Incontro Maggio

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Per una Chiesa Viva Anno IX - N. 4 – Maggio 2013 www.chiesaravello.it

P ERIODICO

DEL LA C OMU NITÀ E CCL ESIAL E DI RA VEL LO

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Il Papa e lo spazio digitale Reti sociali: porte di verità e di fede; nuovi spazi di evangelizzazione Domenica 12 maggio, Solennità dell’Ascensione del Signore, la Chiesa celebra la 47a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, l’unica voluta dal Concilio Vaticano II. In occasione della ricorrenza di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, il 24 gennaio u.s. Benedetto XVI ha inviato il suo messaggio per la Giornata di quest’anno, dedicata al tema "Reti Sociali: porte di verità e di fede; nuovi spazi di evangelizzazione": messaggio che collocato nel contesto dell’Anno della fede e dopo il Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione, intende esaminare un argomento attualissimo che afferisce a una delle sfide più significative dell’evangelizzazione, quella che emerge oggi dall’ambiente digitale in cui viviamo. Nel nostro tempo in cui la tecnologia tende a diventare il tessuto connettivo di molte esperienze umane, siamo invitati a riflettere sulla conoscenza dei moderni social networks di cui comunemente facciamo uso, e a porci la domanda: questi nuovi strumenti possono favorire l’evangelizzazione ed aiutare gli uomini ad incontrare Cristo nella fede? La risposta non può essere che affermativa, perché, anche alla luce delle riflessioni del Sinodo risulta chiara la sintesi che troviamo nel Messaggio del Papa: “I social networks non devono essere visti dai credenti semplicemente come uno strumento di evangelizzazione, perché la “vita dell’uomo di oggi si esprime anche nell’ambiente digitale” e conseguentemente la Rete è da abitare”. «L’ambiente digitale – scrive il Papa – non è un mondo parallelo o puramente virtuale, ma è

parte della realtà quotidiana di molte persone, specialmente dei più giovani». Lo spazio digitale non è inautentico, alienato, falso o apparente, ma è un’e­ stensione del nostro spazio vitale quotidiano, che richiede «respon­sabilità e dedizione alla verità». Abitare significa inscrivere i propri significati nello spazio. Ed è proprio questa la sfida: inscrivere i significati e i valori della nostra vita nell’ambiente digitale, e anche capire «come l’impatto che ha la Rete sul modo di pensare e di vive­re, riguarda, in qualche modo, anche il mondo della fede, la

sua in­telligenza e la sua espressione». Ovviamente, come autorevolmente è stato scritto sulla nota rivista “La Civiltà Cattolica” a firma del di P. Spadaro da cui muove questa riflessione, abitare il mondo digitale non può prescindere dalla saggezza di un adattamento non sempre facile. Questo «addomesticamento» dello spazio richiede la consapevolezza necessaria per abitare quello che i vescovi italiani hanno definito come un «nuovo contesto esistenziale». Il Papa offre un esempio della fluidità tra ambiente fisico e di­ gitale notando che le «reti possono anche aprire le porte ad altre dimensioni della

fede. Molte persone, infatti, stanno scoprendo, proprio grazie a un contatto avvenuto inizialmente on line, l’im­ portanza dell’incontro diretto, di esperienze di comunità o anche di pellegrinaggio, elementi sempre importanti nel cammino di fede. Cercando di rendere il Vangelo presente nell’ambiente digitale, noi possiamo invitare le persone a vivere incontri di preghiera o celebrazioni liturgiche in luoghi concreti quali chiese o cappelle». In questo si può dunque identificare uno dei pilastri del Mes­saggio del Papa per la 47a Giornata Mondiale delle Comunica­zioni: l’ambiente digitale non è uno spazio puramente ludico in cui si mette in gioco un secondo sé, un’identità doppia che vive di banalità effimere, come in una bolla priva di realismo fisico, di contatto reale con il mondo e con gli altri. E la sfida è chiara: vedere nella Rete uno spazio antropologico interconnesso radi­ calmente con gli altri della nostra vita. Siamo chiamati, dunque, a vivere bene sapendo che in Rete si sviluppa una parte della nostra capacità di fare esperienza. Nel suo Messaggio il Papa non parla in generale di internet nel suo complesso, cioè del mondo digitale, ma si sofferma su una sua dimensione: quella dei social networks. Ne parla perché lo sviluppo di queste reti — scrive — «sta contribuendo a far emer­gere una nuova “agorà”, una piazza pubblica e aperta in cui le persone condividono idee, informazioni, opinioni, e dove inoltre possono prendere vita nuove relazioni e forme di comunità».

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Segue dalla prima pagina Ciò che interessa al Papa in ultima analisi è sempre e comunque la comunicazione come dimensione fondamentale della vita umana. Parla dei networks sociali perché stanno plasmando il modo in cui l’uomo comunica, perché «danno forme nuove alle dinamiche della comunicazione». Ecco dunque un altro pilastro portante del Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni: la conferma che la Rete come network sociale è luogo in cui si condividono conoscenza, valori e significati dentro una rete di intelligenze tra loro in re­lazione aperta. La Rete dunque è un luogo in cui si esprime la ricerca dell’uomo, il suo desiderio di verità e i suoi interrogativi di senso. A questa ricerca, che avviene nel mondo digitale, il Papa aveva dato una interpretazione teologica già nel Messaggio del 2011: «La verità che è Cristo, in ultima analisi, è la risposta piena e autentica a quel desiderio umano di relazione, di comunione e di senso che emerge anche nella partecipazione massiccia ai vari social network». Benedetto XVI indica i rischi già ben noti che accompagnano la ricerca dell’uomo nell’ambiente digitale: la popolarità che supera la validità; l’efficacia persuasiva che vince la logica dell’argomen­tazione; il rumore delle eccessive informazioni che disperde l’at­tenzione. E tuttavia aggiunge un rischio ulteriore, che possiamo considerare quello attualmente più insidioso: quello di conversa­re soltanto con coloro che già condividono le nostre visioni. E in ­vece «dialogo e dibattito possono fiorire e crescere anche quando si conversa e si prendono sul serio coloro che hanno idee diverse dalle nostre». Sappiamo bene infatti che sia i social networks co­me Facebook, i motori di ricerca come Google o i negozi on line come Amazon, conservano le informazioni delle persone che li frequentano, e questi dati sono utilizzati per dirigere le risposte o gli aggiornamenti circa i contatti personali. Le nostre ricerche dunque non sono mai basate su criteri esclusivamente oggettivi, ma sui nostri interessi specifici. Sono orientate sul soggetto, e dunque soggetti diversi ottengono risultati differenti. Il vantaggio è immediato: arrivo subito a ciò che presumibilmente mi interessa di più perché le piattaforme digitali mi «conoscono» e

mi sugge­riscono che cosa possa attirarmi maggiormente. D’altra parte c’è un grande rischio: quello di rimanere chiusi in una sorta di «bolla» che fa da filtro a ciò che è diverso da me, per cui io non sono più in grado di accorgermi che ci sono persone, gruppi, libri, ricerche che non corrispondono alle mie idee o che esprimono un’opinione diversa dalla mia. Quindi, alla fine, io rischio di essere circondato da un mondo di informazioni che mi somigliano, e di rimanere chiuso alla provocazione intellettuale che proviene dall’alterità e dalla differenza. Il rischio è evidente: perdere di vista la diversità, aumentare l’intolleranza, chiudersi alla novità, all’imprevisto che fuoriesce dai miei schemi relazio­nali o mentali. L’altro diventa per me significativo, dunque, sol­ tanto se mi è in qualche modo simile, altrimenti non esiste. Ecco dunque che il Papa ribadisce: «Constatata la diversità culturale, bisogna far sì che le persone non solo accettino l’esistenza della cultura dell’altro, ma aspirino anche a venire arricchite da essa e ad offrirle ciò che si possiede di bene, di vero e di bello». Non si testimonia il Vangelo in Rete limitandosi a «inserire contenuti dichiaratamente religiosi sulle piattaforme dei diversi mezzi», chiudendosi alle domande vere e urgenti, ai dubbi e alle sfide degli uomini d’oggi. Al contrario il Papa ribadisce la necessità di essere disponibili «nel coinvolgersi pazientemente e con rispetto nelle loro domande e nei loro dubbi, nel cammino di ricerca della verità e del significato dell’esistenza umana». Sembrano risuonare qui le parole di Paolo VI, che nella enciclica Ecclesiam suam del 1964 si chiedeva retoricamente: «Al Concilio stesso non s’è voluto dare, e giustamente, uno scopo pastorale, tutto rivolto all’inserimento del messaggio cristiano nella circola­zione di pensiero, di parole, di cultura, di costume, di tendenze dell’umanità, quale oggi vive e si agita sulla faccia della terra? An­cor prima di convertirlo, anzi per convertirlo, il mondo bisogna accostarlo e parlargli» (n. 70). Occorre dunque superare la logica degli steccati, delle con­trapposizioni, dei gruppi chiusi e autoreferenziali che alla fine paradossalmente la Rete rischia di fomentare. E «il coinvolgimento autentico e interattivo con le domande e i dubbi di coloro che sono lontani dalla fede ci

