione nel cuore della città, in cui veniva esposto il meglio della produzione artigianale e industriale europea e non solo. Tra i paesi presenti, infatti, ci furono Turchia, Cina, Giappone, poi i sovietici e le colonie francesi dell’Africa.
Da quell’anno, proprio in seguito a questa leggendaria expo, fu coniato l’appellativo Art Déco per definire quel gusto estetico che fissò

a Parigi il suo punto d’arrivo e che aveva contaminato ogni campo dell’arte, dalla pittura alla scultura, dalle arti decorative all’architettura, dalla grafica alla moda, dalla produzione cinematografica a quella di auto e transatlantici.
E successe durante quei ruggenti anni Venti, durante i quali si riuscì a fondere, almeno in parte, l’arte con la vita di tutti i giorni, la tradizione con l’innovazione, l’artigianato con la produzione industriale di massa. Nel segno della
modernità, dell’eleganza e della seduzione. L’Art Déco non fu un vero e proprio movimento artistico codificato, ma piuttosto un’espressione del gusto, che si declinò, in Europa e solo in seguito negli Stati Uniti, nelle peculiarità dei vari linguaggi nazionali e regionali.
Si veniva dagli anni tremendi del primo conflitto mondiale e intensa era la voglia di guardare avanti con più leggerezza. Queste nuove tendenze artistiche, che cominciarono a maturare fin dal 1910, tras-

Anselmo Bucci, Rosa Rodrigo (La Bella), 1923-1925 Olio su tela, 72 x 60 cm. Courtesy Matteo Maria Mapelli Arte Contemporanea, Monza.

sero ispirazione da più parti: nel geometrismo e nelle linee dell’arte delle Avanguardie, in particolare l’Espressionismo, il Cubismo e il Futurismo. Nei rimandi esotici, carichi di mistero e sensualità, che giungevano dall’Oriente e nella riscoperta di antiche civiltà come quelle precolombiane e dell’Antico Egitto. L’Art Déco fu la risposta al Liberty, ma di questo stile mantenne un certo decorativismo.
ANCHE L’ITALIA IN MOSTRA L’Italia partecipò all’Expo parigina con un parterre di artisti di altissimo livello, vincendo in più categorie, con i Grand Prix a Giò Ponti per le ceramiche, a Galileo Chini e Vittorio Zecchin per i vetri, ad Adolfo Wildt per le sculture e a Renato Brozzi per gli argenti. Forti di una tradizione artistica e artigianale secolare e di quel
Art Deco, Palazzo Reale
Ph Carlotta Coppo
Gio Ponti, Domitilla sulle corde, 1925-1928
Piatto ornamentale della serie Le mie donne, maiolica con smalti policromi, Società Ceramica Richard-Ginori (Doccia, Sesto Fiorentino).
Diam. 45 cm. Collezione privata, courtesy Ed Gallery, Piacenza.

“saper fare” che ci ha sempre contraddistinto storicamente, nel nostro paese il fermento era in atto da qualche anno. L’annoso dibattito tra gli storici che si chiedevano se l’arte potesse mettersi al servizio della nascente industria e viceversa, si era già placato un poco con le Biennali Internazionali delle arti decorative, organizzate a partire dal 1923 presso la Villa Reale di Monza e maturate in seguito alle prime esposizioni di arti decorative di inizio secolo (la prima si svolse a Torino nel 1902).
Le mostre monzesi presero vita per favorire lo scambio di idee tra imprenditori, artigiani e il mondo dell’arte, oltre a costituire un’importante vetrina internazionale, in cui esporre le ultime novità nel campo delle arti applicate, quei


