Dissonetti

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[21 aprile 1990 - 12 luglio 1994]

I

Mi riscopro vieppiù concittadino dei miei sogni, concubino al silenzio che attosca le miei notti col suo assenzio. Potrò come traviare il mio destino, distinguere il suo corso dal supino corteo di turbamenti cui presenzio, mio malgrado? Neppure se licenzio l’innocuo idealismo in cui declino riacquisterò reale un mio contorno. In tutto uno di loro sarò incluso per sempre in quella reggia, nell’adorno ambito assurdo, umbratile e confuso di attese e desideri che ho d’attorno : snudare non potrò il mio sguardo illuso.


II a A.T. Principe moro, cui largito ho il meglio ed il peggio di me in un solo dono, laconico mi fingo un tuo perdono. Sottile la tortura di un risveglio mai voluto o pensato, ma che prono col raggio mi ha trafitto del suo speglio, mi rivuole per sé. Se ancora veglio nel grembo della notte, è per il tono perentorio e svagato del ricordo. Non procede un’essenza da un sussulto irrito e momentaneo - lo sai. Eri l’Altro e me stesso. A volte mordo il cuscino del dubbio e dopo esulto : dell’alba ai primi passi sparirai.


III a B.M.S. Nel cortiletto della trattoria trasteverina (sul tetto i piccioni indecenti tubano pochi suoni rimbalzano imprevisti dalla via) mi sento vuoto: usuali le afflizioni altrui non mi interessano, la mia mi annoia ancora piÚ (che sia un sintomo anche questo?). Le occasioni ogni volta si perdono, se anche quest’estate romana in noi si impasta di pioppi infastidita e di moschine. Spengo gli occhi, mi adagio sulle panche e già dentro di me sbocca nefasta voluttuosa la vena della fine.


IV

Non vedrò mai forse la California lucida defilare da un volubile fumigare di albeggi, tra i novelli saliscendi spioventi degli uccelli. Chetata quando si sarà la sbornia errabonda del giorno in seno al nubile abbandono dei sensi, i miei rovelli in me saranno pungoli e flagelli al cupo stordimento dell’oblio ed ogni volta imprenderò il mio viaggio e crederò ogni volta in un addio, finché quel fatuo impulso in sé impigrita l’irrequietezza assorbirà del saggio : ma tra un abbrivo e l’altro c’è la vita.


V

E adesso che ti inventi, malandrino sfortunato del cuore, se deponi anche l’ultimo amore? Tra i frastuoni dissoni e radi stanco ti abbandoni o riprendi la lotta col destino? Il sipario bistrato che nasconde le movenze del tedio e ne trasfonde i travagli noiosi in infeconde vicende ti condanna alla ribalta, non la vuota platea né le dipinte prospettive del mondo. Dalle quinte una voce reclama e già ti assalta - il copione è lo stesso - un gaio e serio meccanico di gioia desiderio.


VI

Divine evanescenze, non contate di eternarvi nel rapido baleno che mi scocca dagli occhi per amate parvenze, quando affiorino fortuite dal fondo del mio sguardo. Un chiaro vate fu che predisse il murmure sereno del Lete trafugare in quiete ondate le reliquie del tempo. (Le gratuite prefiche dell’affetto impetreranno tacito forse un gemito al dominio del vuoto). Se continua lo sterminio, cada, infine, rifuso in quest’affanno qualche cosa di voi nelle mie tempre : è questo il vostro lascito e per sempre.


VII a A.T. Che rimane dei giorni benedetti elargiti dal genio del sorriso, delle ore fatate, degli affetti tumultuosi ed effimeri del caso? Brindavamo ogni notte per progetti camerateschi (donne, viaggi) e il liso arazzo ritesseva i suoi diletti ai dardi per sfrangiarsi di un occaso non senza che abiurassi ancora al rude tirocinio del savio. Se si esclude un conato di pianto e poche spine, solo una piaga blu nella memoria che sconfina oltre i sogni, ma la storia della tristezza non avrĂ mai fine.


VIII a V.C. In me si inebetisca il fido assenso del simbolo spezzato che distingue tra le repliche mille il proprio doppio, l’altro di sé, se un caso nudo estingue per fatale agnizione quell’immenso visibilio d’attesa. Ti ripenso intangibile impala in groppa a un pingue costato di savana e già vi accoppio il mio orgoglio virile, quel belluino desiderio di te. Mi annullo chino sul tuo corpo fiorito: per riscontro non ho che un’occasione che saluta per sempre irrimediabile e perduta. Procrastinato ho invano il nostro incontro.