deve far sentire — prosegue Benedetto XVI — la necessità di alimentare con la preghiera e la riflessione la nostra fede nella presenza di Dio, come pure la nostra carità operosa». Ecco, dunque, il terzo pilastro fondante del Messaggio del Pa­pa: l’invito a non costruire isole o «ghetti», l’appello a essere coinvolti in maniera immersiva e interattiva nei dubbi e nelle domande degli uomini di oggi, a condividere la ricerca di ogni uomo. La Rete deve essere un luogo di dialogo aperto, di riconoscimento della diversità culturale e delle differenze. La disponibilità a interagire con le istanze della contemporaneità fa sentire all’uomo di fede la necessità di pregare di più e ad approfondire meglio la conoscenza della fede. A questo invito si unisce quello ad evitare che si levino «voci dai toni troppo accesi e conflittuali» che rispondono alle logiche di una comunica­zione nella quale vince chi urla di più o chi è più seduttivo. Viene evocato invece il profeta Elia che «riconobbe la voce di Dio non nel vento impetuoso e gagliardo né nel terremoto o nel fuoco, ma nel sussurro di una brezza leggera (1 Re 19, 11-12)». La riflessione sulla comunicazione che la Chiesa sta portando avanti in questi anni si interroga non su tecniche e modelli, ma sulla vita dell’uomo al tempo in cui l’esperienza nell’ambiente di­gitale ha impatto più generale sulla percezione della realtà, di noi stessi e della nostra vita di relazione. In particolare quest’anno il Pontefice nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale delle Co­municazioni lancia l’invito a considerare come l’ambiente digitale non sia un mondo parallelo, ma sia parte della realtà quotidiana di molte persone, specialmente dei più giovani. Proprio in questo ambiente di relazioni aperte si condividono conoscenza, valori e significati che esprimono la ricerca dell’uomo e i suoi interro­gativi di senso. Da qui l’invito chiaro e autorevole ai cristiani a coinvolgersi in maniera autentica e interattiva con le domande e i dubbi che gli uomini esprimono nel loro cammino di ricerca della verità, che il credente riconosce in Cristo. A cura di Don Giuseppe Imperato


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L'Ascensione, un evento storico Proseguendo nelle catechesi sul Credo per l'Anno della fede, iniziate da Benedetto XVI, Papa Francesco ha commentato nell'udienza generale del 17 aprile l’affermazione che Gesù «è salito al cielo, siede alla destra del Padre», seguendo il testo dell'evangelista San Luca, e insistendo più volte - riprendendo un tema caro a Benedetto XVI - che l'Ascensione non è un mero simbolo, ma un «fatto», un «evento» che si è realmente verificato nella storia e di cui gli Apostoli sono stati testimoni diretti. San Luca riferisce: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli (Gesù) prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51). L'Ascensione sta in uno stretto rapporto con la Crocifissione. Gesù crocifisso e glorificato ascende al Cielo perché è anzitutto «asceso» alla croce. «Mentre "ascende" alla Città santa, dove si compirà il suo "esodo" da questa vita, Gesù vede già la meta, il Cielo, ma sa bene che la via che lo riporta alla gloria del Padre passa attraverso la Croce, attraverso l’obbedienza al disegno divino di amore per l’umanità». Il Catechismo della Chiesa Cattolica c'insegna che «l’elevazione sulla croce significa e annuncia l’elevazione dell’ascensione al cielo» (n. 661). Questo collegamento fra Ascensione e Crocifissione non è una semplice curiosità storica. «Anche noi dobbiamo avere chiaro, nella nostra vita cristiana, che l’entrare nella gloria di Dio esige la fedeltà quotidiana alla sua volontà, anche quando richiede sacrificio, richiede alle volte di cambiare i nostri programmi». Un secondo spunto di meditazione riguarda il luogo dove avviene l'Ascensione, che non è casuale. «L’Ascensione di Gesù avvenne concretamente sul Monte degli Ulivi, vicino al luogo dove si era ritirato in preghiera prima della passione per rimanere in profonda unione con il Padre». Anche noi, se vogliamo ascendere a Dio, dobbiamo necessariamente passare per la preghiera: «Ancora una volta vediamo che la preghiera ci dona la grazia di vivere fedeli al progetto di Dio». Un terzo spunto si riferisce alle modalità dell'Ascensione. San Luca le descrive così: Gesù condusse i

discepoli «fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (24,50-53). In questo racconto ci sono, spiega il Papa, due elementi. Anzitutto, «durante l’Ascensione Gesù compie il gesto sacerdotale della benedizione e sicuramente i discepoli esprimono la loro fede con la prostrazione, si inginocchiano chinando il capo». Si tratta di

un elemento simbolico di grande rilievo. Ci ricorda che «Gesù è l’unico ed eterno sacerdote che con la sua passione ha attraversato la morte e il sepolcro ed è risorto e asceso al Cielo; è presso Dio Padre, dove intercede per sempre a nostro favore». In quanto intercede, mentre è sacerdote Gesù è anche avvocato, secondo l'espressione che san Giovanni usa nella sua Prima Lettera e che il Papa commenta citando, come fa spesso, le insidie molto reali del demonio. «Egli è il nostro avvocato: che bello sentire questo! Quando uno è chiamato dal giudice o va in causa, la prima cosa che fa è cercare un avvocato perché lo difenda. Noi ne abbiamo uno, che ci difende sempre, ci difende dalle insidie del diavolo, ci difende da noi stessi, dai nostri peccati!». È raro però che l'avvocato venga da noi. Siamo noi che dobbiamo andare da lui. «Carissimi fratelli e sorelle - ha implorato ancora una volta Papa Francesco -, abbiamo questo

avvocato: non abbiamo paura di andare da Lui a chiedere perdono, a chiedere benedizione, a chiedere misericordia! Lui ci perdona sempre, è il nostro avvocato: ci difende sempre! Non dimenticate questo!». La lezione dell'Ascensione, allora, è che anche noi possiamo salire in alto, ma solo se rimaniamo legati a Gesù. «Lui è come un capo cordata quando si scala una montagna, che è giunto alla cima e ci attira a sé conducendoci a Dio. Se affidiamo a Lui la nostra vita, se ci lasciamo guidare da Lui siamo certi di essere in mani sicure, in mano del nostro salvatore, del nostro avvocato». Il secondo elemento del racconto di san Luca emerge quando l'evangelista riferisce che gli Apostoli, dopo aver visto l'Ascensione, tornarono a Gerusalemme «con grande gioia». «Questo - commenta il Pontefice - ci sembra un po’ strano. In genere quando siamo separati dai nostri familiari, dai nostri amici, per una partenza definitiva e soprattutto a causa della morte, c’è in noi una naturale tristezza, perché non vedremo più il loro volto, non ascolteremo più la loro voce, non potremo più godere del loro affetto, della loro presenza. Invece l’evangelista sottolinea la profonda gioia degli Apostoli». Ma questa reazione apparentemente singolare si manifesta «proprio perché, con lo sguardo della fede, essi comprendono che, sebbene sottratto ai loro occhi, Gesù resta per sempre con loro, non li abbandona e, nella gloria del Padre, li sostiene, li guida e intercede per loro». San Luca riferisce il fatto dell’Ascensione due volte. Lo fa anche all’inizio degli Atti degli Apostoli, «per sottolineare che questo evento è come l’anello che aggancia e collega la vita terrena di Gesù a quella della Chiesa». E negli Atti c'è anche un altro elemento: san Luca «accenna anche alla nube che sottrae Gesù dalla vista dei discepoli, i quali rimangono a contemplare il Cristo che ascende verso Dio (cfr At 1,9-10)» e a «due uomini in vesti bianche che li invitano a non restare immobili a guardare il cielo, ma a nutrire la loro vita e la loro testimonianza della certezza che Gesù tornerà nello stesso modo con cui lo hanno visto salire al cielo (cfr At 1,10-11)».