Mario Cavaglieri, La piccola russa, 1913 Olio su tela, 131 x 152 cm Collezione privata, courtesy Ed Gallery, Piacenza.
Art Deco, Palazzo Reale Ph Carlotta Coppo
prodotti, antesignani del Made in Italy, che avrebbero traghettato l’Italia nella modernità. Il luccichio dell’Art Déco si protrasse negli anni Trenta, ma il clima nel frattempo era già cambiato. In Europa, gli equilibri politici stavano per cambiare e già soffiavano spaventosi nuovi venti di guerra. Ancora una volta, quella tanto agognata leggerezza, veniva spinta in un angolo.
A MILANO LA MOSTRA CHE CELEBRA IL CENTENARIO
Fino al 29 giugno, a Palazzo Reale, la mostra “Art Déco. Il trionfo della modernità”, celebra dunque la strepitosa expo parigina e gli anni del Déco, presentando al pubblico circa 250 opere: dipinti, sculture, oggetti d’arredo, mosaici, tessuti e abiti d’alta sartoria, oltre a gioielli e vetrate. L’allestimento è arricchito da installazioni multimediali, curate da Storyville, come frame cinematografici, riproduzioni di manifesti e fotografie dell’epoca. La mostra è curata da Valerio Terraroli, già artefice della fortunata esposizione sul Déco, svoltasi a Forlì nel 2017.
Il progetto, sostenuto dal Comune di Milano e prodotto da Palazzo Reale con 24 ORE Cultura-Gruppo 24 ORE (che ha curato anche il catalogo), si avvale della collaborazione di partner di rilievo come la Fondazione Museo Archivio Richard Ginori di Doccia, che, tra l’altro ha portato in mostra le ceramiche di Giò Ponti, vincitrici a Parigi. Come dicevamo, negli anni Venti l’Art Déco ha influenzato tutta la produzione di arti decorative e industriali e, di conseguenza, la stupefacente carrellata di oggetti

Galileo Chini, Allegoria della Primavera, 1914-1920 Piastrelle in maiolica a lustri, manifattura Fornaci San Lorenzo Chini & C. (Borgo San Lorenzo – FI) Cm. 148 x 66 Collezione privata V.C.
Art Deco, Palazzo Reale
Ph Carlotta Coppo

che si possono vedere, è stata resa possibile dai preziosi prestiti giunti da importanti istituzioni museali pubbliche e collezioni private.
Fondamentale il sostegno giunto dal MIC Museo Internazionale delle ceramiche di Faenza e dal Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera (Bs), oltre che dai musei milanesi, come i Musei del Castello Sforzesco, il Museo della Scienza e della Tecnica “Leonardo da Vinci”, il Museo Poldi Pezzoli e il Museo del Costume, Moda e Immagine di Palazzo Morando. La mostra si articola in 14 sezioni, dalle origini del Déco fino alla sua diffusione in Europa in tutte le sue declinazioni.
La città di Milano vanta numerosi esempi di architettura Déco, su tutti il Padiglione reale della Stazione Centrale, oggi oggetto di restauro da parte di Fondazione FS Italiane, che insieme a Palazzo Reale ha promosso una mostra parallela presso la Sala della Lanterna. In esposizione foto storiche, disegni e documenti d’archivio.
A TORINO LA PUBBLICITÀ
Echi di Art Déco anche a Torino, dove è in corso nella Sala del Senato di Palazzo Madama, la mostra “Visitate l’Italia! Promozione e pubblicità turistica 1900-1950”. La storia della promozione turistica del Belpaese, attraverso duecento manifesti, guide e pieghevoli illustrati. Fino all’avvento di nuove forme di comunicazione, la cartellonistica firmata dai grandi protagonisti dell’illustrazione italiana ha seguito l’evoluzione degli stili e costituisce oggi un patrimonio storico, artistico e sociale di grande importanza. Fino al 25 agosto. ■

Alessandro Pomi, Milano 1928
Anonimo, Recoaro provincia di Vicenza 1927
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La dura vita del bomber
In bilico tra calendari folli, proprietà straniere e l’affannosa ricerca di un “affare” sempre meno legato alla passione sportiva, il calcio non è più una passione ma un vero e proprio business nelle mani di grandi multinazionali, che controllano un giro d’affari di oltre 20 miliardi di dollari. L’Italia non fa eccezione, ma i club della Serie A arrancano nella classifica dei ricavi
di Carlo Bertotti

