Ciminiera n. 7 2020

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24 ANNI DI PRESENZA Editoriale Salve a tutti. Non me ne vogliate, per una volta voglio proprio rubare al prof. Natali lo spazio dell’editoriale. E non (almeno non solo) per saltare questo numero della rivista, sempre più ricca di contributi, che variano dalla religione romana alla Calabria ai tempi dell’epidemia di Spagnola, dalla scienza dietro al mondo dei supereroi ai guerrieri di pietra come il Guerriero di Capestrano, dalla storia degli strumenti di tortura alle figure femminili della Storia della Calabria, né per i pur prestigiosi autori che li hanno scritti. Voglio rubare questo “cantuccio”, come direbbe Alessandro Manzoni, per una riflessione: a che serve la nostra rivista? Badate, ci potrebbero essere molte risposte, e mi aspetto che altri contribuiscano al dibattito che sto aprendo. Ma una di queste, quella che per me è forse la più importante è la necessità. Non di soldi, non di prestigio. la necessità della scrittura. La Ciminiera è una rivista culturale, che fa approfondimento, che analizza, fin dal suo primo numero, nel lontano 1995, e in tutte le sue incarnazioni, i fatti, gli eventi, le storie che compongono il grande affresco della nostra Storia per cercare nuovi punti di vista, per illuminare con altra luce il nostro passato, nella consapevolezza che la Storia è uno strumento per interpretare il presente e preparare il futuro. In un momento in cui i fatti, gli eventi sono sommersi da una montagna di bufale, panzane, illazioni, esternazioni, teorie non provate perché non dimostrabili, castelli di carta o in aria che siano, complotti e paranoie, tenere la barra dritta, analizzare i fatti con oggettività e metodo è già una risposta alla domanda. Perché la Ciminiera continua ad uscire, imperterrita, da 25 anni? Perché dobbiamo fare tutti la nostra parte. “Nulla è sicuro, ma scrivi” Raoul Elia 2 la Ciminiera

Periodico di cultura, informazione e pensiero del Centro Studi Bruttium (Catanzaro) Registrato al Tribunale di Catanzaro n. 50 del 24/7/1996. Chiunque può contribuire alle spese. Manoscritti, foto ecc.. anche se non pubblicati non si restituiranno. Sono gratuite (salvo accordi diversamente pattuiti esclusivamente in forma scritta) tutte le collaborazioni e le prestazioni direttive e redazionali. Gli articoli possono essere ripresi citandone la fonte. La responsabilità delle affermazioni e delle opinioni contenute negli articoli è esclusivamente degli autori.

Anno XXIV Numero 7 - 2020 Direttore Responsabile Giuseppe Scianò Direttore editoriale Pasquale Natali Presidente C.S.B. Raoul Elia Redazione Angelo Di Lieto Boccalone Rita Bruno Salvatore Lucisano Patrizia Spaccaferro Raoul Elia Direzione, redazione e amministrazione CENTRO STUDI BRUTTIUM Iscr. Registro Regionale Volontariato n. 114 Iscr. Registro Regionale delle Ass. Culturali n. 7675 via Bellino 48/a, 88100 - Catanzaro tel. 339-4089806 - 347 8140141 www.centrostudibruttium.org info@centrostudibruttium.org C.F. 97022900795 Stampa: pubblicato sul sito associativo: www.centrostudibruttium.org DISCLAIMER: Le immagini riprodotte nella pubblicazione, se non di dominio pubblico, riportano l’indicazione del detentore dei diritti di copyright. In tutti i casi in cui non è stato possibile individuare il detentore dei diritti, si intende che il © è degli aventi diritto e che l’associazione è a disposizione degli stessi per la definizione degli stessi.


LUGLIO ROMANO IL MESE DEL DIVO GIULIO Daniele Mancini danielemancini-archeologia.it

Il mese di luglio, che in origine era il quinto, Qvintilis, è stato in seguito dedicato dal Senato a Caivs Ivlivs Caesar, dittatore perpetuo della Roma, ultima repubblicana. Giulio Cesare è nato in questo mese, il 12, e proprio a luglio si esprime il nume nella sua opera. Il compimento della trasfigurazione divina della persona, quella del Civis Religiosvs, qui si realizza pienamente: questo è il mese della Felicitas, della pienezza della volontà attuata coincidente con la Volontà Divina, il mese, dunque, è anche sacro a Iupiter. In questo mese si raggiunge anche la giovialità e la dea Venere è fissata nella Fortvna/Victoria Caesaris, il Fvror Bellicvs ottiene, a luglio, il suo trionfo e il suo Imperivm, l’unificazione del cuore al Genivs del Padre degli dei. Si è realizzata, a luglio, attraverso Honos, l’onore e il rispetto, la fedeltà alla propria natura, al proprio Officivm/Fatvm assegnato, coincidente con il fine dell’esistenza. Cesare ristabilisce, con la guerra civile, il Diritto Gioviale ed egli ne incarna la volontà e manifesta la IVSTITIA realizzata. Il mese di luglio è, dunque, sacro all’Onore come realizzazione nell’azione

della Giustizia Divina e in questo periodo risplende VITVLA, la Dea Laetitia dell’accrescimento superiore, della giia, della Vit-vla che elimina il Laethaevs Morbvs: così, insieme a Felicitas, la vittoria sulla morte, è l’immortalità del Vìr,l’uomo ideale, ma anche il Gavdivm, conducono all’elevazione della vita verso il Devm, la glorificazione. Nel mese di luglio si celebrano i Lvdi Apollinari, agoni sacri al dio della conoscenza, Aletheia, della salute, vera immortalità dello Spiritvs, la bellezza della beatitudine dell’essere. Il mese si apre con la festa di Felicitas, per giungere alla letizia di VITVLA, all’interno degli illuminati Ludi Apollinari. Si giunge poi al ciclo delle Feste Sacre all’Onore, divinità centrale nella Religione Patria, per passare, infine, alle Feste di Concordia e di Fortvna, che presagiscono l’avvento del mese Augusto. E’ il mese di luglio quello inneggiante al compimento della VIRTVS-CONCORDIA nell’HONOS-FELICITAS,compiendo l’identità a Giove attraverso la Via Eroica marziale che Cesare Divo ha riaperto. la Ciminiera 3


I giorni di luglio più importanti per i Romani: 1 Luglio, Kalendae – Si propizia la FELICITAS come culmine della vita, onorata, nel giorno dell’anniversario della dedica del suo Tempio nel Campidoglio per opera di Silla 2 L., VI Nonas – DIES RELIGIOSVS 4 L., IV Nonas – FERIAE EX S C QVOD EO DIE ARA PACIS AVGVSTAE IN CAMPO MARTIO CONSTITVTA EST 5 Luglio, III Nonas – POPLIFVGIA – In questo giorno il Divo Romolo scomparve in cielo. E’ la festa di GIOVE 6 L., Pridiae Nonas – LVDI APOLLINARIS – Inizia il periodo sacro ad APOLLO, si propizia la Fortvna Mvliebre per ottenere la Grazie. Giochi in onore di Apollo 7 Luglio, Nonae – CAPROTINAE – Giorno sacro a IVNO CAPROTINA. Si compie il rito dell’imbibizione del latte di caprifico da parte delle Matrone e serve. Si propizia PALE 8 L., VIII Idvs – DIES RELIGIOSVS – Si compie la Vitvlatio in onore di Vitvla, un rito di esultanza per la vittoria 12 Luglio, IV Idvs – DIVI IULII NATALIIS 15 Luglio, Idvs – Si compie al sacra TRANSVECTIO EQVITVM in Campidoglio, parata trinfale per HONOS. Si propizia l’onore a Giove che ne è l’exemplvm 16 L., XVII Kalendas – DIES RELIGIOSVS 17 Luglio, XVI Kalendas – Anniversario della dedica del tempio di Onore (anno 520 dalla nascita di Roma) 18 L., XV Kalendas – DIES ALLIENSIS – Giorno “oscuro”, anniversario della sconfitta presso il fiume Allia (390 o 388 a.C., contro i Galli Senoni, ndr) 19 Luglio, XIV Kalendas – LVCARIA – Festa sacra ai LVCI, dedicata ai grandi boschi sacri 20 L., XIII Kalendas – Giochi in onore delle vittorie di Cesare 21 Luglio, XII Kalendas – LVCARIA – Festa sacra ai LVCI, da celebrarsi nel bosco selvaggio 22 L., XI Kalendas – Anniversario del Tempio della Concordia 23 Luglio, X Kalendas – NEPTVNALIA – Festa in onore del dio Neptvnvs e nelle capanne ai bordi del Tevere si sacrifica il toro nero 24 L., IX Kalendas – Si propizia la fortuna nel bosco sacro 25 Luglio, VIII Kalendas – FVRRINALIA– Festa in onore di Fvrrina che dona il suo fvror bellicvs nel suo bosco sacro sul Gianicolo 30 L., III Kalendas – Si completa il trionfo sacro di Fortvna con la celebrazione dell’anniversario della dedica del suo tempio nel giorno della battaglia dei Campi Raudi (anno 652 dalla nascita di Roma)

Bibliografia consultata: R. Del Ponte, La religione dei Romani, Milano 1992 G. Dumézil, La religione romana arcaica, Milano 2001 J. Champeaux, La religione dei Romani, Bologna 2002 J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma, Bari 2003 A. Brelich, Calendari festivi, Roma 2011 4 la Ciminiera


La Calabria e la Sila, ai tempi della “Spagnola” salvarono il fratello maggiore del regista Vittorio de Seta di Francesca Ferraro

Nel 1919, in tempo di pandemia, la principessa Pignatelli salvò il suo bimbo malato venendo per la prima volta in Calabria e in Sila Attraverso la storia, quella raccontata da chi l’ha vissuta ed attraversata, può aiutare a comprendere ed interpretare l’attualità e perché alcuni fenomeni si siano manifestati in maniera più evidente in alcune aree del nostro Paese. Il14-01-2020, sul sito della Fondazione Veronesi quando ancora non si parlava di arrivo massiccio di Covid-19 in Italia, si avvisava: “Durante l’inverno, il picco di polveri sottili e l’epidemia di influenza rappresentano un’insidia per il muscolo cardiaco. I tre fattori di rischio presenti da diversi giorni in molte città del Nord Italia”. L’articolo induce a riflettere sulle cause della diffusione delle malattie, una delle quali possa essere la concentrazione urbana e l’aria determinate dalle generali condizioni ambientali. Nel frattempo, si sa quanto siano benefici gli effetti dell’aria di montagna sulle malattie respiratorie e necessario, in tempi di pandemia, diradare i contatti sociali. Questo era noto anche in periodo medioevale. Riflettendo su queste coincidenze ho riletto il libro “Introduzione alla Calabria”, della Editrice Casa del Libro di Cosenza del 1966. Si tratta

di un libro uscito in tiratura limitata, con solo 1500 copie numerate e 50 fuori commercio. In questo libro la nobildonna Maria Elia, figlia del famoso ammiraglio Giovanni Emanuele Elia, sposata con il Marchese Giuseppe de Seta e in seconde nozze con il Principe Valerio Pignatelli di Cerchiara, aveva il suo primogenito malato, fratello del famoso regista Vittorio de Seta, e per curare suo figlio si recò in Sila. La principessa non era mai venuta in Calabria, era nata a Firenze, frequentava i salotti mondani ed era lontanissima dalla vita modesta che si viveva al Sud. Nel suo libro spiega la sua decisione di venire in Sila: “Cercavo la salute per il mio bimbo, e la lontananza dalle dolorose vicende d’Italia in quell’anno di grazia 1919. Dalla Toscana ero dovuta scappare per le incursioni rosse con un bimbo malato in braccio ed ero arrivata a Roma dopo tre giorni di viaggio. Là mi venne in soccorso padre Semeria. (…) «Vai nella Sila», mi disse. «Che cos’è la Sila? Dov’è». «È in Calabria, ci vai anche da Catanzaro». Al mio stupore rideva e si tirava la gran barba raccontandomi tutte le bellezze della Sila e dei boschi e dei panorami e della solitudine. Catanzaro! Che destino! Ricordavo che quando ero bambina a Londra, avevo un gioco, un biliardino geografico raffigurante l’Italia e sempre vincevo perché la palla cadeva su Catanzaro che portava il numero otto ed era un numero elevato. Ma ciò era motivo di canzonatura da parte delle mie compagne e di offesa per me. E la mia governante mi diceva: «Finirai a Catanzaro». Ripensandoci ero molto spaventata da questo mio destino, ma padre Semeria la Ciminiera 5


tornava sempre a farmi descrizioni dei boschi, del fresco, delle sorgive d’acqua.(…) Così fu che decisi per la Sila”. La montagna calabrese viene raggiunta dalla nobildonna attraverso una mulattiera “molto primitiva, chiamata ‘via regia’ passando dal paese più vicino, distante quindici chilometri, Sersale. Il nome della zona è Callistro (richiama il nome greco Kàllistos, superlativo di kalòs, “bello”) e la principessa se ne innamora: “In quella solitudine sentivo come di vero non ci fosse che questo vivo legame tra me e la mia creatura. I primi giorni furono un gioco alla Robinson Crusoe e delle prime piogge torrenziali ci colsero col tetto in costruzione. Allora io scrissi a Padre Semeria a Roma: “Se sopravviene una rivoluzione rossa, avvertitemi perché io non scenderò mai più da quassù”. Il bambino si rimetteva e cresceva. Era così pesante che non lo potevo più portare in collo e lo lasciavo camminare a quattro zampe per il prato. L’aria della Sila contiene della forza radioattiva che ha certamente una grande influenza sullo sviluppo delle creature. L’altipiano si trova tra i due mari e una media di millecinquecento metri di altitudine, arieggiato, pieno di luce, l’umidità tra foreste di faggi, pini ed abeti. Lo sanno i pastori che salgono in maggio dalle pianure afose e vi trasportano tutta la famiglia e lo sanno i serresi che vanno a far carbone. Salgono i carri ed i muli carichi delle suppellettili e si costruiscono capanne di rami e di zolle. I pastori chiudono i recinti con siepi intrecciate di rami, molto robusti e vi fanno il pagliare che sono queste capanne di tradizione millenaria.

i paesi interni e di montagna godono di ambienti salubri. Sono, altresì, presidi e sentinelle del territorio, tutelano le aste vallive e quelle costiere, le dorsali e le ossature del territorio italiano. Lo spopolamento delle aree di altura e l’addensamento eccessivo nelle aree pianeggianti e di più agevole accesso sono, se non causa delle epidemie, fonte di aumento di contagi. Oggi, più che mai, è necessario ripensare un nuovo modello di vita post Covid-19. A Parigi stanno pensando di riprogettare la città riproducendo moduli territoriali in cui ogni luogo possa essere agevolmente raggiunto con un massimo di quindici minuti di cammino o di uso di mezzi sostenibili di trasporto. Questo modello esiste già nella miriade di comuni e frazioni della nostra penisola, in cui riprendere antichi tratturi e nuovi modelli di spostamento sarebbe non solo utile, ma necessario, per evitare di massacrare ulteriormente il territorio con nuove cementificazioni, per ricostruire il sud e i vari sud annidati in ogni regione d’Italia e in ogni parte del mondo, per salvare la Terra e noi stessi.

Furono così senza dubbio i primi abitatori di quegli Italiche trassero nome dai vitelli che erano la loro ricchezza: signore di grandi mandrie, re pastori, in continua migrazione dal piano alla montagna e dalla montagna al piano, con le stagioni. Sui contrafforti della Sila prossima al mare avevano costruite le loro prime città, i loro palazzi di pietra”. Il suo bambino ebbe la salute e la Calabria rimase nel cuore di quest’intrepida donna la cui sensibilità si trova perfettamente trasferita nell’attento lavoro di cineasta del secondogenito, il famoso regista Vittorio de Seta. Durante il periodo della Spagnola, la Sila fu salvifica per il primogenito della principessa, 6 la Ciminiera

Ritratto della Marchesa de Seta Pignatelli, ad opera del pittore futurista Severini


La fisica dei Supereroi: run Flash run di Raoul Elia

In realtà, sotto la maschera di Flash si sono avvicendati ben quattro eroi nel corso di 80 anni. Il primo velocista scarlatto, di nome JayGarrick era un fisico nucleare che acquisisce i suoi poteri grazie ai fumi dell’acqua pesante. Dopo la crisi della fine degli anni ’40, un nuovo Flash ricompare sulla scena: a vestire i panni del velocista scarlatto è questa volta il tecnico di laboratorio della polizia Bartholomew “Barry” Henry Allen, investito nel laboratorio da un mix di sostanze e da un fulmine (poi retro corretto come manifestazione della “Forza della Velocità” che dona i poteri ai velocisti), Ha debuttato su “Showcase” n. 4 (ottobre 1956), testi di Gardner Fox e Robert Kanigher, disegni di Carmine Infantino.

Chi è Flash Flash è un supereroe della DC Comics creato

nel lontano 1940 (compie dunque 80 anni in questi giorni) dalla matita di Gardner Fox e Harry Lampert, nel gennaio del 1940, nasce JayGarrick, Flash, nelle pagine di “Flash Comics n°1”. Poco noto fino agli anni ’90 in Italia, è divenuto celebre soprattutto per la serie TV attualmente giunta alla sesta stagione, e per la partecipazione al film sulla Justice League.

Copertina di Showcase n. 4 (disegni di Carmine Infantino)

Copertina di Flash Comics n. 1 (disegni di Harry Lampert)

Alla morte di quest’ultimo, in seguito al megacrossoverCrisis on the infinite Earths, il suo posto viene preso dal nipote (nipote di sua moglie Iris, in realtà) Wally West (l’albo è Flash vol. 2 n. 1, testi di Mike Baron, disegni di Jackson Guice), che aveva ottenuto i suoi poteri nello stesso modo (in Flash vol. 1 n. 110, testi di John Broome, disegni di Carmine Infantino).

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Wally West, nel suo nuovo costume da Red Flash (disegni di Brett Booth)

Con la nascita di due bei figlioli, entrambi dotati di super poteri, Wally si ritirò a vita privata, sostituito brevemente (in Flash vol. 3 n. 01) dal nipote di Barry, Bart Allen (già noto come Impulse), proveniente dal futuro.

Bart Allen, nel suo nuovissimo costume da Kid Flash (disegni di Brett Booth)

In seguito, Barry Allen è ritornato in vita, riprendendo il manto del velocista, che ancora detiene.

“the fastest man alive”, come dice il sottotitolo della testata, può quindi correre a velocità impensabili. Grazie a questa velocità può, ad esempio, correre sul pelo dell’acqua senza affondare, scalare palazzi, attraversare la materia solida facendo vibrare le sue molecole. In seguito, acquisisce la capacità di manipolare la quantità di moto, acquisendola e/o cedendola (accelerando o rallentando, ad esempio, i proiettili sparati contro di lui) e quella di far esplodere gli oggetti attraversandoli (questo potere, a dir la verità, è attestato solo in Wally West). Un potere incredibile, vero? Ma chissà quanto è scientificamente accettabile…

L’incidente che dona a Barry Allen i suoi superpoteri (disegni di Carmine Infantino)

I limiti della velocità

Il suo potere

Per quanto super, anche Flash deve piegarsi alle regole della fisica. O no?