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Il Santo Rosario preghiera della pace e della famiglia

Qui troviamo, ancora, la descrizione di un evento senza dubbio storico ma che insieme invita a meditare sul tema cruciale della relazione fra contemplazione e azione. C'è in questo brano «l'invito a partire dalla contemplazione della Signoria di Cristo, per avere da Lui la forza di portare e testimoniare il Vangelo nella vita di ogni giorno: contemplare e agire, ora et labora insegna san Benedetto [480-547], sono entrambi necessari nella nostra vita di cristiani». Se ne guardiamo tutto gli elementi con uno sguardo riassuntivo, ha concluso il Papa, «l’Ascensione non indica l’assenza di Gesù, ma ci dice che Egli è vivo in mezzo a noi in modo nuovo; non è più in un preciso posto del mondo come lo era prima dell’Ascensione; ora è nella signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, vicino ad ognuno di noi». È un'informazione su un evento storico, ma è anche un'indicazione per la nostra vita di fede. «Nella nostra vita non siamo mai soli: abbiamo questo avvocato che ci attende, che ci difende. Non siamo mai soli: il Signore crocifisso e risorto ci guida; con noi ci sono tanti fratelli e sorelle che nel silenzio e nel nascondimento, nella loro vita di famiglia e di lavoro, nei loro problemi e difficoltà, nelle loro gioie e speranze, vivono quotidianamente la fede e portano, insieme a noi, al mondo la signoria dell’amore di Dio, in Cristo Gesù risorto, asceso al Cielo, avvocato per noi». È la Chiesa, in cammino nella storia.

A cura di Massimo Introvigne

Noi ci rivolgiamo a Maria, meditando e pregando, perché ci aiuti a partecipare ai misteri della vita, morte, risurrezione di Cristo. Sono i misteri che si attualizzano a nostra salvezza nella celebrazione Eucaristica e noi chiediamo alla sua materna intercessione che si compiano in pienezza «nell’ora della nostra morte». Esso ha origini antichissime. Sembra infatti che risalga al XII secolo, quando già da tempo era recitato dai monaci Certosini. Diffusosi rapidamente nella Chiesa, il Rosario venne ben presto regolato, riconosciuto ufficialmente e raccomandato ai fedeli da Sommi Pontefici. Il Papa che per primo ne determinò ufficialmente la fisionomia essenziale, gli conferì il carisma ecclesiale, rilevò i suoi pregi e lo raccomandò quindi al popolo di Dio, fu il domenicano San Pio V. Di Pio XII è la famosa definizione: “il Rosario è sintesi di tutto il Vangelo, meditazione dei misteri del Signore, sacrificio vespertino, corona di rose, inno di lode, preghiera della famiglia, compendio di vita cristiana, segno sicuro del favore celeste, presidio per l’attesa salvezza”. Pace e Famiglia: sono questi, per il Beato Giovanni Paolo II, due ambiti particolari in cui la preghiera del Rosario si rivela capace di “far sperare in un futuro meno oscuro”. “Il Rosario è preghiera orientata per sua natura alla pace”, scrive Giovanni Paolo II nella citata Lettera apostolica del 2002, “anche per i frutti di carità che produce”, tra cui il “desiderio di accogliere, difendere e promuovere la vita, facendosi carico della sofferenza dei bambini in tutte le parti del mondo”; di “testimoniare le beatitudini nella vita di ogni giorno”; di “farsi ‘cirenei’ in ogni fratello affranto dal dolore o schiacciato dalla disperazione”. Di diventare, in una parola, “costruttori della pace nel mondo” e di “sperare che, anche oggi, una ‘battaglia’ tanto difficile come quella della pace possa essere vinta”. Altro versante critico del nostro tempo, per il quale Giovanni Paolo II chiede un supplemento di impegno, è quello della famiglia. Il rilancio del Rosario nelle famiglie cristiane, nel quadro di una più larga Pastorale Familiare, può

costituire, secondo il Papa, un’ottima occasione per: alimentare la preghiera familiare tanto importante anche oggi; affidare alla preghiera del Rosario l’itinerario di crescita dei figli; aiutare i genitori a colmare la distanza culturale tra le generazioni; riscoprire il valore del silenzio; favorire lo stare insieme e il comunicare nella preghiera fra i vari membri della famiglia. Molti problemi delle famiglie dipendono dal fatto che diventa sempre più difficile comunicare. Non si riesce a stare insieme e magari i rari momenti dello stare insieme sono assorbiti dalle immagini di un televisore. Riprendere a recitare il Rosario in famiglia significa immettere nella vita quotidiana ben altre immagini, quelle del mistero che salva: l'immagine del Redentore, l'immagine della sua Madre Santissima. Bisogna tornare a pregare in famiglia. La famiglia che prega unita, resta unita. Il Santo Rosario, per antica tradizione, si presta particolarmente ad essere preghiera in cui la famiglia si ritrova. Pregare col Rosario per i figli e con i figli, educandoli fin dai teneri anni a questo momento giornaliero di « sosta orante » della famiglia, non è, certo, la soluzione di ogni problema, ma è un aiuto spirituale da non sottovalutare:- contemplando la nascita di Gesù si impara la sacralità della vita, guardando alla casa di Nazareth si apprende la verità originaria sulla famiglia, seguendo Gesù sulla via del Calvario si impara il senso del dolore, - contemplando Cristo e sua Madre nella gloria si vede il traguardo a cui ciascuno di noi è chiamato. Ripensando alle prove che non mancano mai, si ribadisce, quasi come un caldo invito rivolto a tutti perché ne facciano personale esperienza: sì, davvero il Rosario « batte il ritmo della vita umana », per armonizzarla col ritmo della vita divina.


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A Ravello la presentazione del testo inedito del Beato Giovanni Paolo II “Un Papa non si improvvisa”, è con queste parole che Padre Gianfranco Grieco, Capoufficio del Pontificio Consiglio per la famiglia, ha iniziato la sua relazione sull’inedito di Giovanni Paolo II Costruire la casa sulla roccia. L’opera, pubblicata dall’Editrice Punto Famiglia per la prima volta in Italia dopo 50 anni, è stata presentata nel Duomo di Ravello, sabato 13 aprile, dalla voce di tre autorevoli personalità del mondo cattolico, il sopracitato Padre Gianfranco Grieco, Padre Edoardo Scognamiglio e Don Silvio Longobardi. Era il 1960 quando l’allora vescovo di Cracovia, Don Karol Wojtyla, seguì da vicino un gruppo di fidanzati in procinto di matrimonio; dall’incontro dei cuori, nacquero le splendide meditazioni che oggi compongono questo libricino di appena 80 pagine, ricche di saggezza e di verità. La gente può urlare Napoli For ever! dice il Capoufficio del Pontificio Consiglio, ma non è più in grado di pronunciare un per sempre, nella ferma convinzione che lo sia davvero. Da qui la prima vera missione dell’opera, aiutare le famiglie ferite a riscoprire il senso dell’amore coniugale. La bellezza perduta della prima ora. Il senso della comunione, non dei beni, ma dei sensi. Con l’autorevolezza che gli compete dall’alto della sua esperienza a diretto contatto con gli sposi della prima o dell’ultima ora, Padre Gianfranco invita a recuperare il linguaggio wojtylano dell’amore, quando parla ad esempio di onestà coniugale e soprattutto sollecita ad un vero e proprio cammino per fidanzati. Non basta il semplice corso dice con energia e profonda convinzione, è necessario un percorso lungo e intenso, che aiuti le giovani coppie a prendere coscienza nel tempo, dell’importanza del matrimonio in cui Dio è chiamato ad essere testimone. Uno scroscio d’applausi da una platea capeggiata da Don Giuseppe Imperato, alla cui disponibilità e gentilezza si deve la realizzazione

