Lasse

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I a G.L.B. Abbi fede, consocio ipocrita! Da quest’ottusa chiavica gravida d’alme intesso la mia tela e ci imprigiono dentro Atene e i vacui sogni di Patmos, le marine sterminate di schiuma e frangiflutti, l’arabesco dell’animo e i dolori della materia, quando tutto è perso, ma lo stesso rinasce, figlio d’albe di farragine e spurghi (camminavo da solo sulla spiaggia coi miei libri e l’onda mi scherzava le piante), ci ho stipato regesti senza nome, i tanti nomi di chi resta con me senza saperlo : piovono gli attimi attorno e questa rete mia cattura soltanto poche lucciole stordite dalla fine della sera, ma, dopo, quando avrò tutti i giorni messo in versi, quando avrò tutti i volti amati persi, andrò dove a pescare? Avrà la vita miniera avara, tanta fantasia che sopravanzi la mia poesia? Accanto a me su un qualche senso in bilico, incredulo, - ti prego! - non fiatare.


II a L.B. Bambola, niente confidenze: a parlare basterĂ solo il corpo, flessuoso arco, nerbo della notte sommosso dai tuoi brividi : travedo oltre quegli occhi alla deriva isole scintillanti e mi voglio tuffare in quel racconto nemico di avventure, di lontane tresche sul mare Ionio (la CorfĂš sardonica di tante mie vendette)


III a D.B. Consola rammentarti come allora astratta e sorridente, quando in silenzio visitavi un adito di dubbi e la tua rima degli occhi era una miccia acquamarina che appiccava l’azzurro alla veranda. Svagato nel deflusso canoro quasi della tua voce, ti ascoltavo, mesta diafana corifea dell’invisibile concento di al di qua, preconizzare : “Sono come la luna eterna che veleggia per le rotte del cielo; prima strappo giallastro appena accennato su un lacero fondale, tenue fessura, poi, gracile spicchio rubizzo nel tramonto; infine, allegro digrado d’acquerugiola argentina nel pieno della sfera, al culmine che piove senza rimpianti o grida in grembo al manto immemore del buio”. Se è questo che vuoi dire, torna, sii per sempre quel tuo astro! Per me - lo giuro! - non sei sorta invano, mentre ascendevi in un olimpo acceso di finti lampioncini giapponesi.


IV a E.D. Creatura del vento, non ricordi quando ti si attorcevano balzane le chiome sulla fronte e svolgevi uno sguardo inesausto alle lusinghe antiche della laguna? Sul vaporetto svagata canticchiavi (riveduta e corretta) “La vita in rosa”. Allora, mondi ti si schiudevano per rifluire rapidi nel gorgo spumeggiante; alberi, ville, barche solitarie guizzavano nelle pupille assorte e stupefatta ne traguardavi la visione pallida. Era ieri, ma già stasera è meglio che gli scafi, sciabordando, attutiscano queste ed altre nenie canticchiate, che San Marco si assopisca da solo cogli ori e i suoi lucori, buccinando che i miei traghetti gridino un addio : sarà più dolce rammentare (corretta e riveduta!) che la vita, la vita è rosa.


V a L.B. Dichiarazioni frettolose, estorte con gettoni anche pochi a una cabina oppure registrate su cassetta da godersi possibilmente in auto pari passo agli scavalchi mutui sui ribaltabili, c’è chi le stila in prosa o versi, chi le affida a volantini erranti, chi le urla, le canticchia e sussurra, chi col piede di sotto un tavolino le telegrafa; anch’io - ridono tutti - anch’io ho deciso (pure senza l’ausilio dei carriaggi di Eros, dei factotum incipriati e linguacciuti dall’apporto imprescindibile) ho deciso : anch’io tento la sorte: un ciac e sono sul tappeto rullante : - Come andrà?.-


VI

Disinibiti i baldi araldi dell’Evo che verrà tutta la notte hanno soffiato dentro gli oricalchi; pestato hanno alla fine su triangoli sfondi e casseruole grandi eventi annunciando. Ai primi raggi di un’alba rintronata sono stati offerti a tutti ciambella e sangiovese, che già si sbaraccava nel silenzio sotto voli di rondini stupite e raffiche gelate sollevavano in aria mulinelli di cartacce. Certa è una cosa: - dicono - con qualche spinta, uno sforzo in più, un bel botto e senza troppa guerra l’Età dell’Oro tornerà a regnare su questa terra.


VII a F.G. (Ode a Federigo Garcia Lorca) I È questa la folla che ci applaude, Federico, una caterva spensierata, lesta ad osannare come a deprecare in preda a indignazione filistea. Sorridi, se lo vuoi, quando si affretta su strade bitumose dentro strani penitenziari semoventi o assiepa gli spalti dei manieri fuligginosi, straripando dagli inferni di ferro e di cristallo. Odia atterrito la città tremenda finché ne hai forza come a notte si allumano di fiochi luccicori le sue morte carcasse od imperversa la rissa fra le tante perniciose tribù. Intanto, adesso, poeti laureati, deferenti, con stuoli salmeggianti di scherani ti cingono in effigie le tempie martoriate di corone di alloro. (Ah, benamate chiarie di Estramadura, quando nitido l’astro risplende!) Nel chiuso dei villini banditori distillano prezzolati effluvi verbali per te... II Il tuo canto non muore in un matraccio. Te la sozza fungaia non più recinge di miceli luridi sotto lividi ombrelli e questa che soffonde rosea alla collina il suo crinale non è, non sarà mai la fumida aurora americana. A tratti qui si mostra fra barbagli l’oro


che è sopra l’azzurro del cielo. Guarda, se puoi!, la danza inarrestabile dei colli brulli e solatii, degli alberi contorti e macilenti, dei riali agonizzanti: non lo sai, ma giaci sulla tua terra, Federico, esanime, straziato e sanguinante proprio allora quando della canicola la fauce inghiotte le tue zolle.


VIII a R.M. Ehilà, ragazza, insomma, questo è il piglio del Lazio? Dai tuoi occhi mansueti si indovinano gli sguardi di una chinea (parrà qui la tua nobiltà?), ma muovi tartaro con un passo alla conquista di un mondo che sia tuo, dove gli opposti infine si combinino in un esito riflessivo. Bene ti incolga, perché il cuore se in te rimane scoglio refrattario liscio su cui si sfoga e spegne la passione sii la stella per te del tuo mattino che infigge in queste brume infreddolite tenue brillio. Resisti!


IX a M.F., R.M., N.S., S.C. Era di maggio un poco (credo di ricordare) pungente l’aria; di tra la fioritura solitaria di ginestre dal giallo invasivo si svincolava a stento il verde umido della terra remissivo ma il mare (sì, me lo ricordo) nitido nella memoria il mare già azzurrava tenue tingendo l’orizzonte dei balconi petrosi; poi, la multa di Pesaro, il palazzo di Urbino (era settembre?), taciturne Loreto e Recanati per troppo sole. Ai piedi della rupe già mugghiava su cui sdipana la strada i suoi tornanti: sola visione che persiste mentre al rombo meccanico dell’automobile si incrina il terso e rigido cristallo. “Gli uomini quanto male si fanno gli uni agli altri” - ripensavo anche al Coro dei Morti, alle Operette [...] c’è una prigione fuori e una dentro, ma io vorrei sfuggire a tutt’e due.


XI a R.V. Erto sulla vertigine con te rinasco e mi sbilancio: il cuore tanti rivoli neri mi rigurgita quante balze affannose ormai stambecco salta un pensiero che si illude: un nuovo amore, un nuovo stordimento! È questo quel che chiamano C’è un risveglio per tutti: il mio è più brillo.


XI

Estati smemorate, rosse come una piaga sul vibratile incarnato serale, quante volte si sono accese e quante volte spente in grembo ad un pensoso plenilunio : non c’è memoria tanto vasta che le possa annoverare tutte. Se la vicenda ancora non si arresta, si prolunga lo strazio: la carriera frenetica dei giorni è solo un gioco ieri tragedia, oggi già commedia; cogli anni si è sbiadito il suo colore, dispersi quei riverberi, volatili soffioni contro il vento eppure l’adorata stagione si misura un’altra volta, consumato acrobata, per noi di nuovo attenti nel suo numero.


XII (Settembre) Giunge con passo fuio ed è il medesimo sempre tormento, la sottile irrequietudine a vedere strane stropicciate mattine immerse in un umore intorbidito mentre l’estate smotta in silenziose slavine. È l’ora di raccogliere le cartucce dei fuochi d’artificio sparse sui prati, i liuti fra gli olmi abbandonati dalle driadi,


XIII

Ha baciata la rena e si è librato trasfuso nella luce, alto nel volo il cerilo, felice. Ah, se potessi io pure per un frullo di ali, fatto vortice travolgente di piume alla mia meta congiungermi alla fine, almeno un sogno sfiorare! Ah, leggerezza, arcano spasmo di libertà , voglia di un vuoto indicibile e lieto di sublimi divagazioni e abbagli! Se tanto mi dà tanto, non distinguo, dentro un arco di luce, effetti o cause


XIV a M.T.B. Hai trovata la via oltre quel colle dove si asserpa in un tessuto molle l’erba su cui tituba il piede al lato di arcobaleni declinanti esausti a riprendere il fiato. Saltato hai il fosso, sterminati infausti giorni senza dilucolo; doveva succedere così, così successe : insegna pure a me l’incanto che ti leva di qui per quella cala in cui a resse riposano le foche in quieto abbaglio docili anche al mio lasco guinzaglio.


XV

Ho preso un bus a Marble Arch, ho preso un ombrello a New York (vi ricordate?) al Rockfeller (pioveva all’impazzata e io detesto infradiciarmi) . . . non vivo più così: supino al mio futuro, prono ad un passato quale sia non importa . a culo il resto! (Vi seppellirò).


XVI a R.M. Ho spiato anche troppo l’orlo sul quale si incapsula nel mare il cielo; anche troppo ho sperato di vederti infine restituita intatta al desiderio quasi Cleopatra impossibile su navi argentee e sacrali, affaticate da ninnananne di remeggi. Un limpido bersaglio che si offusca e si allontana sempre di piĂš da quei miei lidi affranti di incontri mai riusciti e sono un altro. Manchi al mio dopo, a tutto quello che ho poi saputo inventarmi, dire, fare, manchi alla storia dei miei giorni veri, manchi alla volta, poi, che ti ho incontrata a Porta Santi e le vetture si sono separate troppo presto (per sempre?), manchi ai miei amori successivi e finanche ai disamori, manchi al meglio di me che verrĂ sempre dopo, manchi ai mari, ai lidi miei che spierò domani.


XVII a C.M. In quel lavacro fresco non disperdere salina la fragranza che è rimasta sulla tua pelle, non strapparti tu di dosso quelle esili radici. Se hai provato qualcosa (e non lo so: lo credo) Una cosa da niente e consacrata per sempre al boccio il nostro amore, ma preservalo! Non già per me che sono morto prima di nascere ai tuoi occhi ma per quando - e sarà troppo presto sbufferà nella baia il tuo battello.


XVIII (Visita a Fort Bragg) Inutile tentare adesso il varco di fossi e di barriere che si estendono sempre a perdita d’occhio; non si può sperare un altro scampo al tiro della mitraglia, le radure se spazza del fortino. Neppure noi ci siamo cimentati nel salto e nella corsa oltre il roveto di ferro. A un tratto sono svaniti i nostri bei trascorsi di evasori entusiasti. (Molti anni sono passati e questo cielo è fosco molto più fosco, benché rude il vento squinterni ancora i pali delle tende...). Pago, ammicca il tenente di una nostra inquietudine in catene, sogghigna degli sguardi questuanti, ma sicuri alla bassura dove - così dice si divertono i militi in esercitazione. Sussiegoso ci informa che la selva dei missili è puntata contro il nemico insidioso e temibile, ma sempre destinato a soccombere; ci spiega che anch’esso ha predisposto i suoi ordigni contro questo sterile spiazzo un tempo prateria. Infine, ci accomiata soddisfatto, ma non sa né lui, né i sorridenti duci dell’Invincibile Armata nuova di zecca che altro pensiero ci urge, ci frastorna altro che gli obici fiammanti o l’equipaggiamento della truppa ed è quel salto che in cuore nostro abbiamo fatto già.


XIX

La legione dei granchi che ha tentato suo malgrado lo sbarco a questa riva, la fila interminabile di chele brancolante e soffrente che attanaglia perspirante e insensibile quell’ultimo anelito di vita mi ricorda del mio destino eterno


XX (Proclama televisivo dell’eresiarca) La recente vittoria plebiscitaria della luce sul buio o viceversa non vi induca a ritenere, sebbene porterà come al solito a un dipresso dalle soglie del Bengodi, nostro traguardo ultimo, che questo poche spanne di tragitto si possano coprire senza troppa fatica o pena. Occorreranno, invece, molti sforzi e rinforzi e scontri sanguinosi qualora gli ostinati della tenebra sostenitori non demorderanno, per ciò, chiunque in sé conservi un minimo di civiltà (di assennatezza?) - oltre il fiume, tra i frutici o dai picchi stagliati contro la pece notturna in rivoli oscuri colante o immerse in una gora gelida fino alla cintola protendendo le braccia nerborute arrancanti frotte accendono fiaccole a segnalare sé chiunque ami da uomo la fanfara e la battaglia che si profila già, non perda il suo tempo, ma di nuovo nella mischia si getti dietro me.