Calcio che passione, sì ma anche che business… Nel 2023 il giro d’affari mondiale che riguarda l’universo sportivo ha raggiunto cifre da record con 80,6 miliardi di dollari: una cifra decisamente superiore al 2022 (74,3 miliardi di dollari) o al 2019 (66,2 miliardi di dollari) e che definisce lo sport non più come svago o semplice intrattenimento ma come vero e proprio sistema parte di un vasto e articolato business.
Sul podio di questa classifica troviamo le principali leghe americane di football (NFL), baseball (MLB) e basket (NBA) ma nelle prime dieci posizioni è ben presente il mondo del calcio con cinque delle maggiori leghe europee e cifre oltre i 20 miliardi di dollari.
La Premier League è la prima lega calcistica in classifica e si posiziona al quarto posto assoluto con un fatturato di 7,6 miliardi di dollari. A seguire poi la Bundesliga con ricavi per 4,1 miliardi di dollari, quindi la Liga spagnola e la nostra serie A, rispettivamente con fatturati di 3,8 e 3,2 miliardi di dollari. Ultima lega europea presente in Top Ten è la Ligue 1 francese con un fatturato di 2,6 miliardi di dollari.
LE MULTINAZIONALI
Ma come è cambiato il panorama delle proprietà delle principali società calcistiche? Oggi il calcio in Europa è terra di conquista per investitori USA e della penisola arabica, di fatto spostando sempre più il balance da intrattenimento sportivo a vero e proprio comparto economico: un valore che, per quanto riguarda i 32 club più importanti del continente,
supera i 50 miliardi di euro. Un altro fenomeno molto importante è quello che vede la progressiva affermazione delle cosiddette multinazionali del pallone: grandi gruppi finanziari che di fatto gestiscono più squadre in nazioni differenti. Realtà come la holding CFG che controlla 13 club in tutto il mondo (dal Manchester City al Palermo) o come la Pacific Media Group o la 777 Partners: holding che complessivamente controllano 43 squadre in tutto il mondo, club che tecnicamente potrebbero anche affrontarsi nella stessa manifestazione, come per altro già accaduto, con tutti i dubbi che ne potrebbero derivare.
UN CALENDARIO XL
Un giro d’affari dunque in continua espansione ma dove Fifa e Uefa puntano a creare ulteriori oppor-

tunità di guadagno e nuovi introiti puntando a un numero sempre maggiore di partite che possa far aumentare il valore dei diritti televisivi, spingendo gli sponsor a investire di più e determinando così la crescita dell’indotto.
Quella che stiamo vivendo diventa quindi la stagione più “affollata” di sempre con il nuovo formato della Champions League e il mondiale per club, la FIFA Club World Cup 2025, che si svolgerà la prossima estate negli USA.
UN CRAC DIETRO L’ALTRO
Ma con più partite da giocare il rischio di infortuni seri aumenta esponenzialmente proprio perché l’usura diventa un fattore determinante. Basta vedere cosa è successo a Gleison Bremer della Juventus, a Duván Zapata del Torino, a Rodri Hernàndez del Manchester City o a Dani Carvajal del Real: un elenco eccellente con un minimo comune denominatore di rotture di legamenti crociati del ginocchio. Una connessione inquietante visto che questo tipo di lesioni è dieci volte più probabile durante le partite piuttosto che in allenamento: i calciatori che giocano di più sono infatti più esposti, spesso a causa della stanchezza, a movimenti imprevisti o meno controllati.
Tra nazionali e club, un giocatore oggi può arrivare a giocare oltre 70 partite all’anno: una media di una partita ogni 4 giorni e mezzo e soprattutto una cifra decisamente più alta rispetto alle 50-55 partite delle stagioni scorse, numero considerato già al limite dagli esperti. Ma il fatto di giocare sempre più