della serata, e la parola passa a Padre Edoardo Scognamiglio, illustre teologo e Provinciale del frati conventuali. Egli, giovane e determinato, lascia subito intravvedere una preparazione forte che parte dall’osservazione critica della realtà del mondo contemporaneo per trarne un insegnamento cristiano. La famiglia oggi è costretta ad affrontare alcune sfide insidiose che tendono a minare le radici stesse del matrimonio, inizia e poi ne elenca alcune: la secolarizzazione, il progressivo svuotamento del matrimonio del suo valore sacramentale. La sfida culturale che riduce l’amore ad un vacuo sentire, eterno finché dura. Ma ancora la globalizzazione, la manipolazione genetica, il rimpianto. La famiglia nella società di questo tempo non è supportata e in questo solco Padre Edoardo, inscrive l’opera di Wojtyla, uno strumento diretto ed incisivo, atto a recuperare il valore fondamentale del contribuito che l’opera della famiglia può dare alla società. È esattamente così che Padre Edoardo conclude la sua relazione citando la Familiaris Consosrtio al n 86 L’Avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia. Costruire la casa sulla roccia, è quindi una parola viva del Papa Beato, venuta a ricordare alle famiglie cristiane di non essere spettatrici inermi nella storia di Dio, ma protagoniste della stessa. Nella relazione che apre il dibattito, Don Silvio Longobardi, direttore editoriale dell’Editrice Punto Famiglia, ripercorre tutto il lavoro che Papa Giovanni Paolo II fece quando era ancora lontano dal soglio pontificio, ispirato dallo Spirito e aiutato dall’esperienza concreta a diretto contatto con sposi credenti, impegnati a costruire il Regno di Dio, e uniti nella Grazia di Gesù Cristo.

Ida Giangrande

Trentennio del Centro Universitario Europeo

Il 20 aprile scorso si è celebrato a Ravello il trentennale delle attività svolte dal Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali, che ha sede in Villa Rufolo. Il Centro, voluto dal Consiglio d’Europa nel 1983, rappresenta un polo di eccellenza in fatto di ricerca nell’ambito dei beni culturali, soprattutto per quanto riguarda la tutela e la valorizzazione del patrimonio monumentale e di quello immateriale. Grazie, infatti, alle numerose collaborazioni con Università italiane e straniere e con gli altri centri di ricerca, in questi anni il Centro Universitario Europeo ha offerto a studenti, studiosi e decisori politici occasioni di confronto sui temi più importanti in ambito culturale. Negli ultimi anni, per esempio, il problema del cambiamento climatico è stato oggetto di un corso seminariale che si svolge a Ravello rivolto a chi è impegnato nella tutela dei monumenti nell’ottica delle ricadute climatiche negative sui materiali. Altro ramo di ricerca è quello della prevenzione del rischio sismico dell’edificato storico, cioè di quelle strutture che pur non essendo monumenti rivestono un’importanza scientifica nello studio delle tecniche costruttive locali. Stretta è al collaborazione con le scuole del comprensorio della Costiera Amalfitana, ai cui alunni è stata offerta l’occasione in varie circostanze di partecipare a progetti nazionali ed internazionali per acquisire un approccio più maturo con il proprio territorio.

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Segue da pagina 5 Ultimi in ordine di tempo il progetto PaUPaN (Patrimonio dell’Umanità, Patrimonio Nostro), che ha fornito ai ragazzi gli strumenti per riconoscere nel territorio abitato i segni della trasformazione operata nell’antichità e le caratteristiche di questo sistema territoriale che viene tutelato dall’UNESCO come paesaggio culturale, ed il progetto GIS, che, attraverso i nuovi strumenti informatici, ha introdotto i ragazzi ad uno studio della geografia al passo con i tempi. Sempre annuale è l’appuntamento con i colloqui internazionali “Ravello Lab” che riuniscono i maggiori rappresentanti del mondo della cultura e dell’economia per discute-

re di come trasformare la cultura in un volano di sviluppo economico sostenibile. Una biblioteca piccola ma molto fornita, soprattutto di testi internazionali, è aperta al pubblico e accoglie anche uno dei rari archivi d’impresa che si trovano in Costiera: l’archivio dello storico albergo Caruso e dell’omonima cantina. La celebrazione del trentennale si è aperta con la liturgia eucaristica, presieduta da Padre Giulio Cipollone, professore presso l’Università Gregoriana di Roma, e concelebrata da Mons. Josè Manuel Del Rio Carrasco, Sottosegretario del Pontificio Consiglio della Cultura, e da Padre Francesco Capobianco, direttore della Biblioteca del Convento di S. Francesco. Durante la liturgia sono stati ricordati tutti i membri del Comitato Scientifico e del Consiglio d’Amministrazione defunti. Il momento commemorativo delle attivi-

I NCONTRO PER UNA CHIESA VIVA tà è continuato presso l’Auditorium di Villa Rufolo dove in una cornice di grande familiarità, che è poi l’atmosfera che caratterizza tutte le attività del Centro Universitario, hanno preso la parola vari membri del Comitato Scientifico per ricordare la storia di una realtà culturale che, se pure poco conosciuta dai ravellesi, ha vantato e vanta nel Comitato Scientifico studiosi di fama internazionale. Ha coordinato gli interventi il Senatore Alfonso Andria, presidente in carica del Centro, e tra i numerosi contributi quello che sicuramente ha coinvolto anche emotivamente gli intervenuti è stato quello del Senatore Mario Valiante, testimone delle fasi di creazione di questa realtà culturale, quando nel Consiglio

d’Europa si doveva decidere dove aprire il centro di ricerca internazionale sui beni culturali, e già presidente del Centro. Il Presidente in carica ha, invece, non solo ringraziato quanti nel corso dei trent’anni hanno collaborato alle attività, ma ha anche sottolineato come la crisi economica che sta coinvolgendo tutta la realtà mondiale abbia colpito principalmente la cultura e non ha risparmiato neppure il Centro Universitario. Naturalmente l’auspicio, ha ribadito il Senatore Andria, non è solo quello di poter continuare per tanti anni ancora l’attività di ricerca e di sensibilizzazione ma anche quella di essere sempre più in grado di fornire gli strumenti che trasformino la cultura in un elemento di crescita umana ed economica delle persone.

Maria Carla Sorrentino

Celebrare e festeggiare i Sacramenti Celebrare un Sacramento ai giorni nostri viene associato ad “ una festa”. La parola festa è sinonimo di mettersi a tavola .E’ vero si deve far festa perché i nostri fanciulli per la prima volta incontreranno Gesù tanto vicino che andrà ad abitare nei loro cuori . Mi chiedo però, distratti come sono dai mille preparativi, questi ragazzi e le loro famiglie non corrono il pericolo di fare festa senza il “ Festeggiato, senza Gesù ,il “ Protagonista”? Un invito,allora, è soprattutto rivolto ai genitori di “celebrare“, non di “festeggiare” i Sacramenti che riceveranno i loro figli. La parola sacramento deriva dalla parola latina sacramentum che a sua volta nasce dalla parola greca mysterion . Non pensate a chissà quale mistero. Nelle Sacre Scritture, la parola mysterion è “ il progetto, il disegno di Dio sulla vita del mondo e di ogni uomo , un progetto di salvezza che si realizza nel vivere in comunione con Dio, da figli di Dio. I Sacramenti sono < dei doni speciali > amministrati dalla Chiesa, Sacramento di Unità , Essi elargiscono esperienze uniche , collocati nei momenti cruciali della vita aiutano ad instaurare e ad intensificare la comunione con Dio e a creare una più intensa e personale confidenza .” I Sacramenti proclamano in modo tangibile la Grazia di Dio, perciò non vanno sciupati ma valorizzati per rendere più felice la vita dei vostri figli e la vostra .Una vita felice sta solo nell’amicizia con Dio! Celebrare un Sacramento ,allora significa crederci .Voi genitori dovete crederci fino in fondo ed investire quanto più è possibile sulla loro educazione, sul loro cammino di fede. Non basta assicurare solo il benessere materiale , farli vivere bene significa accompagnarli anche nella crescita interiore attraverso la forza persuasiva dell’amore, attraverso un ascolto costante ed efficace delle loro emozioni, un ascolto “ fatto con il cuore” , con l’esempio della vostra vita , con la testimonianza di una fede