XXI (Patmos) L’angelo femminile - parvenza stenta, come proiettata su velo ventilato lui era che in ginocchio mi implorava nella vitrea serotina frescura; mi implorava di implorare e pregava di pregare per questo mondo che sprofonda in fiamme: - Prega - diceva - prega - colla voce che vigile vibrava quasi tremula viola a tratti od uragano alto di piogge e gravido. - Prega per la Città - pregava - tu che esaudito sarai da Chi lo può, prega se ti sta a cuore che non affondi lemme nella melma. Ah, quelle labbra dal sussurro impalpabile! Lontane quelle sue labbra macerate, via dalle mie guance! Via dalle mie dita queste che incorporee rasentando congiungono le mie mani in preghiera! Potevo, forse, dirle che non so degli uomini, non so dei loro aborti degli sfasci di sempre, del rimpasto continuo che produce una melassa [...] con voluttuosa complicità? Fra tutti gli altri bisbigli solo bisbigliai (avevo un groppo alla gola, quasi singhiozzavo): - La mia isola è qui. Gli uomini se pure hanno voti, li appuntino in Lui. -


XXII a F.A. Lenta e calma sulla strada di lenti luccicanti, quasi oblò che infittissero bruniti il mistero dei tuoi occhi, (le splendide ciglia ti imperlava l’onda della calura - questo so e le iridi ignote ti fremevano appena come intente, il suo respiro sonoro ed adorabile nel caldo sensuoso di un’estate senza tempo ritmava i palpiti del petto), di quei diaframmi arcani ti spogliasti : un attimo e il sorriso tuo mi irrorò mentre dicevi : - Amore... .-


XXIII a F.F. L’epoca mia? Dov’è? Non l’ho mai vista. Forse è questo sinistro convoglio in svelta corsa fiacca tra sbuffi e clangori in gallerie perverse dai rari, lamentevoli spiragli? La gualchiera dei giorni coi suoi tonfi di lunedì, di sabati e domeniche [...] Mi indichi il binario e la panchina dal tempo erosa, abbandonata e sola, nella vecchia stazione o il tuo binario - lampioni rotti, scalcinati intonachi, fischi del ferroviere appena stride la rotaia -, se è per questo il treno che tu aspetti attendiamo da tempo tutti noi.


XXIV

L’estate è questa che mi spania dai miei sfaceli e mi rigonfia il mantice dell’afa a sbuffi sulla sabbia. Vago sull’acqua immobile e supino alla fonda in salmastre trasparenze; dalla riva riarsa, se mi vuoi un granello di bene, se non vuoi che al largo mi violenti lo scirocco. tienimi d’occhio tu


XXV

Multicolore folla di bikini sparpagliata alla spiaggia e bel carnaio


XXVI a E.Bi. - Nient’altro che rovine nel mio cuore! fu il nostro reciproco saluto sulla spiaggia risate a crepapelle, poi. Quegli anni tutti insieme non ci hanno rinsaviti! Pensavamo così, ma potevamo supporre che la nemesi al suo arco avesse tante frecce, che neppure il disastro è più rifugio se dal nulla finanche può granire una sorte qualunque. Ma - làsciatelo dire - in spiaggia tu scendevi troppo tardi; già da allora invece ero un adepto, un adorante del sole, ero un fedele, quando si affaccia vergine alle larghe finestre orizzontali, ma non è stato questo a separarci. - Prendi una vita a caso - suggerì fioca la voce di qualcuno - e vivila siccome fosse quella stabilita. Ho seguito il consiglio e il gioco in fondo è valso la candela delle mie angosce e dei miei pentimenti [non so con quale forza sopravvivo]


XXVII

Non è più tempo di sperimentare la caduta dei gravi dagli eburnei pinnacoli. Ben altri gravi minacciano questa nostra esistenza martoriata da quando sul colle scarlatto è rintoccato il lugubre rimbombo. Dopo non fu che una vicenda pallida di torbidi tramonti e aurore polverose, non fu che sussistenza ignava, stritolata da un algido silenzio; grido non fu, non urlo, non lamento finché lesta con passo felpato non sopraggiunse l’era degli automi.


XXVIII a F.F. Oh, la dolcezza spaventosa che ti ha rapita a noi, ai nostri madrigali incompiuti, ai lunghi cammini fino all’orlo dei burrati su cui tu ti affacciavi a divinare il nome delle piante; oh, sublime e tremenda ti ha strappata al clavicordo nuovo comperato a fatica e tosto abbandonato agli accordi, alle stelle, agli innevati picchi che tanto amavi (e ti hanno ricambiata) ! Si illumina il tuo sguardo; con un cenno affabile allontani la vertigine che come un tempo piace immaginare qua ti risucchi, decisa, umile e remissiva ti congedi.


XXIX

O straziante e mirifica bellezza del creato in trionfo, quando l’astro rifulge al culmine, fiammea freccia, dardo immillato nei flutti scintillanti. Intorno tutto è immobile, rapito nell’estasi fulminea del baleno che scocca, nella gloria del giorno che si eterna. Istante dolceamaro, riconcilia a questa vita e ne disvela l’intima lacerazione.


XXX a E.B. Per gioco nei miei anni primi premevo l’orecchio ai cembali sulle membrane implorante, benché immote, da dentro scaturisse qualche voce. Più tardi ci ho provato con coperchi di pentole ammaccate, con paraurti e copriruote, abbagli di luce in lontananza: fu la volta dei fanali di notte a Montescudo sul bianco di murate fresche e rane e grilli e aratri con trattori. Vennero, poi, le grazie del Liceo, le disgrazie di Roma, l’Osservanza ritrovata e ripersa, i computieri, la ridda degli arcangeli dismessi e adesso dentro ho forse troppe cose. Così ti ho conosciuta, Poesia!


XXXI

Per queste vie inghiottite ritornare sotto le antiche torri, sul selciato inseguendo un poco acre fallace quel sorriso di un ricordo che sfuma in lontananza come il sole di sera dietro i colli. Ricercare ad ogni svolta l’emozione passata della luce di quel giorno oramai fioco barlume. Sui bastioni alteri e muti si è nascosto? Trepidare al minimo sussulto. Dietro l’angolo? Speranza che non abbandoni seppure abbandonata. È pronto lo scenario del cielo ed al tramonto mesto e sognante si prepara. Gazzarra degli uccelli, dalle ali ciarliere, forse sanno? È forse là il momento riottoso e fuggitivo o forse vaga attraversando aerei crocicchi? Sui propri passi ritornare, infine, camminando silenziosi a cuore vuoto.


XXXII

Pochi bagagli serviranno al viaggio, quando l’ultima stella, schiarendo il gelido buio al passaggio, stillerà in un crogiolo di perla su una marina ormai tutta picchi e seracchi. Non gli stinti prontuari mitologici fin troppo tradotti, non gli assurdi ardui esercizi di diteggiatura, né gli stipetti stracolmi di ricordi amenamente inutili, né le ingenue maioliche o le maschere di sempre; forse qualche briciola di affetto, una parola, un gesto dispersi in fondo al vuoto, inceneriti, mentre risuonerà la diana dello Sterminatore impietosito


XXXIII a A.C. “Quando le chiare voci tacquero delle cascate noi eravamo là; il capo mio sul grembo tuo e dormivamo un sonno senza sogni ché la vita per noi era un bel sogno.” su una lira un po’ acerba ho canticchiato.


XXXIV

Ricominciare è rigettare dietro di sé grevi bagagli di sogni, di ricordi e di illusioni nei lunghi tratti di strada buia affastellati; ancora è riaffiorare a questa alla luce abbacinante e nuova per tuffarsi di quel bruciante soffio al primo spiro. Esito, invano, se il destino è questo


XXXV

Sul corso le vetrine riverberano già fasci di luce : questa è la sera se la debordante untuosa festa sbuca senza un motivo ancora per la strada segnata da lampioni sprizzanti le girandole infuocate che tanto piacerebbero ai turisti. Sereno il luminare della notte elettrico ed assente, quieto splende come sempre sul nero per quanto abbarbagliato. Quando spenti i fragori e gli abbagli si saranno ritornerà tranquillo a rischiarare col suo argenteo sguardo questa terra. Il senso c’è basta cercarlo forse iscritto dentro il lungo ghirigoro di auto che


XXXVI a E.D. Telefona di sera, amica cara, perché parlarsi è tuta un’altra cosa allorché, sotto il vespro, morente il sole è una palla aranciastra appiccicata a fondi grigioazzurri e spersi noi nella città, ma collegati da invisibili fili più che mai agogniamo parole. Telefona quando la vita stanca si immerge nella notte; a tariffa ridotta mi dirai di lui che tarda, dei tuoi beni in borsa dal solito crollo defalcati del domani che si infogna gaio in malsani rivoletti. Dall’altro capo del filo riderò (piangerò, se lo vorrai) fedele confidente ed a mia volta ti narrerò improbabili svenutre, inevitabili guai di chi contempla in odio a qualsivoglia presente il passato. Telefona di sera, prima o poi, contro mia voglia ti rivelerò in un solo sospiro il mio amore per te, amica mia, oppure di nuovo tacerò, perché parlarsi a sera è tutta un’altra cosa.


XXXVII

Vedi all’acero sopra il Grande Carro che aereo volteggia in cristalline spirali illimpidite e dietro scorgi ad ogni fronda un raggio, un impensato riverbero stellare che dilegua. Cogli, domani, a piene mani i fiori di amaranto e serbali, se puoi, la vita sfugge con segreto volteggio.


XXXVIII a F.B. Vera fortuna è che questo futuro promettente, questo destino provvido e indulgente non ci piombi sul capo come una scatenata bufera. Mancano ancora, invero, tante analisi, rivoluzioni e tanti adattamenti, riforme di pensieri e di costumi, lotte colle cariatidi di qualche reazione e, poi, bisognerà assuefarsi con prudenza e con gradualità a tanta e tale felicità; occorreranno comunque mesi o anni... insomma, molto tempo.


XXXIX a C.D., E.Bi, G.R., S.Co. Vi venivo a trovare pedalando furioso. Il lungomare era un nastro d’argento a congiunzione di disperse vacanze ed ogni volta


XL

Vivemmo allora sotto gli Ateniesi i nostri anni primi affaccendati in gare, in studi, in animati colloqui con filosofi cortesi. Non erano cattivi i mistagoghi colle loro manie (quei raccontini edificanti, i giuramenti, i roghi di primavera) e poi non sentivamo quegli oneri pesanti ed eravamo fieri dei nostri liberi destini. Vennero i tempi poi degli Spartani, delle tradotte, delle guerre giuste, del rigore, del letto di Procuste su cui finiva chi tradisse i sani principi della Nuova Umanità. E fu l’epoca breve del terrore, della virtù, della fraternità in armi o meno predicata a iosa da barbuti profeti, finché odiosa sfumò ad un tratto in panico ed orrore. Toccò ai Tebani, infine, dominare in mancanza di meglio e fu il momento del senno e del rinnovamento che avanza riposante e regolare; fu il trionfo dell’etica, la gioia dell’aurea mediocrità, la quieta vittoria del buon senso. Fu la noia di un viaggio sempre uguale e senza meta.


I a E.D. Ah, se l’ilare tuo frastuono improvviso irrompesse sull’abisso, quale gioia per me vedere in fuga gli stolidi sileni di quest’inferno demoni custodi, quale pena sapermi al precipizio in fondo, inarrivabile, ad uno sguardo tuo, ma pure intento quell’attimo a spiare in cui si inveri l’impossibile evento. Ah, se l’ombra dietro quell’angolo fosse la tua, quale sussulto in me sorprendere, inatteso, la luce nei tuoi occhi; quale ingiusta perpetrata agonia di volto in volto braccare un lineamento ormai lontano all’attimo anelando in cui si inveri l’impossibile evento.


II

Allora quando l’araba fenice in me sopita si ridesti tra fuochi fatui e il volo, non riprenda perché un volo non c’è di penne ormai smerigli dolorosi e taglienti, quanti petti di aironi, pellicani, sterne e folaghe avrei sfondato un giorno di conquista se fossi un altro che non sono; quanti cordoni ombelicali avrei reciso, quante storie avrei scritto nel rigurgito dal mio stato banale [...] sono figlio del tempo che mi resta [...] se riscrivo ogni volta un solo fremito.


III a A.Go. & M.F. Amici, è stato tutto un grosso equivoco. Nei piani miei non c’era quest’insulso girotondo di aneliti, la trista tortura di un ignoto troppo noto. Per me non credo che ci sia un destino (non per gli altri - può darsi): solo vagolo come il cesto di vimini sul Nilo, ma il mio mattino è d’oro, d’oro il refolo che scocca ad un sussulto di miracolo Ma voi credete pure nell’ora che si infiamma per la lotta, nei labari fiammanti e ancora più nel sole, negli abissi, nelle vette : perituri simulacri sappiateli però. Valete!


IV

Attendo il tuo saluto come lama che ferrea calando sorda strappi me dal fondale stinto, che mi svella furente dal mio suolo di inerzie confortanti, di sconforti e bramo un tuo sorriso, un tuo riverbero che negli occhi mi piova e nella mente. Sì - posso, infine, dirlo - ti amo, ti amo, inesistente mia compagna, mia Morgana, e mai non cesserò di amarti, perché sei diversa, perché non mi ami, perché tutto tralasci di me e del mondo e non te ne dai pena, perché altri infiniti abiti e fra noi solo per gioco o compassato scherno ti degni di apparire. Ti amo! Ti amo, senza speranza, senza vibrazioni nel tunnel di me stesso e senza fine.