spesso è veramente un incentivo ai ricavi? Il mercato del calcio in tv è decisamente fitto e giocare ogni giorno paradossalmente rischia di svalutare le partite e ridurre lo spettacolo: in Inghilterra ad esempio la Premier per la prima volta ha ridotto il valore dei diritti di una singola partita.
In Italia praticamente ogni sera abbiamo calcio in tv: da venerdì a lunedì il Campionato, le altre tre sere un mix di coppe tra Champions, Europa League, Conference e Coppa Italia (senza prendere in considerazione le partite della nazionale azzurra).
IL RECLAMO
Lo scorso ottobre questa situazione è sfociata in un reclamo presentato dall’associazione delle Leghe europee e dal sindacato dei calcia-
Gleison Bremer, difensore della Juventus
tori alla Commissione Ue contro la Fifa per abuso di posizione dominante nell’imposizione del calendario delle partite internazionali 2025-2026. Ma se c’è chi sostiene che la Fifa abbia esclusivamente favorito i propri fini commerciali danneggiando gli interessi delle leghe nazionali e la salute dei giocatori, c’è chi sottolinea che anche gli altri interpreti abbiano fatto poco di concreto per trovare una via d’uscita a questa situazione.
Da un lato i calciatori, principali attori in scena, non vedono infatti di buon occhio una riduzione del calendario che implicherebbe un’analoga diminuzione della loro retribuzione. Dall’altro le società hanno bisogno di un calendario più fitto di partite per avere maggiore disponibilità economica per pagare gli stipendi a giocatori ed allenatori. Insomma, un circolo vizioso da cui sembra davvero difficile poter uscire.
LA SITUAZIONE IN ITALIA…
Nell’ultima edizione del “Report Calcio”, il documento annuale realizzato dalla Figc, emerge come il calcio italiano abbia un impatto sul Pil di circa 11,3 miliardi di euro occupando quasi 130.000 unità all’anno e con 3,3 miliardi complessivi di gettito fiscale.
Nel campionato di calcio di serie A 2024/2025, la metà delle squadre è posseduta da società estere e mentre una volta erano prevalenti gli oligarchi russi, i cinesi e gli sceicchi arabi, adesso sono predominanti i fondi di investimento americani. Nella Deloitte Football Money League, una classifica di club calcistici ordinata in base
ai ricavi operativi derivanti dagli incassi delle partite, dal merchandising e dalla vendita dei diritti televisivi, l’Italia non è presente nelle prime dieci posizioni. Il Milan è infatti la prima squadra per fatturato (397,6 milioni di euro), occupando però solo la 13° posizione in classifica mentre l’Inter, con ricavi per 391 milioni di euro, la segue al 14° posto. La Juventus invece è il club che ha registrato il calo più significativo in classifica (356 milioni di euro), passando dall’11° al 16° posto, soprattutto a causa dell’assenza dal calcio europeo nel 2023/24.
Tutt’altra musica per il Real Madrid che diventa il primo club al mondo a superare la soglia di 1 miliardo di euro di ricavi in una singola stagione con un aumento del 103% rispetto alla stagione precedente.

Successo finanziario dovuto a diversi fattori: dal completamento dei lavori di ristrutturazione dello stadio Bernabeu (con un raddoppio dei ricavi) fino all’aumento del 19% dei ricavi commerciali grazie all’aumento del merchandising e a nuove sponsorizzazioni. Il Manchester City si conferma invece il club inglese con i ricavi più alti, raggiungendo 838 milioni di euro.
Una distanza importante tra il nostro campionato e i club internazionali più titolati che racconta di uno sport che sta cambiando pelle troppo velocemente e che vede i club italiani testimoni di una realtà imprenditoriale completamente diversa dal passato, in bilico tra calendari folli, proprietà straniere e l’affannosa ricerca di un “affare” sempre meno legato alla passione sportiva. ■



L’avvocato che visse più volte
La professione di giurisperito ha acquisito un ruolo preminente nell’esistenza di un professionista del centro di Novara che tuttavia ha continuato a coltivare con dedizione e successo una moltitudine di altre passioni fra le quali la fotografia. Con una predilezione per la ritrattistica.
di Roberto Carminati
Nella pagina a fianco: Paolo Tuntar
Al momento di entrare nell’ufficio dell’avvocato novarese Paolo Tuntar
dello studio Margheritis Tuntar Morelli due sono i dettagli che balzano all’occhio. Il primo è la presenza di una cesta rossa dove su una morbida coperta gli fa compagnia il bull-terrier Bart, da poco è giunto a far parte della sua vita e che purtroppo per poco ha convissuto con l’altra bull-terrier Buba. La seconda è data da una piccola pila di patinate riviste internazionali di moda che a dire il vero non ci si aspetterebbe di trovare accanto all’inevitabile ampio quantitativo dei mastodontici volumi di Codici. Entrambi i particolari sono l’espressione di alcune fra le attività che l’avvocato d’origine istriana, ma con radici che affondano nella contea scozzese di Berwick, coltiva con profitto affiancandole all’impegno da civilista. La prima e cioè la cinofilia resta per il momento confinata al rango di pura passione amatoriale. La fotografia di moda e ritrattistica in generale, invece, è qualcosa di leggermente diverso. Benché rigorosamente condotta nel pieno rispetto dei principi della deontologia e dunque senza fini di lucro, ha acquisito per intensità e qualità dei servizi realizzati uno status che si avvicina parecchio a quello del vero professionismo.
IL FATTORE UMANO
Per rendersene conto basta dare un’occhiata al portfolio ripubblicato sul suo sito Internet dove alla voce Editorial spiccano le copertine di testate come Moevir Paris, Ellements, Elegant e Obscure Magazine, tutte datate all’ultimo decennio. «L’amore per le foto», ha detto Paolo Tuntar a Il Libero