Il potere primario di Flash, come dice il nome, è la super velocità.

Innanzitutto vediamo qualche appunto sulla velocità.

Nel corso dei suoi 80 anni, i quattro velocisti hanno dimostrato di correre a velocità impensabili: tutti possono ampiamente superare la velocità del suono, inoltre almeno due su quattro erano (e forse sono, non è ben chiaro, dopo l’ultimo reboot) in grado addirittura di spostarsi avanti e indietro nel tempo e fra le dimensioni (è appunto attraversando la barriera dimensionale che Flash Barry Allen riesce ad incontrare il suo idolo dei fumetti Flash JayGarrick, che si scopre esistere in una Terra parallela). Flash,

Si è detto, infatti, che i Flash possono superare la barriera del suono e anche quella della luce. Ma questo vuol dire che i velocisti scarlatti, così facendo, cioè viaggiando ad una velocità maggiore a quella di fuga della Terra (che corrisponde a ben 40.320 km/h), uscirebbero dalla tangente e non riuscirebbero più a correre mantenendo le estremità inferiori (con rispetto parlando) sulla superficie del pianeta.

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Altro problema non da poco (soprattutto per un lettore di fumetti, che deve vedere il suo


eroe): i comuni mortali non sarebbero certo in grado di vederené tanto meno di sentire Flash, se questi superail muro del suono, figuriamoci se viaggia alla velocità della luce. In alcune scene, soprattutto del Flash I e del FlashII, si può vedere l’eroe in rosso scalare correndo un grattacielo. È plausibile una simile velocità? Mah. Supponendo che la velocità di Flash sia sufficiente per vincere l’attrazione gravitazionale fino a un’altezza di diciamo 200 metri (all’incirca 65 piani, quindi non proprio un grattacielo altissimo), come fa a aderire alla parete del palazzo? Tecnicamente non può. A meno che – ha calcolato JamesKakalios, autore del libro “La fisica dei supereroi” – tra un passo e l’altro Barry & Co. non riescano a percorrere una distanza equivalente all’altezza del palazzo in un ottavo di secondo. Robetta, per uno come Flash, certo, ma considerate che il tutto richiederebbe una velocità di 1600 metri al secondo, pari a 5760 km orari.

E’ una questione di riflessi La velocità di Flash comporta anche due problematiche connesse alla percezione sensoriale: gli ostacoli e i riflessi. Flash, infatti, non corre su una pista dritta e senza ostacoli, ma fa del suo meglio per dribblare veicoli e pedoni mentre insegue i vari Nemici, come Golden Glider o

CaptainCold, per non parlare del suo avversario per antonomasia, l’Anti-Flash Professor Zoom. Primo problema: come si accorge degli ostacoli? A 1600 km/h, infatti,il velocista scarlatto non avrebbe neppure il tempo per vedere un ostacolo, figuriamoci schivarlo con strettissime e momentanee deviazioni sul tracciato, deviazioni e serpentine che, a quella velocità, necessiterebbero di un quantitativo di energia veramente enorme. In più, a quelle velocità i riflessi e le capacità reattive di un essere umano sono bel al di sopra di quanto la biologia umana consenta. Immaginate che già i piloti di formula uno sono sottoposti ad un forte stress nervoso perché costretti a guidare i loro veicoli a velocità fino ai 300 Km/h, sforzando al massimo le loro capacità di reazione. Figuriamoci a 1600 km/h e oltre. Velocità animali In natura esistono esseri viventi così veloci da essere paragonati al rapidissimo supereroe? Per una volta, parlando di velocità, non abbiamo scomodato il ghepardo (che corre a circa 100 chilometri all’ora, che volete che sia, bazzecole, pinzillacchere direbbe il principe della risata). L’animale che più si avvicina a Flash è, tenetevi stretti, rullo di tamburi…. la medusa. Il filamento che serve per iniettare le nematocisti, ovvero le sue cellule urticanti, viene infatti estratto all’incredibile velocità di 5,6 milioni di

L’incidente che dona a Jay Garrick i suoi superpoteri (disegni di Harry Lampert) la Ciminiera 9


g, dove “g” è, ovviamente, l’accelerazione della gravità terrestre. Si tratta di numeri che sorprenderebbero anche l’essere umano più veloce, il giamaicanoUsain Bolt, detentore del record sui 100 metri e in grado di correre ad appena (si fa per dire) 39 chilometri all’ora. Ovviamente, si tratta di velocità istantanea, che rallenta immediatamente su numeri ben più bassi, non una velocità media e (più o meno) costante, come quella di Flash.

nostro velocistaevita il terribile attrito con l’aria e l’abbrustolimento coatto. Inutile dire che non si spiega come quest’aura rimanga attorno a Barry & Co. mentre corre.

L’incidente che dona a Wally West i suoi superpoteri (disegni di Greg Laroque)

Galilei vs Flash: energia potenziale ed energia cinetica

Pinup di Jay Garrick (disegni di Andy Kubert)

Flash vs Galilei: l’attrito Un altro elemento da considerare è l’attrito. Correndo come suo solito, Flashpotrebbe/dovrebbe incorrere in un fastidioso e un po’ compromettente problema: la tuta da lui indossata si disintegrerebbe all’istante per via dell’attrito con l’aria. Gli autori hanno “risolto” anche questo inconveniente in modi differenti: nella serie TV degli anni ’90, vestendo il supereroe con una tuta speciale, molto simile a quella ormai vietata ai nuotatori durante le gare. Si tratta di una muta con un tessuto non liscio ispirata alla superficie della pelle degli squali; essa è ricoperta da micro denticoli in grado di ridurre i vortici che si creano passando dentro a un fluido e, di conseguenza, di diminuire l’attrito. È in questo modo che la velocità aumenta e Flash diventa aerodinamico. Nei fumetti, In THE FLASH vol. 1 n. 167 in particolare, più ascientificamente, che è grazie ad una “aura” non meglio identificata e che pare circondi il fulmine giallorosso, che il 10 la Ciminiera

I concetti di lavoro, energia potenziale ed energia cinetica sono alla base della fisica classica, quella che chiamiamo volgarmente galileiano-newtoniana. Come si può intuire, il potere del nostro velocista in giallorosso è strettamente legato a questi concetti fondamentali. Vediamo inizialmente che cosa sono. Se un oggetto è già in moto, la fisica classica afferma che il corpo (così viene definito un oggetto generico in Fisica) possiede «energia cinetica», energia che è in grado a sua volta di generare movimento nel caso in cui il primo corpo collida con qualcos’altro. Un corpo possiede energia anche se non si sta muovendo. Ad esempio, tutti noi siamo soggetti aduna forza esterna, la gravità, e tuttavia non cadiamo perché siamo bloccati da un altro corpo (nel caso specifico, il terreno). Dal momento che l’oggetto si muoverà non appena verrà lasciato andare, si dice che possiede «energia potenziale». Nel momento in cui si muove, questa «energia potenziale» si trasforma in «energia cinetica», meno una parte, che va ad incrementare l’entropia universale (ma questa è un’altra storia…). Questa è una delle idee più profonde di tutta la fisica: l’energia non si crea né si distrugge, si può solo convertire da una forma all’altra. Questo concetto va sotto la fantasiosa denominazione di principio di conservazione dell’energia,


principio di cui gli sceneggiatori (non solo quelli di Flash) bellamente se ne infischiano. Come funziona? Per una massa m che cade, la forza che agisce su di essa è il suo stesso peso dovuto alla gravità F = mg, e la distanza lungo la quale la forza agisce sull’oggetto è semplicemente l’altezza h da cui cade. Quindi lavoro = (forza) x (distanza) = (mg) x (h) = mgh. Questa è l’energia potenziale che l’oggetto aveva a un’altezza h, dunque in questo esempio il lavoro può essere-visto come l’energia necessaria per aumentare l’energia potenziale di un oggetto. Ora, perché abbiamo fatto questa digressione degna di Piero e Alberto Angela? Per spiegare come Barry & Co. possono correre. E fermarsi. Quando Flash smette di correre, la trasformazione della sua energia cinetica richiede un lavoro. Il lavoro è l’energia applicata ad un corpo in una direzione, per inciso. In «The Flash» n. 106° il nostro supereroe ha la necessità di fermarsi all’improvviso mentre rincorre un oggetto che si muove a 800 km/h. Il fumetto lo raffigura durante il tentativo di interrompere la propria corsa mentre con i piedi scava enormi solchi nel terreno. In questo caso le forze, e in particolare l’attrito, che accompagnano la sua rapida decelerazione sono accuratamente rappresentate. L’enorme trasformazione in termini di energia cinetica nel portarsi da 800 km/h a velocità zero richiede un lavoro altrettanto grande. E quasi impossibile. Se Flash pesava 70 kg sulla Terra, allora anche la sua massa era di 70 kg. Correndo all’1 per cento della velocità della luce (lontanissimo dai valori massimi che può raggiungere), Flash avrebbe una velocità V = 3 milioni metri/secondo. In questo caso la sua energia cinetica Ec è (1/2) x (70 kg) x (3.000.000 m/s)2 = 315 trilioni di kg-m2 /s 2 = 75 trilioni di calorie. In fisica l’energia si usa cosi spesso che ha varie unità di misura, una delle quali è denominata «caloria», definita come 0,24 calorie = 1 kg-m2 /s2 ; vale a dire che 0,24 calorie equivalgono al lavoro risultante dall’applicazione di una forza pari a 1 kg-m /s 2 su una distanza di un metro.Se si ferma, l’energia cinetica va a zero e, per riuscire a correre di nuovo cosi forte, dovrà recuperare l’energia di cui sopra. E come? Ma mangiando, ovviamente.

Prima pagina di Showcase n. 4 con l’esordio ufficiale di Flash II (disegni di Carmine Infantino)

Flash il consumatore Flash da dove ricava l’energia necessaria per combattere i suoi nemici come Captain Boomerang o Gorilla Grodd? Anche questo è un mistero non da poco. Proviamo infatti a calcolare il fabbisogno energetico di un velocista scarlatto. Supponendo che Flash sia in forma, non un super palestrato (né tanto meno un ultra steroidato), ma comunque con un fisico da atleta, vista l’altezza presunta di 170 cm, pur con le incertezze del caso e le fluttuazioni dovute ai cambiamenti intercorsi in questi 80 anni, dovrebbepesareintorno ai 70 chili o giù di lì. Se, per qualche motivo, e supponendo di riuscire in qualche modo a superare il problema della velocità di fuga di cui sopra, il nostro velocista scarlatto viaggia all’uno per cento della velocità della luce, per fare un semplice scatto avrebbe bisogno di 300.000 miliardi di Joule, l’equivalente di 150 milioni di cheeseburger. Insomma, dovrebbe mangiare come la Ciminiera 11


tutto il popolo statunitense e non basterebbe. E comunque dovrebbe passare più tempo a mangiare che a correre, viste le necessità dell’apparato digerente e i suoi tempi, a meno di non accelerare pure quello, avendo però bisogno di ulteriore carica energetica e di ulteriore cibo. In effetti, questo problema gli sceneggiatori se lo sono posti con Wally West che, all’inizio della sua carriera come Flash, non poteva infatti fare le mirabolanti predecessori ma poteva raggiungere comunque un mach 5 di tutto rispetto. Però doveva continuamente rifornirsi di cibo, tanto che, nei primi tempi, si portava dietro addirittura una borsa con scorte alimentari (o generi di conforto che dir si voglia). Poi, alla lunga, la storia, oltre che palesemente improbabile (il problema del rapporto cibo/velocità era solo accennato, e neanche con valori accettabili), divenne noioso e lo sceneggiatore ridefinì il personaggio creando la “Speed Force”, di cui però parleremo in seguito. Il velocista scarlatto ha, in tutte le sue incarnazioni, pare, anche se con diverse capacità individuali, un metabolismo accelerato. A cosa serve? A ridurre i tempi di reazione del sistema immunitario e alle procedure autoriparative del corpo umano, e infatti l’eroe di solito guarisce piuttosto in fretta dalle ferite, anche gravi, e dalle malattie, sebbene non si riesca a capire come faccia a non invecchiare ad alta velocità. Alcuni sceneggiatori hanno introdotto il concetto di rallentamento dell’invecchiamento come “dono secondario” della Forza della Velocità, ma di questa parleremo in seguito. Comunque sia, Flash per correre e guarire necessita sicuramente di molto, molto cibo. Ma anche di ossigeno. Infatti, un essere umano deve respirare pe vivere. A maggior ragione gli atleti e, fra questi, i velocisti. Per correre circa 1 km un normale corridore consuma 70 cm2 di ossigeno al minuto, mentre, in una normale corsa intorno ai 16000 km/h di cui si parlava poc’anzi, Flash andrà invece a consumare ben 20 litri al minuto. Il che sarebbe anche deleterio per il sistema respiratorio, che non è certamente tarato per gestire un volume d’aria del genere, e in particolare per il cuore, costretto ad un super lavoro per gestire questo flusso. Detto questo, Flash riesce effettivamente a respirare durante la corsa o va in apnea? Ebbene, pare proprio che Flash respiri, anche quando corre. Infatti, secondo lo sceneggiatore del già citatoTHE FLASH vol. 1 n. 167, il velocista scarlatto porterebbe con sé durante le sue 12 la Ciminiera

corse una “aura” di aria respirabile, più correttamente definibile “zona di aderenza”. Questa aura che gli permetterebbe di respirare sarebbe anche l’aura che funge da barriera anti attrito e impedisce al velocista rosso-oro di finire bruciato dall’attrito, come detto più sopra. Ma una domanda rimane senza risposta: quest’aura protettrice non si dovrebbe consumare, prima o poi, più prima che poi se va al ritmo di 20 litri al secondo? Su questo, come su molti altri “piccoli” particolari, gli sceneggiatori hanno taciuto a lungo, salvo poi tirar fuori, con Mark Waid, una teoria assolutamente ascientifica: la Speed Force.

Flash I, Johnny Quick, Max Mercury e Flash III, da sinistra a destra (disegni di Salvador Larroca da Flash vol. 2 n. 99)

Una “scappatoia” per Flash Abbiamo visto che la credibilità scientifica dei superpoteri di Flash lascia alquanto a desiderare. Questo ha creato più di un problema agli sceneggiatori, una volta che il miglioramento della formazione scientifica e l’innalzamento dell’età dei lettori hanno portato questi ultimi a porsi domande sulla credibilità del loro beniamino e delle sue imprese. Come hanno fatto gli autori a giustificare il potere di Flash davanti all’indiscutibile tribunale della Fisica? Introducendo il “concetto” della Speed Force, la Forza della Velocità, concetto che, purtroppo per Flash e i suoi estimatori, non ha alcun fondamento nella realtà. Ma vediamo cosa è (o meglio vorrebbe essere) la Speed Force. Se vi ricordate, abbiamo detto poco sopra che sia Flash II (Barry Allen) che Flash III (Wally West) hanno ricevuto i loro poteri con lo stesso


incidente ma n due occasioni separate e distinte. Ora, essere colpiti da un fulmine e da sostanze chimiche non meglio precisate è già un evento eccezionale, che lo stesso evento si ripeta due volte è cosa alquanto impossibile, per quanto si possa tirare la cosiddetta sospensione dell’incredulità. Inoltre, con la comparsa di altri velocisti (Mark Waid, sceneggiatore principe delle storie di Wally West, ne ha introdotti / recuperati numerosi, fra cui ricordiamo Johnny Quick, un velocista della II Guerra Mondiale e sua figlia Jessie, il guru della velocità Max Mercury, John Fox, il Flash del futuro, lo stesso Bart Allen, alias Impulse, e i suoi genitori i Tornado Twins Dawn e Don Allen, figli di Barry, Xs, cugina di Bart militante nella Legione dei Super Eroi, il Flash 1.000.000, visto nel crossover omonimo, per non parlare dei numerosi velocisti futuri parenti di Barry e/o Wally), si rese necessario studiare una soluzione che uniformasse le origini dei vari velocisti, includendoli in un quadro organico e giustificasse origini segrete così differenti fra loro (incidenti chimici o nucleari per i primi 3 Flash, formule matematiche per i Quick, il lampo per Max Mercury, addirittura l’elemento genetico in Bart Allen e parenti). Ne venne fuori l’idea di una energia extradimensionale e, secondo alcuni almeno, senziente, la Speed Force, che è contemporaneamente la fonte della supervelocità e una sorta di Paradiso sui generis per i velocisti che vi si perdono correndo troppo veloce. Speed Force, secondo la miniserie che ha segnato il ritorno di Barry Allen, causata dallo stesso come una specie di effetto boomerang trans temporale (ma mi fermo qui, per non far venire il mal di testa ai miei già pochi lettori).

Pinup di Wally West con il costume da Kid Flash (disegni di George Perez).