V a R.M. Brucianti come schiocchi di staffile del tuo parlare i nitidi contorni l’amniotico interruppero silenzio in cui fluttuavo, quando cesserai di stupirmi? Prima me l’aspettavo allora che provammo a salire i falsi templi da sogni ginnasiali malcopiati o, aggrappati agli anelli infissi a terra, scherzavamo coi venti furibondi a farci trascinare: tutto, forse, (non solo noi) può essere rapito... Fu nel preciso, invece, istante del ritorno che il verdetto mi fustigò tuo inopinato: - Troppo - ti dico -, troppo siamo per questa vita noi giovani e bravi. -


VI a P.M. Chiedo non più le strabocchevoli felicità degli anni d’oro veri o presunti, quelle che attorno mi fioccavano, a bersaglio, schizzate come dal rifugio brillante delle stelle; smarrito, intanto, nelle orge spiraliformi degli aromi tentacoli d’ambra mi carpivano. Sarebbe insulso: mangio troppo, sonnecchio senza ritegno a ridosso dei cristalli spioventi del meccanico mio obitorio. A volte capita che un passante incuriosito mi ticchetti qualcosa alla vetrata a colpi di giannetta; lo licenzio sfuggente col sussiego di una mano. Per increspare un poco lo stagnante specchio del tedio canticchio con queste altre inascoltate nenie. Mi assopisco alla fine, forse, per sempre eppure so (riattivando i neuroni per un ultimo sprazzo di fantasia) che sognerò che tornerà l’estate dei ricsciò liberi, immobili a mezz’aria appena reclinati, pronti alla cursoria foga degli zoccoli torrenziali sui selciati, fragorosi di polvere, sempre più scalpitanti, più convulsi, impetuosi fino in fondo al vicolo del bucaniere il cui diretto ad entrambi accecato ha l’occhio mistico ...


VII a E.D., F.P. & R.M. Ci impuntammo a volere sorprendere il folletto ospite non richiesto delle nostre serate quasi estive. Giocava a compromettere gli agguati ai danni improvvisati degli astri, se sortivano pallidi e brancicanti allo scoperto il fellone.... Frattanto ne approfittava ognuno per comporre sotto banco la sua epopea (la mia sul fatto che nessuno mai legge le epopee). Sorvolammo alla fine su tranelli e vendette: pi첫 scaltri del diavolo gli agenti suoi in borghese, diavoli essi stessi. So che ci spia da qualche canto ancora e mi sorprendo per tutta risposta fare smorfie nostalgiche nel vuoto.


VIII a D.B. & E.D. Ciottolo per ciottolo vi saprei raccontare quel vicolo lo stesso che fra non plausibili restauri di bicocche ci accompagnò al santuario delle Prische Virtù. Arrivammo in orario quella volta che in qualità di spettro fuori servizio misi in scena in un atto per l’amica l’Apparizione , gratificato di una meraviglia sconfinata, ma senza battimano. Solo più tardi gli imbecilli ieratici custodi presi di contropiede decretarono il mio trionfo. E dire che avevamo percorso a mani giunte l’irreale zigzag, ridendo, ripensando alla mia veglia, al salto del cancello. L’ultima svolta fu la decisiva : mi sono addato allora - ci ammannisce di punto in bianco impraticabili originali soluzioni l’Anima del Mondo - addato che vi ho amate per un istante allora, ma quale delle due di più?, (insieme a noi sgambava l’alemanna gentile) alla fin fine meglio soprassedere: investigare sarebbe la follia delle follie.


IX a M.G. Coll’impeto ti avrei amata - giuro - di un tornado gentile, colla foga violenta e tenera di una valanga nivea, se solo avuto avessimo il coraggio di sfondare ogni muro di silenzi friabili, di intese possibili e mancate. Sferzante l’aria di quel giorno nascente, frettolosi i passi: devo ogni volta inventarmi oltre all’amore anche il suo idioma? “È tardi” forse mi hai detto e la frattura fra il sentito ed il detto resta aperta.


X

Come puoi non capire nevrotica quest’ansia che inviluppa me stesso tutto nel suo nebuloso sudario di medusa, perché tardi a fare capolino dall’ascetico diuturno intercolunnio? Quanti passi dovrò fare sul vuoto, quanti sassi gettare dietro me, perché si stacchi una scaglia di luce dal mio buio? Troppo lungo il tornante che mi avvolge nel desiderio e non so la mia meta (c’è chi la sa?); il patrono è troppo sordo che scongiuro; poco mi serve eppure: grida, risa di scherno, perfino, o compassione, acché, per me, si muti in Purgatorio anche l’Inferno.


XI a R.M. Con uno sfondo acchiappafarfalle non potrai - ti avverto! neppure tu, mia rupe, soffocare il dileguo inespiabile dell’amomo una volta svaporato. Non è questione, vedi, di cornette esplosive o di numeri sbagliati se quei nostri destini non si intersecano o se lo fanno solo per produrre spiacevoli soqquadri; il fatto è che esploro le adunate delle tribù dei Visi io d’Argilla in cerca del mio doppio (e della mia metà?) : non so se tu altrettanto, ma non gettare, allora, la maschera o la spugna, mia locusta : cambia retino!


XII a R.D. Confessa: più che il laio dolente del cigno che sguazza alla riviera fu che ti ha conquiso il falco dall’allungo prodigioso, impudico aliante in rotta sulle tue poppe porporine, un poco erotico, ma certo più gradevole. “Confido in altri sogni” - mi ridico planando sul mio doppio in un candore di piume e non ci credo ancora : che ci sia stata almeno una parvenza lontana di tenzone prima che ti artigliasse potrebbe bastare a consolarmi e tu lo sai via via che più ti avvinghi a quelle penne in volo.


XIII a A.G. Conosco la mia strada o non ricordi immancabile tu che ora mi manchi, quando al colmo dell’infelicità ti dissi: “Siamo nelle mani di Dio.” ? Lassù pioveva e grigio oltre il grigiore della nebbia traspariva un massiccio di silenzi incombendo su noi aggrappati alla tetra, quasi estranei, precaria staccionata, dopo troppi patemi e inconcludenze; dissi: “Siamo traendo un sospiro, un gemito, - siamo nelle mani di Dio.”, ma la più arguta delle sapienze, la più acuta


XIV a S.Co. Da iridi sognanti che trabocchi lampo d’amore non chiedermi un’arringa per il mio Dio: non ha chi lo scagioni dal male che ci inchioda a questo suolo, che ci riga la fronte e io non ho parole se tu mi frecci con quel guardo. Salgo e ridiscendo in comprensibile stato confusionale le falde del mio Golgota portatile senza risposte in tasca; mi bastano le dita intinte nel costato, qualche goccia di fiele, un gemito e sapere che ha avuto anch’Egli la sua croce.


XV a G.R. Da quando sei fuggita col buon buttero non cessa più novembre nel mio petto. Stranito e inerte ti ripenso provvido angelo sempre pronto al volo ed al sorriso. Volutamente ignoro le cause e le concause e ti reinvento la sera in cui contammo le stelle sulla spiaggia fino a tardi per correre ad un tratto a perdifiato, i piedi a mollo, tu volente nolente, io ansioso della freschezza turgida di un seno. Infine, ti rivedo appoggiata alla fredda balaustra scrutare indifferente gli infiniti stellati, finché attratta da una stella cadente o più banale meteora, mostrandomi il confine del buio, mormorasti : “..laggiù!”. Ma, poi, mi risollevo dal mio giaciglio e quasi divertito mi domando chissà che penserai di me, semmai mi penserai... laggiù.


XVI a F.P. Del passato la bibita ha un che di giulebboso - mi ricorda il lukum. Sorseggio avidamente quell’intruglio che subito risputo disgustato. (È troppo dolce!) Lo ammetto: a volte capita di inciampare quasi per sbaglio in un amore sbucato di soppiatto da un non so dove polveroso e stantio - il repertorio delle combinazioni è limitato capita a volte che da un interstizio si insinui e ci distorca il cuore la ventosa di polpo dell’allora. È un attimo: disperdo in un soffio gli acheni del ricordo, ma c’è di peggio. Acuta come sei dovrai capire le spade del giorno mi dilacerino, se mento che non mi bagnerò, no!, neppure una volta nel tuo fiume.


XVII

Del vuoto orrore e voluttà mi incusse il tuo passaggio sulla mia rotta. Un fremito mi colse ed arrischiai finché non fummo l’una nell’animo dell’altro. Ero sincero, allora, e non temevo i postumi dell’atto pur sapendolo temerario e insensato come quello di un qualunque Leandro che annaspi nel suo stretto. Ora nutro al riguardo più di un dubbio tradivo, forse, inutile o, se vuoi, meschino a ripensarci; in fondo, è stato tutto un gioco, come un gioco è questa vita, una partita a scacchi in cui spetta ad ognuno una mossa, benché sempre sia un Altro il vincitore. Ci ho provato a mia volta con vero trasporto e vano accanimento; il mio turno è finito adesso e mene vado: è stato bello anche così.


XVIII a M.F. Detesto le afasie - le tue - che ingravidano di silenti zavorre il mio pensiero eppure non mi va che tu mi parli rigettando su me quel ributtante tuo vomito verbale. Ti sei accorto? Vegeto sotto una cappa di vetro e sterco e nelle congiuntive la nafta mi trasuda. Mi salva, per salvarmi, forse l’acerbo sentore di un risveglio. Rinascerò fronda vitale od escoriato bronco nel giorno della fine. Adesso alle mie porte non bussare! Esci dalla mia vita cosĂŹ come ci sei entrato senza contro o pro. Devo ancora imparare la mia lingua, allora... (dagli ottoni, in lontananza un cupo accordo di settima minore fu suonato).


XIX a F.P. Di rigore in re bemolle sono tutti i notturni, malinconici e seducenti, tristi no, ma un po’ romantici se vuoi. I miei non fanno eccezione; alla spinetta in estasi improvviso, mentre i grandi doppieri mi si estinguono nel vuoto. Certo la gente non potrà capire perché io solo ed essi in compagnia di un fantoccio incarnato mi ostini fino a tardi a ridipingere le sudicie pareti del mio hangar, benché niente decolli nella mia vita. Vedono solo strisce confuse, pennellate a casaccio gialle e azzurre, schizzi di rosa pallido finanche sulle mie lenti e ridono. Non vedono che per te sola ho abbandonati gli ocra, i marrone, i neri e i verdi umidi e marci per riprendere le rotte di un elisio d’avorio, curvilinee e tutto dietro ad un sorriso. Delle loro certezze li lascio fiduciosi - come la mia la loro è una scommessa -: per me ho scelta la strada che si inerpica alla tua casa fino. Chissà mai se ancora la vedrò così fredda ed aperta, coi soffitti a terra rovesciati (quando socchiudi le finestre si sparpagliano al di fuori maliardi luccichii). Seguirò nel bene e nel male il mio delirio di vanni e di colori, senza chiedergli troppi coriandoli. Giuro che non distoglierò lo sguardo al tuo passaggio e avverrà presto : come gli altri anche tu traslocherai


dietro tendine chiuse di carrozze e candelabri accesi portati a braccio dai valletti. Se ritieni di dovermi un augurio dimmi solo (come io alle mie vecchie passioni mai sopite): - L’alba sorga su di te! (Voglia la Vita ancora che cosÏ sia).


XX a E.D. Dissuggella lo scrigno delle lettere da te senza motivo conservate così fitte di celie e motti comprensibili solo per noi - spartiti di nostre ineseguite sinfonie. Dimentica - ti prego gli sproloqui più lunghi del telefono protratti a raccontarci fatti e misfatti, te che mi dicevi : - Continua. Mi diverti. - (Troppo - non credi? - ho continuato). È l’attimo agognato che si avvera a separarci: non voltarti indietro! Ti sarò sempre accanto anche impensato, anche se un altro giorno subentra sulla scena, altro destino si infigge sul traslucido schermo della memoria, ignaro puntualmente di noi di allora, di come eravamo, di ciò che sentivamo: indecrittabili negletti sgorbi che quest’alba feroce spugna via.


XXI a S.F. (& M.B.) Dovresti darmi il numero della tua amica, la psicoterapeuta che riceve chiamate anche in notturna : potremmo fare insieme tante cose! Nel frattempo - che c’è di male? - insisto coi miei sogni: il sindaco di Ischia che mai sarò, un pied-à-terre a Trinidad (Tobago?), sfolgorante una cattedra in Australia, a Bedford Park, a Sydney, in Papuasia (non so se c’è), un podere in Patagonia, ma da solo capisco, quando, sveglio o più presente a me, mi accorgo un po’ smagato invero, che non condurrò l’assalto terminale in Mozambico, non cingerò il diadema a Ouadougou di Imperatore, non sarò il più giovane fra i Presidenti (e non il più vetusto) e tutto il resto. Così non mi devi svegliare.


XXIII

Fosse possibile calare alla fine il sipario ed annunciare una volta per tutte spettacolo finito. Si potesse correre sul retro a spalancare finestre ed abbaini per sbracciarsi in giulivi saluti a un cielo stanco da sempre indaffarato col suo carico di pianeti e deità . PiÚ divertente ancora dileggiare con gusto finalmente l’illeggibile messaggio che una mano (divina?) col suo sangue sul muro fatiscente ha tratteggiato.


XXIV a M.M.A. Fosti per me - benignità del caso! di più che un semplice e superfluo compagno per il viaggio. Senza saperlo, senza volerlo - forse - mi hai insegnato che la saggezza del cuore è quanto basta trasognati a coprire il tragitto. Ti vorrei quasi svelare che da quando ho te non è più tanto notte questa notte, ma non importa: ora spicca il tuo balzo, vola oltre la cime, quella è la tua meta! Non ti augurare lo scambio di quel dono colla bieca compagnia degli spettri che oscurano il mio cielo, segui la tua sorte ché io mi incamminerò verso la mia. Quale sia delle due la migliore (la non peggiore) lo sa solo Dio.


XXV a G.A. Giustizia è fatta! Giace al tappeto tra lucidi ghirigori di ossidiana balbutendo il telefono, lo stesso che imploravo senza requie volesse per me pure squillare, quando i fiumi mi inghiottivano di inchiostro della notte. Né più mi curo, poi, del campanello che pende fuori - so - dalla mia porta a mo’ di labbro tremante e gonfio, teso a un bacio che non c’è. Ma una ragione c’è se sopravvivo al fievole sfiorire di me stesso, se telescrivo al tuo recapito migliaia di pagine bianche. Settanta volte sette hai ribaltato già morente la luce, la clessidra per me. Per te ho acceso un cero settanta volte sette sulle are del non oblio. Adesso lascio scendere sull’acqua un petalo di rosa. Spero di tutto cuore possa giungerti attraversando in braccio alle correnti, il turbolento mare della Tranquillità.