Professionista Reloaded, «lo nutro sin da quando da bambino ricevetti in regalo due apparecchi a pellicola (l’avvocato è della classe 1969, ndr) ed è riemerso più seriamente una volta raggiunta la stabilità economica con l’avvocatura: all’Ordine di Novara sono iscritto ormai da quasi trent’anni». In attesa di riprendere in mano la macchina fotografica il giurisperito laureatosi a Milano nel 1995 aveva fatto (parecchio) altro: ha praticato il nuoto e il body building a livello agonistico; è stato cestista e ginnasta; si è confrontato con le arti marziali orientali. Per non farsi mancare nulla, ha avuto anche un sogno nel cassetto.
«Da ragazzo», ha ammesso, «ho seriamente pensato di intraprendere la strada del giornalismo o comunque di impegnarmi nella scrittura. Occupa ancora parte del mio tempo sebbene appartenga, per ora, a una sfera del tutto privata e intima. Rappresenta una delle molte vite che ho vissuto e tuttora vivo tutte insieme e che, non senza qualche conflitto o lacerazione interiore, mi spronano a non accontentarmi mai». La creatività di Paolo Tuntar trova la sua valvola di sfogo nelle immagini e per la precisione negli scatti con cui immortala volti e corpi. «Amo la pittura», ha sottolineato, «e soprattutto quella della seconda metà del Novecento. Mi attraggono le luci caravaggesche di alcuni filoni della fotografia cinematografica. Del ritratto mi affascina la possibilità di cogliere nel soggetto qualcosa che questo magari non sospettava neppure di possedere. Si tratta di cogliere l’attimo catturando uno sguardo, un gesto, un movimento o un atteg-
giamento, facendo sì che la persona - sia una modella sia il tipico uomo della strada - possa riuscire a trasmettere qualcosa di sé e stabilendo quindi una relazione».
LA CONFESSIONE
Perché tutto funzioni e il risultato sia quello desiderato fra chi sta dietro e chi davanti all’obiettivo deve instaurarsi dunque un rapporto il più possibile privo di filtri. Il concetto-chiave è fiducia e a questa deve necessariamente ispirarsi in tutt’altra sede anche il dialogo fra avvocato e assistito. Con tutte le criticità del caso. «Tanto sul set quanto in studio», ha detto Tuntar, «si deve cercare di capire con che tipo di persona e con quale personalità ci si trovi a che fare. Ci si accorge che da avvocati si diventa non di rado confessori e più volte, in occasione dei



servizi, anche modelle e modelli sono arrivati a svelare qualcosa di sé. Non è semplice - il mondo della moda è spesso insidiato da personaggi dubbi - ma superando le diffidenze iniziali si può persino arrivare a esser (quasi) amici».
Nell’ambiente del fashion ci si muove necessariamente su uno scenario preimpostato dove ogni sforzo è da entrambe le parti finalizzato a un preciso scopo, la ritrattistica pura è invece un fatto esclusivamente personale.
«È per lo più nei ritratti», ha argomentato l’intervistato, «che il fotografo può cogliere quell’inspiegabile qualcosa in più che la controparte dà: un pensiero fuggevole che diventa emozione, desiderio e sentimento da fissare su un rullino o un file digitale. Quale che
sia il contesto, non sempre arrivare al traguardo è semplice. Possono passare ore prima che i protagonisti decidano di aprirsi offrendo una parte di sé alla camera, trasformandosi e facendoci così un regalo». Dei ritocchi in post-produzione, benché Tuntar abbia investito negli opportuni software, si fa un utilizzo ragionevole nel solo tentativo di migliorare i chiaroscuri e l’esposizione: nulla, salvo la correzione di alcune imperfezioni cutanee, che non accadesse nelle camere oscure dei tempi andati.
HI-TECH QUANTO BASTA
Là dove le tecniche del passato superano di gran lunga gli approcci hi-tech del presente è nel ricorso inevitabile alla stampa su carta fotografica, che secondo Tuntar - «ne ho avuta piena coscienza a