Post scriptum Se per caso abbiate desiderio di conoscere le avventure di questo affascinante velocista in tuta rosso-oro ma siete spaventati dalla confusione ingenerata da quanto detto sopra (che, beninteso, non è stata causata dall’autore del presente articolo, ma è interamente responsabilità degli infidi sceneggiatori succedutisi in questi 80 anni), non disperate: la serie è ripartita da 0, rimuovendo buona parte di tutto questo e ridimensionando la continuity del nostro eroe. O no? I

Sul prossimo numero Il papiro della moglie di Gesù

di Raoul Elia

Il mondo della ricerca sulle origini del Cristianesimo è pieno di ritrovamenti contrastati, falsi accertati e fonti dubbie. Ogni tanto emerge un nuovo testo che promette di rivoluzionare la storia del Cristianesimo delle origini, salvo poi dover riportare il santo indietro e rivedere quanto con sicurezza (e forse eccessiva spavalderia, quando non vera e propria sicumera) era stato annunciato. E’quasi sicuramente questo il caso del cosiddetto “Vangelo della moglie di Gesù”. la Ciminiera 13


Il Guerriero di Capestrano è una statua tagliata nel calcare della zona di rinvenimento ed è alta circa 210 cm; è conservata al

NEVIO POMPULEDIO, IL RE GUERRIERO

picena, ai lati della figura, ha

permesso di rivelare le origini del guerriero, l’alto grado occupato nella scala sociale e addirittura di Daniele Mancini Museo Archeologico Nazionale il suo nome, insieme a quello d’Abruzzo Villa Frigerj, a Chieti, dell’autore. fin dal 1959. La statua è attribuita Il personaggio è alto circa 170 a un re, Nevio Pompuledio, ed è cm, è un uomo armato di tutto stata rinvenuta a Capestrano nel punto e indossa un elmo con 1934. cimiero di piume che E’ tra le testimonianze nell’antichità, piume più affascinanti della o code di cavallo produzione artistica sull’elmo, servivano a delle antiche civiltà incutere terrore. che popolarono i Sotto l’elmo, il viso territori al centro della inespressivo, simili alle nostra penisola, prima enormi statue giganti dell’affermarsi degli di Mont’è Prama, Etruschi e poi dei in Sardegna, forse Romani. indossa una maschera Il superbo portamento funeraria. del personaggio, vestito Sul petto e sulla con un’armatura da schiena è posta una cerimonia, forse in corazza composta da funzione di paramento funerario, racconta dischi di bronzo e di ferro, i kardiophylakes, a di una primitiva orgogliosa stirpe guerriera, protezione proprio dell’organo più vulnerabile originaria di impervie regioni montagnose del corpo umano, il cuore. dell’appennino centrale, in un luogo segnato Sopra la corazza, una spada lunga di ferro e a dalla pastorizia e che aveva nella guerra quasi destra un’ascia, segno di comando, completano una condizione endemica per proteggere la decorazione dell’armamentario del fiero greggi e transumanza. guerriero. Il corpo sembra nudo, tranne per la La decifrazione di un’iscrizione in lingua zona dell’inguine protetta da un elemento in 14 la Ciminiera


cuoio e metallo. Gli stinchi sono protetti da schinieri e i piedi calzano sandali/calzari rinvenuti anche nelle tombe della grandiosa Necropoli di Capestrano: la suola in legno o ferro mostra dei ramponi sul fondo, necessari per affrontare gli impervi terreni di montagna del regno. Sulle colonnine laterali della statua sono rappresentate due lance nella loro interezza: nelle tombe del periodo si rinviene solo il puntale in bronzo o in ferro, il sauroter, senza l’anima in legno. Il Guerriero di Capestrano si data nell’ambito degli inizi del VI secolo a.C., soprattutto per la tipica spada a doppio fendente, caratteristica in quasi tutte le tribù dell’Adriatico del periodo, e per l’iscrizione. Su un lato, in lingua osco sabellica (la lingua scritta e parlata comune nel centro Italia) compare la seguente iscrizione:

di Nevio Pompuledio e facevano parte di una lega denominata Safin, termine tradotto in Sabini, dai Romani, e Sanniti, dai Greci. I Sabini abitavano i territori che andavano dalla Valle del Tevere all’Adriatico e Numa Pompilio potrebbe essere proprio un antenato di Nevio Pompuledio. Nel VI a.C. l’Abruzzo, dunque, era governato da re, come Roma e quasi tutta l’Italia e l’Europa: l’unica eccezione nel nostro continente è dato da Atene, dove ormai, tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C., vigeva la democrazia. Il Guerriero di Capestrano è il simbolo dell’ “Abruzzo forte e gentile“, come apostrofa la nostra regione lo scrittore Primo Levi, nel 1883, in una pubblicazione dal medesimo titolo. Ignazio Silone, della terra del Guerriero raccontava negli anni ’40: «Avevamo già

superato la strettoia rocciosa di Civitaretenga

MA KUPRI’ KORAM OPSÚT ANINIS RAKI NEVIÍ POMP[…]Í ME, BELLA IMMAGINE, FECE ANINIS PER IL RE NEVIO POMPULEDIO

Adriano La Regina, noto archeologo e accademico italiano, interpreta in Aninis lo scultore realizzatore dell’opera, un Michelangelo dell’antichità, che scolpiva la pietra e la dipingeva. Il termine osco-sabellica RAKI fornisce, invece, la carica sociale rivestita dal personaggio a cui la statua del Guerrioro è dedicata, RE! Nevio Pompuledio o Pompuleio potrebbe essere legato al re sabino Numa Pompilio, il secondo re dopo Romolo: i nomi sono affini, con la stessa accezione. Anche il cognome adriatico Pompeo (Gneo Pompeo Magno ne è un illustre possessore) potrebbe essere di origine sannita, come il nostro Pompuledio. I Sabini , dunque, abitavano anche l’Abruzzo, erano popoli di tipo territoriale, non come i cittadini delle poleis della Magna Grecia, ma gruppi umani simili ai celti che Giulio Cesare sconfisse nel 50 a.C. I Vestini erano il popolo

ed eravamo entrati nel Piano di Navelli. Che splendide coltivazioni. I ben ordinati campi di zafferano, di legumi, di cereali, avevano la bellezza di un giardino, e dimostravano un amore della terra che commuoveva, come ogni amore di cui si teme l’estinzione»! In questa carrellata di citazioni non posso non ricordare Appiano di Alessandria, storico greco vissuto tra il I e il II secolo d.C., che descrive, nella sua Appiani Alexandrini Historia, in greco Rhomaiká, una della popolazioni abruzzesi, i Marsi, amica/nemica della stessa popolazione del Guerriero di Capestrano: «Nec sine marsis nec contra marsos triumphari posse »… Cosa accadeva, dunque, in Abruzzo prima e dopo l’avvento di Nevio Pompuledio? Alla fine dell’Eta del Bronzo, nel 1100 a.C. circa, in Abruzzo, le piccole comunità di vici e pagi si sono unite tra di loro per dare vita a una confederazione più ampia, come è accaduto in la Ciminiera 15


Etruria, dove i grandi centri, come Tarquinia, Cerveteri, Vulci, Veio per esempio, hanno dato origine ai primi agglomerati urbani europei. In Abruzzo, invece, ci si riunisce in un unico territorio per una scelta economica fondamentale: il territorio, prevalentemente montuoso, non permette una fiorente agricoltura ma permette un allevamento transumante, non capitalistico come fecero i Romani spostando le greggi dall’Abruzzo alla Puglia, ma una transumanza tra le piccole conche interne e gli altopiani locali. Questo sistema di alpeggio ha generato importanti ricchezze fino al Medioevo inoltrato: la famiglia Medici, nel XV secolo, ad esempio, ha basato molto delle proprie ricchezze sul commercio della lana e sulla transumanza abruzzese. Alle fine dell’Eta del Bronzo /inizio dell’Età del Ferro, questo tipo di pastorizia ha comportato un importante controllo del territorio, dai pascoli alle fonti, con una precisa strategia, dando vita a una sorta di incastellamento primordiale: l’impianto di villaggi sulla cima delle montagne, difese poderosamente da mura e fossati, con una situazione di conflittualità continua ed endemica tra le varie tribù abruzzesi. La guerra ha generato guerrieri e nelle vite di queste popolazioni si è radicata la volontà di deporre vere e proprie armi nelle tombe degli inumati di sesso maschile. Le armi

16 la Ciminiera

rinvenute dagli archeologi raccontano come sia cambiato il modo di combattere, ma anche l’organizzazione dello stato e della società. Tra il 1000 e l’800 a.C., dunque, le popolazioni abruzzesi combattevano come gli altri popoli fuori dall’Italia, in fanterie allineate, con lancia e scudo, affiancati e, come ultima arma, un corto pugnale. Il Guerriero di Capestrano mostra esattamente uno di questi cambiamenti del modo di combattere: la sua lunga spada, usata da fendete, indica che si combatteva in ordine sparso, con i guerrieri distanti tra loro e qualcuno su un cavallo. Il possesso di un cavallo e di un complesso armamento ha condotto a un mutamento sociale: non più fanti armati dallo Stato, ma persone abbienti che potevano permettersi cavalcatura e armi. L’armamento del Guerriero di Capestrano

Spade da Campovalano

indica, dunque, come si evolve la società da un sistema verticistico a un sistema più allargato. Sulla spada del Guerriero di Capestrano sono incise delle figure, come in poche altre statue e spade in Abruzzo: sono figure che raccontano miti e storie, per quanto sia possibile ricavarne da popolazioni che non hanno lasciato fonti scritte. Per questi personaggi di rango era importante possedere un cavallo e su alcune else dei guerrieri abruzzesi sono rappresentati proprio dei cavalli che galoppano, rappresentati con una tecnica particolare: la figura dell’animale è traforata nel ferro con l’elsa compressa nell’avorio, una tecnica che implica una conoscenza tecnologica molto avanzata! La costa adriatica non è luogo di estrazione del ferro ma già all’inizio dell’Età del Ferro si lavora questo metallo per la produzione di armi è par al creazioni di ornamenti, suppellettili, utensili vari, per la vita giornaliera e per comporre il corredo funerario. Su alcune spade sono rappresentati anche


animali fantastici, tra cui una sorta di drago con doppia testa e lunga coda. Un’altra figura, è il grifone, l’essere con il copro di leone e la testa di aquila e, su una spada proveniente dalla Necropoli di Campovalano, tra i due grifoni affrontati pende il torso di un uomo verso l’esterno. Dai reperti rinvenuti negli scavi delle necropoli è possibile ricostruire un mondo di miti e leggende caratteristiche di queste popolazioni. La Necropoli di Capestrano, una delle tante necropoli che si sviluppano nelle poche pianure abruzzesi, trascurandole all’agricoltura e usate come luoghi della memoria, riserva continuamente sorprese che aprono ai mondi leggendari safini o alle tradizioni romano imperiali (le tombe della necropoli abbracciano un arco cronologico che parte dall’VIII a.C. fino al periodo primo imperiale). Il Guerriero di Capestrano è stato rinvenuto nel 1934 dal contadino Michele Castagna che, arando il terreno di sua proprietà, ha trovato la statua rotta in due pezzi: l’ha tenuta nascosta in casa, poi l’ha fece vedere al parroco locale, quindi ai Carabinieri che hanno trasmesso immediatamente la notizia alla Regia Soprintendenza di Ancona. Nel giro di poche settimana è stata organizzata la prima campagna di scavo nella piana che ha permesso di trovare diverse tombe, un altro pezzo del guerriero e altre statue/ segnacoli tombali. Diversi sono stati i manufatti rinvenuti: accanto al guerriero, una statua femminile, solo il torso, molto bene lavorata, forse dallo stesso Aninis, rappresentante una giovane adolescente. Nella stessa campagna, anche una base in pietra, purtroppo dispersa durante la guerra. Nel 1991, la nota casa d’asta Soteby’s ha venduto un torso simile al Guerriero di Capestrano per soli 230 mila dollari, finita in bella mostra nella casa di qualche magnate; è probabile, inoltre, che una quarta statua sia stata trovate durante gli anni ’30 successivi, duranti i lavori di installazione dell’impianto di irrigazione della piana. In quel periodo,

purtroppo, l’Italia è stata martoriata dai saccheggi dei collezionisti e dei mercanti d’arte inglesi, americani e tedeschi… Le statue erano solitamente poste fuori la tomba: la tomba del Guerriero di Capestrano, la Tomba 3 degli scavi del 1934, era particolare: aveva una fossa rettangolare per l’inumato e, vicino a questa, un’altra fossa contenete il corredo funerario: la sua vera spada, diversi vasi in bronzo, delle tazze per gustare il vino e delle grattugie da formaggio usato per aromatizzare il vino stesso, tutte suppellettili necessarie affinché l’inumato potesse vivere decorosamente anche nell’aldilà. La complessa società italica, dunque, aveva enorme rispetto per i morti e per il loro banchetti conviviali da intrattenere dopo la morte. Non si dimentichi che il Guerriero di Capestrano è uno degli ultimi re dell’Abruzzo e gli sono stati riservati tutti gli onori possibili. Un nota: alla fine di VI secolo, nella regione, nasceranno delle piccole repubbliche, delle Toutai (come la Touta Maruca marrucina), appartenenti solo a un popolo (la Touta dei vestini, dei Pentri, dei Carrecini, ecc.), quelle repubbliche che lotteranno fieramente contro il dominio romano.

La statua/segnacolo del Guerriero di Capestrano continua una tradizione iniziata qualche secolo prima con i menhir: nella Necropoli di Fossa, infatti, vicino alle tombe tumulo di X/IX secolo a.C. era possibile trovare delle enormi pietre allineate, lavorate solo sul lato occidentale della tomba in cui i menhir più alti erano vicini alla tomba e quelli la Ciminiera 17


più bassi più lontano, con una pietra poggiata a terra, sul bordo del tumulo, come fosse la testa del defunto I vari menhir, da 6 a 10, rappresentano una sorta di simbolica cerimonia funebre per il personaggio defunto da parte di amici o parenti o commilitoni in armi. Tra la fine dell’Età del bronzo e l’inizio dell’Età del ferro, i menhir diventano statue o stele, assumendo forme umane verosimili al personaggio deposto, con oggetti e monili simili al vero incisi nella plastica della statua: tra VII e VI secolo a.C., dunque, committenze reali o ricche assumono artigiani specializzati

nel realizzare opere di qualità, producono manufatti non greci ma con aspetti italiani simili a quelli dell’Europa centrale. Statue di provenienza germanica o quelle dei Giganti di Mont’è Prama rappresentano e raccontano di grandi guerrieri e dei loro capi,per i quali la guerra era un elemento fondamentale e sociale! La statua di Nevio Pompuledio, il nostro antico antenato, è indissolubilmente il momento artistico più alto di quella società, di quel periodo prima della crudele contaminazione romana.

Bibliografia - A. La Regina, Il Guerriero di Capestrano e le iscrizioni paleosabelliche, in L. Franchi Dell’Orto (a cura di), Pinna Vestinorum e il popolo dei Vestini I, Roma 2010 - V. D’Ercole, V. Acconcia. D. Cesana, La necropoli di Capestrano I. Scavi d’Ercole 2003-2009, BAR Publishing 2018

Il prossimo mese L’OSTRAKA DELL’VIII SEC. A.C. DA SAMARIA, ISRAELE di Daniele Mancini 18 la Ciminiera


Strumenti di Tortura e Inquisizione:

Molti di voi hanno visitato i altre decine da noi visionati, musei della tortura e ci hanno non c’è traccia di questi chiesto quale sia la veridicità I Falsi in cui Avete Sempre strumenti. Si rende quindi o verosimiglianza storica degli necessaria un’analisi dei Creduto strumenti di tortura esposti. La singoli strumenti. risposta è abbastanza semplice: di Gabriele Campagnano si tratta di obbrobri senza alcun valore storico che appestano diverse città italiane e, incredibile LA PERA VAGINALE Gli strumenti di tortura dictu, riescono a ottenere medievale, specie quelli attribuiti patrocini regionali, del FAI e all’Inquisizione – senza neanche Gli hanno dedicato paragrafi addirittura di ONG piuttosto specificare di quale Inquisizione in riviste, libri e articoli. Fa famose. Una affermazione si tratti – suscitano da sempre bella mostra di sé nei (penosi) tranciante, la mia, pienamente un interesse profondo, a volte “musei della tortura”. La giustificata alla luce di quanto morboso, da parte del grande citano migliaia di siti e pagine leggerete qui sotto. web come uno degli strumenti pubblico. di tortura dell’Inquisizione. Il primo dato che accende Peccato che non sia mai sincera meraviglia è l’assoluta mancanza di stata utilizzata. In realtà, la pera vaginale (o testimonianze archeologiche o documentali sui mezzi di tortura che vediamo esposti nei “poire d’angoisse” o “pear of anguish”) non è numerosissimi “musei della tortura”. Quasi mai esistita fino alla costruzione delle prime tutti hanno didascalie che ne spiegano l’uso repliche nel XIX secolo. Nei verbali dell’Inquisizione dal Cinquecento da parte dell’Inquisizione Romana o di altri in poi non se ne trova traccia (e chiunque tribunali inquisitori. Ci si aspetterebbe, quindi, di trovare almeno li abbia avuto sottomano sa perfettamente una menzione della Vergine di Norimberga quanto siano precisi). Stesso dicasi per le altre o della Forcella dell’Eretico nel Philippi a fonti dell’epoca, compresi i diari di carnefici Limborch Historia inquisitionis: cui subjungitur del potere civile come Franz Schmidt, le liber sententiarum inquisitionis tholosanae ab enciclopedie mediche, ecc.

annoChristiMCCCVIIadannumMCCCXXIII,

scritto da Philippus van Limborch nel 1692, un teologo protestante fortemente critico della Chiesa. Oppure di scoprire, tra le pagine di A history of the Inquisition of the Middle Ages, redatto dallo storico statunitense Henry Charles Lea e pubblicato a partire dal 1887, una breve trattazione della Pear of Anguish. E invece niente. Nei venti testi presenti nella bibliografia in calce all’articolo, così come in

La troviamo menzionata per la prima volta ne L’Inventaire général de l’histoire des larrons (L’Inventario generale della Storia dei Ladri) di F. de Calvi, pubblicato nel 1629. È una citazione, tra l’altro, molto contestata, perché si tratta, in quel caso, di una pera orale utilizzata per non far gridare le vittime durante una rapina. La sua invenzione è attribuita a un ladro di nome Palioli, originario di Tolosa. In la Ciminiera 19


realtà, anche molti studiosi dei secoli successivi hanno dubitato che “la Pera fosse mai esistita fuori dalla testa di de Calvi”. Tra il Settecento e la fine dell’Ottocento la “pera orale” viene ricordata sporadicamente come strumento per tenere in silenzio le vittime utilizzato per qualche tempo nel XVII secolo da alcuni briganti europei (olandesi o francesi). Gli esemplari più antichi di poire d’angoisse sono conservati in diversi musei europei a americani. Quella del Louvre, appartenente alla collezione del musicista AlexanderCharles Sauvageot, risale probabilmente al 1800-1830, ed è stata catalogata nel 1856. Quella del Museo di Boston è dello stesso periodo. Tutte le altre sono state realizzate su commissione tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso. Ed è proprio tra fine Ottocento e primi del Novecento che la Pera Vaginale inizia a trovare posto in quella rievocazione dei Cabinet of Curiosities che sono i “musei della tortura” e, da lì, in volumi divulgativi sull’Inquisizione e le torture medievali. Il sentimento anticlericale ha fatto, lentamente, il resto. Molti autori, probabilmente guidati da un interesse morboso, hanno iniziato a fantasticare sull’uso dello strumento per dilaniare vagine e orifizi anali di streghe e seguaci del demonio. Un’assurdità che è diventata quasi sapere comune. Non a caso,anche in una delle ultime pubblicazioni relative all’argomento (Bishop,

C. 2014, The ‘pear of anguish’: Truth, torture and dark medievalism, International Journal of Cultural Studies, vol. 17, no. 6, pp. 591-602) 20 la Ciminiera

leggiamo che la pera fu immaginata come “inseribile” anche in orifizi diversi dalla bocca solo nell’Ottocento, e con il fine di sadico godimento sessuale. Eppure basta una ricerca su google per vederla etichettata come “strumento di tortura medievale usata dall’Inquisizione sulle streghe” (difficile trovare più errori storici in una sola frase!).

LA VERGINE DI NORIMBERGA La Vergine di Norimberga ha suscitato le più sfrenate fantasie della cultura di massa, ancora di più della Pear of Anguish, ed è presente in qualsiasi museo della tortura in Italia e all’Estero. Spacciata come strumento medievale, è stata in realtà creata solo nel XIX secolo, realizzata su commissione di gentiluomini europei con il gusto per il “finto medioevo gotico”, fatto di inquisitori con il cappuccio, streghe formose e un enorme quantitativo di violenza e atrocità gratuite. Il castello di Otranto, di Horace Walpole, pubblicato nel 1764, è stato forse il romanzo che più di ogni altro ha dato una spinta a questo gusto, protrattosi fino all’epoca vittoriana. Tornando alla Vergine, il franchise “Museo della Tortura” la descrive così La storia della tortura ricorda molti congegni che operavano col principio del sarcofago antropomorfo a due ante e con aculei all’interno che penetravano, con la chiusura delle ante, nel corpo della vittima. L’esempio più famoso è


la cosiddetta “Vergine di Ferro” [die eiserne Jungfrau] del castello di Norimberga, distrutta dai bombardamenti del 1944. In realtà, anche quella andata distrutta nel 1944 era una contraffazione ottocentesca, probabilmente del 1830-40. Ma andiamo con ordine.