XXVI a M.M.A. I petulanti padroni del vapore mi hanno imposto un ultimatum: mi converto infine alla mitologia loro fluviale oppure senza indugio sarò nel brago di costì propagginato, ma io ne rido. Non fu mia la scelta del fiume o del battello su cui quasi per gioco mi ritrovo giacché la grande ruota sempre destò colle sue pale in me scomposta ilarità. Per carità cessate quella lagna! Scenderò alla prima fermata, se volete. Ho scroccato anche troppo - ne convengo il viaggio, il crisma, il beneplacito dei Numi; in più, ho trascorse magnifiche notti sulla tolda in compagnia del vostro Palinuro ed ho, perfino!, fatta la corte all’anima gemella di un macchinista idiota, trovando nel contempo la forza di comporre un’innocente commediola (“ I benefici dell’Istruzione”, avevo altro in mente!) di cui vi cedo tutti i diritti e ciò mi basta. (Credo).


XXVII

I pochi neumi che mi provo, dopo, rassegnato a tracciare sulla scorza pi첫 scabra, la pi첫 rude selce del mio ricordo - credimi! - non danno appieno la purezza del tuo canto. Sulle sponde del nulla a pochi passi dal buio, non ti immagini quante volte sovrappensiero mi hai salvato.


XXVIII a A.F. Il blu smaltato dei soffitti intermittenti non discioglie ancora del tutto la mia angoscia : dai vetri arabescati anzi trapela che soffice al di là nevica un bianco cupo e crudelissimo; elettrici tra guizzi di fulgori frettolosi anche la notte, la notte pure dovrà riversarsi accecata su noi. Mi hai trafitto stavolta e colle mie saette : “Il senso è sempre per qualcuno” la frase che mi dico quando scorgo convergere eliotropi al loro dio spasmodici. Purtroppo non c’è più posto qui stanza non c’è qui, camera o ridotto, neppure un lucernaio per quel timido raggio. Nell’attesa mi sollazzo a rovesciare lieti calici sul pavimento. Chissà che per un caso qualche goccia del tuo elisir mi innaffi.


XXIX a E.D. Il mio amore non fu che per la luce tanto che era un tripudio di voci, un coro, un inno ininterrotto un peana grandioso ogniqualvolta una raggio mi inondava le pupille. Da quei bagliori il mio occhio ha incrociate troppe lune candide, a galla nell’abisso, pioggia di latte bianca dagli spigoli dei tetti o troppo basse per non patire il graffio dei comignoli, limpide prima, poi sempre più opache perché il dio del giorno non uguaglia, si sa, la forza della notte, ma a un certo punto per noi non sorge più l’aurora né più l’agogno, ché mi basta a strazio minore questo scorcio di cielo screpolato (dagli squarci ancora scorgo qualche sorriso di divinità).


XXX a F.P. La corriera dell’Amore ha pochi posti e tutti per gitanti accoppiati e felici. Invano mi sbraccio e mi esibisco in scene sempre più comiche dal salvagente, mi agito e grido, mi camuffo nei modi più impensati, inforco buffi occhiali a cuore : neppure mi gettassi sotto quelle ruote commuoverei l’autista. Sovente ti ho incrociata a valle di calanchi terrifici, franosi, più frugali di luce che orizzonti, squallidi ed impietosi nella loro assurda, irrevocabile pietà. Erano i tempi ancora in cui giravo per le feste già tarde con in mano una lattina vuota e la mia lampada ardeva sotto sotto. Non sarei col pollice levato al ciglio spento di una strada una volta almeno fossi riuscito a dirti: “Sono devastato”.


XXXI a C.P. La pendola compagna assidua alle mie insonnie tutta notte ha battuto in cadenza quei suoi battiti fastidiosi e invadenti (hanno tenuto desta la mia incoscienza): non è detto stamani che mi alzi, che deflori l’essenza del mio spirito al primevo sfiato degli aliti aurorali. Devo combattere anche sveglio una mia agra psicomachia: se ho visto il Portogallo non era come in sogno.


XXXII a A.Go. “La tomba non è luogo per l’amplesso” a squarciagola cantavamo in coro sul muretto a cavallo di Sorrento (in basso il mare in alto un cielo sfrigolante di stelle assai dubbiose che troppe volte avrei rivisto dopo). Io già scrivevo le mie cartoline con spartiti, scontrini e tutto intero lo sciocchezzaio del mio repertorio come quando a Zurigo Il vuoto dentro e fuori ancora più, ma a modo nostro eravamo felici.


XXXV a M.B. L’antipoesia, pur sempre, è poesia, benché dal più impacciato decollo - ti spiegavo - il pugno, lo sghignazzo, il marasma... (Quanti esempi pleonastici, quando ci sarebbe la vita sotto mano!), ma tu scoppiasti a ridere di gusto e io, per ciò, lo stesso. Poco dopo saremmo scivolati ognuno senza troppe obiezioni in una tenebra.


XXXVI a R.M. Le ore odio dagli ammanti foschi che i luminelli smorzano bolsi ormai dell’estate e del gelo sul sollo del fogliame il passo lungo mi sgomenta adesso. Erro senza una meta come un lemure graffiato da festoni di rattrappiti sterpi, serti ruvidi di branche scorticate mi costringono sull’orlo dello stagno, in superficie fango e ghiaccio graniti. Tu pure, tu con altrettanto gelo mi freddi il cuore. Vattene.


XXXVII a R.M. Le spalle al pozzo, assaporavo inerte il gusto sobrio della felicità, (sì, quello che a distanza di anni ti fa dire : - Non sprecammo un istante quell’estate! -). Accanto a noi sul prato disquisiva di gatti castrati e di politica la pacioccona, un’altra delle astanti si informava del nostro accento, la segretaria, infine, poliglotta e, per questo, estromessa da ogni corso ai lobi ti voleva appendere qualche ciliegia: lei fu che ci disse non pericolosa l’ascesa del maniero, lassù! Lassù, lassù ho riavuti raggrumati in quell’attimo, pellucidi gli errabondi percorsi di Linlithgow, erto sulla vertigine con te. A quel cospetto mugghiante di Mar Nordico, riavuto ho l’angelo custode di Glasgow, le miniere di salgemma, l’assolato torrione di Saint Andrews, lapidi e cippi, il balzo del soldato e quello del salmone, le corriere eternamente in ritardo o puntualissime (una voce dal fondo che ci richiama alla nostra fermata) : l’ammetto siamo stati pessimi giocatori di croquet tanto che mai abbiamo toccato mazza o palla. Non torneremo - dici?-, ma che importa? Io non ci penso, guardo giochi di rupi ed onde : negli occhi tuoi mi basta che riverberi ancora un goccio appena di quel mare.


XXXVIII a V.B. L’ho incontrata fra i peschi a Montenovo [...] Fauno cui riuscito è il fortunoso acchiappo


XXXIX

L’incoscienza, semmai le tempie ti ha lambite col suo Lete, con quale forza hai ricacciato indietro? Con quale gesto, quale inganno hai dissolto impotente il suo sorriso? Quale stella si è accesa, quale evento è apparso al tuo orizzonte a farla a te, nemica, mia dolce follia, che averte la morte dal mio cuore?


XL a F.P. Lontana ti ho pensata senz’alcun sovrappiù di riflessione (resta tuttora valida l’ipotesi che anche lo spazio come il tempo ignori di essere quello o più) e, intanto, sceneggiavo il nostro incontro (ridicolo! chissà se lo ricordi?) abbozzando possibili copioni. In uno ti rivedo al centro di Bologna e tutto ruota intorno a te: archi, colonne, piazze, torri, chiese, finestre, autobus [...]


XLI a M.F. Ma io non posso chiederti chiaria del giorno che riemergi gerbida d’un tratto in un singulto dal dilucolo se la manciata d’attimi che spandi - ahi!, già ne sento la sferza sul mio viso come nugolo di aghi di pino - se sarà domandarti non posso d’ore foriera buone o male. Si formula il quesito sulle labbra e subito si smuore. Meglio il dubbio...


XLII a R.M. Meritavamo almeno un’epochè calibrata con cura, poco ironica sulla goffa ventura di tonfi e di decolli. Avevamo carezzati i minimi dettagli, fino il battito dei giorni e delle notti avevamo ritmato con un’ansia che tradiva la nostra malattia. Fu come un lampo in noi la smania di rivivere, la voglia di risalire il fiume, di ingaggiare di lì quell’ultima tragicomica sfida alla sfortuna, Ci credevamo allora, ma durò giusto per l’apice svogliato di una nordica calura augustana e, poi, il tracollo. In fondo, però, (fu questo pensiero a consolarci nel ritorno) in fondo siamo stati tutti sospesi, sospesi dalla vita in quest’assurda tiritera di gesti, come pure sospeso è questo treno lanciato a mezz’aria sopra il fiordo. (Sbadigliando notasti sotto il ponte un cartello sfondato, senza nomi, proteso segnacolo di nulla in lotta contro qualche lacrima di sole).


XLIII

Mi sono chiesto piÚ di una volta perchÊ non ci siamo, o Musa, mai traditi. Niente ci lega: amore poco, sesso meno che meno ci hanno uniti, nÊ tu mi hai date le ali che chiedevo o le labbra sensuali che speravo; anzi a fatica ravviso i lineamenti del tuo volto tra la calca ghignante di questo usuale, eterno sconsolato carnevale. Eppure sei tu che mi rimbocchi sollecita ogni sera le coperte, sei tu che schiudi in un mattino d’oro le mie palpebre al sogno del reale.


XLIV a M.M.A. Non manco mai di fare presente al mio ostinato istitutore che essere, purtroppo, non potrò della sua banda. Non mi vergogno di svelargli gonfio di piaghe il cuore e colla voce sommessa contro il sibilo del vento sussurrargli: - Salvami da questa frana... -, ma, come niente fosse, egli continua a camminare in cima alla scogliera, mentre persegue assorto ed indica anche a me lo strepeante volo delle urie.


XLV

Non vorrei che il mio addio se di questo si tratta, assumesse per voi precisi contorni, definite consistenze quali, benchĂŠ auspicati, per me non ebbe.

Non vorrei che il groviglio di cenni, mani tese nel vuoto ad afferrare, palpiti di ciglia, mezzi sorrisi, sillabe stentate risultasse per voi stentorea parola su sordina di archi strascicati, mia tortura e condanna nel silenzio. Vissi nel limbo informe, dove giusto ingiusto, gloria ed empietà , cherubini e demoni si confondono in gighe scatenate le cui tresche condurre non seppi o districare. Non è il caso di trarne funesti insegnamenti. Ignoto a voi sono venuto, ignoto me ne vado, perchÊ meravigliarsi se rimane ignoto pure il fine?


XLVI a E.D. Penduli dal balcone all’improvviso travolti dall’estiva fragrante apoteosi che straripa ovunque senza strepito, noi sorpresi, noi senza pensieri, sospesi in quell’immobile scenario intenso, immobili noi pure, (da non so dove, intanto, nuova musica...) contemplavamo increduli noi stessi e l’usuale miracolo da fulgide sopra di noi svelato parabole di alati. E i miei versi salaci, le canzoni, ieri, le corde della lira, i tuffi nella piscina azzurra come un cielo, le tartine salate, i conciliaboli del martedì, le corse di Volterra sotto l’acqua di sbieco, abbandonati i libri sulla spiaggia, le coppe di gelato giganti, i giochi proibiti nella vigna a Tipano, Bach e Vivaldi, l’organo e la viola, la trigonometria da me per te ribattezzata a casa la tribolometria , le commedie, il teatro, i più poetici furori, l’estro, il candido Aristippo o Schopenhauer (mai risolto problema), le caricature, gli appunti, i roghi periodici dei diari? Molto meglio non pensarci! Ma, credimi, è penoso capire al colmo della gioia, capire che è finita.


XLVII a F.F. Per te pure cutrettola sarà il segno dell’amore quel dardo che ti esclude e ti separa marchiando nella calda primigenia promiscuità il tuo corpo. Inane un Cupido malfermo e spennacchiato che ingozzavamo allegri di becchime tra complici bisbigli nel giardino adesso ti reclama; implume ieri, oggi quel suo grido in me risuona strazio e perdizione che non potrò saltare quel fossato.


XLVIII

Per una lettera mai scritta per quei pochi momenti goduti di sfuggita a scorno del tedio e dell’angoscia, per quelle frasi smozzicate sotto il peso della calura estiva tu vorresti ricominciare (o meglio cominciare)? Ăˆ troppo tardi. I saltimbanchi se ne vanno, smontano i teatrini delle marionette e per noi, miseri funamboli, per noi è finita per sempre. Conserva per un altro il tuo sorriso.


XLIX a R.M. Persa per sempre mi ribello a quest’idea di averti. Crocifisso a quell’ultimo fiato (sia saluto evitato o sofferto), non mi arrendo, ma scalpito, persisto e credo ancora che oltre le mute debba pareti di un addio sussistere un’altra dimensione tutta nostra. Non di questi, però, spazi ti parlo, angusti ed incolori, perennemente invasi dalla pioggia, inferriati abitacoli di noia. Noi abitiamo anche l’altro mondo speculare ed etereo, senza sopra né sotto, prima o poi, dove un battito solo può ben essere come assillo più eterno dell’eterno, dove indiviso il tutto può sostare sospeso come in una cieca circonvoluzione ed il cuore non è solo un frenetico fascio di fibre: immenso si dilata fino a capire un’arca smisurata.