una mostra di opere di Giovanni Gastel», ha detto - ha il merito di rendere l’immagine più viva. Quasi completamente autodidatta e perfezionista per natura, trova un ideale supporto nel tethering e quindi nell’immediata riproduzione delle foto digitali sullo schermo di un pc. Ma la ragione è che «mi permette di valutare rapidamente la qualità di una foto, che mi deve colpire al primo sguardo ed esser sin da subito giudicata buona». Per potersi sdoppiare abilmente fra la toga e i pixel Paolo Tuntar, pur convinto che «nulla nella vita è mai casuale», ha capitalizzato le occasioni che successivamente gli si son parate davanti.
«Agli inizi», ha ricordato, «il problema era trovare chi fosse disposto far da soggetto per un semplice amateur ed è stata decisiva da questo punto di vista la chiamata giunta da un’agenzia di Milano che aveva bisogno di un free test su una modella. Grazie al buon livello qualitativo degli scatti enon meno importante - alla mia correttezza nei rapporti, si sono presentate altre opportunità per la realizzazione dei classici book e portfolio per nuovi volti. Com’è facile immaginare il turnover degli agenti o booker presso le società specializzate è piuttosto frenetico: ho avuto modo di conoscerne un discreto numero e pertanto di ampliare la rete dei contatti. Posso dire di aver avuto a che fare col 7080% delle agenzie top del capoluogo lombardo».
QUEI CANI DI MODELLI
Altrettanto preziose sono state la disponibilità di uno studio e la conoscenza di stylist e make-up


artist di primo piano coi quali la collaborazione è proseguita anche nel post-Covid quando l’attività di Tuntar ha cominciato a gravitare maggiormente verso Novara. Qui, in coabitazione con altri professionisti dalla spiccata vocazione artistica, si è insediato creando la sua The Factory.
E i sogni, di pari passo con le cause civili, non smettono di proliferare. Ce ne sono di proibiti - «Dei divi del passato mi sarebbe piaciuto fotografare Vittorio Gassman» - e di quasi inarrivabili. «Fra le attrici», ha detto, «immortalerei volentieri Claire Forlani, per gli sguardi semplicemente sconvolgenti che caratterizzano la sua interpretazione in Vi presento Joe Black. E poi senz’altro Charlize Theron, perché di lei amo follemente sia gli occhi sia la testa. Quanto alle modelle, nessuna esitazione: Bianca Balti, anche in questo momento e forse a maggior ragione in questo momento».
Il futuro potrebbe invece salutare l’entrata in scena di una generazione di modelli che con i canoni classici della bellezza ha ben poco a che fare. O magari tantissimo. Torniamo all’inizio e al fido bull-terrier. «Ebbene sì», ha concluso Paolo Tuntar, «i cani sono certamente un pezzo fondamentale della mia anima e della mia esistenza e lo sono almeno da vent’anni. Per questo ho pensato di fotografarli insieme ai loro compagni, mettendoli al centro di un progetto adesso in corso d’opera».
Come il suo giovane Bart, l’avvocato che visse più volte non mollerà la presa e lo porterà a termine. ■
UN LIBRO AL MESE
Le novità editoriali che non possono mancare nella libreria di un professionista
di Luca Ciammarughi

