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Un embrione è un figlio

di Maria Pia Sacchi*

Non c’è bisogno della scienza; non c’è bisogno della filosofia; non c’è bisogno della giurisprudenza. O meglio: tutte queste discipline, se ben esercitate, concorrono allo stesso risultato.

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Ma una è la certezza, consapevole o inconscia, che sta a monte di ogni indagine razionale: un embrione è un figlio.

Ascoltiamo la voce dei poeti che alla razionalità antepongono una voce interiore, un istinto che li porta a scrutare l’intimo e vanno diretti al cuore delle cose. Anzi, ascoltiamo in questo caso la voce delle poetesse, donne e madri, che hanno percepito in sé la vita e la descrivono quando ancora – come dice il salmista – è “formata nel segreto”.

Due in particolare ne voglio ricordare, delicate e possenti nelle immagini, e attaccate, con le unghie e con il sangue, al frutto del ventre.

«Un punto è l’embrione / un secolo di vita / che ascolta l’universo / la memoria del mondo / fin dalla creazione» scrive Alda Merini (1951-2009), la poetessa solo apparentemente visionaria, ma in realtà fortemente legata alla concretezza della vita, che pure per lei è stata densa di sofferenze. Ciononostante – o forse proprio grazie all’esperienza del dolore – avverte in profondità il valore dell’embrione: «L’uomo che nascerà / è un’eco del Signore / e sente palpitare in sé / tutte le stelle». Il testo (scritto nel 2005 in occasione del referendum sulla legge 40 e pubblicato sulla rivista “ Vita” ) prosegue con un vibrante avvertimento: «Uccidere un embrione / è negare l’Universo / è negare la musica / è negare il silenzio». Contraltare quieto e pacificato di questo testo combattivo è Terra d’amore (da Poesie d’amore), che vale la pena di leggere per intero: «Tu che nel mio grembo riposi / come un fiore che vibra alto / e diventerà terra d’amore, / io ripongo i miei occhi di fanciulla, / che per la prima volta quieta / nella vita. / Niente per una donna / è più simile al paradiso / di un figlio, / che le farà sognare l’amore / per sempre».

Una meditazione contemplativa è quanto offre a Cécile Sauvage (1883-1927) il tempo della gravidanza. Futura madre di Olivier Messiaen – musicista tra i massimi del Novecento – la poetessa intesse un colloquio intimo e ininterrotto con il figlio che ha in grembo. Commuove la tenerezza della giovane mamma in attesa, che percepisce un mistero di cui in realtà nulla di essenziale le rimane davvero nascosto: «Tu, che io vezzeggio timida dentro la mia bambagia, / piccola anima in boccio attaccata al mio fiore, / con un po’ del mio cuore io modello il tuo cuore, / o tenero mio frutto, piccola bocca madida». E ancora: «La tua carne non sai quanto ha messo radici / nel terreno materno della mia carne giovane / … / Chi lo può dire quanto io ti stringo? Tu sei / mio, quanto l’aurora la sua pianura illumina;/ e, lana calda, gira la vita mia alla tua / intorno, e freddoloso nel mio segreto cresci». C’è tutta la tenera consapevolezza del rapporto già maturo con un figlio che ancora non si vede (e Cécile Sauvage non poteva nemmeno valersi dell’ecografia…) ma che indubitabilmente esiste, è un “tu” con cui è possibile dialogare e con cui il legame d’amore e di vita è tanto naturale quanto inscindibile: «Io porto nel mio grembo un mondo in movimento:/ è la mia forza a dargli i primi pigolii». (Le poesie della Sauvage sono tratte da L’anima in boccio , Interlinea 2019).

*Già ricercatrice e docente presso il Dipartimento di Studi Umanistici - Sez. di Scienza della Letteratura e dell’Arte Medievale e Moderna, Università degli Studi di Pavia.

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