LI a E.D. Poche impronte di me sono rimaste sulle mie strade. In viottoli passato sono deserti, seppelliti fra templi e catapecchie , su sentieri rocciosi e labili tragitti ho percorsi su rene intatte in un mattino sterminato facili prede all’onda. Non è mia colpa - azzardo - se neppure nel cuore tuo ho mai lasciato traccia. Ti lascio a prova poemi illeggibili, scartoffie altrettanto noiose in più un nome - Leuconoe - . Non devi schermirti col velato sussiego di una beffa: è tutto ciò che resterà di me.


LII

Posa il coturno e calza agile il socco o mia Morgana, è tramontata l’ora della cavea vuota e incandescente, teatro di tue rare fugaci apparizioni nel meriggio flagrante di zaffiro. Ci vuole altro, quelle scarne sillabe che dettavi in deliquio dal proscenio non valgono a stornare la tregenda ormai nostra compagna. Impara il riso, o mia Morgana, se non sai fugarla.


LIII

Potrò sempre invocare colla voce rotta e spiegata il nome degli dei dei miei intendo - ed implorare genuflesso la loro comprensione, sperando perfino che si incarnino in movenze a me note a consolarmi, ma che mi importa infine che si prodighino lusingati in mio aiuto i miei benefattori, se manchi a questi viaggi


LIV a F.F. Pregare ?!? Eccome se non prego, sull’ansa specchiato del destino allorché curvo traggo il mio dado. Dopo l’ultimo squillo, dopo il battito fatale alla canizie diurna, in questo vallo supplicando mi aggiro, ma non oso imitare le pose dei questuanti. Nell’utero serale rannicchiato da ferme labbra trepida profondo un’orazione muta. Giunge l’ora... Chino lo sguardo a questa salma dolente, a questo grumo malcerto di coscienza negli occhi miei quando si affaccia appena addoppiandosi un attimo, del bell’occhio del cielo il guizzo estremo. Prego solo ci sia su questa o un’altra sponda dell’immane cruda desolazione planetaria chi a questa mia la sua ben più fervida prece intrecci confondendo. Prego la mia preghiera perché salpi intatta verso i pelaghi del cielo. Altre non ho parole per chi ascolti.


LV a S.C. Provata ho la fatica di arginare l’onda del pianto se deborda quando in tutto un sasso non vocifera il telefono, le feste non vengono, ma i loro sfavillii ti si sfarinano come spenti lapilli sulle retine quando dirigi stracarica sul golfo della sera e quell’abbraccio è nebbia, nevischio, trepestio di fango e di lampioni sbadiglianti. Per non estirpare con rabbia la buchetta delle lettere dopo tutto non è colpa sua se è sempre vuota, se ci trovi solo sconce cartoline. In coma non attenderti cablogrammi del fato, quando bussi colle nocche sui vetri delle macchine dagli interni imperscrutabili avvolte come sono nelle spire di un notturno invernale oppure fai solecchio per tenere sotto controllo almeno in quale cocchio (dai portelli turchesi od amaranto?) ti si involi un Cupido moresco. Tieni duro: ci dev’essere anche per te una pista tra le dune. Non chiederla a me che non rammento la mia perfino. So soltanto che c’è qualcosa in corso (questa farsa ignominiosa?) fatto di notti di petrolio arse nell’odio, di duelli di pugilato colle porte a vetro del condominio, di strisciucce colorate o no, piazzali freddi, bigliettini amorosi scordati nelle tasche, esami, poesie ed altro ancora : finché durerà quanto meglio potrò reciterò insieme o da solo la mia parte, ma se lo faccio è solo per domani...


(crasse risate e fischi dal loggione). LVI

Quante pene sofferte per capire che il paradiso terrestre era un inferno e, per giunta, neppure terrestre in bilico com’era sull’abisso sfavillante di turchino... Quanti ebeti giorni, quante notti goccianti d’ebano nel padiglione che avello si faceva, carcere squassato dal monsone... Ma il peggio era la falce, minacciosa la falce mi perseguita ancora sotto il lembo trasparente dei sogni, la falce torva e rubesta che ha mietuti degli anni miei i pi• verdi : radendo i pigri vortici dell’ansia adesso pure, in salvo, oscuro mi raggiunge il suo profilo... È vero: invano, ho corsi i mari scintillanti, ho saccheggiate le rocche dell’amore e dalla prua sfidati ho gli urli del ciclone ; cieco il mio occhio vede solo il nero, ma se così sta scritto, se l’abbaglio candente del Ritorno nullifica il percorso, se il gioco dei possibili, da solo, scompagina il destino, i miei tetri vessilli calerò. Solo per Te isserò bianche vele a questo porto perché la vita è tappa.


LVII a F.P. Quasi fosse la prima volta mi riscopro il tuo numero a formare con gradevole nevrosi. Tanto tempo è passato, tanti approdi hai provati (io altrettanti) ed ora che il naufragio è finito, la deriva cessata, non tradirmi : sia tua la voce che mi risponderà di là del filo.


LVIII a R.M. Ritornammo più volte al Royal Mile sbucando da incredibili close oppure balzati per miracolo sull’autobus che fermava a pochi passi dopo il pendio. Ricordo i primi giorni dietro eterei veli di nebbia, la Chiesa dei Pasticcini, Holiroodhouse, la casa di John Knox e in un più sgombro scenario anche il Castello già parato per un’altra bravata delle Falkland. Più tardi avremmo eletti luoghi più calmi: la Camera Obscura dove una paffuta custode ci mostrava come acchiappare ignari passanti colla mano, Canongate, Saint Giles e la sua piazza nostro rifugio donde inviavamo farneticanti avvisi al mondo. Tante altre volte, ancora, fino all’ultimo quando balorda compagnia di teatranti voleva assoldarci e quattro acrobati si esibivano su un tetto vacillante; erravamo pronti a partire nel cuore gonfi della certezza amara che intruppati o fuggiaschi, solitari, giocolieri o infelici o spersi nella mandria noi non saremo mai del fatto compiuto - ti assicuro dolenti adoratori.


LIX a F.F. Se scanso quel tuo sguardo dicembrino è solo per fissare sidereo il silenzio della neve. Ti ascolto, ma non seguo il pigro bradisismo del tuo dire : quante parole inutili per “no”. Un turbine di fiocchi inclemente flagella spoglie branche vacillanti di pioppi, ma tu non sai vedere. Mille passi ho affondati nel crogiolo di fanghiglia e nevischio per raggiungerti, portarti quel mio unico tremante bucaneve, ma tu non sai vedere. Perché scandalizzarsi se compongo a mia insaputa musiche stranite, se mi mancano nocche per picchiare alle porte di ghiaccio?


LXI

Si dileguano i sogni e le illusioni quali fantasmi pallidi e lunari la livida marina trasfigura. Ci hai creduto una volta ed hai percorse plaghe notturne e popolosi deserti in cerca della tua cometa; ora sorridi e ascendi verso l’astro lucente del mattino.


LXII a M.F. Siglasti: “A presto”, senza inutili domande sul destino, la sorte ed idiozie consimili. (Una parca se esiste ha certo altro da fare che pensare a noi, buffoni!). Scrivesti: “A presto!”, non considerando che il vicino e il lontano poco importano a chi vive eternamente fuori, che da allora ho sfondato più porte tutte aperte nell’attesa che venisse il tuo presto forse mio, chiedendomi a che pro’ morire per tre volte: per risuscitare più pazzo e triste? Per quell’attimo così avaro di voci e di sorrisi? Poterti rivelare in un effato solo che non credo nel tempo, nella futile messinscena del cadere e riaversi e che lo stesso anche per questo ti auguravo un mio “A presto” più disperato e insieme più affettuoso; sarebbe stato dolce congedarsi sussurrando quel nulla, ma tu mi precedesti - di falso Ottobre un madido meriggio ci sovrastava e tendendo la mano udii, inatteso, (e fu la fine vera?) : “A presto...”.


LXIII

Sono conscio di rapire il tuo sorriso a un altro, o mia Morgana, so che il miraggio dei tuoi occhi lucenti ad altri è destinato, non per questo desisto e mi ritraggo senza accostare tremule labbra alla tua guancia prima che tu dispaia.


LXIV a M.M.A. Sono salito solo alla scogliera pensile su assopite bonacce scalfite da nessuno schiamazzo di gabbiano. Chinato mi sono ed ho ceduto infine a una lusinga inerme di abbandono, ma rimpianto non c’è, non c’è viltà, finché ho in serbo il tuo saluto, pegno di una risposta.


LXV

Spetta anche questa vittoria ai previdenti signori della storia : schierare i morti in parata e pungolarli a improbabili risse non è impresa da niente. Poco manca oramai: i prigionieri pronti sono in catene, ritti gli stendardi e la fanfara attende un solo cenno; sicura è l’ovazione, per lo meno il trionfo ci si risparmi liricoparenetico.


LXVI a A.G. Spiritello fallito, capitomboli dal cielo qua per darmi un annuncio che più non mi interessa. Stravinte se del cosmo in questo o quello incognito e remoto cantone, le elezioni ha la Forza del Bene, che mi importa? Rintocchi probi o rii non batte più a me la pendola del fato. È meglio che ti rassegni: non mi salverai e non perché dimentichi io la fiamma quieta sottesa a quelle tue pupille alabastrine o i giorni scordi, i giorni (teneri a ripensarli!), i giorni in cui tracciavo in sogni prolungati nella veglia contro il blu più brillante il tuo profilo. Troppi inverni passati ed altri freddi anche più duri ci distinguono. Se indugio, non illuderti, le tue labbra a sfiorare colle mie: è appena un bacio e un bacio non ripaga col suo tiepido incanto - stratagemma estremo del Rettore Superno - i consuntivi spianti di tante e ripetute perdizioni. Riferiscilo tu: da queste male radici non mi svellerai.


LXVII a G.A.P. Stremata, presa a un tratto da una strana angoscia, da un rovello inconfessabile, cedesti al molle abbraccio dei ligustri sospirando : - Che sarà nel tempo che verrà della poiesi? già, perché, per parere più dotta avevi il vezzo di chiamare così la nostra amica. Ed io benché tu protestassi che non era valido rispondere a domanda con domanda - Che sarà mai dell’uomo? - replicai.


LXVIII a R.M. Sublime insensata follia che io ti credessi mia: nel petto mi è sgorgata fra le mura di quale non so piĂš pericolante canonica scozzese. Ascoltavamo intenti vecchie storie di rissosi cattolici e barbosi profeti protestanti oppure spiavamo lutulenti ranocchi scomparire negli stagni e, a nostra volta, eravamo spiati da spassose occulte telecamere a banchetto sul lerciume del centro di San Giacomo. Ma il colmo fu raggiunto ancora a valle di qualsiasi ascesa; armati di una mappa studiavamo improvvidi il percorso (frattanto si addensava su di noi l’usuale scroscio). E fu raggiunto quando ci imbattemmo in un sollecito amorino infantile che ci chiese se ci eravamo persi (il vento perdeva a lui distratto i palloncini). Dopo tanto mi chiedo perchĂŠ mai io e tu, ignaro e ignara complice, non gli abbiamo risposto.


LXIX a T.T.B. Ti ho persa, amore mio, mentre il corno di sotto l’impiantito fatiscente dell’aula strombazzava quasi a scorno e, per soprammercato, nella mente mi ticchettava irosa la misura del tempo. Ignaro a schivare la gente mi trovai in fuga in corsa per l’oscura filastrocca di androni: ahi, l’officina sonora alle mie bizze non si inchina! Ti ho persa, amore, in un’acciaccatura.


LXX a S.Co. Ti ho sognata patetica Nike sulla prora di un brigantino in secca, sozza fino al midollo, che berciavi: “Meglio così!” Ahimè, senza più frecce il turcasso d’amore, nient’affatto conturbante il tuo aspetto o la tua voce eppure mai come allora (sulla mia prua) mi sei stata cara.


LXXI a A.F. Tutto successe, mentre predicavo in falsetto dal cassero l’irrilevanza delle pratiche amorose; il taffettà, i mustacchi nell’assemblea dei bipedi natanti di Averroè riconoscesti. - Io - continuavo - io stesso ho due o tre relazioni alla volta oppure anche nessuna, tanto vale un ben piazzato scaldaletto a scongiurare il freddo delle notti. Non mi seguivi più, seguivi il turbante sfaldato (che fatica cercare di svignarsela con quel gran sottanone!), infine, catturato per una manica vaticinò : - Misera, ti ero vicino, ti vegliavo!, la notte in cui mordendo le lenzuola, vedesti nell’abisso saltare le meduse. Se è questo che ti turba, rassicurati : rifluiremo tutti come rivoli lenti e sabbiosi nella tiepida gelatina primordiale. Ma già da ora - ti conforta? - niente va perso; si conguaglia il totale al parziale, l’umido all’asciutto. Se ti scivola una parola, un gesto, c’è già pronto chi lo raccoglierà; la mano che protendi a mo’ di dubbio nel vuoto trova una risposta in quella che risale le tue chiome. Se bramisci atterrita sulla soglia di una spelonca al tuo si sovrappone un più strozzato grido dal profondo. Se ti si posa, poi, sul cuore l’iridato pulviscolo di una farfalla, non scuoterlo, per quanto non riecheggi il debole richiamo falotico del desiderio. Adesso,


lasciami, però. - Disparve come bava spumosa. Accostavamo, intanto, ammainate le vele, alla tua proda. Non io parlavo, tu non ascoltavi, mentre ti dicevo che oramai soltanto la disco piÚ fecale una goccia riesce a spremermi di lacrime o di sperma....