Voci, grida, silenzi nei tempi bui
titolo : Il libro della tristezza
autore : Nicola Adavastro
editore : Bookapoem
prezzo : 13 euro
Èl’autore stesso di questo volume poetico a metterci in guardia dal considerare la tristezza del titolo come “debolezza del soggetto”: essa può essere vissuta come sentimento pro-attivo, «strumento critico sulle cose del mondo». In un’epoca in cui sembra obbligatorio apparire come vincenti, dediti al potere e alla ricchezza, e a tutto ciò che ci distoglie dalle tragedie apparentemente insolubili della nostra epoca, Nicola Adavastro scrive un libro decisamente controcorrente, che, partendo da una prima sezione autobiografica, si estende poi alla ricerca del respiro del mondo e a quella «capacità di provare pena per i dolori del mondo» che oggi tendiamo a rimuovere. Potrebbe sembrare un volume cupo, ma in realtà non lo è: cupe sono, a ben vedere, la «cupidigia del servilismo» e la «violenza del potere» a cui l’autore contrappone una «mitezza forte, non rassegnata». Inoltre, come ci insegna la
storia dell’arte – di tutte le arti –, non esiste bellezza senza tristezza: senza l’idea della caducità e la presa di coscienza della mortalità, la bellezza si riduce a estetismo di cartapesta, completamente privo del pathos e della disperata intensità che la simbiosi fra bellezza e tristezza porta con sé.
La prima sezione è ambientata fra Calabria e Lombardia: figlio di contadini poveri, l’autore ripercorre in prosa poetica l’infanzia nella natura preindustriale di Ellera, nell’Aspromontano, senza luce elettrica né telefono. L’infelicità non esisteva, semplicemente perché «la felicità era una categoria esistenziale totalmente ignota»: il tempo è scandito dalle ansie e preoccupazioni per i raccolti, festività e vacanze non esistono, la vita è dura e provvisoria. «Provvisoriamente crebbi, faticando assai / su quella terra ingramignata e avara, / molto sperando, assai più immaginando». Sarebbe stato semplice, per Adavastro, trasfigurare l’incanto dei paesaggi marini dei luoghi natii in una sorta di nostalgia delle origini: invece, egli sceglie una via più ardua, quella di immaginare cosa sarebbe potuta essere quella terra incantata senza certe storture della politica, senza gli incendi dolosi, senza l’abusivismo edilizio. Facile sarebbe stato anche magnificarsi come l’eroe ardimentoso che ha il coraggio di sradicarsi e cambiare vita al Nord: e invece (altra
via ardua) nell’esilio da quello che era «il posto migliore per nascere senza un domani» nulla di salvifico o autoincensatorio si realizza. La vita al Nord è riscatto ma soprattutto spaesamento. Questa assenza di enfasi, evidente nel tono crepuscolare eppur affettuoso dei versi, è forse il maggior punto di forza di un libro in cui l’illuminazione poetica nasce dai dettagli di una quotidianità che potrebbe essere quella di un everyman: i portici di Voghera, le risaie, una donna che balla il tango sulla pista di un’antica balera. Persino gli sparuti esotismi (Dublino, la Bretagna) evocano luoghi-non luoghi che tracciano un viaggio interiore in cui il “disagio della civiltà” è osservato con lucida spietatezza, ma anche con la speranza che qualcosa cambi. La seconda sezione (“Canti civili”) è in tal senso quella che più addita lo scandaloso “negazionismo ontologico” che ci porta a ignorare gli ultimi della Terra, i paria, i “viaggiatori clandestini”, divenuti ormai solo un peso nella mentalità egocentrica di coloro che hanno paura di perdere tutta una serie di privilegi acquisiti semplicemente “per nascita”. Con amara ironia, Adavastro scrive: «Non c’è morte né guerra o carestia che possa farci trascurare che dobbiamo ancora organizzare l’ultimo week-end al mare».
Il senso di giustizia, che fino a qualche decennio fa sembrava perlomeno un ideale lontano, per quanto irraggiungibile, è diventato “antiquato”, «oggi che va di moda l’uomo vincente».
Ma quello di Adavastro non è un piangersi addosso: nei suoi versi c’è la luce calda del sentimento della fragilità, la sapienza di chi ha imparato a coltivare il dubbio e quindi rimane aperto al dialogo con l’Altro, a un’umanità osservata con profondo e talvolta inatteso amore. ■
RECENSIONI
Cinema, balletto, musica e libri. Un vademecum per orientarsi al meglio tra gli eventi culturali più importanti del momento
a cura di Luca Ciammarughi