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che li porti a scoprire ed apprezzare la “ bellezza del Creato”. Cari papà e care mamme la Prima Comunione, la Prima Penitenza, non sono altro che una tappa del cammino che avete promesso di percorrere insieme ai vostri figli il giorno del loro Battesimo, è un cammino che non si ferma, essi vanno aiutati soprattutto da voi a crescere “in sapienza , età e grazia”, così come Maria aiutava Gesù a crescere . Dovete accompagnarli nella preghiera , nell’ascolto della Parola , alla partecipazione ai Sacramenti ed aiutarli a vivere l’appartenenza alla Comunità. La responsabilità di trasmettere la fede da parte di voi genitori non finisce con la celebrazione della Messa di Prima Comunione ! Forse è questo il vero dilemma per cui i ragazzi, ricevuta la Prima Comunione si allontanano dalla Comunità, perché i genitori innanzitutto sono convinti di aver esaurito il loro compito di “ educatori alla fede”. Un ulteriore invito è di non scoraggiarvi mai di essere “ genitori cristiani” che sanno parlare ai figli della fede attraverso il loro volersi bene nel Signore, l'amarsi con carità, obbedendosi l'un l'altro, dandosi fiducia reciproca. I figli ,respirando un sano ambiente affettivo, si apriranno fiduciosi alla vita, agli altri, a Dio e matureranno nella fede. Il cardinal Martini ha saputo ben incoraggiare con queste parole : “Educare è una Grazia che il Signore vi fa: accoglietela con gratitudine e senso di responsabilità. Talora richiederà pazienza e amabile condiscendenza, talora fermezza e determinazione, talora in una famiglia capita di litigare e di andare a letto senza salutarsi; ma non perdetevi d’animo, non c’è niente di irrimediabile per chi si lascia condurre dallo Spirito di Dio”. Come catechista dei vostri figli in quest’ultimo anno, posso assicurare che essi sono ormai consapevoli che la Domenica è il Giorno del Signore e che ogni cristiano di Domenica in Domenica deve partecipare pienamente alla Celebrazione ricevendo il Corpo di Gesù ; vi chiedo ancora di aiutarmi a non far disperdere in loro questa consapevolezza ! In ultimo , certi che nel nostro cammino non siamo soli affidiamo al Padre questi fanciulli che ha donato a voi ma anche alla Comunità e chiediamo che attraverso l’azione dello Spirito doni loro la Gioia del cuore che solo Gesù può dare. Giulia Schiavo

La forza delle donne Il 14 Febbraio scorso è stata una giornata molto speciale, si e’ celebrato “ONE BILLION RISING” LA DANZA DELLE DONNE DI OGNI ANGOLO DEL MONDO, in nome della consapevolezza e della solidarietà, protestando contro lo scandalo della violenza contro le donne e celebrando la volontà di mettervi fine. “Un miliardo di donne che ballano è una rivoluzione. Ballare significa libertà del corpo, della mente e dell’anima. È un atto celebrativo di ribellione, in antitesi con le forme oppressive delle costrizioni patriarcali”. L’iniziativa ha suscitato grande curiosità e attenzione da parte dei media di tutto il mondo. Per diffonderla è stato realizzato anche un video dal titolo “Break the Chain” (Rompere le catene). Migliaia di organizzazioni in tutto il mondo hanno aderito: da Amnesty International a Equality Now, mentre si allunga di giorno in giorno la lista di testimonial d ’eccezion e che supportano la campag n a: oltre Robert R e d ford, Yoko Ono, Naomi Klein, Jane Fonda, Laura Pausini, è arrivata negli ultimi mesi l’adesione del Dalai Lama, di Anne Hathaway, di Berenice King (figlia Martin Luther King) e di Michelle Bachelet, ex Presidente del Cile e oggi responsabile di UN Women. Donne bianche e nere, donne con gli occhi a mandorla, neri come la pece e blu come il cielo, donne, tutte, che hanno scelto questa giornata per gridare al mondo che non ne possono più. Che non vogliono più essere vittime di violenza. Forse non saranno state un miliardo. Probabilmente non si saprà mai quante erano davvero. Poco conta, a dire il vero. Certo erano tantissime, in ogni angolo del mondo. Un’onda umana e danzante mai vista prima d’ora. Era emozionante sentirle gridare “we rise” con un dito alzato verso il cielo(il 14 feb-

braio ad Hong Kong ho visto centinaia di donne delle Filippine, della Malesia, dell’Indonesia ed altri stati asiatici ballare insieme celebrando l’One Billion Raising day. Come me anche altri uomini presenti hanno alzato il dito al cielo insieme a loro). Si sollevano, loro, donne di ogni angolo del mondo! Si sollevano per tutte quelle donne che non si possono sollevare. Per tutte quelle donne che subiscono violenza travestita da amore, che si piegano sotto i colpi di un marito che non ha rispetto, di un padre senza cuore, di un uomo ubriaco. Per quelle che non possono mai alzare lo sguardo, che ancor meno possono dire la loro. Per quelle che non possono andare a scuola, che si sposano bambine, che vengono offese sul posto di lavoro, La violenza sulle donne è una questione che riguarda TUTTI, uomini e donne, nessuno escluso. Dal l ’In d ia, passando per il Medio Oriente, fino all’Italia, gli Stati Uniti fino alla Groenlandia e ritorno. Solo dalla seconda metà del ‘900 il rispetto verso il ruolo della donna nella società cresce notevolmente.. Conquista la sua libertà e la sua indipendenza economica, giuridica, politica, sessuale: diventa un individuo a pieno titolo, una cittadina moderna proiettata verso la modernità . Questo lo si deve sia alla crescita culturale delle nuove generazioni , sia anche agli sforzi di personaggi di caratura morale mondiale che con coraggio ed umiltà promuovono eguaglianza ed eguali diritti per tutti. Un esempio su tutti: “Papa Giovanni Paolo II il 10 luglio 1995 inviò una lettera destinata «ad ogni donna» in cui chiedeva perdono per le ingiustizie compiute verso le donne nel nome di Cristo, la violazione dei diritti femminili e per la denigrazione storica delle donne”.

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Segue da pagina 7 Ma, nonostante questi esempi, oggi, all’alba del millennio le donne hanno ancora molta strada da percorrere per affermare la loro femminilità e quelle qualità che hanno sempre dimostrato nel corso della storia : forza, equilibrio, passione, intelligenza, coraggio, abilità intellettive e manuali. Esempio importante dell’emancipazione della donna in questa nuova era arriva dall’India dove le donne, a partire dagli anni Novanta, sono uscite dal loro isolamento dentro case e famiglie, vittime di una società settaria, per aggredire il mondo del lavoro e dell’economia con la loro intraprendenza. Gli esempi sono numerosi: le giovani donne indiane con la potenza del loro lavoro sono da alcuni decenni un antidoto alla crisi economica perché credono nelle proprie capacità imprenditoriali e nella solidarietà. Molte hanno iniziato dando vita alla bottega dietro casa dove confezionano vestiti e gioielli destinati all’esportazione nel resto del mondo. O come in Bangladesh dove un solo uomo, Muhammad Yunus, ha dato una mano a un gruppo di donne povere lavoratrici facendole uscire dalla loro condizione miserevole: negli anni Settanta dopo una forte carestia si è recato nel villaggio di Jobra e ha offerto loro un piccolo credito finanziario, che le grandi banche non avrebbero mai concesso, per far vivere le loro piccole imprese. Ha finanziato le loro attività artigianali dedicate alla lavorazione di mobili in bambù, dando vita a quell’esperienza straordinaria del microcredito della Grameen Bank che gli ha fatto meritare il Premio Nobel per la pace 2006. La Grameen Bank oggi ha 1.084 filiali in cui lavorano 12.500 persone. I clienti in 37.000 villaggi sono 2.100.000, per il 94 per cento donne. L'organizzazione non è in perdita: il 98 per cento dei prestiti viene restituito. Le donne sono forti e tengono le redini della famiglia e del lavoro. Una doppia fatica che richiede energie, impegno, efficienza, senso del dovere. Ma a volte tutto ciò sembra non bastare. Perché a questo si aggiunge la fatica di "sfondare" un mondo che è ancora molto maschile nelle sue richieste e pretese. Una società che chiede ancora alle donne di "portare i pantaloni" quan-

do è ormai tempo di indossare con orgoglio la gonna e di sfruttare tutte le capacità che sono racchiuse nel ruolo femminile, e le sono proprie da sempre. Il significato della parola “forza” relativa alle qualità di un individuo è stato spesso associata , erroneamente ,alla prestanza fisica. Le donne ci insegnano invece che la forza di una persona si misura dal grado di rispetto che ha verso i più deboli, dall’attenzione che ha verso le minoranze, dal valore dei propri principi, dalla capacità di mettere il cuore in quello che fa. Le donne hanno una forza che noi uomini non potremo mai eguagliare. Usare la violenza per sopperire alle nostre mancanze è l’errore più grande che nel corso dei millenni la storia ha sempre, costantemente dimostrato a noi uomini .