IX a E.G. & E.P. Di nuovo come allora mi confondo (sono due anni ormai, ma non ricordo altro frattanto) ai tiepidi abbandoni che il meriggio dispensa a primavera di frulli e campanelli a girotondo. Vi scrivevo da un tetto dell’accordo protervo di magnolie e di piccioni, vi scrivevo del soffio della sera che frammischia e disperde i miei pensieri, ma so che c’è un piacere e dei più veri a vivere senz’altro. Se per te oggi imbrunisce il cielo, un emissario scongiuro che ti scampi col saltuario suo favore dal crollo: anche per me.


X a E.D. Forse mi conoscevi più degli altri quando lieve sorriso era il rimprovero vitreo e teso alla mia tempra acerba, quando una cura futile o l’invidia - l’avversaria di sempre - prava insidia intentava al mio umore. Non più scaltri periti del decorso mi riserba ciò che si tesse in me. Ti annovero tuttora tra i miei dei. Grato un larario fondo e privato, avulso mercé i versi dagli insulti del tempo, mi assicura che davvero ho vissuto. Al tepidario dell’oggi, dentro specchi nudi e tersi, di te questa mia inchiesta ancora dura.


XI

Poi non mi addanno più lungo la Via Indipendenza per prendere il treno a bruciapelo. preferisco l’automobile, adesso, e un passo un po’ più cauto sotto i portici ocra. C’è Bologna e Bologna nei ricordi, Bologna denegata e rimpianta goliardia, Bologna in prestito, vissuta, almeno, nei resoconti altrui, vista dai tram, goduta nei caffè, coi più diversi consorti al fianco e qui ti pongo freno, della memoria subdolo tam-tam, ché piangerei se non per questi versi riattinta avessi la mia poesia.


XII a E.D. Sopravvivi per me dentro una sola metafora, compiuta ed estensibile, di tutto ciò che adoro e mi consola, epitome precaria dell’idillio in cui mi perderei ché già mi invola in astratto soltanto l’impossibile tuo profilo se taglia il raggio viola sull’arena di Djerba (dell’epillio trascendente mi approprio la favella) : sei l’arcangiola nunzia e testimoni che una scheggia traversa del divino può graffiare il sensibile, la bella lotta continua eppure dal confino per traslato non graziano i patroni.


XIII

Tra le poche certezze una mi resta fatidico se sbranca la pattuglia delle credenze il tempo. Ăˆ pertinace un filo che rannoda la tempesta controversa di eventi a cui si impresta a sprazzi una coscienza. Dove muglia piĂš fondo il mio naufragio, dove tace ogni senso, però continua questa strana storia di me. Sfila il corteo folclorico e irreale di chi è stato dei miei, sbiancano i volti del passato intatti ed infungibili al museo degli amori sfatati. Nel fandango fortunoso dei casi io permango.


XIV a B.M.S. Che farò quando trenta primavere di corolle disfatte graveranno l’urna sonora della gioventù e il suo concento non avrà risposta se non nell’eco spenta che da costa a costa ripercuote le scogliere di sbieco al volo scalzo delle gru? Fra le stoppie strinate (manca un anno e poi un altro) io che credevo, stolto, solo abitassi gli anditi dei libri, upupa, ti ho scoperta vera: ho pianto per la gioia in ginocchio. Dunque, il manto cieco può ancora aprirsi: assolto, - giuro - vivrò finché qualcosa vibri!


XV

- Che più ti resta - sbotto - di infiniti scorci - a me stesso -, di veglie straziate dal filo cuspidato di un’attesa, di duelli mancati e voti in chiesa, dell’omaggio puerile a quelle liti senza vinti o vincenti? E le fiammate lucide e fatue, l’astio, la sorpresa di essere sempre uguale? Non ti pesa custodire un aspetto che a tempesta sedata rinverdisca e l’aldilà con lui dell’oggi e fughe e fretta di ritorni e promesse, finte...?...- - Questa contegnosa e dolente libertà e andare, solo, al mare in bicicletta.-


XVI a A.N. In rotta da Milwaukee a San Francisco (e dopo tanto ancora mi commuovo) ripenso al tuo saluto: «Viaggia anche per me». Fai viaggi - mi dicevi - spesso per persona interposta. A me lo stesso capita cogli amori. Rinverdisco all’idea di un mio volo, nelle stanche pieghe di me, ma un senso non ritrovo a questo mio vagabondare. In delega se indolente e per altri ascendo il piano falso dei desideri, se il mio bene ad altri spetta, in cambio mi pertiene sospiro altrui che al nulla non mi relega? Forse è così che non viviamo invano.