La prima citazione della Vergine di Norimberga è datata 1793, ad opera dell’erudito tedesco Johann Philipp Siebenkees (17591796), che la menziona come utilizzata a Norimberga nel Cinquecento, ma, sebbene abbia ricercato a lungo nei suoi scritti, non ho trovato traccia del passo. Circa mezzo secolo dopo, nel 1840ca, la Vergine è esposta per la prima volta a Norimberga. L’involucro antropomorfo, interamente in metallo, è alto 210cm e largo 90, abbastanza grande, quindi, da contenere un uomo adulto. Gli spuntoni metallici creano il giusto “morso allo stomaco” dei visitatori, che li immaginano penetrare le membra di un essere umano. Già molti visitatori ottocenteschi ne sottolineano la falsità e il magro interesse storico della Vergine. In Notes and Queries (Oxford University Press, 1893. Pag. 354), J. Ichenhauser definisce la Iron Maiden come “… di nessun interesse per storici e antiquari“. Questo 52 anni prima del bombardamento alleato che ci ha privati di questo pezzo di poco valore. Ma allora quale fu la vera origine della Vergine di Ferro? Uno dei più importanti archivisti tedeschi, Klaus Graf, in un lungo articolo del 2001, Mordgeschichten und Hexenerinnerungen – das boshafte Gedächtnis auf dem Dorf, definisce la Vergine di Norimberga come “una finzione

del XIX secolo, perché solo nella prima metà del XIX secolo gli schandmantel, a volti chiamati “vergini”, vennero dotati di aculei interni; in seguito, questi oggetti furono adattati a morbose fantasie mitiche e letterarie.”

menzione dello Schandmantel (o Schandtonne) traducibile come “Mantello/ Barile della Vergogna”, ci aiuta a fare chiarezza. Questo era infatti una sorta di barile che le autorità civili facevano indossare, in alcuni casi, a prostitute e altri soggetti, con lo scopo di impartire loro una pubblica umiliazione. Morbose fantasie, come dice bene il Graf, e fantasie molto più semplici relative all’orrore e al sacrilego (non di per sé negative, altrimenti non avremmo avuto autori come Lovecraft, Poe, ecc.), hanno preso lo shandmantel come base di partenza per creare qualcos’altro. Non solo non è arrivata fino a noi una Vergine di Ferro costruita prima della fine del XIX secolo, ma anche in tutte le cronache cittadine, i manuali inquisitori, le procedure dei processi gestiti dal potere secolare, non si trova neanche un accenno al dispositivo. Anche nel diario del più famoso boia del Cinque-Seicento, Franz Schmidt (vedi “A Hangman’s Diary: La

The Journal of Master Franz Schmidt, Public Executioner” e “I Padroni dell’Acciaio“) non

si trova nulla, sebbene egli abbia descritto in modo puntuale ogni punizione ed esecuzione portata a termine (senza mai tralasciare i particolari più raccapiccianti) nei suoi 40 anni di carriera (1578-1617). LA FORCELLA DELL’ERETICO Strumento di tortura meno conosciuto – più che altro a causa delle dimensioni ridotte (rispetto alla Vergine di Norimberga) e della mancanza di fini sessuali (Pear of Anguish) – ma altrettanto falso è rappresentato dalla Forcella dell’Eretico. Nel volume (senza alcun valore storico) “La storia dell’ inquisizione” di Carlo Havas è presente una “forchetta o forcella dell’eretico” che non trova riscontro in alcuna fonte. Con la Forcella, tra l’altro, inizia anche la serie di falsi datati 1983 (quindi falsi recentissimi), di cui si ha una prima citazione in “Catalogo della mostra di strumenti di tortura, 1400-1800: nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre, 1983” si tratta, a quanto sembra, della prima mostra organizzata dalla società che ora possiede diversi musei della tortura in Italia e all’estero - e nel successivo “Inquisition: A Bilingual Guide to the Exhibition of Torture Instruments from the Middle Ages to the Industrial Era, Presented in Various European Cities in 1983-1987, Firenze, 1985, entrambi redatti da Robert Held. La Forcella dell’Eretico presenta come una doppia forchetta legata al collo, con le punte la Ciminiera 21


rivolte sotto il mento e al petto. Il sito de Il Museo della Tortura, gestito dalla Inquisizione s.r.l. (!!!), lo definisce così: Con le quattro punte acutissime conficcate profondamente nella carne sotto il mento e sopra lo sterno veniva impedito qualsiasi movimento della testa: la vittima poteva soltanto bisbigliare “abiuro” (parola questa che ha il significato di rinunzia ad altra religione o dottrina che non sia quella cristiana). A parte la menzione alla “dottrina cristiana” senza specificare se si trattasse di strumento dell’Inquisizione Romana o di un tribunale protestante, fa sorridere il fatto che, partendo da questa storia della parola sospirata “abiuro”, altri “musei” abbiano addirittura fatto creare dei pezzi che riportano la scritta “abiuro” incisa sul ferro. Le fonti wikipedia per “heretic fork” sono grottesche: un museo della tortura fasullo e la pagina di un negozio online che vende repliche (per giunta maldestre).

Un altro falso del secolo scorso. Molto forte dal punto di vista immaginifico ma pur sempre un falso. Anche in questo caso nessun libro, di quelli conosciuti volgarmente come “manuali dell’Inquisizione”, parla di questo strumento. Dal Malleus Maleficarum al Sacro Arsenale di Eliseo Masini, fino all’opera anticlericale di Henry Charles Lea A history of the Inquisition of the Middle Ages, e alla Storia dell’Inquisizione di Tamburini, nessuno fa menzione di un dispositivo anche solo lontanamente simile alla Forcella dell’Eretico. In pratica, è possibile che lo abbiano fatto costruire di sana pianta prendendo come canovaccio il libro di Havas, senza neanche rifarsi, quindi, ai falsi vittoriani. Il falso esposto dal “museo” della tortura è stato poi riproposto in un famoso dipinto di Leon Golub nel 1985. 22 la Ciminiera

LA SEDIA INQUISITORIA Che qualcuno abbia potuto credere a una cosa del genere è, dal punto di vista storico, a dir poco mortificante. La Sedia Inquisitoria unisce influenze indiane provenienti dall’Impero Britannico al solito Medioevo Vittoriano, e, ovviamente, non se ne fa menzione in alcun volume dedicato alla prassi inquisitoriale, né ad altre fonti dal XIII al XVIII secolo. L’idea stessa di inquisitori disposti a spendere cifre enormi per realizzare un simile oggetto è grottesca; il quantitativo di metallo utilizzato, poi, e la presenza di chiodi fatti in serie lasciano presupporre una prima fabbricazione modernissima. È quantomeno sospetto che le prime riproduzioni della Sedia Inquisitoria siano del XX secolo, anzi, più precisamente, del’ultimo quarto del secolo scorso.

È difficile dire se la Sedia Inquisitoria sia stata creata avendo in mente i letti di chiodi dei fachiri o qualche altro falso vittoriano, ma è davvero molto sospetto leggere che la prima menzione del dispositivo risale al… 1880 (Geschichte der Hexen und Hexenprozesse, un altro testo senza alcuna pretesa storica) e la prima costruzione di questo dispositivo a dopo il 1983. Dopo la pubblicazione di quale testo? “Catalogo della mostra di strumenti di tortura,

1400-1800: nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre, 1983”. Ebbene sì, anche la Sedia Inquisitoria

potrebbe essere (anzi, siamo più nell’ambito delle probabilità che in quello delle possibilità) la seconda creazione originale dei “musei” della tortura, ed è francamente incredibile che abbia avuto questa diffusione senza suscitare i necessari sospetti storici.

LA CULLA DI GIUDA Almeno nel caso della Culla di Giuda (Judaswiege o Judas Cradle), alcune pagine


wikipedia, come quella in italiano e in tedesco, riportano che si tratta di uno strumento immaginario, stendendo un velo pietoso sull’origine del mito. D’altronde, immaginare un trabiccolo del genere, per cui era necessario l’impiego di diverse persone, 4 funi e un puntale di legno per dilaniare l’ano del malcapitato, è fisicamente difficile da immaginare. A prescindere, comunque, dai problemi strutturali dell’attrezzo, è necessario fare il solito lavoro sulle fonti per dimostrare che non fu mai utilizzato o anche solo concepito prima del XIX secolo. La prima menzione? Immagino ci siate arrivati da soli ormai: “Catalogo della

mostra di strumenti di tortura, 1400-1800: nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre, 1983“.

di più degli autori di questo “Catalogo della

mostra di strumenti di tortura, 1400-1800: nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre, 1983”: Robert

Held, Tabatha Catte e Tobia Delmolino. Del primo, che vanta alcune curatele in ambito oplologico, sono riuscito a reperire solo due dichiarazioni: la prima riportata anche ne la pagina de L’Espresso qui sopra, in cui dice che gli originali sono “difficili da reperire perché

dopo l’entrata in vigore del codice di Francesco III furono rimossi o distrutti“. Più che “difficili” avrebbe dovuto dire

“impossibili”, ma la cosa bizzarra è ricondurre la distruzione di ogni strumento di tortura degli ultimi otto secoli in tutta Europa, nonché la cancellazione di ogni sua traccia da decine di migliaia di volumi, alla legislazione di un Granduca di Toscana. La seconda è tratta dal già citato “Inquisition: A Bilingual Guide to

the Exhibition of Torture Instruments from the Middle Ages to the Industrial Era, Presented in Various European Cities in 1983-1987, Firenze, 1985“, e dà la misura delle conoscenze storiche

del soggetto:

La prima menzione de La Culla di Giuda è anch’essa del 1983. Curioso no? Per quanto riguarda l’incisione spesso riportata nella didascalia di questo oggetto, datata al XVII o XVIII secolo a seconda del “museo”, non sono stato in grado di reperirla in nessun manuale. Probabilmente, alla base c’è l’illustrazione contenuta nel De visitatione carceratorum (1655), a pagina 42 dell’appendice, di Battista Scarnaroli, che parla di un supplizio della veglia impartito, in rare occasioni, nelle carceri romane di metà Seicento. L’illustrazione effettivamente assomiglia a quella qui sopra, ma leggendo la descrizione si notano diversi particolari che fanno presumere un disegno approssimativo e poco veritiero. In particolar modo, lo Scarnaroli precisa che si deve evitare a tutti i costi ogni lacerazione alla persona e che la sommità della “culla” non è un legno acuminato, ma una pietra a forma di diamante che abbia una sommità larga abbastanza da permettere la seduta. La veglia può durare sei ore ed è consigliato, dopo, di far stare al caldo il presunto reo e di nutrirlo con uova e brodo di pollo per il gran freddo patito per le ore passate nudo sullo sgabello. A questo punto, sarebbe interessante sapere

Tra il 1450 e il 1700 tra i due e i quattro milioni di donne finirono al rogo sia nell’Europa Cattolica che in quella Protestante. Una cifra ridicola, equivalente a 45 donne al giorno per 250 anni consecutivi (1340 al mese!). Robert Held comunque (non so se sia il padre del bravo fumettista Joshua Held) deve essere stato a contatto con la fiction letteraria, visto che viene ringraziato da Thomas Harris nel libro “Hannibal” (Harris è l’autore de Il Silenzio degli Innocenti e seguiti). Di Tabatha Catte, che dovrebbe aver curato la sola impaginazione, non si sa nulla, così come di Delmolino.

Ovviamente, per amore della verità storica, saremmo felici di ricevere segnalazioni sulla presenza di queste torture in fonti originali, in modo da effettuare eventuali correzioni. la Ciminiera 23


Vi starete chiedendo, a questo punto, quali fossero i veri strumenti di tortura dell’Inquisizione Romana. A questi dedicheremo un apposito articolo, per ora possiamo anticipare una porzione del capitolo dedicato alla tortura da Eliseo Masini nel Sacro Arsenale (1621). Da questo e da altri volumi si evince chiaramente come la tortura più praticata fosse quella della “corda” (o “strappado”), mentre per chi non era in grado di sostenerla per problemi fisici, poteva essere sottoposto alla (dolorosissima) fustigazione

con bacchette di legno sui palmi delle mani o sulla pianta dei piedi. Tra l’altro, in pochi sanno che la confessione sotto tortura doveva essere confermata ventiquattro ore dopo, altrimenti rimaneva inaccettabile. E che, ad esempio, si utilizzava la corda per evitare spargimenti di sangue, poiché si trattava di una delle proibizioni più stringenti tra quelle che gravavano in capo all’inquisitore. Ma per una trattazione più completa dovrete aspettare ancora qualche giorno.

Bibliografia • Eliseo Masini, Sacro arsenale, ouero, Prattica dell’officio della Santa Inquisitione, 1621; • Philippus van Limborch, Philippi a Limborch Historia inquisitionis: cui subjungitur liber sententiarum inquisitionis tholosanae ab anno Christi MCCCVII ad annum MCCCXXIII, 1692; • Piazza, Girolamo Bartolomeo, A short and true account of the Inquisition and its proceedings, as it is practis’d in Italy, set forth in some particular cases : whereunto is added, an extract out of an authentick book of legends of the Roman Church, 1722; • Samuel Chandler, The history of persecution : in four parts. Viz. I. Amongst the heathens. II. Under the Christian emperors. III. Under the papacy and Inquisition. IV. Amongst Protestants, 1736; • Archibald Bower, Authentic Memoirs Concerning the Portuguese Inquisition, 1761; • Modesto Rastrelli, Fatti attenenti all’ Inquisizione e sua istoria generale, e particolare di Toscana, 1782; • Antonio Puigblanch, The Inquisition Unmasked: Being an Historical and Philosophical Account of that Tremendous…, 1816 • Vari, Records of the Spanish Inquisition : translated from the original manuscripts, 1828; • C. H. Davie, History of the Inquisition, from its establishment to the present time, 1850; • Pietro Tamburini, Storia generale dell’Inquisizione, 1862; • Henry Charles Lea, A history of the Inquisition of the Middle Ages, 1887; • George Lincoln Burr, Narratives of the witchcraft cases, 1648-1706, 1914; • Turberville, Arthur Stanley, Medieval heresy & the inquisition, 1920; • Alexander Herculano, History Of The Origin And Establishment Of The Inquisition In Portugal, 1926 • Edward Peters, Inquisition, 1989; • Kamen Henry, The Spanish Inquisition: A Historical Revision, 1999; • E. Brambilla, Alle origini del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal medioevo al XVI secolo, 2000; • Franco Cardini, Marina Montesano, La lunga storia dell’inquisizione. Luci e ombre della «leggenda nera», 2005; • Andrea Del Col, L‘inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, 2007; 24 la Ciminiera


GIOVANNA D’ARAGONA E LA TORRE DELLO ZIRO

Aleggia in Amalfi nell’aria e nei racconti dei giovani leoni, allorché conducono le belle Walkirie alla Torre dello Ziro, per di Angelo rivivere, forse, per un attimo, felici momenti d’amore, la triste e leggendaria storia di Giovanna la Duchessa dì Amalfi. Giovanna d’Aragona era una donna giovane, bella oltre che vedova di Alfonso I. Figlia di Enrico d’Aragona, Marchese di Gerace, che a sua volta era figlio del Re Ferdinando I d’Aragona, sposò Alfonso I , dal quale, ebbe due figli: Caterina che morì in tenera età ad otto anni ed A1fonso II che nacque il 10 Marzo 1499, quando il padre Alfonso I era già morto da qualche mese, lasciando la moglie incinta. Alfonso I, Duca di Amalfi, era figlio di Antonio Todeschini Piccolomini, nipote di Pio II ed in seconde nozze di Maria Marzano, figlia di Marino, Principe di Rossano, nipote di Re Ferdinando I d’Aragona. Quando il Piccolomini si sposò il 24 maggio 1461, ebbe in dote lo Stato di Amalfi. Per la minore età del figlio Alfonso II, la Duchessa Giovanna d’Aragona ne divenne tutrice, preoccupandosi di educare il piccolo orfano e di proteggerlo nella reggenza del Ducato di Amalfi.

Un giorno, pur avendo sempre rifiutato qualsiasi occasione matrimoniale, si innamorò del suo maggiordomo Antonio Di Lieto Bologna, cavaliere napoletano, valoroso e gentile. Temendo l’ira dei fratelli, Giovanna d’Aragona, con la complicità di un frate, sposò segretamente il Bologna, dal quale ebbe tre figli, nati tutti in gran segreto. Non resistendo ai sospetti, alle perquisizioni ed alle continue vessazioni dei congiunti, Giovanna, rinunciando definitivamente al Ducato a favore del figlio Alfonso II, decise di allontanarsi da Amalfi, per riabbracciare il suo sposo, che già da tempo, temendo per la vita di lei e per quella dei suoi figlioli, si era rifugiato ad Ancona. Lontana da Amalfi ebbe con la famiglia brevi momenti di felicità, finchè non scoppiò la tragedia. Infatti, ad Ancona, durante un ricevimento, Giovanna annunziò pubblicamente che nel suo stato di vedova, da anni, aveva legittimamente e nascostamente sposato Antonio Bologna, del quale si era innamorato a tal punto da rinunciare anche al titolo di Duchessa. Solo da lontano, Giovanna d’Aragona aveva la Ciminiera 25


avuto il coraggio di manifestare ai suoi fratelli l’intenzione di essere lasciata in pace e di poter continuare a vivere la sua vita privata col marito e con i figli divenuti nel frattempo quattro. Quando il fratello Cardinale seppe la notizia, restò tanto infuriato che fece intervenire Gismondo Gonzaga, Cardinale di Mantova e legato di Ancona del pontefice Giulio II, che provvide a cacciarli di Ancona nel tempo di quindici giorni. Anche a Siena dove si erano rifugiati, il Bologna rischiò di morire insidiato sempre dall’implacabile cognato. Un giorno, infatti, Antonio Bologna, per sfuggire alle insidie del cognato cardinale, fratello della moglie, fuggì a Padova, ma lì, per istigazione, venne fatto assassinare dallo stesso cardinale. Le sue spoglie furono seppellite nella Chiesa dei Carmelitani di Padova. Giovanna, invece, con i figli ed una domestica, sempre dal fratello, venne fatta catturare e rinchiusa nella Torre dello “Ziro” , una torre “orbicolare“ , a forma di grande orcio, la cui etimologia, “Zir”, di origine araba, vuole indicare appunto un grande orcio a bocca larga che veniva utilizzato per tenervi olio, vino, ed altre derrate. La torre dello “Ziro , già Rocca di S. Felice, veniva considerata sin dal IX secolo la più munita fortezza della Repubblica Marinara ed era posizionata sopra l’attuale cimitero che era l’ ex Convento S. Lorenzo. La leggenda narra che Giovanna d’Aragona sia stata rinchiusa lì e fatta morire di fame e di stenti con i propri figlioli. Alcuni riferiscono che probabilmente sia stata strangolata. Invero, qualche anno addietro, muniti di libri e di mappe che sfogliavano in sito in continuazione, si son visti due stranieri di origine spagnola, forse discendenti indiretti degli Aragonesi, che effettuavano misure e calcoli in una zona dove vi è un lieve declivio che circonda la base della Torre. Erano venuti probabilmente per rinvenire sotto la Torre un favoloso tesoro che qualche loro antenato aveva nel passato seppellito o si trattava di altro? All’esterno la Torre non ha ingressi, se non attraverso un cunicolo. All’interno ,un tempo, vi dovevano essere tre piani rialzati ed un lastrico. Al pianterreno vi era una cella destinata forse per i prigionieri ed una cisterna a lato. Buchi di osservazioni e feritoie si vedevano nei piani rialzati. Solo di recente, dove vi è un arco a tutto sesto, è stata rinvenuta una porta di accesso chiusa a muratura. Nessuno degli storici ha mai fornito questi particolari. Si sa solo che nel timore delle incursioni piratesche, i Nobili Amalfitani si rifugiavano sulla Torre con tutte le loro ricchezze. Una 26 la Ciminiera