Marco Rossetto

Ma ‘ndo vai, co’ quer fisico

Olimpiadi di Tokyo 1964. Ho solo otto anni, ma il virus della passione per l’atletica leggera mi ha già contagiato. Sono davanti alla tv, accanto a mio padre, per seguire la finale della gara regina dell’atletica, i 100 metri piani. In lizza per la vittoria, annuncia il telecronista, sono il cubano Figuerola, il canadese di colore Jerome e lo statunitense Hayes, ventunenne gigante nero di Jacksonville, Florida. Jerome e Figuerola sono due velocisti molto agili, con una struttura longilinea e una corsa bella e fluida. Bob Hayes è un atleta massiccio e potente: è alto 1,83 e pesa 86 kg. Le possenti masse muscolari sembrano quasi imprigionarlo nella fase di riscaldamento, durante la quale gli avversari si mostrano molto più sciolti e scattanti. Al comando di un giudice, i

velocisti vanno sui blocchi, e nel totale silenzio dello stadio lo starter fa esplodere il colpo di pistola. Hayes, che corre in 1^ corsia, è fra i più lenti a mettersi in moto, ma dopo qualche decina di metri le sue leve massicce cominciano a mordere il terreno con potenza devastante, mentre le braccia mulinano nell’aria come stantuffi, accompagnando le gambe nella conquista della massima velocità. Le telecamere giapponesi si soffermano sulla faccia dello statunitense, che pare esprimere la feroce determinazione di dimostrare che la scioltezza e l’eleganza non possono nulla contro una macchina costruita al servizio della potenza. Dopo dieci secondi netti, Hayes spezza il filo di lana, eguagliando (con cronometraggio elettronico) il record mondiale, stracciando quello olimpico, e facendo dire a Jesse Owens, il nero che a Berlino aveva umiliato Adolf Hitler: “E’ il più grande sprinter di ogni tempo”. “Non so se rivedremo una gara così spettacolare”, commentò mio padre. Sbagliava, per fortuna; la manifestazione più eclatante della velocità dell’essere umano, il più grande tributo al gesto atletico della corsa veloce, doveva ancora arrivare. Quattro anni dopo l’annichilente prova di Hayes, ero di nuovo davanti al video, per seguire la finale dei 200 metri piani delle Olimpiadi di Città del Messico 1968. I cento metri, che avevano visto schierati ai blocchi solo uomini di pelle nera, avevano già regalato grandi emozioni, col record mondiale ed olimpico del vincitore, lo statunitense Jim Hines. Favoriti nella gara dei 200 sono ugualmente due atleti degli USA, John Carlos e Tommie Smith, e il bianco australiano Peter Norman. Il pronostico è incerto; Carlos è più potente degli altri due; Norman è un atleta dalla corsa regolare ed estremamente redditizia; Smith, fisico statuario, ha leve lunghe e nervose, ed è meno veloce nella fase di avvio. Le potenzialità di questo formidabile atleta sono ancora inesplorate: in un meeting svoltosi negli USA, cimentatosi quasi per scherzo nel giro di pista, che non è la sua specialità, si è lasciato alle spalle fuoriclasse come Evans, James e Freeman, ovvero i migliori quattrocentisti del mondo! Parte la corsa, e prima dell’uscita dalla curva le posizioni non sono chiare; quando gli atleti imboccano il rettilineo finale, Carlos è nettamente


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in testa, e sembra avviato a una sicura vittoria. Ma a questo punto succede qualcosa di prodigioso; come sospinto da un vento soprannaturale, Tommie Smith, senza sforzo apparente, cambia marcia, sprigionando una potenza e al tempo stesso una naturalezza di corsa inaudite. Con falcate ampie e armoniose semina in poche decine di metri tutti gli avversari, e piomba sul traguardo in piena scioltezza, sorridendo e alzando le braccia al cielo. E’ un gesto splendido, iconico, che rimarrà nell’immaginario della storia sportiva dell’uomo, e che dà ancor più valore a una prestazione già di per sé straordinaria; rallentando vistosamente negli ultimi metri, e sollevando le braccia in segno di vittoria, Tommie Smith ha perso di sicuro qualche decimo di secondo; nonostante ciò, il cronometro elettronico segnerà il tempo eccezionale di 19.83, record mondiale che rimarrà imbattuto fino al 1979, quando il nostro Pietro Mennea, nelle Universiadi di Città del Messico, lo abbasserà a 19.72. L’incredibile accelerazione di Tommie Jet Smith nei 200 di Città del Messico, la sua esultanza a braccia alzate, il sorriso quasi infantile nell’atto di tagliare il traguardo, compongono, per me, il più bel gesto sportivo di ogni tempo. C’era tutto, nella regale performance dell’uomo che un giornalista sportivo inglese, Neil Allen, aveva definito “un’architettura in movimento”: la potenza, l’armonia e la fluidità dei gesti, la classe, la consapevolezza di partecipare non a una gara, ma alla gara, quella che avrebbe potuto coronare il sogno di una vita: salire sul gradino più alto del podio, rimanendo nella storia dei Giochi Olimpici. Quando, al 2° anno di Liceo Scientifico, l’insegnante di Educazione Fisica ci portò sulla pista di atletica del glorioso Campo Ripoli di Tivoli, e mi chiese che cosa mi sentissi di fare, risposi di getto: “Vorrei fare la velocità. Mi piace concentrarmi sui blocchi, cercare l’assetto giusto, correre in decontrazione”. Mi guardò dalla testa ai piedi: “Ahò, parli come un libro stampato! Vedo che sei preparato, in teoria potresti fa’ tanto. Ma ‘ndo vai co’ quer fisico? Sei arto sì e no uno e sessantotto, nun c’iai massa… Hai visto l’americani? Colossi che arrivano a 85 chili. Lassa perde, famme cinque giri de pista, vedemo un po’ come vai co’ la resistenza”. La sentenza del professore di ginnastica de-

cretò la fine delle mie speranze di poter sprintare sulle piste di atletica; così, il mio amore per la velocità rimase confinato ai volatoni, spesso velleitari, con cui amavo concludere le gare podistiche amatoriali, sprint spesso inutili se non dannosi, ma coi quali pensavo forse di impressionare gli sparuti spettatori che seguivano le corse dilettantistiche. Era destino che la mia passione per la velocità dovesse mantenersi viva non attraverso le mie prestazioni, ma quelle altrui, quelle dei veri sprinter. Nel 1979 fui invitato a Pasadena, in California, da un cugino di mio padre. A un centinaio di metri dalla sua villetta di Lambert Drive sorge il Victory Park, complesso sportivo dove trovai un bella pista di atletica, ideale per concludere le mie corsette con qualche allungo sull’elastico tartan. Il primo giorno, men-

tre faccio un po’ di stretching, vedo un uomo di colore che sfreccia sulla pista con una velocità impressionante. La cosa bella è che assomiglia, nel fisico e nello stile, a Donald Quarrie, sprinter giamaicano dalla corsa regolare ed elegante, di cui ho ammirato, tre anni prima, la gara vittoriosa nei 200 metri piani delle Olimpiadi di Montreal. Un allenamento, due, tre, nel corso dei quali scambio col sosia di Don Quarrie occhiate e saluti occasionali. Il quarto giorno non resisto più; accanto a me si sta svestendo della tuta un altro nero, velocissimo pure lui. Ci presentiamo: è un atleta dell’Università della Southern California, si chiama Guy Abrahams, viene da Panama. Mi dice che gli atleti dell’USC si allenano lì, e che ci sono anche James Gilkes e Lennox Miller. “Che cosa? Lennox Miller? Il giamaicano che è arrivato secondo nei 100 di Città del Messico?”. “Sì”, replica lui, “e terzo a Monaco 1972”. “E tu?” gli chiedo sempre più incuriosito.“Non sono il migliore, ma me la cavo. Sono stato quinto nei 100 delle Olimpiadi di Montreal”.