XVII

Idolatra impunito a troppe cose ho rivolto il mio culto e nei più amari templi così, miseri oggetti ignari di una propria supposta deità, sono stati pinze, finestre, ombrelli, telefoni, automobili, cancelli, invocati da me trampoli, uose, a soccorso di qualche avversità e penne, battilardo, sassi; pure, coincidenze, dilezioni, casi, corsi e trascorsi, esperienze, frasi. Nella notte del giorno in faccia a dure peripezie, forse, mi sono perso : un bacio, sì, mi ridarebbe il verso.


XVIII

Dal finestrone ampio in biblioteca (è un abbaglio fugace che mi acceca) scopro inatteso dei miei verdi anni liceali e inconsulti quel cortile che pareva irreale. Un vetro seca l’androne e mi separa (quasi impreca la mia passione elusa) dagli affanni di allora che l’età primaverile mi rendeva inespiabili. (In rapporto i presenti non sono che ludibrio di noia e di ossessioni). Mi disvio pensando in controluce all’equilibrio inappagato d’oggi e a quel trasporto : i due vorrei. Come spiegarlo a Dio??


XIX a R.M. Sei ricomparsa, invece, nei miei sogni direttiva e indulgente come quando il gregge dei pensieri sulle zolle miei radunavi docili al comando gaeliche. Non so che cosa agogni, simulacro di vita, questo folle supino sentimento, questo sbando che si abbarbica in me pregno del molle furore dell’esistere: sia un segno il tuo, mi sfugge il senso, sia un contegno risentito ed incredulo di sdegno, sia il monito accorato di chi tace, ma sa, a me - non sono perspicace quel saluto finale non dà pace.


XX a S.C. Gli sconforti più neri, la più impura estasi vedo in sogno e mi ridesto, se l’altro è un doppio inutile di questo in che mondo potrò invocare scampo da questa ottenebrata e imperitura marea di insofferenza? Perse immagini, distratte ai dì, (la veglia ne scompagini il frastaglio confuso) al freddo lampo della ragione non avranno forza più di intaccare quest’ottusa scorza in cui languisco; eppure contro il margine algido e refrattario di ogni oggetto i miei fantasmi vigili proietto : è un vizio cui non so mettere un argine.


XXI

Quale sarà la mia fra queste molte strade del mondo? Un tempo c’era un quieto angolo cieco, agibile, discreto in cui mi rifugiavo quando fuori la furia imperversava delle svolte e c’era un sentimento un po’ inconsueto, atavico e impudico oltre il roveto ardente di speranze rubacuori, di esistere a dispetto dei rovesci. Non so più come ho perso la mia rotta in questo labirinto di calvari; di me è perento il meglio sotto i vari nubifragi e silenzi: galeotta, erra la ciurma in circoli sghimbesci.


XXII

Dal tuo incesso imperioso non imploro giuramenti o ragioni. Quel tuo passo che rincorro per gioco sotto il portico fatato dell’infanzia riga d’oro lo stupore in cui giaccio; ancora esploro il sorriso infinito mentre vortico in fondo alla speranza; dall’ammasso silente spillo il liquido sonoro del tuo eloquio, parole di conforto quali vorrei, mio inesistente amore. Ah, le platee deserte, le ringhiere battenti contro il sole, queste ore scarne e insapori, le avvilite sere : al mio pellegrinaggio urge un porto.


XXIII a L.B. Quando l’ombra cadrà che si interpone quasi specchio ed enigma alle coscienze, nella gloria finale quando tutti saremo in Lui e Lui in tutti, allora, forse, potrò capire perché infiora di gladioli amari e gigli asciutti questa vita la sorte. In trasparenze attonite vedrò quale ragione alla mia sofferenza sia sottesa, quale legge crudele mi allontani sempre da ciò che amo, se ogni amico oggetto mi ha lasciato e il soffio antico del cuore: ne trarrò compensi arcani, ma varrà la sua pena quest’attesa?


XXIV a C.V. Nella notte più corta, nel candente silenzio del solstizio per Platone pregavo e le mie labbra erano intente a sillabarne il nome. Le rotaie mi parvero innevate, evanescente un volto amato in fuga; dal vagone il giorno dopo, ho contemplato lente sparizioni di campi e di ceppaie in fondo al magma della luce. «Possa salvarsi - supplicavo - entrare in cielo; più lui di molti santi invocherei.» È tutto ciò in cui credo, cui anelo : si salvi e me con lui salvi e coi miei palpiti tutti d’onta e di riscossa.