la duchessa Giovanna d’Aragona (nel dipinto di Raffaello esposto al Louvre)

volta anche il Tesoro della Cattedrale fu nascosto nella Torre, però gli arredi sacri e tutti gli oggetti d’oro non furono più restituiti. Era questo, forse, il tesoro che i due ricercatori che non furono mai individuati andavano cercando? Così le Autorità competenti, allarmati dai cittadini del posto, effettuarono subito dei sopralluoghi. L’urto del piccone sulla parete di una stanza fece sorgere l’ipotesi che verso il lato di levante e di tramontana, sui due lati dei bastioni, sotto uno strato di terra di circa un metro, potevano esserci, verso occidente, delle gallerie o dei locali di circa 50 metri (12 mt. x 7 ). Successivamente furono rinvenuti invece, da alcuni giovani, verso il lato nord della fortezza, cinque scheletri, con mandibole e dentatura completa. Date le proporzioni, potevano appartenere a soldati di guarnigione. Solo uno, per la fragilità delle ossa, poteva essere lo scheletro di una donna. Anche se gli storici riferiscono che il corpo della Principessa Giovanna fu nascosto in gran segreto, non si sa se quello era lo scheletro o meno dell’ infelice Giovanna d’Aragona. Interventi non se ne sono più fatti, però se si facessero degli scavi, non in economia, ma in modo più approfondito, smuovendo tutto quello che sarebbe rimovibile, si potrebbe in via definitiva risolvere sia il mistero del Tesoro della Cattedrale mai più rinvenuto e sia quello della tomba della Principessa Giovanna. Nel 1952, a seguito di una folgore che lo colpì violentemente, crollò il lato nord della torre


dello Ziro. Su questa triste racconto d’amore e di persecuzione ingiustificata, la malinconica favola della Duchessa di Amalfi entrò nella storia della letteratura Europea. Così, fu raccontata in una novella rinascimentale di Matteo Bandello (1485-1561), in Francia da John Webster nel 1623 (“The tragedy of the Dutchesse of Malfy “London 1623 -Ed. J.J. Brown -London I964 ), dal poeta spagnolo Lope Felix de Vega nella “Comedia famosa del mayordomo de la duquesa de Amalfi” e continuerà sempre sino al I900. Vi fu anche un’opera musicata al Teatro Nazionale di Vienna nel I794. Comunque in Europa e nel Mondo non fece solo notizia la Storia della Duchessa di Amalfi, ma anche il sito, la costa, Amalfi ed i suoi dintorni, luoghi che stuzzicarono gradatamente e sempre più las curiosità dei visitatori, i quali, per aver letto un racconto, un giorno si trovarono innanzi ad uno scenario magico, incantevole, paradisiaco, ricco di storia e di antichi splendori. Ognuno, secondo la forza delle proprie emozioni e secondo le proprie tendenze, immortalò in ogni modo, con la musica, con la pittura e con gli scritti, quella terra profumata, solare, celestiale. Però, nella circostanza è doveroso chiarire, anche per gli stessi Amalfitani che quando raccontano la storia d’amore di Giovanna d’Aragona di Enrico con il suo maggiordomo Antonio Bologna e che sposò segretamente in regolari nozze, data la particolare vicenda amorosa nata in Amalfi, spesso confondono la storia di Giovanna d’ Aragona, la bella, la pia, l’infelice, con la vita depravata di Giovanna II D’Angiò, Regina di Napoli (I371-1435). Sono due storie completamente diverse e con personalità sicuramente molto differenti tra di loro. Così Giovanna II D’Angiò-Durazzo, detta Giovannetta, sorella maggiore di Ladislao, (entrambi figli di Carlo III del ramo Durazzo), Re di Napoli e di Ungheria, per mancanza di figli legittimi, alla morte del fratello, avvenuta nel 1414, divenne Regina di Napoli sino al 1435. Vedova nel 1406 di Guglielmo d’Asburgo, Duca d’Austria, sposò nel 1415 Giacomo II di Borbona,

Conte di La Marche, che si fece frate, dopo aver ucciso Pandalfello Alopo, uno dei tanti amanti della moglie. Giovanna, anch’ella senza figli, fu eternamente assillata dal dubbio a chi dovesse assegnare il Regno. La disputa avveniva tra gli Angioini di Francia (Luigi II-Luigi III e Renat) ed Alfonso V d’Aragona, Re anche di Sicilia e di Sardegna. Quest’ambigua politica tenne sempre il Regno in un eterno stato di guerra, per cui, quando morì la Regina Giovanna, il 2 marzo 1435. Alfonso d’Aragona, scacciato i d’Angiò da Napoli, nel 1442 rimase Signore del Regno. Le dicerie dell’ epoca raccontano che Giovanetta conducesse una vita particolarmente dissoluta nella sua vita privata, tanto da far nascere delle aberranti maldicenze sulla sua depravata condotta morale. Infatti si diceva che fosse insaziabile e libidinosa a tal punto da far divenire “morale l ‘ immorale e lecito l ‘ illecito”. Pare che non contenta di godere con i suoi

Il cardinale Luigi d’Aragona

stallieri nelle scuderie reali, sia morta dopo essere stata posseduta da un suo cavallo, verso il quale aveva avuto una particolare attenzione. Alcuni sostengono anche che i numerosi intrighi e gli strani delitti verificatisi durante il suo regno, siano serviti a colpire profondamente l’onorabilità di questa donna, che tra l’altro, avendo una sua particolare bellezza, fu soprattutto colpita dal livore dei suoi nemici che non avevano goduto del favore delle sue grazie.

Bibliografia

- Barbara Banks Amendola = “Maria d’Aragona,Duchessa di Amalfi”- (1460-1470) da R.C.C.S.A. - Anno IX - Serie XIX - dicembre 1999. - Matteo Camera= “Memorie Storico/Diplomatiche dell’antica Città di Amalfi” cronologicamente ordinate e continuate sino al Sec. XVIII - vol. II° Salerno - Stabilimento Tipografico Nazionale - Anno 1876. - Pietro Colletta = “Storia del Reame di Napoli”- Melita Editori - 1990. - Benedetto Croce = “Storie e Leggende Napoletane”- ediz Adelphi - Milano - 1990. la Ciminiera 27


Post-Scriptum Credo che a questo punto sia essenziale rappresentare lo sviluppo dinastico del Casato degli Aragonesi, con tutti gli eventuali imparentamenti, non solo per far comprendere meglio al lettore lo scenario e gli avvenimenti di questa triste storia, ma anche perché queste indicazioni serviranno per gli episodi tragici riguardanti la vita di Antonio Centelles ed Enrichetta Ruffo di Calabria. Alfonso V il 23 febbraio 1443 si insediò sul trono di Napoli col nome di Alfonso I. Ebbe tre figli: 1) Maria = che sposerà Lionello d’Este; 2) Ferdinando I d’Aragona o Ferrante I, che alla morte del padre Alfonso I diventerà Re di Napoli e che sposerà nel 1465 Isabella di Chiaromonte, nipote di Gian Antonio Orsini, Principe di Taranto, Conte di Nola e di Sarno. Il Re Ferrante ebbe due figli: I) Maria d’Aragona, che come si vedrà sposerà Antonio Tedeschini Piccolomini, ricevendo il Ducato di Amalfi in dote il 24 maggio 1461. Da questo matrimonio nacquero Vittoria, Isabella che andrà sposa ad Andrea Matteo Acquaviva e Maria che sposerà Marco Coppola, figlio di Francesco Coppola, l’uomo più ricco del Regno, finanziatore del Re e che morirà in Napoli giustiziato l’11 maggio 1487. Antonio Piccolomini, in seconde nozze, sposerà Maria Marzano, figlia di Marino Marzano, Principe di Rossano. Da queste nozze nacquero le figlie: Eleonora, che sposò Bernardino Sanseverino, Principe di Bisignano, Giovanna, che sposò Marcantonio Caracciolo, Conte di Nicastro, più quattro maschi: A) Alfonso I, che sposando Giovanna d’Aragona figlia di Enrico e nipote di Ferrante I, Re di Napoli, diventerà Duca di Amalfi allorquando morì il padre Antonio Piccolomini nel 1498. Da questo matrimonio nacquero: Caterina che morì all’età di otto anni ed Alfonso II che nacque il 10 marzo 1499, quando il padre Alfonso I era morto qualche mese prima e cioè il 23 ottobre 1498. Alfonso II avrà come tutrice la mamma Giovanna d’Aragona, figlia di Enrico d’Aragona, Marchese di Gerace, che come appena raccontato, abbandonerà la reggenza del Ducato di Amalfi per sposare il suo maggiordomo Antonio Bologna. Alfonso II sposerà Costanza d’Avalos d’Aquino, Marchese di Vasto. B) Federico morì fanciullo. C) Francesco fu Vescovo di Bisignano. D) e Gianbattista, che fu Marchese d’Iliceto. II) L’altro figlio di Ferrante fu Enrico, Marchese di Gerace. 3) Eleonora, è la terza figlia di Alfonso I e che sposerà Gian Antonio Orsini, Principe di Taranto, Conte di Nola e di Sarno. Eleonora diventerà Duchessa di Amalfi portando il Ducato in dote nella promessa del 15 novembre 1438. Dopo la morte del filoangioino Gian Antonio Orsini, che morì nel Castello di Nola, senza avere avuto legittima prole, Eleonora si ritirerà nel suo Ducato di Amalfi. Eleonora, in seconde nozze sposerà il ribelle filoangioino Marino Marzano, Marchese di Crotone, Duca di Sessa e Principe di Rossano. Eleonora, pur essendo un’Aragonese e restando fedele al fratello Re Ferrante, avrà simpatia per la causa filoangioina, sicuramente influenzata dalla scelta politica del primo marito Gian Antonio Orsini. Il matrimonio, forse, con Marino Marzano fu voluto dal Re Ferrante per legare il Marzano alla famiglia aragonese, ma probabilmente furono anche i figli illegittimi dell’Orsini a legare Eleonora verso la causa filoangioina. In ultima ipotesi si pensa anche che Eleonora fosse convinta che il fratello Ferrante gli avrebbe tolto il Ducato di Amalfi per il timore che potesse passare nelle mani degli Angioini, per poi concederlo alla nipote Maria, figlia di Enrico d’Aragona ( quest’ultimo, che è anche figlio dello stesso Re di Napoli Ferrante, morirà nel 1478). 28 la Ciminiera


E così fu, perchè il Re Ferrante lo sottrasse dalle mani della sorella Eleonora per offrirlo in dote alla nipote Maria il 24 maggio 1461 allorchè sposò Antonio Todeschini Piccolomini. Eleonora era stata privata del Ducato di Amalfi, non solo perché aveva dato sostegno a Giovanni d’Angiò, ma anche perché il Re Ferrante intendeva vendicarsi sul cognato Marzano Marino, il quale, anni prima, aveva attentato alla sua vita. La zona era quella tra Teano (feudo di Marzano) e la città di Calvi. Ognuno con la sua scorta, veniva seguito a breve distanza anche da due cavalieri. Ad un tratto Diofebo dell’Anguillara, uno dei cavalieri che seguiva Marzano, (l’ altro era Giacomo da Montagna), fingendo di riverire il Re, il quale aveva appena incominciato a discutere col cognato, si lanciò con la spada in pugno contro Ferrante. La prontezza del Re ed il tempestivo intervento dei suoi due cavalieri che gli stavano vicino gli salvarono la vita. Il Re Ferrante, dopo la sua vittoria sui Baroni, volle immortalare quest’episodio sulle porte di bronzo di Castelnuovo. Ferrante questo triste episodio non lo dimenticò mai, per cui quando la situazione precipitò perché la sorella Eleonora aveva apertamente dato sostegno alla causa angioina contro quella aragonese, trovò l’occasione per toglierle il titolo di Duchessa ed il Ducato di Amalfi, offrendolo in dote a Maria d’Aragona, sua nipote. Spogliata del Ducato, Eleonora si ritirò a Sessa Aurunca, nel Castello di Marzano Marino. Quando nel luglio 1463 gli Aragonesi sconfissero i filoangioini e quindi anche il ribelle Marino, la pace ritornò in famiglia attraverso una promessa di matrimonio tra la figlia del Re Ferrante, Beatrice, di anni sei, ed il figlio di Marzano, Giovanbattista. Il contratto matrimoniale avvenne nel 1463 a Torre Francolise, tra Capua e Sessa Aurunca. Ma nel giugno del 1464 , dato che Marino Marzano continuava a complottare a favore di Giovanni d’Angiò, Ferrante si vendicò facendolo arrestare e sequestrandogli tutti i suoi beni. Alla sorella Eleonora offrì però una rendita annuale di 3000 ducati. Nello stesso tempo Eleonora fu invitata a trasferirsi con la piccola Beatrice nel Castello di Aversa. Nel 1464, inoltre, il Re Ferrante annullò la promessa di matrimonio di Giovanbattista con Beatrice e gli confiscò tutti i beni. Marino Marzano forse morì in modo violento nel carcere di Castelnuovo, oppure fu ucciso da uno schiavo nelle prigioni di Ischia insieme ad altri baroni ribelli, tra cui il Centelles. Il figlio di Marino, Giovanbattista, che avrebbe dovuto sposare Beatrice e che all’atto dell’arresto aveva quattro anni, fu messo nella prigione della Torre della Guardia di Castelnuovo. Lì passò 30 anni della sua vita. Fu rilasciato dal Re di Francia Carlo VIII quando giunse a Napoli nel 1495, ma ritornò ancora in prigione nel gennaio del 1505, ad opera del Viceré di Napoli, Consalvo de Cordova, sicuramente per ribellione a favore dei francesi con altri baroni.(Vedi la Storia di Antonio Centelles)

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ANTONIO CENTELLES ED ENRICHETTA RUFFO DI CALABRIA

Quando Alfonso d’Aragona Ai tempi di Centelles la il 23 febbraio 1443 si insediò situazione in Calabria era sul trono di Napoli, scoppiò a tutti i livelli veramente una rivalità tra il Re ed Andisastrosa. In prevalenza di Angelo Di Lieto tonio Centelles o Centeglia, era una roccaforte anche coinvolse tutta la Calagioina sotto le insegne di bria. Luigi III d’Angiò, mentre Centelles era un nobile cai simpatizzanti della Casa talano di Valenza, figlio di Gilberto Centelles, d’Aragona erano sotto l’egida di Alfonso V d’A“straticò“, cioè comandante militare di Mes- ragona. Entrambi i poteri avevano nominato in sina, e di Costanza Ventimiglia, figlia ed erede Calabria due distinti vicerè. I baroni sempre ridel Conte Antonio di Ventimiglia, della Contea ottosi in guerra per arricchire la propria feudadi Collesano in Sicilia, nonchè nipote del Mar- lità, erano poi incapaci e senza forza per creare chese Giovanni di Ventimiglia. una secessione. Probabilmente se la MonarDal matrimonio di Gilberto e Costanza era- chia non fu mai abbattuta dai baroni ribelli, è no nati, secondo alcuni, dodici figli, ma si è perchè per convenienza non vollero mai arpiù propensi a ridurre il numero a sei, con tre rivare fino in fondo spingendosi verso la totamaschi e tre femmine. Il primo fu appunto An- le distruzione. In fondo in fondo la Monarchia tonio Centelles, Marchese di Cotrone, uomo era sempre un grande baluardo ed una sicura fecondo, eloquente e di grande oratoria, abile difesa contro eventuali lupi, Chiesa compresa, nell’accendere gli animi dei sostenitori del Re e che ambivano ad allargare il proprio orizzonte dei suoi medesimi nemici. territoriale. Nell’estate del 1437 era stato inviato dal Re Le diverse guerre avevano prodotto il crollo in Calabria come Vicerè con pieni poteri, con dell’agricoltura, provocando una grande crisi l’intento di aggregare feudalità locali a favore economica. I contadini avevano abbandonato i della causa aragonese contro quella angioi- campi per darsi però alla pastorizia, più redditina. Egli divenne insomma in Calabria l’uomo zia e meno faticosa. Le greggi si erano notevolimportante per una Monarchia che cercava di mente sviluppati, per cui le truppe aragonesi, consolidarsi. Però Centelles era abile, ambizio- ogni giorno, non avevano problemi di approvso e di forte personalità, oltre che intrepido, vigionamenti di carne e di prodotti inerenti l’ coraggioso ed eternamente irrequieto ed inaf- attività pastorale. fidabile. Astuto e scaltro, fu definito l’Ulisse dei I feudatari erano i maggiori proprietari tersuoi tempi. Ma era anche un uomo colto e raf- rieri, mentre, in misura minore, era invece la finato. Chiesa, ma solo nelle zone dove vi erano par30 la Ciminiera


rocchie, conventi, sedi vescoun potente. vili e monasteri. Poi vi erano i Il popolo calabrese, innanzi piccoli proprietari o i coltivaalle aggressioni regie o barotori della terra che la detenenali, si presentava di solito vano con contratti di diversa remissivo, rassegnato e sennatura. Non si ha comunque za forza o reazione. La ribelconoscenza quali fossero con lione era quasi impensabile. esattezza le terre incolte e L’umiltà e la tolleranza prediboscose e quelle invece colcata dai monaci rendeva poi tivate. I braccianti, secondo i calabresi ancora più refratle richiesta, passavano ora da tari, insensibili ed incapaci di un padrone, ora da un altro, tutelare la propria persona singolarmente o anche con ed i propri diritti. Tra l’altro, tutte le famiglie. il religioso che si ribellava a La delinquenza era notevodifesa del popolo, o in un le, le rapine, i ricatti, gli omimodo o in un altro, veniva cidi premeditati o per ira non punito ed eliminato, anche se si contavano. Se si era amico la Chiesa godeva sempre di di qualche capitano si riceveesenzioni e di privilegi. Spesva la copertura o la possibiso i baroni organizzavano lità di evadere per darsi alla incursioni nei territori ecclePietro Ruffo di Calabria, macchia. Nelle circostanze siastici per uccidere o rubare Conte di Catanzaro delittuose collettive, invece, bestiame, bruciare raccolti e avveniva spesso che il popopascoli allo scopo di approlo afferrava il presunto reo e faceva giustizia priarsi anche dei terreni degli ecclesiastici. Ma sul campo senza un processo. La ferocia della alcune volte anche i vescovi erano diabolici, vogente era tale che sembrava quasi inverosimi- raci ed oppressivi. In una nota del 17 dicembre le e non umano il loro bieco comportamento, 1492, il Re definiva il Vescovato di Crotone una senza dubbio pari alla loro rozzezza. ”spelunca di ladri”. Le diocesi erano come feuSi narra, infatti, che due monaci, con scarsa di, perché venivano concesse secondo l’utile ed vocazione religiosa, non pagarono una prosti- i favori che ricevevano. tuta dopo essersi intrattenuti con lei. I parenA Bisignano, il 28 giugno 1339, al vescovo Feti ed i presenti presero così questi due monaci derico furono mozzate le mani e la testa ed i e bruciarono loro le parti intime. Vituperati e suoi resti furono menati per la città. I suoi acmalconci si allontanarono, ma in quelle condi- compagnatori, familiari, preti, chierici e laici fuzioni morirono per strada, sotto un albero. Un rono tutti massacrati ed i loro corpi dilaniati e contadino, quando li trovò morti, invece di sep- lasciati insepolti perché fossero pasto per gli pellirli, mise i loro corpi su un grande fuoco e uccelli e per le bestie. Non si conoscono i veri li bruciò. Protestò nella circostanza anche San motivi, ma sicuramente il vescovo dovette atFrancesco di Paola, inveendo sia contro i frati tuare qualche abuso, tipo feudale, che eccitò che avevano avuto la giusta punizione divina e ultramisura la popolazione dei diversi territori. sia contro gli uomini che con ferocia avevano Il resto della popolazione restò indifferente insparso il sangue dei loro simili. nanzi a quest’efferato delitto. La scuola dei baroni, comunque, non era diAnche il poeta Galeazzo di Tarzia, Barone di versa, perché essi imponevano la loro spietata Belmonte, per il suo comportamento da tiranlegge, che a livello personale, era al di sopra di no, alla fine fu assassinato da mano ignota. quella umana e divina. Questi erano dei veri ti- Ugualmente Valerio Telesio, Barone di Castelranni, perchè vessavano tutti imponendo tasse, franco e Cerisano, nonché fratello del filosofo bastonavano i loro vassalli, stupravano le loro Bernardino, nel 1567, fu accusato dai vassalli, donne e per arricchirsi ulteriormente confisca- che, come “eretico luterano”, vollero punirlo vano tutto ai loro sudditi anche con false impu- per la sua ferocia e violenza. Sebbene assolto, tazioni. I beni venivano altresì confiscati anche fu ucciso dai vassalli di Castelfranco. a chi si allontanava dalle terre senza il permesIl poeta dialettale Carlo Casentino d’Aprigliaso dei rispettivi padroni. Forse il Centelles, pur no, che tradusse in dialetto calabrese la Geruessendo in altre circostanze molto discutibile, salemme Liberata, ebbe rapita la bella moglie era poi uno dei pochi che trattava umanamente dagli sgherri del principe Sanseverino di Bisila sua gente. La stessa Corte Regia sapeva be- gnano. Il poeta, dopo il rapimento, continuò nissimo che era più facile punire il popolo che imperturbato a scrivere poesie, ma con un pizla Ciminiera 31