LXXII

Un esangue mattino soffondeva visi ebeti attonite figure quel giorno in cui sotto il portico decidesti che il mondo doveva cambiare. Vagasti senza meta contemplando arcate cieche, sofferenti ruderi al cielo protendenti il loro spasimo immobile sicura piÚ di prima che quel mondo dovesse cambiare. Seguisti le ringhiere mutilate recinti e balaustre lungo strade nuove a te nuova, desolate, pronta allo scatto ad un pur fioco richiamo della tromba all’Armageddon fintanto che non piovve e fu la tua salvezza: sotto quegli scrosci con rabbia proseguisti incrociando felice i troppo ironici, scettici sogguardi della gente perchÊ alla fine il mondo ne eri certa - il mondo sarebbe cambiato.


LXXIII a R.M. Un trillo benedetto di telefono residue ha riattizzato le solerti speranze di un rimpatrio; (quanta impazienza eccitata l’illusione attinge da un amore che non c’è!) capolevati siamo per le scale mobili fin sul marciapiede: in mano gli apparecchi impazziti e pochi scatti da paparazzi increduli, nel mentre trionfante incedevi e lusingata a macchina in sollucchero sul viale. Il tuo sguardo, di grazia, per caso mi ha inquadrato e io in un lampo : - Mia divina, mio tutto, bentornata fra noi! Ti giuro - ho detto nei miei rimpianti durerai.... (ma quanto?) -


LXXIV a G.L.B. Uno specchio di mare e nuove ali ti darò per volare e stelle, torce e mezze lune pronte per le tue sere. Ah, non fosse per te stato terribile il terribile avvento del tramonto! Ma dimentica, dimentica le notti di catrame, il sordo fragore dei risvegli inebetiti, dimentica la voce nel roveto, quella che crepitante un giorno ti ha voluto avulso dal tuo rivolo di sangue, talpa nel tuo cunicolo, (pochi sprazzi, davvero, e nibbi roteanti su ogni pertugio) scordati l’avviso di uno Zeus distratto e indifferente : dimentica anche me che ora ti salvo e avanza bisbigliando ad occhi chiusi il tuo ultimo sì, ché infine ti darò, ti darò nuove ali, uno specchio di mare e nuove ali ti darò per volare.


LXXV a R.M. Variopinti risotti attuffati in intingoli cinesi oppure salsicciotti colanti salse indegustabili ammontavano a tutto il mondo percepibile che varcasse la soglia dei miei sensi. Per il resto travolto vagolavo in volute emotive, martellato da questa o quella estenuante pulsione, attratto ora, ora respinto dal rigurgito di passioni languenti, povera monade psichica dispersa all’ombra tumultuosa di una guglia. Già: mi mancava un filo conduttore che mi agganciasse a un senso purchessia. Anche per questo - credo - bazzicavo marcescenti festini naturisti appeso a una fiammella di coscienza. Nello squallido intrico del fogliame agognavo a un sentiero, ad un responso non al graffio dei rovi o all’accozzaglia assordante di idiomi, ma neppure boccali spumeggianti forzandomi le tempie richiamavano il mio spirito (c’era?) a una sana esistenza sensitiva. Mi uccideva la noia dell’assenza da te, da me, dall’universo comune ad ambedue se per un tratto quanto vuoi trascurabile da qualche distorsione eiaculato si fosse dello spazio. Chiuso nella mia specola mentale ricalcolavo le coordinate per sorprendere il fiat del miracolo, e, intanto, riscoprivo forsennato di non averti amata mai, ma in forse ero di fronte a ogni cabina, se azzardare quel numero nella speranza vaga di sbloccare in ultimo la serratura di un cosmo parallelo (il tuo?) o che almeno


per la toppa potesse sciamare tutta mia dei sentimenti intera la galassia.


LXXVI a I.G. Viperei e vitali risgrovigliano un serto già letargico gli allori primaverili i festoni di luce oh, sì, mi intenerivano - quest’oggi se non era però per gli scampanellii sgarbati dei bicicli per gli urti più frequenti sul corso dei passeggiatori... Davvero c’è qualcosa di strano in chi ritorna a vivere per un contatto magico dell’aria di crudele e magnifico nel fiotto che rinsangua e risuscita i fedeli della sorte e del tempo. Sì, di te, però, mi sono accorto, del tuo passo dorato e sbarazzino di gazzella; avrei baciato il porfido insensibile tua passerella e scivolo, tua scena! Giovinezza, giovinezza, disfiori, tu, gracile pervinca sul mio seno, trasognata colomba che dispiega completa una parabola e ritonfa in quello stordimento stupefatto : se il cuore sopravvive (a volte) attorno è già un paese di rovine. Potrò ancora (un groppo mi attanaglia la gola), potrò ancora invocare il tuo nome dal contorno dolorante e avvizzito del mio giorno??


I a L.O. Adesso che rivoglio una mia maschera per figurare ancora tra gli umani più non mi raccapezzo nel bailamme di lustrini e pagliette, mezze tube, bautte malinconiche, tricorni; non mi ritrovo più nel volto precario ed insolente che lo specchio quasi a dispetto indietro mi ributta e un cappio d’ansia è questo - non mi inganno che mi stringe la gola. Vedi? Resto nonostante i trascorsi un debuttante. Sì, che vorrei di nuovo per un atto soltanto il Socrate benigno essere e inconcludente, il Don Giovanni che una smorfia del fato fa fallire, ma con poco riscatta il suo insuccesso, che vorrei di nuovo in una sera in più giocarmi tutto : l’applauso, il fiasco, i colpi di teatro e di altro! Ma chi sono adesso che rivesto una mia essenza e nessuna parvenza più mi si attaglia e che lo so? Lo stesso busso e ribusso a tutti i camerini in cerca di una doppia identità.


II a A.T. Anche per te ho ceduto al vezzo atavico della scrittura. In queste poche sillabe stralciate da un idioma oscuro e impronunciabile (per questo il dialogo si è spento tra di noi?) incastono un cammeo, quasi regalo incognito a me stesso, e sensi falsi che non salvano il dopo (si trascina in me il prosieguo degli eventi contro espressa volontà). Quanto vorrei che serbo mio malgrado intatto, infine, fare quel sogno che non viene: fingo allora che sia sogno e che sul retro tra un viluppo di fronde che già sgrondano allegro buio e amenità di sonni un tuo doppio di troppo si affiguri, spaventoso e rovente sul selciato e un afono dileggio è il suo sermone; sa di endivia, di incanti, di stridìi di gesso su lavagna, dei bei tempi che non so rievocare e che non so se siano mai stati. Mi riporta appena discernibili le sabbie del Mar Morto intracciate, Cafarnao e Betlemme, la geenna di estinzioni e lamenti e di ripalpiti appena appena (è la maturità?). Così è che mi perdo in un perpetuo salire, mi scoscendo di vertigini, di terrazzo in terrazzo fino al cielo e sento infine o credo di sentire leggendo il tuo pensiero o dico io stesso : “Chi ha amato tante volte ancora, ancora amerà - ti assicuro - e nuovi volti succederanno a questi, nuovi giorni....”. Quel che c’è dopo è tutto da inventare, ma sognando di un sogno che sia vero forse ho intuito la mia verità.


III a E.D. “Ancora tu, - ma sei un’altra o quella che ti affacci serafica da questo o quell’istante a Montiano o da Bagno alla Riviera? ingombri il mio sorriso e sei la dea involontaria d’ogni mio tormento, la patrona in affitto di ogni intreccio tragicomico di grevi sollazzi e tonfi arguti (se resisto, il gioco reggo soltanto per vedere come andrà a finire) e ancora tu mi appari Ècate rediviva e, in più, bonaria quando mi perdo ai miei crocicchi inutili” avrò detto - può darsi - in qualche altrove. Quante volte e per quante i miei epiteti avrò galante rappezzato e quante apparecchiato il teatrino querulo sfasciato e ridondante di inautentico, quanto ciarpame avrò frugato, quante congiunture e ferite immedicabili imparato a guarire? Eppure, adesso (si fa per dire) se così per prova a un mio schiocco di dita comparissi (ah, quanto lo vorrei!) col luminoso negligente sogguardo che ti stacca in corsa dalla mandria imbufalita di pachidermi e gnù reverenziali, oh, sì -ti giuro!- inverosimile neppure mi parrebbe e lontanissimo nel più oscuro di Timor ribellante rifatto e guerrigliero allo stremo combattere per Dili!


IV a L.P. Annoiati filologi - perché è lunga l’arte - scartabelleranno può darsi - questi fogli. Resterò, dopo tutto, l’artista sofferente che steso sul giaciglio a lettere compone d’oro versi non per sé? Chi ci vedranno oltre la trasparenza di tra i lapislazzuli con cui vado ingemmando la mia attesa, se il caso salverà gli scartafacci insalvabili e strani del mio dire?


V

Con Dio la mia scommessa è ancora persa, ma ogni volta risfido quel volere savio e crudele che pospone il giorno del mio riscatto; la mia posta ogni volta rilancio e mi ripiego al gioco. Punto contro di me che il mio destino possa stupirmi, ma non esce l’imprevisto che sbanchi, il numero fatale la notte è lunga e i bussolotti roteeranno folli fino all’alba.


VI a A.G. “Con te sarebbe stata vivida e allegra ancora più la Grecia” mi trovo ad esclamare e già stregati ci hanno (lo sento) soli entrambi i cavalloni che si avventano gagliardi contro l’isola natante, l’ombelico del mondo, i monasteri immobili a mezz’aria, i radi lampi di quarzo che rasentano canditi l’officina di Fidia e le meduse urticanti di fregi e di colori : “Ora non più - mi sono detto - il valico già confuso e ferace dei miei sogni trapasserò, non violerò il disegno assorto ed imprendibile del caso”, mentendo, ma non so ancora rassegnarmi, che già sfuma di nuovo nel già stato anche il possibile, che più non mi distacco, volendolo neppure, dalle ombre di Cnosso, dai frastagli delle rupi senza nome che conto nell’insonnia per desiderio: ecco, ansimando in delirio, ti stringo a me, ma sei l’egretta ancipite che agli stagni prometti col tuo ombrello variopinto di piume e di pietà la requie di un orezzo e dài la fine.


VII a S.F. Contro il cielo infuriato la tua casa è un ciottolo di fiume - ma perché, perché resto soltanto e sempre (basta!) un monello in amore? - ; ho camminato dentro il greto riverso col mio grido infantile e selvaggio e quante storie (e quali?!) ho ramassato in secco. A Sarsina in primavera, là, dove l’imbarco delle canoe si confonde in zolle, mosaici di arsura e impertinenza, tu non c’eri, ma noi camminavamo burloni in comitiva (è un’altra storia) facendo rimbalzare sassi in poche polle già ferme d’acqua. Adesso è un’altra stagione morta e già ripiove in me a fiotti l’amarezza di un distacco infinito, ma più non c’è il profeta che ero di me a scongiurarne il senso. Chiuso sotto falde di corvo ti contemplo prigione della grata delle stille, gocce piango di perle e mi sovvengo che non ci sono mai abbastanza sassi.


VIII a E.P. Dalla pupilla cieca rutilante di sangue nella sera su di me che si posi uno sguardo insensibile? Che esista da qualche parte la metà che cerco, carne della mia carne? È fatto a coppie il mondo (già lo so) e so - sì! sì! - che il sangue della luna può trasudare ancora dai riverberi del tramonto e l’effluvio, con lucciole e scintille colloquiando nel silenzio di un mondo di lumini, narcotico e rapente nel suo calice insieme può inghiottire il sole e noi in un unico vuoto sconfinato : tu resisti - ti prego - se ci sei, compagna di sconforto, dietro questo schermo pellucido di assenze, di attese interminabili ricolme dei miei sette peccati e, infine, - sia come sia! - ti troverò. (Lo giuro).


IX a E.C. Della veglia la diga l’alluvione dei sogni ha valicato; il mio morbo si aggrava, se trasfondo la congerie di immagini e ammennicoli tralucenti e affatati nel mio grigio di sempre. Non distinguo dai falsi i veri se mai fu all’origine una qualche distinzione. Negli occhi miei un aitante giovane eroe sessuale; è me ed insieme il mio contrario, tiene in una mano un mazzo per te rosso di rose ed in quell’altra non so perché la cinta dei calzoni. Puoi riconoscerlo: dal fondo è nella terza panca e si comunica (sacrilego!) con me : che cosa non si fa per una notte fresca di scorribande e di lenzuola! Ma neanche a me va male questa volta : proprio all’ultimo giro ho catturato io pure una regina finché, come previsto, tutto smuore intinto e pregno del triviale getto. Questi più o meno i miei ricordi, mentre da solo faccio colazione; sempre gli stessi i sogni, ma diversi tra loro nell’attesa i miei risvegli.


X

E - scusami se è poco! -, intanto, vivo! Vivo ravvolto in questo nudo lembo marginale e impudico di Romagna, rannicchiato in me stesso. La Riviera, le notti in discoteca, i vari amori disillusi, gli incontri inconsistenti, le carezze gelose, le nuotate fino alla piattaforma (e, poi, non resta che una chiazza nei sogni che dilegua : mia violinista, lambirei placato l’archetto tuo assassino!)


XI a G.P. Esordirò: - Ciascuno ha bisogno d’amore - allora proprio sulla nota più tesa del mio assolo esploderà il consenso assembleare non sono più colpevole di altri dirò per giunta o crederò di dire in preda ad un farfuglio glottolalico se vecchio rampicante e un po’ voglioso in spasmi verticali lussureggio l’uno sull’altro di tralicci fino a poppare il latte dell’aurora .Sarà il trionfo dell’incomprensione, di boati, di urrà senza ritegno, sarà l’inganno allegro e senza fine di chi si scopre amato ed impostore, di chi si chiede e grideranno tutti al genio, quando confesserò di non averne.