XXV a R.M. Ondulate brughiere di Edimburgo vive e sospese, tiepide e incostanti in cui ci smarrivamo... Il folle gioco non poteva durare! Come tanti anche tu sei scomparsa, ma se obiurgo quegli errori di sempre, se ti invoco genuflesso gridando degli istanti passati il nome veritiero un poco mi ridarai di quelle voluttĂ senza nome o sembiante, senza etĂ ? Mi ridarai visioni anche da sveglio come quando sconnesso elicitavo e mi graziava il tuo sorriso bravo? Abbiamo avuto, poi, niente di meglio.


XXVI

Il demone galante che dimora in me, sonnecchia; assai poco mondano esce di rado e non incontra amici; coltiva solo poche ammiratrici devote e inconcludenti, ma radici non sa mettere altrove se gli uffici triviali dell’esistere per mano disbriga mia. Per caso ignoto affiora allo stato cosciente da sommersi deliqui e la girandola riesplode frenetica di idee. Tutto si gode di me sotto mie spoglie il meglio; frode non è, ma ambigua identitĂ che erode lo smalto malizioso dei miei versi.


XXVII a F.F. & A.F. La finta frenesia dei musicanti (perchÊ è finta - lo so) non mi trascina in pista. A freddo so contare quanti balli e con chi lo ho fatti, quanti notti candite di lumini insonni ho spese, quanti baci mi scippa la rapina sospirosa degli altri, quante offese ho patito e ritorto, quanti botti e splendori traccianti dai dirupi di Bertinoro ho scorto, quante volte sono partito, quante glorie ho colte ed ignominie, quanti fondi cupi ho lambiti cadendo, ma la nota giusta trabocca da una scala ignota.


XXVIII a F.F. Ho visto le più ingenue convertirsi predilezioni in asti furibondi, tenui amori mutarsi in odi aspri, nel freddo il caldo, il nubilo in sereno la vittoria in sconfitta, il più nel meno Ho visto le Baccanti e i loro tirsi ritornare donzelle, in rudi diaspri concretarsi bei laghi, mille mondi estinguersi, fondendosi nel buio, della notte assassina il volto fuio risplendere in aurora. Sfuma l’evo presente nel preterito: c’è un moto fisso dell’universo e quel tuo vuoto sarà sconforto prima, poi sollievo.


XXIX a F.P. Meno cruda dirò per me la sorte (potrà udirmi, però?) se ti ridona traslucida e reale, fresca viola viva che transustanzia negli sguardi all’avventura mia raminga. Ardi odorosa e sepolta dove immola la coscienza sopita alla persona presente i suoi rimpianti. Dalle porte più fonde e laterali, dall’ebbrezza sconsolata dell’ora che si ingombra del suo contrario (ancora un cesto scenda supplicante sul Nilo) mi si accenda per contrasto insanato la tua ombra o d’altra comparabile bellezza.


XXX a S.S. «Sono stanca dei versi» mi dicesti «che concludono niente» nel già bruno risciacquo della sera. Certo ai presti corrieri dell’Oscuro quel raduno ingenuo e sedizioso (penseresti piuttosto per pietà, celia che uno degli afflati del Genio, da contesti erratici, di sillabe a digiuno, ci volesse invasare?) era sfuggito. Per quel trasalimento le parole da sole hanno potuto dare al mito un corpo, un’ombra vera. A queste scuole casuali appreso ho la magia: l’ordito del Poema totale in sé ci vuole.


XXXI

Se varranno qualcosa non - lo credo questi miei che improvviso quasi ovunque versi raschiati all’ozio e all’indolenza rabbiosa, se sfidare l’incombenza potranno dell’effimero, prevedo per giunta un esito bizzarro. Dunque, capofitti per me nella ghiacciaia eterna della gloria finché paia alla fama saranno i miei falliti amplessi, i troppi addii, quei miei disagi intimi e ancora, sconsolati, i miti? Eretto un monumento più perenne avrò del bronzo ai miei giorni randagi, a chi mi accora epigrafe solenne.


XXXII a M.P.R. Ho sempre avuto in uggia i bei diporti sfrontati dei potenti (l’universo arricchire potranno di un bel verso?) : cavalli, sci, casini, barche a vela, laute cenette a lume di candela, soggiorni tropicali con incluse avventure a buon prezzo, compre Muse da ristorante e da privati porti, acquisti di ricordi e cianfrusaglie; le partite di tennis, capodanni sontuosi e affaticati sotto i panni di chi si agita e geme nelle maglie spinose di un travaglio da prigione : insomma, arriva la rivoluzione?