SERGIO FIORENTINO –
COMPLETE SAGA ALBUM COLLEC
Quella di Sergio Fiorentino è la storia di un pianista immenso, che, a causa di un incidente aereo e forse di un eccesso di umiltà nella gestione della propria carriera, rimase a lungo estraneo ai grandi circuiti del concertismo internazionale. Ritornato nelle grandi sale negli anni Novanta, poco prima della morte avvenuta nel 1998, il musicista napoletano è sempre più oggetto di una riscoperta che ha fatto ormai di lui
EVGENIJ ONEGIN ALLA SCALA
una vera e propria leggenda. In questo box di 10 cd Rhine Classics, derivanti da un restauro certosino dei nastri originari degli LP SAGA, ascoltiamo Fiorentino fra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ‘60, al culmine del proprio virtuosismo ma già maturo per affrontare con impressionante profondità, per esempio, l’integrale dei Nocturnes di Chopin. Vastissimo il repertorio, da Beethoven al Novecento, anche con orchestra.
MITSUKO UCHIDA ALLA SCALA
Non è facile lasciare il segno in un’opera tanto eseguita e incisa come l’Evgenij Onegin di Čajkovskij. Dopo i successi plateali degli anni scorsi con altre opere russe come Chovanščina e La dama di picche, l’Onegin si è rivelato un successo a metà: evocativa la regia di Mario Martone nel primo atto, ambientato fra i campi di granturco della campagna russa, e nel terzo; un po’ più forzato il secondo, con l’atmosfera di festa da soviet che poco si adatta alla musica ciaikovskiana. Nel cast spiccava il Lensky di Dmitry Korchak, di profonda intensità; apprezzabili la Tatjana di Aida Garifullina e l’Onegin di Alexey Markov; troppo inelegante (anche nei suoni) il Gremin di Dmitry Ulyamov. Dalla affidabilissima direzione di Timur Zangiev, che aveva brillantemente sostituito Gergiev nella Pikovaja Dama, ci aspettavamo più fuoco.
In un panorama invaso da un pianismo appariscente, il recital della pianista giapponese Mitsuko Uchida al Teatro alla Scala è stato una lezione di sobrietà, essenzialità, ripudio dell’effetto e dell’eccesso drammatico. Chiaramente figlia del Novecento, e dell’adesione ai dettagli del testo scritto, Uchida ha aperto il concerto con la Sonata op. 90 di Beethoven, particolarmente commovente nel canto intimo e affettuoso del secondo movimento. Dopo aver tratteggiato con acume analitico e gestualità da Teatro Nō i Klavierstücke op. 11 di Schönberg, la minuta pianista settantaseienne, ancora in ottima forma digitale, ha accostato i pianissimi dell’epigrafico Kurtág di Márta Ligatúrája a quelli delle celestiali lunghezze dell’ultima Sonata di Schubert, nella lente di un’ovattata malinconia nipponica che ben si adattava al fatalismo di quest’opera testamentaria.
TRITTICO KRATZ / PRELJOCAJ / DE BANA
Sempre maggiore è il successo dei trittici di danza contemporanea proposti dal Teatro alla Scala, e a ragione: il Corpo di Ballo della Scala e le sue étoiles hanno sviluppato in questi anni, accanto ai titoli più tradizionali, un’attitudine mentale e corporea sempre più aperta a nuove forme di espressione del rapporto movimento/suono. Nello scorso marzo, abbiamo assistito a una prima assoluta (Carmen di Patrick De Bana) e alla ripresa di due lavori coreografici, Annonciation di Angelin Preljocaj e Solitude Sometimes di Philippe Kratz. Quest’ultimo lavoro, di ispirazione egizia (fra le musiche, la mistica Pyramid Song dei Radiohead), diventerà probabilmente un classico per l’ispirata originalità dei passi e il raffinato rapporto fra geometrie del movimento e musica; così come Annonciation, che fa rivivere la sconvolgente apparizione dell’Angelo nell’universo di Maria; meno unitaria e un po’ dispersiva è apparsa Carmen. Fra gli interpreti più intensi, Navrin Turnbull (Kratz), Agnese di Clemente e Caterina Bianchi (Preljocaj), Domenico Di Cristo (De Bana).
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NNUMERO
Su oltre 1.000 contratti depositati, più di 100 risultano non rinnovati da oltre 10 anni, e quindi sono di fatto decaduti. Inoltre, ben 500 contratti, qualificati dai firmatari come nazionali, si applicano a meno di 500 lavoratori: un numero davvero modesto per poter parlare in senso sostanziale di contratti nazionali di lavoro. Ma adesso si cambia registro. Il 10 marzo scorso la Commissione dell’informazione di villa Lubin ha varato “l’operazione trasparenza” su oltre 150 mila testi contrattuali (tra vigenti e storici), per valutare la loro effettiva diffusione nel settore economico di riferimento. La strada imboccata dal presidente Renato Brunetta, seppur ancora sperimentale, apre una nuova fase nelle relazioni industriali del Paese che pone la “sana” contrattazione collettiva al centro delle dinamiche del lavoro, all’incrocio tra produttività e salari. Un primo passo decisivo, forse, per sconfiggere una volta per tutte il dumping contrattuale e la contrattazione al ribasso. POST SCRIPTUM
ella patria della contrattazione collettiva, delle mille sigle della rappresentanza e degli oltre mille Ccnl depositati presso l’Archivio nazionale dei contratti collettivi di lavoro del Cnel, fa un certo effetto scoprire che sono poco meno di 250 i contratti nazionali effettivamente in uso. Sono quelli genuini, sottoscritti da attori storici e più rappresentativi del complesso sistema delle relazioni industriali del nostro Paese; quelli che garantiscono tutele e salari adeguati, oltreché il rispetto delle regole del lavoro e la sua evoluzione normativa. Tutto il resto è una cortina di fumo che nasconde le sagome di presunte sigle (sindacali e datoriali) che a mala pena rappresentano sé stesse; contratti e accordi collettivi, formalmente depositati e sopravvissuti per troppi, lunghi anni negli archivi del Cnel.
di Giovanni Francavilla