incontro maggio

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I NCONTRO PER UNA CHIESA VIVA

P AGINA 7

“La prossima vota digli che se ficesse i cazzi se’. E che rengraziesse Dio che ci sta sulu issu, de tabbaccaru”. Ma Peppe aveva voluto solo sondare il terreno; era furbo, e ci conosceva bene tutti, perciò, per arrivare alla verità, gli bastava guardarci in faccia. Non avrebbe mai forzato la vendita di una sigaretta a un ragazzino; la sua immagine, la sua dignità, avevano più importanza, per lui. Se la mia stessa richiesta l’avesse fatta Tonino Tammurrinu, non avrebbe avuto dubbi. Tonino guardava il gregge in montagna, e la mattina, prima di andarsene, sua madre gli dava un grosso pezzo di pane e dei soldi. “Va’ da Alberto Camiciola, e comprate 20 lire de mortadella”. Ma Tonino prendeva un’altra direzione, quella di Peppe: “Un’Esportazione con filtro, e una Nazionale senza filtro”. Tonino era già grandicello, e Peppe non poteva negargliele. “Eccole. Venti lire. Ma nun era meglio che te ce riempivi la trippa?” Tonino negava, ma il totale lo tradiva. Undici lire l’Esportazione, nove la Nazionale, totale venti lire precise. Niente resto, se sua madre l’avesse trovato si sarebbe insospettita. Vincenzo lu zuzzu era tirchio e scortese, e non faceva credito a nessuno. Ma la sua bottega era l’antro delle meraviglie: ci trovavi mille tipi di chiodi, chiavi e lucchetti di ogni grandezza, piatti da cucina decorati, la colla Coccoina – dal profumo così accattivante che ti veniva voglia di mangiarla – e poi mangimi, sementi, attrezzi per la campagna, coltelli multiuso che ci facevano uscire gli occhi di fuori. Monopolista, trattava tutti allo stesso modo: parla poco, paga e vattene. Ma nel paese trovi sempre la scarpa per il tuo piede. La sua Nemesi si chiamava Nicola, detto Campalacasa. Disoccupato cronico, mezzo autistico, mezzo epilettico, mezzo alcoolizzato, imprevedibile e geniale, capace di contare il quarantotto a scopa mentre parlava tranquillamente d’altro, si vendicava delle angherie di Vincenzo con la cattiveria degli sfigati. Quando aveva la luna storta, a-

spettava che arrivasse l’ora di chiusura, e proprio mentre Vincenzo metteva la chiave nella serratura, compariva davanti al negozio e si faceva riaprire. Ma era ciò che chiedeva a far imbestialire Vincenzo: cinque lire di semola per i porci, o magari tre chiodi, due lire di lupini… E aveva escogitato una vendetta ancor più diabolica: se sentiva arrivare le crisi epilettiche, durante le quali ululava come un lupo, si andava a gettare sempre sull’uscio della bottega di Vincenzo, perché, diceva, “lupi e sciacalli so’ parenti”. La croce si faceva meno pesante, ogni tanto. Un mio compagno di giochi era Umbertino, uno dei cinque figli di Menicuccia, vedova che viveva in condizioni di estrema povertà. Ci mandava a comprare quasi sempre un etto di conserva di po-

modoro e sei etti di pasta. La “conserva” di quei tempi era un grumo concentratissimo di polpa di pomodoro disseccata al sole. A volte, dopo che le avevamo riportato la “spesa”, rimanevo ad osservare Menicuccia. Metteva la conserva in un tegame di coccio, poi ci versava sopra, lentamente, dell’acqua bollente e qualche verdura rimediata, e rimestava piano. Il risultato era una misera brodaglia rossa, il sugo per la pasta dei figli. Tutti gli alimentari avevano la pasta sfusa, ma Menicuccia ci mandava a comprarla da Camiciola, dove costava meno. E la ragione c’era: Camiciola conservava la pasta dentro enormi sacchi di iuta, sui quali ogni tanto vedevi camminare i vermi o le volarelle (le tignole fasciate). E se volevi comprare una manciata di rigatoni, lui faceva un cartoccio con la carta paglia, ficcava la mano nel sacco, prendeva un

pugno di pasta e ti faceva il prezzo a occhio. La delizia, naturalmente, erano le botteghe che vendevano i dolci. Non c’era bottegante che non si fosse accorto del potere di seduzione dei primi cioccolatini e delle prime lecca-lecche. La caverna di Alì Baba era la bottega di Serafina. Perché il marito era un tipo freddo e burbero, ma ci sapeva fare. Fu lui a portare in paese la delizia più intrigante e agognata da ogni ragazzino degli anni ’50: la gomma americana. All’inizio, le nostre mamme fecero resistenza; per loro il chewing-gum era, al contempo, un vizio, una spesa inutile, un’americanata, un veleno per i denti, un appiccica-vestiti, e diavolerie del genere. Non essendo un alimento, se si dovevano spendere cinque lire, qualsiasi mamma preferiva comprare al figlio un pezzetto di cioccolato, e non quella cosa gommosa da ciancicare inutilmente per ore. Ma per noi il chewing-gum era un must, e le mamme si arresero presto. Qualche tempo dopo, sul banco di Concetta, avvolto in una dorata carta di stagnola, vedemmo un invitante panetto bicolore. Assaggiarlo e innamorarsene fu questione di attimi; crema e cioccolato che si fondevano a meraviglia, squagliandosi in bocca in un sapore pieno e armonioso. Ma restò un amore contrastato, perché la “ciucculata a tagliu” avremmo voluto mangiarla assoluta, mentre le nostre mamme si intestardivano a darcela per merenda, ficcandola tra due enormi fette di pane. I tempi erano maturi per il più intrigante dei dolci, forse il primo messaggio subliminale del nostro tempo: da Sarrafina comparvero i golosini, croccanti involucri di cioccolato a forma di mammelle, ripieni di una panna così bianca e soffice da suggerire golose e inebrianti reminiscenze infantili. E poi ci fu l’esplosione, la cuccagna, la rivincita dei genitori - a nostro vantaggio - sulla fame che avevano patito. Continua a pagina 8


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