XXXIII a L.B. «Perché se il giro eccentrico degli anni sturba i ricordi e maschera gli affanni sarà di te ciò che sarà dei vini d’ambra o rosati, torvi e frizzantini al cumulo delle stagioni: i danni non sanno dell’età né i disinganni che un giorno sfiniranno le mie attese ma si fanno di giorno in giorno, mese in mese più facondi e più soavi» Così ti ho intrattenuta e mi narravi il sogno di Parigi e della noia e io di come ho visto senz’allerta nuotare libri in Savio (in questo è un’erta scalata al trono pigro della gioia?).


XXXIV

Colle lenti a contatto ho visto il mare ed è stato il vagito di un amore presagito, ma ignoto, se non solo per responsione inconscia, strana: rare gioie alla mia potrei paragonare che, per caso, distacco dal fragore dell’onda una scintilla, colgo al volo un volo di gabbiano. Se mi appare nitida come agli altri la distesa alma dell’acqua e magico il normale, non è, forse, un auspicio che mi spetti un’arra più fruttuosa, una sorpresa più grande nel domani? (I parapetti dell’illusione ignorano il banale).


XXXV a S.U. Errabondo spirito, troverò - può darsi, quando? - una mia casa. Scorro l’eclittica gremita alla ricerca di una collocazione che non ho, di un segno mio che all’infinito tracci disagio un suo traguardo dacché aborro ogni falso riposo e sempre alterca coll’oggi il desiderio. Quanti lacci dissolvere dovrò, quante comete sfatare, a quante vie volgere il dorso finché germogli in me questo percorso che tasto, vena occulta del mio vuoto? O, forse, mi compete quest’immoto viaggio, questo cadere senza mete?


XXXVI a C.Q. Sarà premiata infine l’insolenza seducente e moresca dei tuoi occhi, e in un abbraccio strozzerai la febbre che ti ingravida e sana dalle lebbre intime dell’angoscia: un’incoscienza divina pulsa in te. Vivi balocchi indifesi del caso ci affratella una fede animale che livella agli uomini gli dei, ma è un dio più forte, incredibile e sordo, che scongiura la forza guaritrice di natura e slega ciò che è unito. Nelle morte serate che mi attendono un’abiura mi laverà da rimembranza impura.


XXXVII a D.C. Io col diavolo no, ma col Signore - ho sempre fatto il tifo per il Bene un contratto firmerei per le ore che mi sono rimaste (ci guadagno tanti fastidi in meno e poi il dolore di intingere la penna nelle vene) : svendo un’anima tutta col fervore dannato, ma sublime di un ristagno senza fine di smanie e di sconforti. In cambio l’oblazione pura e santa di me tutto mi ottenga intero un mese incolume dal morso dei contorti colubri del livore, dalla tanta afflitta vacuità delle mie attese.


XXXVIII a E.D. & F.P. «Ci saranno altri luoghi, altri tempi, altre persone da aggiungere alla trama dei tuoi giorni, incontri ancora, ancora, poi, ritorni e volti e grida e baci di una donna e porte e chiuse e aperte e l’emozione di dire ancora un sì che non assonna nella memoria. Annoda alla colonna l’ospite la cavezza, gli altoforni utopici deflagrano di intenso chiarore, lucida risplende Sirio : abbandona le rotte del delirio». Io non obietto mesto, taccio e penso, penso a quando e non solo nei miei carmi tornerai, dolce amica, a visitarmi.


XXXIX

“Sant’Isidoro” disse il re Filippo e già gli vellicava le calcagna losca la Morte, fradicia di tremiti contratti e di sudori “al re di Spagna non negherà l’aiuto (che mai un cippo commemori l’evento?) anche da lì dov’è”. Dopo, si spense senza gemiti. «Quali sono i tuoi santi?» Interloquì qualcuno, impertinente. «San Tomaso l’Obeso, coi suoi asini che volano, San Vicinio e i suoi pazzi da catena qualcun altro - può darsi -» arriccio il naso a nomi che non vengono «consolano le mie notti, ma dura la mia pena».


XL

“Saremo solo plichi per l’archivio” mi salta in testa (questo l’ho pensata a Montefiore Conca su nel sottotetto del Municipio) e un altro bivio che non saprò saltare mi si apre inutilmente netto nel dirotto pianto che fingo e che mi piace (data dai miei primordi). Un sentiero di capre in salita e di troppe lastricato vaghe intenzioni è la mia scelta: pendo ora all’urto murale, all’ecpirosi scientifica di tutto ciò che è stato, ora a un rinculo memore. Mi attendo inferno e paradiso in pari dosi.