“Complimenti. Lo vedevo che sei veloce. Senti, ma allora, quello è veramente…”. Sorride: “Sì, quello è Don Quarrie, medaglia d’oro nei duecento”. Per poco non svengo. Davanti a me, a distanza di pochi metri, sta correndo uno dei migliori velocisti di tutti i tempi! Ringrazio Abrahams, che mi assicura che finito l’allenamento mi farà conoscere il campione olimpico. Manterrà la promessa, e con Quarrie parlerò della tecnica di corsa, delle sue difficoltà nella partenza, che ha migliorato con anni di ostinata applicazione, dei suoi avversari, fra i quali il nostro Pietro Mennea, che dirà di stimare molto. Da quel momento non ho occhi che per lui; ne ammiro la falcata armoniosa ed efficace, e capisco che, per quanto la corsa veloce non sia affatto un atto istintivo, perché richiede concentrazione, movimenti studiati e ripetuti alla perfezione, potenza ma anche scioltezza, è tuttavia sempre Madre Natura, è il DNA a contare. Questi ragazzi sono i discendenti degli uomini rubati all’Africa dagli schiavisti americani, e rappresentano il risultato di una selezione durissima, che ha premiato i più forti, i più resistenti, i più veloci. Mi sono chiesto più volte perché, fra tutte le meravigliose imprese sportive dell’uomo, la mia psiche abbia scelto la corsa di Tommie Jet Smith alle Olimpiadi messicane. Credo che la risposta sia iscritta anzitutto nell’ambiente che mi ha plasmato. Io sono nato in un paesino di mille abitanti, e scorrazzare libero nei vicoli, nelle piazze, nei prati sotto le mura, ha costituito la prima pratica sportiva della mia vita. Forse chi è cresciuto in una città ed è stato portato sin da bambino in un circolo di tennis metterebbe in cima alle sue preferenze il fantastico match vinto da Ken Rosewall contro Rod Laver, a Dallas, il 14 maggio 1972; e una bambina che ha frequentato una palestra di ginnastica artistica, l’esercizio alle parallele asimmetriche d el l a ru m en a Nad ia Comaneci alle Olimpiadi di Montreal del 1976, esercizio svolto con una perfezione mai più eguagliata. Ma credo che la mia scelta abbia un carattere più generale, una giustificazione antropologica. Correre è stato fin dall’inizio un qualcosa di necessario, per l’uomo. I nostri antenati dovevano correre per mangiare e non essere mangiati.

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Concerto in Duomo

In Omero, non solo il pié veloce Achille, ma anche i guerrieri che hanno appena scagliato la lancia, anche i messaggeri si muovono “con agili piedi”. Se il movimento è il medium per mezzo del quale cogliamo l’esistenza oggettiva del mondo, la corsa è il movimento per eccellenza, un’azione che non coinvolge parti isolate del corpo umano, ma la nostra intera struttura. Correre è un attività molto più spontanea e naturale di giocare a tennis, o a rugby, o andare a cavallo. La prima sfida che ognuno di noi ha dovuto affrontare si è svolta nel cortile di casa o dell’asilo, o sulla strada, o sul campetto della parrocchia, ed è stata quella di misurarsi con gli altri nella velocità. Non è certo un caso che le prime Olimpiadi dell’Antichità prevedessero una sola gara, lo stadion, ovvero una corsa su un rettilineo di 192,27 metri. All’inizio della storia sportiva dell’uomo non poteva esserci che un gesto primordiale e istintivo, comprensibile a tutti, ripetibile da tutti, la soluzione più semplice dell’equazione spazio-tempo risolta col proprio corpo, senza l’ausilio di alcun altro mezzo. Il mio ultimo appuntamento con la velocità ebbe luogo un paio di anni dopo la trasferta californiana, quando la Pro-Loco di Cerreto Laziale, il mio paese, organizzò dei giochi popolari che prevedevano, fra gli altri, i centro metri piani “in piazza”. Sì, proprio sul selciato della piazza centrale, intitolata a Guglielmo Marconi. Si iscrissero tutti i ragazzi del paese; io, che ero stato fra i pochi a fare (di nascosto) delle sedute di allenamento specifiche, avevo serie speranze di rientrare fra i primi tre. Superai un paio di turni, poi, nei quarti di finale, a metà corsa, incocciai un selcio più alto degli altri, e franai rovinosamente a terra. Mi circondarono parenti, amici e organizzatori della corsa, che dopo un sommario esame dei danni subiti, mi rassicurarono: ero sbucciato in più parti, ma non avevo niente di rotto; tutto sommato, conclusero all’unisono, mi era andata di lusso. Per ultimo arrivò mio padre. Vide le escoriazioni, mi fissò con sguardo severo ed esplose: “Ma ‘ndo vai tu…”. Cavolo! Le stesse parole dell’insegnante di ginnastica...

Martedì 30 aprile Ravello è stata protagonista degli itinerari culturali e concertistici “Armonia Note di primavera nei luoghi d’arte”, organizzati dall’Ente Provinciale per il Turismo di Salerno in collaborazione con Campania Artecard. Il pomeriggio ravellese è iniziato con una visita guidata alla scoperta del magico ambiente di Villa Rufolo, dal 1974 proprietà dell’EPT, che accoglie ogni anno, ormai da più di mezzo secolo, i concerti che celebrano la visita a Ravello del musicista tedesco Richard Wagner nel 1880. La visita ha toccato poi il Duomo di S. Maria Assunta, dove è stata oggetto di grande interesse la porta bronzea, opera di Barisano da Trani, recentemente restituita al pubblico godimento. La serata è stata invece allietata da un concerto, tenuto in Duomo, che ha portato per la prima volta in Costiera Amalfitana uno strumento musicale molto in voga nell’Ottocento ed oggi quasi del tutto abbandonato: il piano pédalier. Questo straordinario strumento composto da due pianoforti a coda sovrapposti è stato commissionato all’organaro Pinchi dal Maestro Roberto Prosseda, che si è esibito in questa occasione. I due pianoforti vengono suonati, quello superiore con le mani, mentre quello inferiore, dotato di pedaliera, con i piedi e permettono di ottenere timbri particolari che con il pianoforte semplice non è possibile avere. Il repertorio presentato dal M° Prosseda ha visto, nella prima parte, l’esecuzione di musiche di Bach, Mozart e Schumann. Durante la seconda parte le note di due autori contemporanei, Ennio Morricone e Giuseppe Lupis, hanno permesso di apprezzare le potenzialità di questo strumento anche grazie all’abilità con cui il M° Prosseda ha saputo unire la tecnica con la creatività personale. LA chiusura del concerto ha visto l’esecuzione nel secondo centenario della nascita di Charles Valent Alkan di due (il terzo e il quarto) degli 11 Grands Préludes op.66 per piano-pédalier.