XII a A.T. Fulminato dal tempo ti ho intravvisto ad un tratto sorridere e sparire : - Tutto previsto - ho sospirato un po’ tra il tragico e il faceto - da quel giorno in palestra in cui ti ho scorto a mala pena in fondo alla caligine seducente di ghiaccio e di terrori in cui si diluiva il mio pensiero senza appiglio di gesti o di parola. Avrei dovuto forse avvertirti - lo so che non avrà mai fine il mio viaggio finché una razza non mi punga il cuore; avrei potuto e, invece, imparavo a tacere: le infinte orme ricalco di un Orfeo fallito. Di tutti gli episodi solo quello ho portato con me : è il più leggero e ho ancora molta strada.


XIII a Ro. D. Giorni pigri dell’afa come in un sogno fatui casto di polluzioni, brevi scosse di amori che ritoccano le tastiere dei corpi: ho resistito (chissà per quanto) a quel richiamo che ogni fibra percorre mia basita... Ah, che non so staccarmi dal mio gioco infantile e perverso, anzi richiedo (ancora, ancora!) quel sottile fiele che mi intossica e infiamma, mi divora in una vampa insana e fascinosa. Già prono al mio destino, soffio un’anima nel popolo di creta che si assiepa pravo sulle mie tempie; presto toni e cadenze a quest’abulico melodramma di eventi, escogito scenari, mi invento precedenti e susseguenti sulla cima finché della mia eroica e lucida stupidità mi sparo mortaretto patetico al mio cielo (non regge a tale pena il sortilegio, ma sfuoca i suoi colori in un stinta pozzanghera autunnale). Amica naiade, se in qualche tronco alberga la tua forma, non tendere l’orecchio: l’uggiolio gemebondo dell’alce, che sulla neve a raso in vani balzi fugge il mortale che ha già in sé quadrello non sarà il mio stavolta.


XIV a C.Q. Il castello di carta che ergerei sopra di me per un decreto a prova di amnesia, le gallerie della fama scavate nei ricordi, comunque, non potrebbero includere le nascite e le morti, i miei voti testardi, quei ridicoli crepacuori e sconforti ormai perduti, del desiderio umori trasognati, un amore gitante e quella volta che stornammo ridendo ogni pensiero di fronte ad Alcatraz, i piĂš ghiacci barbagli nel Sequoya Park, il nostro privato Sunset Boulevard, la luce che colava di sbieco, mentre noi salutavamo fieri battelli a pale in quel piovoso giorno rivelatore, l’anelante spiaggia del mio sogno a Miami di sposarti, di notte il ponte di Brooklyn sulle nostre teste, ancora indichiarata una pretesa, l’ultimo ciao per telefono ed i baci, i baci, i baci, i baci ad uno ad uno... Quanti rovesci di medaglia, cianfrusaglie, scarti fanno una vita? Di che altro vale, sennò, la pena questo viaggio?


XV a L.B. Il chitarrista - sai - non è granché - fisicamente, intendo, per il resto ci sarà da discutere ma la musica, la musica (è qualcosa di magico) trascina : tra gli astanti mi è parso di vederti. Di fronte a me si spillano di bocca a qualcuno parole. Sì, bastano davvero pochi strumenti e un ritmo niente male e già dentro di me si scatena la festa (spiavo attento gli angoli delle tue labbra per conoscerti annoiata o divertita). Mi sono immaginato appuntamenti brevi, casuali e poi sempre più fitti fino un ordito ad imbastire lento che esploda infine e ci catturi in una inestricabile selva di liane. Immobili, sfiniti in un silenzio colmo di vibrazioni estatiche saremo prigionieri non spiaciuti. Ti spiazzerò dicendoti improvviso : “Dammi il tuo amore, fuggi insieme a me sull’isola lontana”. e la mia voce avrà un profilo stento a tratti lussurioso e tropicale; la tua al contrario, un rombo inaspettato che frusta sulla soma dell’estate... E, dopo, cade tutto. I suonatori già sbaraccano senza cerimonie, da quel tavolo ti alzi e non sei tu. (Era solo un’idea, dopo tutto, e non delle migliori, se quei segni, - se, poi, sono divini! - non ci ingannano).


XVI a E.G. Il ciglio tuo arcuato sospende molte lune, petali purpurei, violetti, lilla, candidi in libera caduta sull’abisso. Appiglio le mie dita immateriali invano a quella lista luminosa, ma la mia Parca è avara: un breve lasso rimane e le lancette metodiche recidono i minuti che ancora si inframmettono tra il mio e il più vasto silenzio universale. Chi potrà perdonarmi se profano il rivolo vermiglio del tuo labbro, se estinguo ciò che amo, se infierisco sul molle arbusto che non so piegare (dal mio palmo si libera ridente l’elsa di madreperla)? - Un destino, un destino almeno uno si adempia; almeno uno dei percorsi al possibile si cassi! ed ebbro sulla tolda, dove non fare è fare, mi prodigo in sua vece, ma è perché, perché noi siamo scelti e non scegliamo che si compie il miracolo. (Soltanto figlia del caso ti vorrei con me...). Sia come sia: quest’indomani il maroso di Candia guasterà l’arabesco di spuma, sola traccia che resterà di me. Lasciami un pegno, un segno per trovarti, se mai sarà nelle altre vite. Addio!


XVII a L.O. Il mio anno non è l’obnubilato e sordo dei nottambuli, folle di corse e letti, di schiamazzi artificiali, di calori bianchi, di strepiti e grancasse, di tamburi sfondi e di lividi, d’auguri. Non è la festa mia cacofonica e crassa nell’orgasmo febbrile di un incontro purchessia, nella fuga notturna di scoppietti e angosce indescrivibili da Vienna a Salisburgo, non lo stordimento anodino di mille intenzioni celate e le colombe che muoiono nei cessi di Hammamet, allora che rincasa la brigata sboccata e si imbirrisce fra canti di casino ed osteria. E se prego, non è la mia preghiera nenia salmodiante, un mantra apotropaico (le carote sputate sui gradini a Trinità dei Monti basteranno?) : chiedo l’oblio di ciò che è stato, il peso di me, di tutto quanto, il tempo... Il mio anno che sia vigile e scanzonato o che non sia.


XVIII a L.O. Il vero me stesso trapela infine quando a piè pari con un balzo ultimo ho scavalcato il margine dei sogni : zolfo d’attorno, voli calcinati di uccelli, rame stronche, un acre di oracoli sentore e di martiri. (Mediocre epifania di quel qualcosa che si credeva fosse e non c’è, invece). Pozze cobalto in fondo ai laghi intermittenti, schizzi di passione, malie da quattro soldi, sbevazzate sul fiume e dal capanno una voce che chiama. Non si maschera il niente con un niente ancora più sgomento. Il vero me stesso è come nelle favole per bimbi capricciosi, nei racconti dell’orrore: una mano scheletrita rampolla di sotterra e ti strappa la gonna. È l’ospite inquietante e un po’ bullo cui non sai sbattere la porta in faccia, ma che in punta di piedi sulla soglia sta per dirti : (ed è un solo guaire di giaggioli piacenti e tenebrosi) - Regalami una sera e sparirò.-


XIX a R.M. In mente mi è venuto il sogno di questa notte, non il solito di Bach che si congratula dicendo : “Hai talento, ragazzo!” e non fa caso al mio spartito zeppo d’erroracci. (Nessuno c’è non stanco di ascoltarlo). Che ci faceva tuo fratello, invece, sassofono alla mano contro orizzonti falbi di giunchiglia fuori tempo sul mio assolo o, senza ambasciatori, tu in persona cerbiatta che lasciavi nella mia auto può darsi, certo poco mobile, bigliettini galanti e io all’incrocio ti avrei investita quasi? Da allora è stato il mio minuto lungo come quello sordo e profondo, ferreo senza voci o speranze degli amanti, perché i dolori sono tutti uguali, se un decreto insondabile ti agghiaccia. Ti accorgi che è finita anche dai sogni.


XX a R.M. Insignisci - ti prego adesso che sei scesa dall’Olimpo di un lustro qual che sia, di un contrassegno se ne hai pudore, la tua nullità che mi giovi - se può - per un di più caparbio di sofferta dilezione da quel buio a spiccare cieco e profondo il tuo contorno amaro. Non sussisti per me se non in questo lineamento vuoto e poco importa che dopo in un prosieguo faticoso di lampi e chiaroscuri abbia eretto quell’ara, ma degli idoli quali il più sincero si attardi in mio saluto sull’altana quello diafano, ingenuo, quasi chino sotto il peso di aureole e ricordi o questo nero su nero che morde col lutto dell’assenza il mio pensiero? C’è ancora molto spazio nel mio tempio.


XXI

Io per me amo le città del Sud : Taormina (può darsi), la Città del Capo ravvisata dalla coffa dei sogni e, poi, Siviglia, Gerusalemme, Atene, Port of Spain, Rio de Janeiro, Sana’a, Delhi, Addis Abeba e un’altra qualche forse ancora non sovvenente. Amo il caldo perimetro di luce, ruvido e spigoloso a fisarmonica che ribelli e costringa le mie diastole agoniche di idee disincarnate in bonaccia già interte e gloria di pensieri. Sulla spiaggia più azzurra delle onde di Colombo mi allungo nel calore fuso del cielo e non distinguo più dai versi il ritmo stanco della vita stupisco che si possa stare altrove.


XXII a D.C. Io quando tutti dormono in silenzio mi alzo la notte, quando notte è notte e non soltanto cava impronta del solstizio; mi alzo e perlustro i sitibondi siti che assediano Toledo in morse di calura ed estasi sfinite. “Ah, zampillo vitale sollievo dei giardini di Granada gioiello già dell’ Argalife, quanto agogno la carezza del tuo flutto e con smodata invidia lussuriosa.” Amo il sole, amo l’acqua; odio i sogni : angosciosi ed ambigui ribadiscono nel fetido limo del sonno il latte nero che trasuda la temperie sbigottita e incosciente della veglia. Ciò che mi importa è un lucido sopore senza menti e ricordi, dove idee vivano l’una accanto all’altra, senza trapasso alcuno. Tendo a pura chiarità di una coscienza sgombra di immagini e passioni.


XXIII a S.F. La magnolia osservavo come allora verde e proterva, uguale quando ho inteso che il passato non visita il presente; stessi luoghi, persone, stessi verbi perfino, ma l’effetto non collima; non muta lo scenario, ma gli attori eppure ignari persistiamo a crederci più eterni delle cose, mentre un guizzo insaziabile e fatuo in sé conclude intera un’esistenza ed esse durano : non gli eventi trascorrono, ma noi. Che strano!, non avevo mai pensato di guardare dal tetto casa tua; inutile, d’altronde: troppi ostacoli, antenne ed alberi frammezzo e poi altrove si appuntavano i miei sguardi. Altri tempi! Tua madre mi parlava in assenza di te dei tuoi amori. Quello matto, aviatore e un po’ ridicolo ti lanciava dal cielo cartoline, quell’altro più germanico e triviale osò forzare il mondo a noi comune, un altro ti spediva trattatelli illeggibili e mai letti, più scaltro quest’ultimo che appoggia sul tuo seno un orecchio per seguire un battito dal ritmo un po’ assopito. Come pretendere adesso di sapere se esisti, se io esisto, se è esistito un qualche vago nesso tra di noi? Non puoi vedermi certo dal tuo basso studiolo, ma talora di vista non si tratta o prospettive. Tu fissi un punto che non c’è, frattanto la magnolia resiste e io non so guardarti più. (Chissà perché lo credono un mistero).


XXIV

L’angelo dell’altrove ha una sua nota più lunga e acuta, più sottile che, tenuta, oltrepassa la mente e ripropone le sue fughe. Ha tutta una sua storia di giravolte, trame, di fallite innocenti evasioni; sa prestarmi un suo giorno, il suo bacio, la sua sorte, gli episodi più astrusi del suo giro e scommette sul mio che mai demarra. L’angelo dell’altrove mi sorride ogni volta che perso mi protendo sul nulla del mio abisso reboante di schiume e di improperi e mi designa Australie inconsistenti e fluide al pensiero : quanti capi ho doppiato, quanti amplessi sfondato che non ho mai visto eppure da qualche parte c’è un destino, un piano mi dicono - per queste inconcludenze. (Angioletto, mio solo privato genio, implume e sprovveduto ancora e sempre - di’ - ce la farai a consolare il tuo triste poeta?)


XXV a E.P. L’astrale controparte (fronte d’ambra sotto chiome d’avorio che non sanno troppo oblique e spioventi intercettare il dardo dei suoi occhi) non mi può pacificare; non conosco di lui altro che il nome : esorcismo da poco, inefficace a comporre il mio volto nel sereno. Perché stupirsi più se qua e là si scolla qualche tessera scarlatta o blu di Prussia quando è l’intero mosaico che cede e globale è il disastro? Nel tempo in cui ogni rada è una prigione, l’urlo della pantera oltre le sbarre dorate non commuove il cieco staffile, esigerà quale altro olocausto il mio Padrone purché di nuovo il palpito martellante e inconfessato, il brivido febbrile che schiavizza e non grazia esaudito i suoi vassalli che fa scoppiare in gola uno per uno gli attimi che indugiano su quell’attimo avaro di un incontro mi sia compagno? Di tutte quelle vite proprio questa ho prescelto per me, l’altra, meschina, letargica agonia di chi non soffre non potrà mai nutrire la progenie dell’aria.


XXVI a R.Mag. L’inverno quando irrompe per dispetto nel mezzo a primavera già fatta col suo treno di nevi fastidioso e di rovesci solo è uno spruzzo soffice che imbianca a sorpresa gli spalti del delirio eppure mi rattrista nel mio intimo insinua alpestre vena. All’angolo del viale ti ho incontrato papale e semovente sul tuo carro intronato e non cenni, non saluto disegnante la mano o le pupille, trapassi via, ma in sottofondo mi riluce la Spagna, prediletta pronipote del sole, che campisce di un oro irrefragabile il fango delle Fiandre o il Lussemburgo. Defilati, ché puoi: ti ho già immolato alla furia d’addio coi suoi germogli di ghiaccio sul tuo vetro - se era il tuo e un appello - non c’è! - svanisce in riffa. Mi aspettano le notti (e che notti!) profonde da dormire orbe di acuti e di rimpianti (quali?), mi aspettano le albe e gli sbadigli della saggezza e i suoi gorgheggi avvinazzati, scompisciate palestre della vita, e capirò, capirò all’improvviso che anche una sorte è la separatezza e, se il gelo guarisce, il suo morso è più crudo dell’inverno.