XLI a L.P. Miei signori, Gemelli, ai quali devo quest’ingegno e l’accidia, arditi slanci stolte e le titubanze, quando elevo chi altri c’è come me gli occhi al tranquillo carosello di stelle? Non credevo tanto limpido e puro degli aranci notturni il crepitio fioco, primevo mi potesse ammansire e lo zampillo rilucente degli astri, eterna pioggia serena, mi guarisse. A me si appoggia il respiro del mondo e qui dal colle scompaiono gli amici, quel camino che crolla tra le fiamme e il mio destino. Chi potrà mai amarmi così folle?


XLII a E.G. «Più non conosco i giorni, ma le albe soltanto ed i tramonti» Nelle scialbe risonanze d’Agosto quel tuo grido d’aiuto, se è d’aiuto, si tramuta nel trillo di un’allodola precoce al levare del sole, nella voce che piange d’usignolo dentro il nido intricato di un bosco; poi, l’astuta rivalsa della vita ha riconverso nell’ovvio l’acquiescente irrequietudine di quell’appello assorto. Dunque, ho perso ancora il meglio? (Nelle notti brave oltre muri di assenze in solitudine dei domani che cantano è la chiave).


XLIII a F.P. Potrà menare vanto il bel torrione di spigoli e tralicci, di lamiera e noi con lui di avere infranto l’Era dell’oggi macchinale e del domani che replica lo ieri. È un’intensione ludica e fascinosa della fiera beltà che mi si nega e che è foriera di nulla, se consuma in questi insani incontri il suo futuro. Alla catena dei ricicli scampato nella svelta raffica già mi perdo, a cui mi invita per gioco il tuo incantesimo. Raffrena gli scalpiti del cuore questa scelta tra vivere e diligere la vita.


XLIV

Sapessi come ardo e quel tuo intento viso nel nulla quanto stuprerei. Lasso l’arco del labbro violerei col membro gonfio ormai prossimo al getto. Facile avrei ragione nel tormento che l’apice precede dei tuoi bei seni segreti, riparati ai miei assalti invano; sfiancherei sul letto le tue reni di damma. Ti difende iridiscente un tremolio di ciglia che consente e denega. Quel tuo fiore non coglierò (lo credo!), ma si tende al tuo passaggio (e questa è meraviglia) come un muscolo solo il mio furore.


XLV a F.F. Di contro alle vetrine mi sovvengono sgargianti i bei colori delle tute che volevamo metterci. Perdute le ore dell’autentica allegria sopravvivo di inerzia, ma trattengono in sĂŠ, nelle radici, di agonia molesta un grano nero (è una magia) gli attimi tutti. Possano le mute immagini sfinirsi nel crogiolo esausto del passato, questa doppia tortura unificarsi in fondo a un solo ardente e interminabile cospetto e possa annichilirsi la mia stoppia graziata dall’incendio di un affetto.


XLVI a E.G. Il ritmo pago degli anniversari è stratagemma estremo del destino per trattenerci al gioco: il primo introito, la prima donna, il figlio - non ne ho che per primo balbetta (che farò se si inceppano in me tali ordinari ordigni dell’esistere?) col coito primo si incidono sul vivo fino all’oblio di se stessi in un ritorno artefatto e nostalgico. Consenti, tu smaliziata amica, a questa farsa che illumina e rimuove la scomparsa, ma io che non riguardano gli eventi attraverso una volta sola il giorno.


XLVII a A.T. La tua auto - mi ricordo la targa quando si imbatte in me tronfio sarcofago coricato in parcheggi centrurbani o ieratica e stronza sotto inani ottusangoli di luce, larga fende una pena amara sull’esofago e il suo polso di ferro stretto schiaccia il battito al mio corpo. In questa ghiaccia giravolta degli anni non saprei di quegli attimi quale ho più rimpianto : non di te, non di te, misero essere come tutti lo siamo, scrivo il canto, ma di me, di com’ero, poche tessere rivendico all’invidia degli dei.


XLVIII a L.Pi. Brutalizzata l’abside rinvia acuta ancora un’eco oscura e roca di antica, bestialissima pazzia e, intanto, in qualche landa macilenta dell’Africa o dell’Asia la razzia imperversa inaudita se la poca pietà sfiorisce, muore: colla mia quant’altra sofferenza si presenta al trono dell’Altissimo? La lastra del Santo, a Padova, di un tocco appena ho sfiorato in preghiera, ma, ai suoi stessi sodali sconosciuta, in cui si incastra ogni doglia del mondo, è una catena che sostiene gli oranti e me con essi.