Reggio Calabria - Castello aragonese

zico di cattiveria v’è da ritenere che l’immediata assuefazione del poeta all’accaduto, sia da imputare ad una piena consapevolezza della complicità e del comportamento civettuolo della propria moglie. I Monasteri cristiani venivano eretti e sorgevano in quanto i monaci si davano da fare con le autorità politiche e religiose, alfine di ottenere terreni da dare ai coloni, i quali, spinti da contratti favorevoli di enfiteusi (n.d.A.= contratti coi quali si offrivano terreni in perpetuo o per un certo tempo in cambio di pagamenti annuali in derrate oppure in denaro), popolavano il territorio circostante al monastero, mentre con questo sistema i monaci miravano in contestuale a cristianizzare i nuovi coloni. Il Clero all’inizio forniva gratuitamente le sementi con alcuni animali ai coloni, i quali si adoperavano per disboscare i terreni incolti e poter utilizzare spazi più ampi. Coltivavano segale, frumento, avena, lupini, orzo, che servivano per l’alimentazione degli stessi contadini e del bestiame. I maiali venivano allevati con castagne e ghiande e chi non aveva castagneti e querceti poteva prenderli in fitto. Alcuni terreni vengono vissuti permanentemente e non stagionalmente, per cui gli insediamenti diventano agglomerati abitati tutto l’anno e non più siti frequentati per brevi periodi. I terreni erano di proprietà non solo delle Mense Vescovili, ma erano anche personali del Clero, il quale aveva coloni dipendenti e che lavoravano la terra e la curavano insieme al bestiame. Di solito, se da un lato vi era uno sviluppo economico di terreni incolti, dall’altro i coloni sviluppavano solo una micro-economia, perché producevano quel tanto che poteva servire per sopravvivere e per pagare il fitto alla Mensa Vescovile. Comunque i Vescovi, per aiutarli nella sopravvivenza, non pretendevano di più, ma anche i coloni non si sforzavano oltre per 32 la Ciminiera

migliorare le loro condizioni di vita. Ma vi erano anche luoghi nei quali i massari ed i pecorai pagavano il triplo delle decime (due parti in denaro ed una con forme di “caso” Nelle terre governate dalla Chiesa, monastero o diocesi, alle spigolatrici veniva sottratta, sulla già povera retribuzione giornaliera, anche una percentuale che variava nella misura di 1/3, 1/4 o 1/5. In alternativa, chi del popolo non abbracciava il lavoro dei campi o si dedicava alla pastorizia, diveniva un soldato mercenario. Le Chiese rurali avevano la funzione di far frequentare quelle famiglie che stando lontani dai Centri abitati, non potevano frequentare la Chiesa del paese. Molti, sia bambini che adulti, rischiavano di morire senza sacramenti e così per supplire a questa gravissima carenza vi furono vescovi che anche a spese dei proprietari terrieri che le avevano costruite, introdussero il sistema della chiese rurali, dove si potevano svolgere le funzioni soltanto nei giorni festivi. I fedeli, poi, assicuravano alla Chiesa fiori, ceri, vino ed olio per le lampade e per gli acquisti di arredi sacri. Il Sagrato della Chiesa era il “Parlamento” del paese, perché là si adottavano le decisioni dei cittadini, lì si svolgevano le aste, lì si attuavano le gare d’appalto per la riscossione delle tasse. “L’ Albo Pretorio” del Comune, dove, per la conoscenza di tutti, si davano notizie, informative o avvisi, venivano collocati dulla porta della Chiesa. La campana del Campanile serviva in caso di pericolo o nel richiamare l’urgenza su di un avvenimento, ed aveva così lo scopo di far accorrere tutti. Tutto si svolgeva nella Chiesa, così con la nascita il battesimo, con l’adolescenza la cresima, con la giovane età il matrimonio, il Cielo si chiudeva con il funerale e col seppellimento nella chiesa dove aveva spiritualmente vissuto. La situazione urbanistica, economica e sociale era molto al di sotto del punto di svilup-


po raggiunto dall’Italia del Nord e dalla stessa capitale partenopea e zone limitrofe. Anche il senso unitario, inteso come socialità fra i cittadini, mancava in Calabria; prevaleva l’isolamento, l’interesse personale e l’egoismo individuale più gretto. Il Monarca, poi, aveva diritto di revocare o di riconfermare la concessione feudale ai baroni e questi di riflesso imponevano il loro potere sul proprio territorio che poteva abbracciare anche diverse città. Quelle poche città che non erano sotto il potere feudale-baronale, restavano di proprietà demaniale, che però spesso venivano vendute per sanare debiti regi, per poi, con qualche espediente, essere riconquistate da parte del potere regio o con un’azione militare o con una confisca. Nei territori demaniali, poi, vi era più il senso della legalità, mentre sulle terre baronali era proprio la giustizia che mancava, perchè ogni iniziativa o decisione era fondata su intenti speculativi e sulla valutazione se vi erano o meno interessi e vantaggi che sarebbero andati al barone stesso. Nei casi di omicidi, una persona che veniva ingiustamente coinvolta, poteva stare lunghi anni in carcere in attesa di giudizi o pagare in moneta come se fosse colpevole. Ovviamente la persona facoltosa, premeditatamente scelta come vittima o come pollo da spennare, preferiva subito pagare e ritornare libero ed assolto dal grave, anche se ingiusto reato. I privilegi, gli Statuti, le immunità ed i Capitoli che il Re concedeva al popolo erano a doppio taglio, nel senso che servivano sì a dare maggiore autonomia ed incentivazioni ai Comuni ed ai propri cittadini, ma avevano anche la funzione, nella piena consapevolezza dei sudditi, che in caso di ribellione, avrebbero ricevuto la revoca di tutti i privilegi e dei benefici in precedenza ottenuti. I Capitoli, in prevalenza, ponevano un freno all’ingordigia del feudatario ed agli agenti della riscossione ed erano anche una garanzia sulla predeterminata prestazione che i cittadini dovevano al barone. Vi erano cittadini che chiedevano al re che i loro territori restassero nel demanio regio piuttosto che essere affidati ai baroni, i quali li riducevano in uno stato di miseria e di povertà indicibile. Inoltre, venivano obbligati a lavorare senza salario e chi aveva buoi o asini doveva all’occorrenza metterli a disposizione, senza venire pagato nemmeno per il lavoro degli animali. Il Re poi, quando desiderava ingraziarsi qualche barone, lo allettava donandogli i terreni demaniali che maggiormente desiderava. Così il

potere regio, alcune volte, per motivi tattici, di sicurezza e di protezione, vendeva, regalava a nobili potenti, ricchi e di fiducia, le proprie città, ignorando con consapevolezza, come in alcuni casi accadde, di avere già in precedenza promesso in compravendita la Città agli stessi cittadini da tempo desiderosi, finalmente, di poter direttamente gestire la propria autonomia e di decidere in proprio del personale destino. Inoltre, erano i baroni e non lo Stato che dovevano provvedere a fare strade, ponti, acquedotti, a curare la sicurezza e ad essere mecenati di chiese e di conventi. I baroni, piccoli sovrani di periferia, nel loro feudo, erano dei veri tiranni e quasi sempre in contrasto col loro Re. La vita di un suddito valeva quanto quella di una bestia, anzi meno. La morte era l’unica aspirazione di chi viveva nel dolore e nella sofferenza. Un dato importante è che i baroni, tutte le volte che si trovavano al cospetto del Re, gli raccomandavano di non gravare pesantemente il popolo di carichi fiscali, in quanto, in questi casi, temevano sempre sommosse o tumulti, durante i quali le masse scaricavano i loro antichi odi ed atavici rancori. Gli esattori regi poi erano rigorosi ed intransigenti e non erano indulgenti nemmeno nei casi di terremoti o di alluvioni o di epidemie. In queste circostanze doveva intervenire il Re personalmente per concedere abbattimenti, esenzioni o sospensioni durante le operazioni di riscossione. Altre volte gli esattori davano incarico al barone di curare l’esazione di alcune partite, perchè nei confronti di alcuni morosi, egli poteva essere più convincente, non adoperando ovviamente le buone maniere. Nel 1400 vi fu in Calabria da parte dei baroni, ma anche da parte dei piccoli proprietari, un allargamento della produzione della “cannamela“. Vi erano così frantoi o “trappiti dello zucchero“ nelle zone dove il prodotto era particolarmente abbondante. Lo zucchero, quindi, veniva comprato, direttamente dai produttori durante le fiere o sui mercati, da napoletani, salernitani, amalfitani, pugliesi, siciliani, catalani, francesi, fiorentini e milanesi. La coltivazione della canna da zucchero durò sino al XVII secolo. Gli scali principali per caricare lo zucchero erano Scilla, Bagnara, Reggio Calabria, Tropea, Gioia Tauro, Pizzo e Crotone. Lavorazioni di canna si trovavano pure ad Acconia di Maida. In Calabria, per l’esistenza di numerose miniere, abbondava anche il sale, che veniva venduto su tutto il territorio campano. Così vi era il sale marino, quello rosso non depurato e quello delle miniere che era il migliore per la cucina. Anla Ciminiera 33


che questo prodotto non sfuggì alle leggi fiscali. Sul legname calabrese da destinare alle costruzioni di navi, vi era un particolare dazio. Per gli alberi di navi si pagavano otto tarì. A Castrovillari, sono state rinvenute delle vasche di pietra ed i ruderi conservano ancora il nome di “cartiera“. Sicuramente qualche amalfitano, visto che la Calabria era molto frequentata dai mercanti-navigatori della Repubblica Marinara, avrà impiantato direttamente sul posto questa fabbrica con l’intento di dare anche in quella zona, oltre che in patria, un diretto e consistente impulso alla produzione della carta a mano, che avevano appreso dagli arabi. Gli ebrei erano, invece, più per la tessitura e la tinteggiatura di panni di lana, di seta e di cotone. Questo era quindi il quadro storico, sociale ed economico nel quale la Calabria viveva, rappresentato per far comprendere meglio gli avvenimenti che si sarebbero svolti con l’invio del Centelles a Crotone da parte del Re Alfonso V d’Aragona, che sul Regno di Napoli prese il titolo di AlfonsoI. Alfonso I ebbe tre figli: Maria, che sposò Lionello d’Este, Eleonora che sposò Raimondo del Balzo Orsini, conte di Nola e Sarno e Ferdinando o Ferrante, che gli succederà nel Regno. Intanto viveva in Calabria Enrichetta Ruffo, figlia di Niccolò Ruffo di Catanzaro e di Margherita di Poitiers, la quale amministrava con avvedutezza un patrimonio terriero immenso, che anche se era senza una continuità, andava dal mar Jonio al Tirreno e da Nord a Sud della Calabria. Ciò la faceva un’ereditiera invidiata, ricca e desiderata anche per la sua bellezza. Infatti Enrichetta aveva una sorella, Giovannella, che sfortunatamente morì giovane subito dopo il matrimonio con Antonio Colonna. Così Enrichetta dovette gestire anche il patrimonio della sorella avuto in eredità. Nel 1437, Enrichetta Ruffo, Marchesa di Crotone, Contessa di Catanzaro e Belcastro, signora della Baronia d’Altavilla e di Taverna, si era sposata con l’anziano cugino, Nicola Ruffo, Conte di Arena, di Mileto e Stilo. Con la sua dispensa, in quanto diretti cugini, il Papa Eugenio IV aveva legittimato quest’unione. Però, in un documento del 6 aprile 1441, il vescovo di Tropea chiedeva allo stesso pontefice (1383-1447) l’annullamento del matrimonio perchè non era stato “consumato“ e contestualmente richiedeva una nuova autorizzazione per Enrichetta, che doveva contrarre un nuovo matrimonio con Antonio de Vintimillis de Centelles. Intanto il Re Alfonso V il Magnanimo, grato alla nobile Famiglia d’Avalos per averlo aiutato nella conquista del Regno di Napoli e con l’intento di appianare anche una delicata situa34 la Ciminiera

zione matrimoniale, oltre che per non venire meno ad una parola data agli stessi D’Avalos, aveva promesso di far contrarre matrimonio tra Enrichetta Ruffo ed Innico D’Avalos, considerato il più perfetto cavaliere dei suoi tempi. Il Re Alfonso V aveva pensato, inoltre, ad Innico, sia perchè suo amico dall’adolescenza e sia perchè sicuro della fedeltà della Famiglia d’Avalos. Perciò, questo matrimonio, in un clima di incertezze e d’infedeltà politica esistente in Calabria, gli serviva soprattutto per consolidare i legami dei feudi di Crotone e di Catanzaro col suo regno, affidandolo ad una persona che gli dava certamente fiducia, sicurezza e protezione contro ogni sommossa popolare. Pertanto, per la circostanza, incaricò Antonio Centelles a concordare ogni cosa per la realizzazione del neo matrimonio. Il Centelles, che già era stato colpito dalla straordinaria bellezza di Enrichetta, sicuramente già in precedenza abbagliato della sua potenza e ricchezza allorquando nel 1437 era stato nominato viceré di Calabria, quando nelle vesti di mediatore matrimoniale la rivide, s’innamorò perdutamente e si dimenticò dell’incarico ricevuto. Si ritiene che il Centelles fosse già innamorato e ricambiato dalla Ruffo, sin dal suo primo viaggio in Calabria. La stessa Enrichetta, affascinata dalla baldanza del Centelles, anche se aveva già avuto una lettera in precedenza da parte del Re che le assicurava l’invio di un emissario per concordare quanto le veniva proposto, si lasciò coinvolgere anche lei e dimenticò le volontà del suo Re. Si sospetta persino che quando il Re Alfonso decise il matrimonio a favore di Innico, la bella Enrichetta sarebbe stata già legata sentimentalmente al Centelles. Comunque la data del matrimonio deve essere fissata intorno al 1444 e non in epoca anteriore intorno all’anno 1439, come in precedenza alcuni storici sostenevano. Infatti, la nota vescovile indirizzata al Pontefice, nella quale veniva chiesta per Enrichetta l’autorizzazione a contrarre nuovo matrimonio col Centelles, porta la data del 6 aprile 1441. Il Re, invece, quando fu informato dello sgarro ricevuto, pensò di eliminare Centelles. Ma questa decisione non venne presa subito, dovettero sicuramente succedere altri eventi, senza dubbio gravi, per costringere il Sovrano a decidere per l’eliminazione del neo Marchese di Crotone e Conte di Catanzaro. Un’ipotesi potrebbe essere il fatto che dopo il matrimonio contratto con Enrichetta, il Re rivolse al Centelles delle minacce pesanti, tra le quali l’intenzione di sottrargli la moglie per offrirla ad Innico.