XXVII a S.M. Lottano a me davanti su quel pino due piccioni in fulgenti estasi atroci, madide di agra felicità... Ahi, la mia pena che ritorna ogni volta collo stesso ambiguo passo della primavera, dal labbro se mi cadono bei versi senza nome siglati. Un tuffo al cuore, gridi, strida, per ciuffi spiegazzati di piume: anch’io, di grazia, posso, dunque, gioire, posso, dunque, refluo sfinirmi nell’eterna corrente della vita e, poi, confondermi festante collo stormo nelle felici guerre della brama! Quanto più insulta e brucia la condanna nell’ora in cui straripi già d’amore, amando, e non esiste chi.


XXVIII a L.A. Lumi troppi ho mirato che, poi, si sono, invece, spenti - pese traiettorie all’ingiù. Tutto è silenzio ormai che soffia alle mie tempie, è fondo schiumoso e fango in cui scendo a scoprirmi inappetente, infine: sbuffa solo il languore della mummia in me. È un pitale di marmo che racchiude del mio cuore il pollone (non trasuda più quella voglia vegetale, brama di mazziare e travolgere il reale nella più incongrua e ludica quintana) e di sputi e pernacchie, di sbatacchi contro la luna è la carrozza-zucca pronta a sfaldarsi in nulla che reifica quel poco di passione che mi resta. Per ciò, abbandono; lascio anche il mio posto nella carovana della chiavata a chi più prode in corsa saprà inforcare meglio le puledre : lascio quei lunghi e inconclusivi abbracci, le camelie avvizzite, i banchi della scuola tapini tamarindi e malve marce; troppo veloci come fotogrammi di una vecchia pellicola del muto lascio pulverolenti i moli del Balaton, i vespri di Vezsprem, la vecchia Buda e, poi, la nuova Pest pontificale il sogno di Cracovia, le tele mai dipinte, i quieti orrori campali di sterminio e ciò che resta perché un angelo fatidico - lo spero un angelo- ma è un altro - già mi tiene.


XXIX a S.M. Ma quanti bei corpetti arabescati conto nel gregge degli spasimanti, sorridendo d’invidia (anch’io li metto) : è dura la contesa con chi non so vanificare in sogno neppure, ma dirò - può darsi - : “Stasera passo a prenderti (alla fine, il canovaccio anch’io collaudo - devo? di un Casanova astuto e inefficiente) coll’auto che singhiozza, il clacson che strombazza e la strada...”. C’è ancora tanta storia da immaginare in bozzo nel presente, nel mio perfino - credo -, tanta musica ancora da comporre su spartiti graffiati nel carminio di un silenzio, per questo azzarderei - lo sento -: “Il grimaldello d’oro del giorno a capofitto tuffa nella caraffa; aggràppati al mio corpo Tutta quanta la notte piolo a piolo insieme scaleremo fino al solito - ti reggerò sulle mie braccia atroce e rintronato pianerottolo lisergico dell’alba”, se anche solo pensassi più folle poi sorgesse un mio domani : che non creda - e chi crede? - più nel cuore? Se ciò che scritto è scritto, anche i bei corpi appassiranno flosci nelle tombe, tracimerà la furia escandescente occulta dello spirito, le onde altre rincalzeranno e i desideri rimpiazzeranno altri e, poi, di nuovo tutto sarà come non stato, l’osato e l’inosato, il prima e il dopo; degli amori, però, voluttuosi e fatidici il più bello è quello ancora e sempre senza un volto.


XXX a E.G. - Miscredente al futuro indulgo solo talora al vaticinio delle carte non di quelle, però, sapute e prezzolate delle maghe dai sette volti o più, ma se, per caso, da un pertugio indiscreto o dal selciato me ne sorride una, insieme a lei sorride anche un evento che mi attendo. elicitai. Mi hai preso in parola per celia e sull’assito del tavolaccio ingombro hai pilotato la piroetta vaga di un bel Fante di Coppe. - Un buon auspicio risposi al gioco - anche, anche per oggi non mi ucciderò. Ignoro se davvero ho mai pensato a ciò che dico. Ignoro ciò che importa : quel che fu dopo fu solo il banausico epilogo consueto di ogni storia e non lo narrerò, non lo rimpiango. La traccia ignoro che dovrò seguire in questo labirinto di pensieri, di perdute occasioni, di rinascite, provvidenziali errori e di rinunce. Ignoro ciò che amo, ciò che mi piace, ciò che mi dispiace. Mi cullo nell’attesa di conoscere per segni inesplicabili altrui, ciò che mi va, ma ciò che voglio non lo conosco ancora e se conosco qualcosa non la voglio: il mio presente, eluttando un dilemma, si fa eterno.


XXXI a L.O. Nella tua mente irromperò alla fine oso pensare veemente e festoso come il figlio del vento e della pioggia insieme quando sfuria nelle grondaie col suo getto; accenderò un profilo ritroso ed impudico in te che fluido filtri come inghiottito dentro lo sbadiglio dell’alba prima appena che gli uteri di bronzo del mattino partoriscano il giorno in un singhiozzo. Di me conoscerai il Caronte benigno e assicurante con un gesto un po’ sempre lo stesso eppure allegro a bordo del suo cargo che ti tira, il Chirone annoiato, che pontifica su cose che non ha provato mai e (oplà!) Che altro resta sennò da regalare a quest’ingorda clientela di larve che reclama qualche cosa di me sulle mie soglie? Proteo plateale, quante pose, quante storie su me saprò inventare


XXXII a E.B. Ogniqualvolta muore un amore è come una finestra che si chiude perentoria, stenta lampada che qualcuno ha smorzato da di sopra. Anch’io una volta ho visto intera a un tratto farsi buia una città : dalla salita sembrò quasi un miracolo Poi, l’indomani cieli inzaccherati archi, edifici, cupole, castelli consenzienti affondare nella pioggia sbadigli di fanali, poi più niente, ma soltanto nenie canticchiate al volante. Ogni volta che muore un amore finestre ampie, infine, si riaprono come occhi febbrili, forse troppo sagaci e, poi, di nuovo rotte fervide di bragozzi, scafi scintillanti sul mare dei pirati, distese turbolente di briose crociere, castagnate e tuffi rossi procellosi di sangue. Ho visto a Gubbio dalla solita scarpata contro il sole il vertice e l’abisso ed ho gridato esisterà il coraggio, esiste un volo.


XXXIII a R.Mag. Ora che il circolo dell’ombra si è ristretto e i rumori rimpallano ottusi contro il muro senza rimedio di un assurdo sferisterio ora che il lume liquido e crudo scoperchia imperioso le falde del cielo, potrò al mondo nascondere che sono ancora solo? Facile allora il tuffo ratto nella notte onnipresente, facile celarsi! Adesso l’autonoma fragranza più non so fuggire del ritorno, la guarigione si profila di nuovo cronica. Scongiuro invano il ciclo che mi rivuole in piedi, mi rivuole in viaggio per le contrade rotte e i borghi anconitani,


XXXIV a S.F. Ossessivo il ronzio dei computieri mi affascinava e mi spossava a un tempo con dimostre di glauchi allucciolii; queste, invece, che assalgono il pendio, avannotti di luce, sono semplici facelle di un’ignava teoria : per un attimo ho creduto - per un attimo soltanto, ti assicuro! ravvisarvi l’icona del tuo volto; per un attimo solo - ti assicuro! è brillata per te questa mia torcia e io con essa (rinverdivo - credo a dispetto del resto - se c’è un resto). Ti riacciuffava, poi, quella marmaglia dei tuoi amici, l’equipaggio pedestre e truffaldino dei tuoi cari coi suoi remi concreti ti involava per rificcarti in quell’informe accumulo di carabattole che sono la tua tana : il limo dei tuoi numi ha fatto il resto. Non elargirmi più la tua pietà : non ne hai il diritto. In tutto ciò qualcosa riaffiora e poi sprofonda, ma slacciarmene non posso; resto io io, quell’io una volta di più pronto alla lotta eppure esausto.


XXXV a E.B. Per me finora un verbo soltanto e coniugato invano il romanzo d’amore che reincarna immortale se stesso e riproduce in mille pose e volti, figli di uno sterile amplesso col reale, sempre quel volto o quella circostanza può sembrare più vero se profonde dal tuo musico labbro questa sera. In chi se non in te si mostra Psiche, la dolce Mente, tu che sull’informe ripiano dell’esistere hai rigato sentieri e tracce, trappole e segnali, delizie di torture, di abbandoni, di ritrovi nevrotici e conforti altrettanto improbabili, di scorni e di inviti mancati? C’è un barlume di interesse divino in quest’assenso a cottimo, in codest’insofferenza che denigra e avvalora i miei rovelli e non è un dio già forse questo credere


XXXVI a A.G. Rassegnato (di nuovo è stabilito che mi tocchi la parte) ho spalancato la finestra notturna e già lo spiritello è lì: spiattella non richiesto i miei casi, le risposte che non chiedo sapere nella brezza lirica e ingrata di stagione mezza : “Te disseti la coppa dell’aurora ilare percolando il suo rigagnolo d’oro sulle tue labbra” avrei potuto anche cantare in altri tempi o stati, altre mattine o tramonti vinaccia, ora ticchetta in me folle il tassametro della vita, ma non per questo sono più saggio o dritto e mi so aggiudicare ciò che mi spetta. Credi davvero che io possa credere che per te abbiano un senso, uno qualunque ancora quelle volte che giocavamo insieme a maraffone o pensavamo insulsi intrecci telepatici, le cartoline (sono ottime come segnalibri) e tutti quei sospiri (finti?), i ristoranti cinesi, le mie gare vinte di ballo e dopo - credi? non ci sia stato altro? Ingenua! Cieco nel fondo del mio limbo limaccioso di sogni e delusioni nasco ogni volta di nuovo, ma il mio sangue abbeverare non potrà le ombre.


XXXVII a A.T. Ripensare un evento (quasi doppio mentale dell’esistere) pretende inesausto e ossessivo per sé tutto un istante. Rigermoglia ogni atto su sé: di volta in volta è quello e insieme un altro in un rigoglio fascinoso di steli. Vi si impiglia il futuro e il passato sussiste no, se non nelle radici : bene lo disse un Padre. Per strada a piedi o in auto, dentro o fuori, da solo, in compagnia, se piango o rido, tra coriandoli e fuochi nelle quattro stagioni oppure altrove; su una felpa di neve o sotto gocce scintillanti di un’onda, da uno sguardo investito irato o placido o soltanto indifferente, perso nel colore vacuo di un acquitrino, quante altre volte accanto a me sul letto mi arringherai colle mutande rosse?


XXXVIII a L.B. So che l’airone dorato non può mai posarsi; fervida sull’acqua la sua sagoma spaventa in tumultuose rotte torme ittiche e già riparte, ma non è, non è di questa terra il suo trasvolo. Se a lato al seno tuo la curva flessile del suo collo si inarca e ti promette quasi per gioco oceani di tenerezza, non ti puoi schermire; non puoi schiudere gli occhi, allontanare per sempre quel suo soffice volteggio. Plana con lui contro l’azzurro e il mare potrà sembrarti un cielo capovolto, potrà sembrarti fiamma il cuore supplicante che si insinua e ribalta (ti rimane talvolta nei risvegli - soffia! aleggiando sul palmo una sua piuma) : “Solo un amore nuovo caccia il vecchio” mi provo a suggerirti e caracolli il tuo commiato lungo i Campi Elisi.


XXXIX a E.V. Sul punto in cui la sera quasi mi asfissia con coperchi austeri e inghiottono le palpebre aride anche l’ultimo sprizzo di luce, cerco invano di nascondere il mio pianto : mi pesa, sì, mi pesa questa curva discesa nell’abisso, quest’insolvenza e come posso con dignità gridare quanto brucia in me la cruda lama dell’eterna incomprensione (ma che cosa c’è da capire?). Pesa, perché perdo ciò che credevo mio, perché non so riconquistarlo o conquistarne un mio. E’ vero che non ho corpi sensuali od insinuanti voci non ho il carisma - È quel qualcosa dentro, piccolo, che vince e tu ce l’hai. -


XL a E.G. Tutto perduto, dunque? I tenui fili che ci annodavano nel vuoto continuo di stagioni senza ore, impietrite clessidre della recita da qualcuno assegnataci, per molto non ci avrebbero tenuti uniti. A che è servito dirsi o non dirsi se ogni verbo è un fiato soltanto che si spegne e non consegue ad una cosa? Potrò anche invertire quei nomi, danza, stella, luce chiamare il mio dolore e credere di avere così eluso un mio domani che neppure conosco, ma che cambia? Ah folle estate, timidi messaggi prima, poi sempre più spigliati : entravamo, uscivamo a bella posta da un guscio di esistenze traforato; oltre la trama ci era parso attingere la formula inconsunta della vita. Allora artefici sacrileghi di tutto ciò che c’era e che non c’era creavamo il futuro, baravamo impuniti sull’oggi e il suo antenato e forzammo i ricordi fino a quando invece di qualcuno ti ho ospitata sulla tua spiaggia, sotto il mio ombrellone e la mia gioia fu impensabile e rada come quella del sole a mezzanotte. Non ci resta (conclusi quando è uscita la mia carta) che provarci di nuovo: c’è un’oscura numinosa potenza in questo gioco di travisarlo e credere nel mondo.


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