XLIX a C.Q. & L.Pi. Perugia un poco mi ricorda Arezzo, ma non saprei spiegarlo: stessa piazza in pendenza e sbilenca, stesse vie scavate fra le case in un dispendio assorto e indecifrabile. Mi avvezzo a stento alle private geografie fantastiche e imprecise in cui ramazza gli eventi stati un coscienzioso incendio e tutto si incastona in tutto. Dove sono i passi innevati d’Appennino, dove le corte e faticate tappe del ritorno coi guai, dove le nuove amicizie e gli esami del mattino? Ho solo dentro me confuse mappe.


L a J.d.L. Jacopo da Lentini il tuo regalo (fra tutti - credi - l’ho riconosciuto!) mi è più caro degli altri. Ah, se potessi confondermi io pure a quegli stessi turbamenti, a quei drammi, ma uno scialo irrompe di chi adoro e non voluto, perfino, ed ogni volta c’è una dose di pianto negli eventi e nelle cose che in me percola amara per l’imbuto refrattario e contorto del mio canto. Ti invidio il sole, il tocco d’amaranto dei versi, Agri e Livenza, i baci, il liuto : di contro alla fatica mia di dire che questa è poesia, ma da capire.


LI a A.G. Il mio solo rimpianto è non averti fra le mie braccia, te che sola amata ho più dei giorni miei. Questa che solca piatte marine a pelo d’acqua, nata contro vento, rude vela bifolca, è la mia vita e il golfo si dilata burrascoso dei sensi per scoperti gradimenti e ribrezzi, dove sfiata il sibilo della passione fino a dilagare a tutto il mio destino. Senza più stelle ormai navigo a vista di scalo in scalo ed ogni svolta è un punto in più sulla mia rotta che ho raggiunto : si allunga senza posa la mia lista.


LII a R.M. Potrà ricapitarmi nei meandri futili in cui questa città traligna felice di incontrarti? Gli oleandri rugiadosi stillavano di intensa vitalità, gnaulavano in agosto sul terrazzo i soriani e una benigna quiete è piovuta in me, fatta di mosto, di piaceri infantili, della densa purulenta materia in cui scolpisce i suoi idoli il dopo. Si accartoccia il mio animo al peso che ci lega, ma sapranno crearne queste lisce traversie inesperite un altro: sboccia senza antefatti il battito che piega.


LIII a S.S. È vero sì che so mimare i modi della felicità, ma quanto noia lo stesso in Portogallo. Sulla stuoia, insonne, a galla dei miei desideri Guerra e Pace, gli alberghi, incastri e snodi di un labirinto che trangugia i lai frolli di chi persiste, i finti guai di una feria obbligata e semiseri rimorsi: tutto ho sopportato. In testa mi batteva - perdona l’empio labbro colla furia salmodica di un fabbro l’auspicio irriverente: «Una mia festa giunga alla fine in cambio». Ora, padrone Fato, pretendo una permutazione.


LIV

Di fuori uguale agli altri vado in centro, ma nessuno saprà che cosa ho dentro? Passioni riprovevoli, diletti a me stesso inspiegabili, progetti che vivono la luce di un mattino e, poi, marasmi, lotte, un intestino risentimento contro tutti e tutto e la credono flemma. Questo lutto intimo, quest’assenza di un domani tangibile e compreso un po’ mi esalta e mi sconvolge a un tempo. Che mai l’alta comprensione del Cielo per gli umani questi scherzi riservi o non, piuttosto, un destino si spicchi dal suo opposto?


LV a C.Q. «La cuspide leggera di Cupido che ti dilani il petto insegui invano per salti, per le svolte della vita, per la ridda di incontri frali, vuoti da cui non scaturisce, negli ignoti golfi dell’illusione, un’appassita neppure compassione, ma la mano che un giorno scoccherà lo strale infido elude e si traveste in questo tedio che non offre speranza né rimedio.» dici e lo so, ma possa quest’assedio turpe allentarsi in un sorriso rado di supponenza o svago e varchi il guado a briglia sciolta un desiderio brado.