Armando Santarelli

Pellegrinaggio diocesano a Roma Mercoledì 17 aprile la nostra comunità ecclesiale di Ravello si è recata a Roma sulla tomba dell'apostolo Pietro per la celebrazione della professione di fede nell'ambito delle celebrazioni dell'anno della fede indetto dal Papa emerito Benedetto XVI. Insieme al nostro gruppo, guidato da P. Antonio Petrosino, si sono associati alcuni fedeli di Scala e Minori. La partenza nel cuore della notte ci ha permesso di arrivare di buon ora in piazza S. Pietro dove appena spuntavano i raggi del sole di una giornata primaverile. Dopo aver ricevuto il pass da don Beniamino d'arco che ha curato in tutti i minimi dettagli il pellegrinaggio diocesano, Abbiamo raggiunto i primi posti di fronte al sacrato della Basilica. Tanta è stata l'attesa lenita però dalla consapevolezza che Papa Bergoglio da li a poco sarebbe passato accanto a noi. Alle ore 10.oo papa Francesco ha fatto ingresso in Piazza San Pietro facendo un lungo giro

sulla papamobile e sostando vicino a bambini e malati. Prima di arrivare sul sagrato dove lo attendevano alcuni vescovi, tra cui anche Mons. Orazio Soricelli, nostro Arcivescovo, Papa Francesco è passato vicino al nostro gruppo lo abbiamo salutato e lui ci ha benedetti sicuramente avrà il nostro striscione sul quale era scritto 'Santità le vogliamo bene e vi attendiamo a Ravello.' Alle 10.35 ha avuto inizio l'udienza ,il Papa si è soffermato nel discorso sul mistero dell'ascensione di nostro Signore Gesù Cristo in particolare ha sottolineato che Gesù salendo al cielo ha dato a ogni uomo la certezza che nessuno è più solo perchè Cristo dal cielo è vivo ed è nostro avvocato. La recita del Padre nostro e la soMaria Carla Sorrentino lenne benedizione ha concluso l'incontro


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con il Papa. Dopo l'agape fraterna, ci siamo recata nella basilica vaticana per professare la nostra fede sulla tomba di Pietro, La recita del credo accompagnata da altre orazioni ha fatto si che la nostra comunità per un giorno si sia sentita veramente viva e unita: l'augurio è che sia l'inizio.Al termine di una sosta in preghiera davanti alla tomba di Giovanni Paolo II, è seguito il rientro a Ravello portando nel cuore il ricordo di una giornata indimenticabile.

contro con Gesù, che significa saper vedere i segni della sua presenza, tenere viva la nostra fede, con la preghiera, con i Sacramenti, essere vigilanti per non addormentarci, per non dimenticarci di Dio. La vita dei cristiani addormentati è una vita triste, eh?, non è una vita felice. Il cristiano dev’essere felice, la gioia di Gesù… Non addormentarci!».Parlando della parabola dei talenti, papa Francesco ha osservato che «un cristiano che si chiude in se stesso, che nasconde tutto quello che il Signore gli ha dato non è cristiano! È un cristiano che non ringrazia Dio per tutto quello che gli ha donato!». LA CHIESA NON E’ UNA ONG. Sempre nella mattina, durante la Messa presieduta nella Cappellina della Casa Santa Marta, il pontefice ha detto che la Chiesa

Giovanni Apicella

La Chiesa non è organizzazione, ma Madre Papa Francesco, davanti a oltre centomila persone all’udienza generale in Piazza San Pietro di mercoledì 24 aprile, ha proseguito la sua catechesi sul Credo laddove professiamo che Gesù «di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti». «La storia umana – ha detto – ha inizio con la creazione dell’uomo e della donna a immagine e somiglianza di Dio e si chiude con il giudizio finale di Cristo. Spesso si dimenticano questi due poli della storia, e soprattutto la fede nel ritorno di Cristo e nel giudizio finale a volte non è così chiara e salda nel cuore dei cristiani. Gesù, durante la vita pubblica, si è soffermato spesso sulla realtà della sua ultima venuta. Oggi vorrei riflettere su tre testi evangelici che ci aiutano ad entrare in questo mistero: quello delle dieci vergini, quello dei talenti e quello del giudizio finale. Tutti e tre fanno parte del discorso di Gesù sulla fine dei tempi, nel Vangelo di san Matteo». PREPARATI A UN INCONTRO. Il Papa, parlando delle dieci vergini, ha detto che «quello che ci è chiesto è di essere preparati all’incontro: preparati ad un incontro, ad un bell’incontro, quell’in-

non è un’organizzazione burocratica, è una storia di amore. Non sono i discepoli a fare la Chiesa, loro sono degli inviati, inviati da Gesù. E Cristo è inviato dal Padre: «E allora – ha detto il papa -, si vede che la Chiesa incomincia là, nel cuore del Padre, che ha avuto questa idea… Non so se ha avuto un’idea, il Padre: il Padre ha avuto amore. E ha incominciato questa storia di amore, questa storia di amore tanto lunga nei tempi e che ancora non è finita. Noi, donne e uomini di Chiesa, siamo in mezzo ad una storia d’amore: ognuno di noi è un anello in questa catena d’amore. E se non capiamo questo, non capiamo nulla di cosa sia la Chiesa». «La Chiesa – ha proseguito – non cresce con la forza umana; poi, alcuni cristiani

hanno sbagliato per ragioni storiche, hanno sbagliato la strada, hanno fatto eserciti, hanno fatto guerre di religione: quella è un’altra storia, che non è questa storia d’amore. Anche noi impariamo con i nostri sbagli come va la storia d’amore. Ma come cresce? Ma Gesù l’ha detto semplicemente: come il seme della senape, cresce come il lievito nella farina, senza rumore». La Chiesa – ha ricordato il papa – cresce «dal basso, lentamente»: «E quando la Chiesa vuol vantarsi della sua quantità e fa delle organizzazioni, e fa uffici e diventa un po’ burocratica, la Chiesa perde la sua principale sostanza e corre il pericolo di trasformarsi in una ong. E la Chiesa non è una ong. E’ una storia d’amore … Ma ci sono quelli dello Ior … scusatemi, eh! .. tutto è necessario, gli uffici sono necessari … eh, va bè! Ma sono n ecessari fino ad un certo punto: come aiuto a questa storia d’amore. Ma quando l’organizzazione prende il p r im o posto, l’amore viene giù e la Chiesa, poveretta, diventa una ong. E questa non è la strada». Un capo di Stato una volta chiese quanto fosse grande l’esercito del Papa. La Chiesa – ha proseguito il pontefice – non cresce «con i militari», ma con la forza dello Spirito Santo. Perché la Chiesa – ha ripetuto – non è un’organizzazione: «No: è Madre. È Madre. Qui ci sono tante mamme, in questa Messa. Che sentite voi, se qualcuno dice: ‘Ma… lei è un’organizzatrice della sua casa’? ‘No: io sono la mamma!’. E la Chiesa è Madre. E noi siamo in mezzo ad una storia d’amore che va avanti con la forza dello Spirito Santo e noi, tutti insieme, siamo una famiglia nella Chiesa che è la nostra Madre».


CELEBRAZIONI DEL MESE DI MAGGIO GIORNI FERIALI E FESTIVI Ore 18.30: Santo Rosario Ore 19.00: Santa Messa GIOVEDI’ 2-9-16-23-30 MAGGIO Al termine della Santa Messa delle 19.00 Adorazione Eucaristica 1 MAGGIO - MEMORIA DI S. GIUSEPPE LAVORATORE INIZIO DEL MESE MARIANO Ore 18.30: Santo Rosario Ore 19.00: Santa Messa 5 MAGGIO VI DOMENICA DI PASQUA Ore 8.00-10.30– 19.00: Sante Messe 8 MAGGIO SUPPLICA ALLA B.V. DEL SANTO ROSARIO Ore 10.30: Inizio del Santo Rosario 11.15: Santa Messa e recita della Supplica alla B.V. del SS. Rosario di Pompei 12 MAGGIO SOLENNITA’ DELL’ASCENSIONE CELEBRAZIONE DELLA MESSA DI PRIMA COMUNIONE Ore 8.00- 19.00: Sante Messe Ore 10.15: Processione dalla Chiesa di S. Maria a Gradillo e ore 10.30 S. Messa di Prima Comunione 18 MAGGIO Ore 19.00: Santa Messa della Vigilia di Pentecoste ed esposizione della statua del Santo Patrono. 19 MAGGIO SOLENNITA’ DI PENTECOSTE MEMORIA DELLA TRASLAZIONE DELLA RELIQUIA DEL SANGUE DI S. PANTALEONE NELLA NUOVA CAPPELLA

Ore 8.00-10.30: Sante Messe 19.00: Processione con la statua di S. Pantaleone Patrono di Ravello Celebrazione della Santa Messa al rientro della processione 22 MAGGIO MEMORIA LITURGICA DI SANTA RITA DA CASCIA 26 MAGGIO SOLENNITA’ DELLA SS. TRINITA’ Ore 8.00-10.30– 19.00: Sante Messe

31 MAGGIO FESTA DELLA VISITAZIONE DELLA B.V. MARIA Conclusione del Mese Mariano: Ore 18.30: S. Rosario, S. Messa e Processione


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