Sangineto Lido Castello Angioino

Nel frattempo Innico aveva avuto un attentato, del quale fu sospettato il Centelles, anche se questi ebbe sempre a sostenere innanzi al Re la sua più totale innocenza ed estraneità a questa vile aggressione. Ma nella circostanza, il Centelles, avvisato in tempo dal marchese di Gerace, suo zio, che il Re intendeva fargli “mozzare la testa“, sfuggì alla trappola mortale e nel tentativo di sottrarsi al potere sovrano, pensò d’incitare i Baroni Calabresi alla rivolta, con l’obbiettivo di eliminare gli Aragonesi e creare da Gerace a Crotone, con centro Catanzaro, una grande Signoria. Si ritiene che ad incitare il Re contro Centelles possa essere stato lo stesso Innico, per poter poi sposare la ricca e bella vedova Enrichetta, allorché vedova del Centelles, anche se il Sovrano pubblicamente farà sempre riferimento allo stato di ribellione e di ambiguità del catalano. Infatti i rapporti dei D’Avalos contro Antonio Centelles furono sempre di grande tensione ed eternamente improntati a desideri di vendetta. Ad un certo punto, come era prevedibile, il Re, alla fine di ottobre del 1444, (anche questa data confermerebbe la datazione del matrimonio più nel 1444), nel revocare subito il mandato di Vicerè al Centelles, dichiarandolo reo di lesa maestà, decise, per soffocare la rivolta, di recarsi personalmente in Calabria. Occupato così Cirò, Rocca Bernarda, Santa Severina e Belcastro, si diresse verso Crotone. Sicuramente, a seguito di un tradimento, il Castello di Crotone fu conquistato dalle forze regie nel mese di gennaio del 1445, per cui il Re, conclusa un’azione di consolidamento con una propria guarnigione, partì alla volta di Catanzaro, ultima roccaforte di Centelles, dove si era ritirato con la moglie e con i figli. Queste azioni dimostrarono che i Feudi non erano roccaforti indistruttibili e che gli stessi feudatari potevano essere facilmente annientati con tutto il loro tracotante potere. Centelles, che in precedenza, in previsione di

uno scontro diretto con le truppe regie, aveva avviato opere di fortificazioni nei feudi più importanti, rimase particolarmente turbato sia della capitolazione e sia perchè gli insorti non si erano affatto ribellati. Quando già il Re stava preparando l’attacco verso la Città di Catanzaro, inaspettatamente, spinto anche dalla Città, decisa a consegnarlo al Re per salvare l’area urbana da una distruzione e da una strage, Antonio Centelles, con la moglie Enrichetta Ruffo, andò da Alfonso il Magnanimo e buttandosi ai suoi piedi, implorò il suo perdono anche per salvare i suoi sudditi. Per quest’azione il Re Alfonso fu grato alla Città di Catanzaro per avergli indirettamente consegnato Centelles, per cui, considerandola città demaniale e assegnandole numerosi privilegi, la dichiarò città fedele al Re. La sua prostrazione, per un uomo temerario come lui, non fu un atto di sottomissione per viltà ma di coraggio, perché voleva che il Re sapesse quali fossero i suoi personali diritti e quelli della famiglia, che ovviamente lui avrebbe sempre tutelato e difeso, perché essa meritava da parte di tutti giustizia e rispetto. Ovviamente anche Enrichetta si umiliò per chiedere la salvezza della vita della sua famiglia. Il Re, fu magnanimo, ma nello stesso tempo fermo, perchè fece confiscare tutti i beni del Centelles e lo costrinse a ritirarsi a Napoli, a Castelnuovo, con la famiglia come un semplice privato. La confisca dei suoi feudi, pur avendolo perdonato, si ricollegherebbe al fatto che il Re, temendo che il piano di liberazione della Calabria potesse realmente concretizzarsi, preferì sottrargli i feudi ed i suoi sudditi, allontanandolo nello stesso tempo dalla Calabria e portandolo con sé a Castelnuovo. Poi emanò un indulto, che estese anche a tutti i ribelli, restituendo parimenti molti feudi. Il territorio di Centelles andava da Crotone a Catanzaro e comprendeva quindi, S. Severina, Mesuraca, Petilia Policastro, Cutro, Cropani, Zala Ciminiera 35


Battaglia di Benevento tra Aragonesi e Angioini - Biblioteca Vaticana

garise, Taverna, Tiriolo, Gimigliano. E poi ancora verso le terre di Badolato, Caccuri, Rosarno, S. Lucido, Montebello sin verso Tropea. Ma Centelles era troppo irrequieto per restare fermo e non sentire nuovamente il rumore delle armi, così si trovò coinvolto in un intrigo di Stato a Venezia, dopo essere stato denunciato da amici delatori e falsi. In un altro complotto a Milano venne arrestato con altri cospiratori dall’esercito del duca Francesco Sforza e rinchiuso prima nelle carceri di Lodi e poi in quello di Pavia. Qui, corrotte due guardie, riuscì ad evadere calandosi in un fossato per mezzo di una fune. Intanto Enrichetta Ruffo, rimasta sola con i figli, dietro suppliche e pianti, ricevette dal Re una rendita di 1000 ducati ed il consenso di far rientrare il marito a Napoli ed a Corte. Quando il Centelles rientrò in Napoli, il Sovrano lo nominò Gran Siniscalco, (=suprema autorità militare ed amministrativa), concedendogli anche una pensione annua di 1400 ducati. Il Re, in cuor suo, era forse anche dispiaciuto che una Famiglia così ricca e nobile come quella dei Ruffo, per colpa del Centelles, stesse subendo umiliazioni e privazioni. E proprio in questo momento storico, il Centelles si troverà ad accompagnare personalmente a Roma, con dame e damigelle e con 500 cavalli, Lucrezia d’Alagno, il casto e folle amore di Alfonso V il Magnanimo, la quale, per poter liberamente sposare finalmente l’amato Re, era andata a chiedere inutilmente al Papa Callisto II l’ annullamento del matrimonio del Re Alfonso V d’ Aragona dalla Regina Maria Castiglia di Spagna, dalla quale viveva separata da oltre trent’anni. Sfortunatamente, però, Alfonso V morì prematuramente il 27 giugno 1458, all’età di 62 anni, (era nato il 1396) e precisamente due mesi prima della stessa Regina Maria di 36 la Ciminiera

Castiglia, dalla quale intendeva separarsi per sposare Lucrezia. Morto il Re, nel Regno di Napoli subentrò il figlio illegittimo Ferrante, soprannominato il “Guercio”, che in precedenza era stato già nominato Duca di Calabria ed omaggiato dagli stessi baroni come futuro erede al trono partenopeo. Si diceva nato da una relazione con la dama di corte Margherita de Hijar, oppure fosse figlio di Giraldonna Carlino, una bellissima señora, moglie di Gaspare Reverter di Barcellona. Prima di morire il Re Alfonso raccomandò al figlio tre cose: ridurre le tasse al popolo, vivere in pace col Papa e gli altri Principi italiani ed allontanare dalla Corte di Napoli catalani ed aragonesi. Infatti, Ferrante seppe creare una saldatura tra il Re ed il popolo, mentre Alfonso V, a Napoli, rimase sempre conquistatore e straniero. Ferrante fu un Re crudele, vendicativo, avaro, astuto, cinico, ambizioso e falso, a cui non bisognava dare alcuna fiducia, perché gran simulatore. Ma nonostante abbia rinvenuto nel Regno numerose difficoltà, fu anche un Re industrioso, prudente e che portò il suo trono ad una grandezza superiore di quella ricevuta dal padre. Buon Re all’inizio, sicuramente divenne crudele nel timore di perdere il Regno, allorché i Baroni si ribellarono invocando l’intervento di Principi stranieri sul suolo napoletano. Inoltre, pur di aumentare il suo Regno e di acquistare fama e gloria, si presentava altresì come propenso a fare guerre per allargare i suoi confini territoriali. Infine, più si faceva conoscere dalla gente, e più i vassalli si allontanavano dall’idea di ubbidire ad un Re come Ferrante. Un altro acerrimo nemico di Ferrante era il papa Callisto III, quello di Lucrezia d’Alagno (1455-1458), il quale rifiutava al nuovo Re l’investitura sul Regno di Napoli, perché il suo sco-


po era quello di riuscire ad incamerare questi territori nella sfera della Chiesa stessa. E chi fu il primo che dimenticando la magnanimità del padre cominciò a muoversi contro il neo Re Ferrante? Proprio Antonio Centelles che subito pensò che forse era finalmente giunto il momento di poter riconquistare i feudi che gli erano stati confiscati ed annessi al Demanio dello Stato. Falliti alcuni tentativi di destituzione del nuovo Re, Centelles arrivò nel dicembre 1458 in Calabria, incoraggiando le popolazioni ad insorgere. La ribellione del popolo calabreRegno di Napoli- Costumi (Micheletti) se poteva essere interpretata sgredito al suo ordine. Ma v’è anche il dubbio come un momento di risveglio della coscienza sull’autenticità di queste dicerie. civica maturata come reazione alla povertà ed Si racconta anche che per un affronto ricevualla miseria per la difesa dei propri diritti calpe- to, un giorno, fece spogliare nel Castello tutti stati, invece non fu così, perchè la rivolta non quelli che si erano confessati nella Chiesa di S. scaturì da un movimento autonomo popolare, Nicola di Catanzaro, privandoli degli abiti e dei ma fu promossa e fomentata dal Centelles. gioielli, per poi farli girare nudi per le vie di CaQuesti, anche se l’obiettivo era ambizioso, tanzaro. Si narra anche che avrebbe ordinato di partiva da un fatto personale, per arrivare poi interrare alcuni cittadini con la testa in giù, fanelle sue intenzioni a liberare il popolo dalle cendoli così morire soffocati, come pure si diceangherie regie e dalla tirannide del Re con un va, che con il divieto assoluto di aiutarli, aveva locale movimento rivoluzionario. Immaginava fatto avvolgere altri in pelli di bue fresca, per forse una Calabria libera e lontana dal pote- farli mangiare dai vermi generati con la putrere regio, con un potere sociale ed economico, fazione. dove contadini e baroni avrebbero potuto opAnche tutta la famiglia Arciero, una delle più porsi al Re per una nuova e diversa libertà. An- antiche della Città di Catanzaro, fu sotto la sua che gli altri baroni, con una visione più ristretta mira e che fece assassinare perchè l’aveva scoed egoistica, volevano liberarsi dell’autorità del perta “nemica“. Si salvarono solo due bambini Re, mentre il popolo confidava che con l’auto- perché furono mandati subito a Belcastro, una nomia della Calabria ricevesse sgravi fiscali e località vicino Catanzaro, nascosti in una cesta. detassazioni. Innanzi a tali abusi, i cittadini cominciarono Intanto riconquistò parte dei suoi feudi, ma a riunirsi per il da farsi. Così, in questa circonon riuscì ad impadronirsi dei feudi di S. Se- stanza, nacque nella mente del tiranno l’idea verina, Crotone, Le Castelle e Catanzaro. Però, di vietare ai cittadini riunioni in pubblico ed in quando Centelles potè rientrare nel Castello di privato nel numero superiore a tre. I trasgresCatanzaro, si vendicò di quelle personalità che sori sarebbero stati messi a morte. Il popolo in lo avevano costretto a consegnarsi a Re Alfonso. arme si ribellò sotto il Castello dove si trovava Più la Città si poneva in una situazione di con- il Centelles, gridando “libertà, libertà“, ma dotrasti e più Centelles sanciva veti e limitazioni. vette ritirarsi, per le cannonate sparate dal caInfatti, si ritiene che, per ridurre le spese e li- stello. Ma Centelles non cedeva la capitale della mitare la sontuosità delle famiglie catanzaresi, sua agognata Signoria. Intanto lo scontro con il con la motivazione che il lusso generava la loro popolo diveniva più cruento. rovina, vietò ad uomini e donne di portare abiti Un esercito di mille fanti, partito da Crotone di seta e monili in oro. in aiuto di Centelles, fu sbaragliato e sconfitto Ovviamente quest’ordine non fu osservato e nei pressi di Simeri. I combattenti, difensori di Centelles, quasi fingendo di scusarsi, sostenne Catanzaro e contro Centelles, appena rientrati che l’aveva fatto nell’interesse delle famiglie. in Città, pensarono di fortificare i siti e di dividePerò successivamente lo ripristinò, facendo re il territorio, assegnando il comando ad ogni arrestare anche le persone che avevano trala Ciminiera 37


singolo patrizio. ni insorte, con molteplici e differenti interessi Anche sul campanile del vescovado furono personali e territoriali, che gli stessi attori non posti due cannoni, che incominciarono a bom- compresero nemmeno quale fosse il vero idebardare il Castello e a demolirlo colpo su colpo, ale politico rivoluzionario da seguire. Infatti, vi nel mentre l’artiglieria del Castello, su ordine di furono feudatari che parteggiarono per gli AnCentelles, ad ogni sparo, faceva ruinare alcuni gioni ed altri invece per gli Aragonesi, e più voledifici. Questo scontro durò un mese, con morti te alcuni, per futili motivi, facilmente passarono da entrambi gli eserciti. da una posizione filo-angioina a quella filo-araUn giorno i Catanzaresi attaccarono il Castello, gonese e viceversa. S’arrivò al punto che nello fiduciosi di poter entrare dal lato dove maggio- stesso feudo v’era il marito che sosteneva l’arre erano state le demolizioni delle fortificazioni. rivo degli Angioini a danno della Casa AragoneAl contrario furono respinti dalla strenua difesa se, la moglie, che fingendo d’avallare pubblicadei soldati di Centelles, subendo gravi perdite. mente le intenzioni del marito, nascostamente Ad un tratto il Centelles s’accorse che le case invece appoggiava il Re Ferrante, nel mentre la che stavano attorno al Castello e che erano ser- figlia non voleva essere catalana. vite agli aggressori per restare coperti, dovevaL’esercito di Centelles era costituito in prevano necessariamente essere distrutte. Così inviò lenza da contadini e da pastori, i quali, abbandegli uomini per bruciarle. Il vento alimentò le donando campagna e greggi ed assaltando e fiamme, per cui restarono combuste tutte le depredando tutti e tutto, ritenevano che quella case che dal Maniero arrivavano sino alla Por- lotta servisse a sollevarli dal peso delle tasse e a ta di Pratica. Da quel momento, il Rione che si potersi finalmente vendicare, in qualche modo, chiamava “Paradiso“ per il panorama che v’era, contro coloro che avevano sempre invidiato ed fu chiamato “Rione Case Arse“. odiato. Non v’erano altre mire o particolari ideNei pressi delle case incendiaali d’aggregazione. te, nei secoli precedenti, v’era Dopo Crotone, ritornò a Cainoltre anche un Rione dove tanzaro per assediare nuovagli Amalfitani avevano le loro mente la Città, ma d’un tratto, abitazioni ed i loro fondachi e nei pressi della Torre, vicino al dove avevano aperto le loro fiume Alli, una pattuglia di Cenprime banche. L’annessa Chiesa telles fece prigionieri un gruppo s’appellava Sant’Angelo il Cardi quindici studenti, figli di nomelitano, o anche Sant’Angelo bili, in gita con il proprio insedegli Amalfitani. V’erano pure gnante. numerosi giardini, detti “orti di In cambio delle giovani vite, S. Angelo“. Questi era un carCentelles intimò la resa, ma la melitano nato a Gerusalemme il Città rifiutò di deporre le armi. 1185 e che era morto a Licata, in Così, Centelles, più per la rabbia Sicilia, il 1220, ucciso da un ereche per il rifiuto ricevuto, fece tico incestuoso. Si narra che a Ritratto di Luigi III d’Angiò-Valois impiccare quei poveri ragazzi. Roma, in S. Giovanni in LateraCosì i loro corpi penzolanti or- Duca di Calabria no, il Frate Angelo abbia avuto narono per qualche tempo la un colloquio con S. Francesco e collina “a vista della Città“. AlS. Domenico. Partecipò altresì al Capitolo dio- tre fonti storiche riferiscono che alcuni ragazzi cesano del 1219. furono invece impalati. Il giorno successivo all’incendio gli assalti conInnanzi a quell’atroce spettacolo lo spirito di tinuarono ed i due cannoni raddoppiarono l’o- vendetta dei Catanzaresi fu tale, che, usciti dalpera di bombardamento e di demolizione. Cen- la cinta muraria, assalirono il campo del tiranno telles comprese che non aveva scampo e che e fecero strage di tutto l’ esercito nemico. In tal tra breve il Castello sarebbe stato espugnato, modo Centelles da “assalitore divenne assalito per cui, notte tempo, scappò con la moglie ed “ e messo in fuga. alcuni fidi, rifugiandosi in Crotone. Quando i CaIn un Privilegio del 1466, il Re Ferrante ricotanzaresi entrarono nel Castello, buona parte di nobbe il coraggio e la determinazione di quei esso era ormai in fiamme. cittadini, i quali, contro quel barbaro tiranno e Arrivato a Crotone, s’adoperò poi ad armare a tutela del loro Re, sacrificarono delle giovani più gente possibile e ad aizzare i baroni locali vite per la difesa della loro libertà. col pieno intento di conquistare tutta la CalaMa dopo qualche tempo, Catanzaro veniva bria e ad abbattere il Regno degli Aragonesi. ancora assediata, per ordine di Antonio, dal Ma si creò un tale caos nelle diverse fazio- fratello Alfonso Centelles, il quale, con la colla38 la Ciminiera


borazione d’alcuni locali patrizi ed aiutato anche dal tradimento di un prete, una notte, con l’esercito stava proditoriamente entrando in essa. Quando i primi incursori si stavano preparando per entrare nelle mura, la confessione di un congiurato al proprio padre, il quale, ancora fortemente addolorato per la morte di uno di quei quindici ragazzi che la moglie aveva allattato come un figlio, avvisò il magistrato ed il sindaco. Questi, con alcuni coraggiosi, si recarono dal canonico e l’arrestarono con altri congiurati, nel mentre che si stavano preparando per far entrare la truppa di Centelles. Il prete Carlo Fredalancia, sottoposto a torture, non solo fece i nomi di tutti i congiurati, dei quali alcuni scappando si misero in salvo, ma quanto riferì che al segnale di una torcia, gli assedianti sarebbero entrati tutti dalla porta di Pratica. Ovviamente gli assediati prepararono subito all’esterno la trappola, di modo che, quando vi fu il finto segnale, la truppa di Centelles uscì fuori dalle macchie erbose, senza usare alcuna cautela. Appena sotto le mura, i Catanzaresi nascosti ed in silenzio, li aggredirono senza pietà. Chi non fu ucciso sul posto, morì scappando all’oscuro e cadendo nel sottostante dirupo. Sottoposto a giudizio il giorno successivo, ad un tratto, la folla inferocita, afferrò il canonico traditore e lo massacrarono facendolo a pezzi. Per questo delitto e per il fatto che il suo corpo fu trascinato con scempio per le vie della città, la Città ebbe in un momento successivo l’interdizione pontificia sino al 1472. Fu invece il papa Sisto IV, che ritenendo giustissime le cause, assolse la Città di Catanzaro, che in precedenza era stata bollata dal pontefice Pio II. Gli altri congiurati furono tutti giustiziati, eccetto colui che aveva riferito al padre del complotto. Era stato lo stesso genitore a chiedere la vita del proprio figlio. A questo punto, nella stessa notte, il Centelles, rinunciando all’assedio, ritornò a Crotone, nel mentre il Re, avendo avuto conoscenza dei tumulti in atto, cambiò ogni programma e scese lui personalmente a dirigere le operazioni in Calabria. Nella battaglia di Maida del 2 giugno 1459, i soldati del Re avevano fatto tanti prigionieri, che arrivarono al punto di stancarsi di farli a pezzi o d’impiccarli, nel mentre i baroni traditori, che erano stati invitati subdolamente ad un tavolo di trattative e d’intesa, subirono subito l’arresto e l’ eliminazione. Presso Cosenza, invece, appoggiando gli angioini, s’erano ribellati più di ventimila contadini. Inesperti quanto i loro capi, bruciavano

villaggi e campagne ed avevano l’obiettivo di mettere a sacco la stessa Città. Quando il 4 settembre del 1459 arrivarono le truppe regie con Ferrante I, secondo le disposizioni che il Re aveva dato, questi poveri ignoranti furono massacrati in modo indiscriminato e senza pietà. La stessa popolazione fu punita con saccheggi, stragi, stupri ed ogni tipo di violenza, perchè aveva sostenuto gli angioini contro il loro Re aragonese. Moltissimi furono graziati dallo stesso Sovrano, convinto ormai che la lezione era stata abbondantemente servita. Poi si diresse su Nicastro, per fermarsi a Piano Lago, vicino Cosenza, per mettere in atto una trappola che da tempo aveva ordito. Infatti il Re aveva fatto circolare la voce che aveva intenzione di dimenticare il turbolento passato con Centelles e di voler pervenire ad una reciproca pace con la stessa magnanimità paterna. Nell’occasione, per dare concretezza alle voci, aveva fatto liberare anche i fratelli Giacomo ed Alfonso Centelles, suoi prigionieri di guerra; aveva proposto il matrimonio tra una figlia di Antonio Centelles ed uno dei suoi figli; ed infine aveva reso realizzabili altre circostanze favorevoli, sulle quali nessuno avrebbe potuto avere dei sospetti. Insomma aveva messo in atto tutte quelle astuzie necessarie per rendere insospettabile e fortemente attuativo il suo piano. Ora si trattava solo d’attendere i risultati. In questo fine ricamo, il Centelles non pensò minimamente ad un tranello, per cui, fu pienamente convinto dell’occasione propizia per ricomporre i rapporti col Re. Così, la sera del 20 settembre 1459, dopo essersi recato al campo di Piano Lago, scese da cavallo, andò incontro a Ferrante, e dopo essersi anche commosso e chiesto perdono buttandosi ai suoi piedi, si ritirò, in qualità di particolare ospite, in una tenda per trascorrere il resto della notte. Invero il Re, in cuor suo pienamente soddisfatto del risultato ottenuto, dopo aver impartito gli ultimi ordini, s’accomiatò. Indescrivibile ed inimmaginabile dovette essere la sorpresa di Centelles quando la mattina, al risveglio, fu fatto prigioniero ed inviato prima nel carcere di Martirano e poi in quello più sicuro di Cosenza. Dopo aver riconquistato i feudi ribelli, calmati i sudditi ed imposto un’ onerosa taglia risarcitoria sui capi rivoltosi, dopo tre faticosi mesi Ferrante ritornò in Napoli con Centelles per rinchiuderlo nelle segrete di Castel Nuovo. Ma anche dopo questa campagna di bellicosità, in seguito, vi furono altri focolai di rivolta, durante i quali l’esercito aragonese dovette sempre intervenire pesantemente. Lo stesso Centelles, evaso dopo aver corrotla Ciminiera 39


Castello Aragonese - Le Castella (KR)

to una guardia la notte del 23 aprile 1460 dalla prigione di Castel Nuovo dov’ era rinchiuso, scappò a Maida, vicino Catanzaro, prima che arrivasse a Nicastro l’esercito aragonese. Intanto il Re, per alcune scaramucce che s’erano verificate nei casali di Cosenza ad opera del Centelles ed anche con l’intento di punire definitivamente i baroni filoangioini e dare contestualmente anche una pesante lezione al popolo, decise di mandare sul posto certo Tommaso o Maso Barrese, famoso per la sua ferocia. Infatti, occupato Acri, affidò la popolazione nelle mani dei suoi soldatacci, poi, imprigionato uno dei capi, tale Niccolò Clancioffo, nella piazza ed in mezzo a tutti lo fece segare in due parti. Se i ribelli calabresi confidavano nella vittoria di Giovanni d’Angiò, il Centelles, invece, fiutando un’aria diversa, pensò di sottomettersi nuovamente all’aragonese Ferrante I, chiedendogli perdono in una lettera del novembre del 1461. Le previsioni risultarono esatte perchè il Re, nella battaglia presso Troia, in provincia di Foggia, nelle Puglie, avvenuta il 18 agosto 1462, eliminò definitivamente gli Angioini. Per quanto riguardava l’ invocata riconciliazione, il Re, in un’intesa del 24 giugno 1462, nell’intento di portare in Calabria un po’ di distensione, concesse al Centelles i feudi posseduti dalla moglie Enrichetta Ruffo e l’indulto per il tradimento subìto. La consegna, non per volontà di Ferrante, ma per un ostruzionismo locale, avvenne solo in parte. Così come avviene ancora oggi in campo politico, Maso Barrese, se l’avesse catturato qualche tempo prima, allorché entrambi si trovavano in campi avversi, lo avrebbe sicuramente fatto a pezzi senza alcuno scrupolo, mentre, mutati gli eventi, combattè a fianco di 40 la Ciminiera

Antonio Centelles, per soffocare insieme in Calabria gli ultimi gruppi di rivoltosi pro-angioini. Più o meno in questo periodo di riconciliazione Centelles ebbe la perdita della moglie a causa di una malattia cardiaca, la quale nel frattempo s’era separata da lui. L’infelice Enrichetta Ruffo morì nel Castello di Crotone, che da quel momento fu chiamato “Crepacore“, per ricordare che la stessa era morta per tutte le tensioni, le sofferenze ed i disagi sopportati dalla vita irrequieta ed avventurosa del marito. Dall’unione con Enrichetta, che aveva profondamente amata, il Centelles, ebbe quattro figli. La più grande si chiamava Margarita ed aveva sposato Luigi di Richesens, la seconda era Polissena, poi Giovanna che morì bambina, ed infine Antonio, l’ultimo, non sposato, che finì in mano ai corsari, venduto come schiavo a Costantinopoli, dove poi morì. Intanto il marchese Centelles, per avere ucciso tale Teseo Morano in una battuta di caccia, dovette sposare, a titolo risarcitorio, la di lui figlia Costanza. La figlia Polissena Centelles, invece, aveva sposato il 15 ottobre 1465 Enrico, figlio illegittimo di Ferrante I. Ma questo matrimonio non fu solo calcolo, perchè lo scopo era anche quello di mandare il figlio Enrico in Calabria perchè controllasse sul territorio ogni eventuale futuro movimento di ribellione, ma fu soprattutto vendetta calcolata e premeditata, oltre che lezione per i baroni ribelli, perchè a tradimento fece arrestare, dallo stesso genero Enrico, il Centelles, nella Cattedrale di S. Severina, durante la funzione religiosa nella domenica delle Palme. Condotto a Napoli nel Castel Nuovo, di lui


“non si seppe più nulla“. Ovviamente il suo patrimonio fu confiscato nuovamente e non sembra, come alcuni vorrebbero sostenere, che sia passato alla figlia Polissena. Alcuni riferiscono che con altri baroni fu mandato a morte nel Castello di Ischia, altri sostengono che, per ordine di Ferrante, sia stato ucciso da un moro con un colpo di mazza, o che sia morto a Costantinopoli, altri ancora che sia deceduto in cella per morte naturale. Enrico, il figlio illegittimo di Ferrante, morì in Terranova di Sibari il 21 novembre 1468, dopo aver mangiato funghi avvelenati. L’epicedio scritto nel dicembre di quell’anno dal poeta Joanne Maurello è stato ritenuto il primo componimento poetico in dialetto calabrese. Sembrava arrivato il momento in cui il Re Ferrante I potesse vivere finalmente in pace, ma ad un tratto si verificarono degli eventi di grande rilievo storico: la caduta d’Otranto nelle mani dei Turchi e la ripresa della lotta dei Baroni contro il Sovrano per la conquista della loro indipendenza. Così, nel 1485, Antonello Sanseverino, il conte di Sarno Francesco Coppola, Antonello Petrucci, Pirro del Balzo, principe di Altamura, gli Acquaviva ed altri baroni si mossero contro il Re Aragonese. A questo punto il Re, pur di chiudere la partita contro i rivoltosi, ordì a danno dei ribelli una grande trappola. Così nel 1486 organizzò il matrimonio della nipote Maria Todeschini Piccolomini, figliola del Duca di Amalfi, con Marco Coppola, figlio di Francesco Coppola, di nobile famiglia napoletana, oriundo di Scala, nel territorio di Amalfi. Nel territorio di Sarno, utilizzando le acque dell’omonimo fiume, aveva impiantato nella Piazza Mercato la fabbrica della Carta Amalfitana e successivamente una fabbrica per la lavorazione della lana e dei tessuti. Francesco Coppola, uomo di elevato ingegno, avventuroso ed espertissimo nei traffici e nell’arte marinaresca, era considerato “l’uomo più ricco del Regno“, oltre che finanziatore del Re. Era tanto ricco che ad ogni sua personale richiesta gli venivano affidati merci di grande valore e preziosità. Si dice che era arrivato al punto di pensare che la somma degli allori che riceveva non doveva essere inferiore alla somma degli averi. Così, il Conte Coppola, al settimo cielo perché non credeva che sarebbe divenuto consuocero del Re di Napoli, perse ogni cautela, per cui portò nella Capitale tutto l’oro, l’argento, i gioielli e le pietre preziose che aveva raccolto in tutta la sua vita. Gli storici riferiscono che il 13 agosto 1486, giorno delle nozze del figlio, Francesco Coppola abbia fatto profumare persino la mula che lo menava nelle strade di Napoli a fianco della

Duchessa di Calabria. Commosso e felice per il tanto onore che la vita gli aveva dato in quel momento, pianse persino. Non avrebbe mai potuto immaginare il seguito. Il Re, intanto, in occasione del matrimonio finse di perdonare tutti e lo fece in modo tanto spudorato che assicurò delle sue buone intenzioni persino il Papa Innocenzo VIII. Anche il padre della sposa Antonio Piccolomini di Amalfi sconosceva le intenzioni di Ferrante. Quel giorno gli ospiti, dame e cavalieri, arrivarono con carrozze meravigliose e destrieri stupendi. Suoni, addobbi, fiori e canti rallegravano le sale, ma ad un tratto, nel pieno dei festeggiamenti, convinti ormai i baroni di essere stati perdonati, proprio nell’attimo in cui tutti cominciavano i balli nella Sala del Trionfo di Castelnuovo e si attendeva l’arrivo del Re, apparve il Capo Guardia, Don Pasquale Diaz Carlon, con due fila di alabardieri posizionati lungo le pareti della gran Sala. Fece cingere in una morsa tutti ed arrestò i ribelli con le loro famiglie. Furono “ferrati” con l’imputazione di cospirazione contro il Re e lesa maestà. Qualcuno tentò la fuga, ma invano. Tutte le porte erano state chiuse, nel mentre il ponte levatoio era stato preventivamente alzato. Così da tanta gioia ed allegria si passò al pianto ed alla disperazione. Per galanteria il Re fece liberare le donne, ma non i baroni infedeli. I familiari degli arrestati furono trasferiti a Napoli e strettamente sorvegliati. Fu arrestato anche lo sposo Marco Coppola con il fratello Marino ed il padre Francesco, poi Andrea Matteo Acquaviva, marito di Isabella Piccolomini e sorella della sposa Maria Piccolomini, Antonello Petrucci ( o de Petruciis) con il figlio Francesco e Giannantonio, Ferrante, il Conte di Arena, figlio illegittimo di Ferrante I, che si era rivoltato contro il padre-Re ed altri nobili rivoltosi. Furono rinchiusi in carceri orribili, i più tetri ed oscuri esistenti in Napoli e con ristrettezze e rigidità notevoli. Così la povera Maria Piccolomini ebbe quindi il giorno del suo matrimonio rovinato da suo nonno il Re. Ferrante fu tanto ingordo che confiscò tutti i beni e persino i cavalli con i quali i cavalieri e le loro famiglie erano arrivati alla cerimonia nuziale, come se anch’essi avessero partecipato alla congiura. Secondo un’antica tradizione federiciana, l’applicazione della giustizia non venne affidata ai giudici-dottori, ma ai baroni rimasti fedeli al Re. Gli interrogatori furono molto sbrigativi e le pene inflitte nelle sentenze si comminarono tra il novembre ed il dicembre del 1486. Francesco Petrucci, figlio di Antonello, fu porla Ciminiera 41


Costumi del Regno di Napoli

tato legato al patibolo su di una carretta bassa e a quattro ruote trascinata da buoi, sul quale era stato posizionato lo stendardo della giustizia. Pose il capo sul ceppo, la mannaia gli tagliò la testa alla presenza del popolo, di dame e cavalieri ed infine il suo corpo fu squartato in quattro parti e barbaramente appeso con “crocchi” in quattro vie della città. Anche al fratello Giannantonio, poeta e amante di studi filosofici, gli fu mozzata con la scure la testa. Francesco e Giannantonio Petrucci furono giustiziati l’11 dicembre 1486, mentre il padre Giovanni Antonio Petrucci, conte di Policastro e Segretario del Re della Dinastia aragonese, fu prima torturato e poi decapitato l’ 11 maggio 1487 in Piazza Mercato.. La moglie di Antonello Petrucci, Elisabetta Vassallo, per la paura e le sofferenze subìte, morì in carcere dopo pochi mesi dall’arresto. Con l’intervento del suocero Antonio Piccolomini di Amalfi, Andrea Matteo d’Acquaviva fu graziato e rinchiuso nel Castel dell’Ovo col figlio illegittimo del Re Ferrante, che non voleva affatto giustiziare. Il Conte di Lauria, Barnaba Sanseverino, fu imprigionato perché il Re voleva impossessarsi dei Castelli del Duca di Melfi e dei Conti di Ugento e di Lauria. Il Conte Francesco Coppola, invece, “la gallina dalle uova d’oro”, fu giustiziato il 15 maggio 1487 con altri baroni su di un palco altissimo, eretto volutamente in tal modo per consentire da lontano la visione dell’esecuzione anche a chi non voleva presenziare in diretta. Morirono con grande dignità ed onore e con il convincimento che quando il vento della fortuna gira, i felici non dovevano aborrire la morte. Alcuni morirono di morte naturale o giustizia42 la Ciminiera

ti, altri scomparvero definitivamente nelle segrete. Le ricchezze di tutti furono confiscate e confluirono nelle Casse dello Stato, mentre la povera Maria Piccolomini fu invece colei che ebbe rovinato dal nonno il Re il giorno del suo matrimonio. Ferrante d’Aragona, che da vivi aveva odiati quegli uomini, da morti, però, volle che venissero onorati e che avessero regolari esequie e cristiana sepoltura. Sicuramente istigato da nobili invidiosi che gli avevano insinuato nella mente il fatto che una persona inferiore al Sovrano dovesse governare il Re con le ricchezze che il Regno non aveva, egli fu costretto a macchiarsi le mani di sangue anche per dare esempio ai baroni pentiti ed a tutti coloro che gli erano stati sino a quel momento fedeli che restassero posizionati e fermi nella loro obbedienza. E per far sì che i sospettati subissero il continuo terrore delle esecuzioni e dell’implacabile fermezza della giustizia, dispose scientemente che tutte le condanne a morte venissero portate a compimento non in un’unica giornata, ma dilazionate e cadenzate nel tempo. Le esecuzioni avvennero anche a distanza di molti mesi dagli arresti, perché si riteneva che nella speranza di avere salva la vita, qualcuno potesse dare informazioni e rivelazioni su eventuali tesori nascosti. Da ingrato, aveva dimenticato persino i grandi finanziamenti ed i benefici ottenuti proprio dal Coppola, nei momenti più neri del Regno. La confisca, con la relativa morte, era anche un modo più sollecito per saldare i debiti regi che il Re non avrebbe potuto onorare con tanta facilità ed immediatezza con il suo finanziatore Francesco Coppola. Dopo questi turbinosi eventi, Ferrante I muore nel gennaio del 1494.


Bibliografia - Celico = “ Santi e Briganti del Mercurion” - Ediltur Calabria - Diamante - 2000. - Sharo Gambino = “Accadde in Calabria - Antonio Centelles e la rivolta dei Baroni “ - Ediz. Mapograf - Vibo Valentia - 1989. - “Rogerius“ - Domenico Montuoro e Federica Gargano “Un privilegio di Alfonso V d’Aragona all’Università di Tiriolo (12 febbraio 1445) “ - Soriano Calabro - Anno III - n° 2 - luglio - dicembre 2000. - Vincenzo d ‘Amato = “Memorie Historiche di Catanzaro “ - Napoli - 1670. - Ernesto Pontieri = “La Calabria a metà del Secolo XV e le rivolte di Antonio Centelles “, Edit. Fausto Fiorentino - Napoli - 1963 - Porzio Camillo = “La Congiura dei Baroni e il Primo libro della Storia d’Italia ”- Sansone - Ed. Firenze - 1885.

Sul prossimo numero di Angelo di Lieto

LA TORRE DI MONTELEONE E DIANA RECCO Quando, nel 1503 il Re di Spagna, Ferdinando II il Cattolico, divenne anche Re di Napoli, trovò una città nella quale il popolo viveva in un clima di miseria, di disordine, di lacerazioni, di atrocità e di guerre tra fazioni avverse. Da questa data il Regno di Napoli resterà nelle mani degli Spagnoli per tre secoli, mentre i napoletani diventeranno sudditi della Spagna per tutto il periodo della loro dominazione.

IL BRIGANTE RE MARCONE E LA MOGLIE GIUDITTA

Brigante ucciso

Il brigantaggio in Calabria, in massima parte, sorse a causa dei molteplici soprusi che il popolo aveva subìto dalla giustizia regia e baronale. I briganti, consapevoli di essere votati a morte, rivolgevano le loro feroci azioni contro la ricca società baronale e giudiziaria, le quali, senza applicare la giustizia, violavano la legalità. la Ciminiera 43


L’inno sfumato Lasciatelo in pace Sylvestre, il povero cantante che non ricorda, anzi non conosce l’inno d’Italia, del resto ci sono italiani che non lo sanno. Dovete andare oltre il pensiero normale per comprendere le sfumature che sono quelle che fanno la differenza e, quindi, per capire bene come si riesce a confezionare queste figuracce, bisogna scoprire chi le organizza. Oppure domandarsi perché tanto casino per un cantante di colore, tra l’altro americano, quando in campo ci sono giocatori di colore…ma sono gli unici dei quali non ci accorgiamo, anzi per i quali facciamo il tifo! Dicevamo delle sfumature che sono passaggi tra colori. Per esempio il bianco e il nero. Troviamo un cantante di colore e gli facciamo cantare l’inno d’Italia nella finale della coppa Italia. Sarebbe fantastico sapere a chi è venuta questa idea meravigliosa. Un cantante di colore che non sa parlare la lingua italiana che canta l’inno d’Italia. Ma cosa vorrà mai significare?

Mameli e se sa chi è stato Mameli. Non lo sanno né chi l’ha scelto né chi l’ha cantato l’inno. Però saranno contenti gli antirazzisti col bidè, nostrani. L’inno d’Italia, cantato da uno straniero con i cartoni che battevano le mani. Così siamo ridotti e peggio diventeremo. Siamo fusi e confusi in migliaia di sfumature, dove tutti tifiamo per il diversamente bianco… però fuori dalla nostra porta. Basta che non sposti nulla del nostro quieto vivere, della nostra comodità, del nostro benessere, Quelli accatastati nelle stive, nei campi della Piana, nelle stazioni a spacciare, nelle vie delle città dell’inno nazionale a prostituirsi, non ci riguardano. Portatene ancora, riempite le strade, le case e le piazze. Accogliamoli tutti, ma tutti! Magari in un giardino, dove Babu ci è rimasto per 27 giorni a mangiare arance. Tante di quelle arance che alla fine pisciava Fanta!

Ma con tutti questi cantanti che fanno la fame in Italia, proprio un americano (di colore) si doveva scegliere, penserà qualche maligno.

Oppure fateceli vedere quando arrivano, in Tv, nei telegiornali.

Se vado avanti di questo passo mi chiameranno fascista e pure razzista. E io sarò razzista fino a quando non mi diranno chi e perché ha scelto un emerito sconosciuto (o quasi), a cantare l’inno di

Noi adesso dobbiamo andare in vacanza che i sei mesi, della pandemia, ci hanno stressati.

44 la Ciminiera

Però da lontano…lontano.

Bruno Salvatore Lucisano


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