LVI a C.D. A tua insaputa mi acquattavo - adesso si può anche dire - ignavo narcisista, pretenzioso, ma indòtto musicista a prospetto del tuo nel mio giardino (tra i due c’è un terrapieno) e lì, cretino, mi incantavo a spiarti al pianoforte che, in cantina, infondevi a quelle morte note, scritte soltanto, un suono. (Un nesso c’era col dopo?). Fantasiosi accordi, passaggi funambolici al tuo tocco erano vivi e, insieme, qualche strazio imprevisto e nativo. Il bieco spazio di palpiti e pulsioni senza sbocco che vivo adesso è una trincea per sordi.


LVII a B.P. O Venezia, Venezia, in queste calli marcite dietro cui fila una gondola e il violino sfondato appena dondola al fruscio dello zefiro, mi appendo a un gancio immaginario, mi scoscendo e, intanto, la città scorre ai miei piedi come nei sogni lucidi: «Se siedi sui gradini a San Rocco o sugli stalli» dice qualcuno (amico?) «ti fotografo per sempre» e, poi, lo fa. (Il cronografo dispettoso rallenta sul gioviale istante e insussistente). Nella sera quale ponte dovrò saltare, nera quando cadrà la tenda del finale?


LVIII

Nel giorno d’Ognissanti sotto i colpi fervidi della nemesi ho scoperto per caso la saggezza. Era la soglia che imprudente ho varcato e senza voglia mentre invocavo il turbine che spolpi quest’essenza caduca; poi, l’incerto novilunio di sempre in cui si oscura tutta la mandria ed ogni fiamma è impura dentro di me. «Cogli altri fare pace e con se stessi e, in più, spogliare l’uomo quanto si può». - mi detta la loquace profezia che mi visita e va via, lasciandomi all’impresa. (A stento domo una fitta traversa di ironia).


LIX a C.Q. E ti vedo svilire vago fiore che ho indugiato a raccogliere: l’amore in sé da sé si spegne e non ramifica se attraversa, intoccato, la stagione degli incontri e dei baci. Il fortunale iracondo dei giorni, il tribunale pentito che il passato non rettifica mi condanna per sempre alle persone consuete, a questo pungolo pignolo, all’acqua morta della compagnia degli assetati, quando nei burroni notturni a Galeata era allegria reticente e smaniosa: quali doni manco di cui fa incetta il Boscaiolo!


LX a T.D.Z. Un tempo non lontano quando il diavolo furioso e risibile del nero umore, del silenzio o del dispetto su me si appollaiava ad un sonetto dispiegavo i miei sensi. Sopra il tavolo di tek in sala o fuori sul sentiero lento dei passi perduti a memoria dentro me componevo. La cursoria impazienza uno scalpito contratto per poco tratteneva (anche la vita quasi imitava a un’estasi infinita); pure adesso finale che è lo sfratto dal carapace della fantasia, nei versi trovo una mia terapia.


LXI a S.C. & F.F. Noi qui, mentre adoriamo il Sole impuniti (davvero fino in spiaggia si spingono gli ulivi!) chiacchieriamo frattanto; tu chi ami, io chi amo è l’argomento - il solito! - e un po’ duole, se può, dentro un azzurro che ci irraggia di gioia involontaria. Tu tormenti da una cabina il gonzo, i miei cimenti si sprecano di nuovo in un concorso e, sul lettino, le Storie sleggiucchio del Padre della Storia. Da quel mucchio di favole e di trame che ho trascorso non pesco più. L’amico ci consola : «Di storie tante conta una sola».


LXII a E.D. In questa notte spenta quel ricordo mi tormenta e mi placa. Sul divanoletto nella mansarda silenziosa chissà fra i tanti perché lo sciamano ballerino e collerico e il suo ingordo demone associativo hanno dal nulla estratto proprio questo? La corrosa superba fissità che si trastulla con noi è quella, doppia e cattedrale, di Torcello, ma, già prima, sull’acque, scherzavo, ignaro: «Sopra tutto aspiro a Mazzorbo». «Rinviene ciò che giacque» sanerai, incastonando in un sospiro vissuto e inesauribile, il mio male.


LXIII

Al «Capolinea» (ci siamo tutti o quasi) l’amico teneva banco di mio fratello. Ingenue sbalordiva con invadenza lubrica e ossessiva (finte?) le poche astanti, allora flutti pervasivi e impalpabili lo stanco trascinio di me stesso per l’estate tralucente, difficile, di ingrate amicizie e promesse hanno sommerso : il grande Io e il piccolo me stesso per sempre in lotta e, poi, sempre l’inverso che capita e strapazza le emozioni che vorrei, più non sento in questo terso luccichio di una notte di perdoni.


LXIV

Non pretendo le grandi, mi accontento delle felicità da poco. Quella di sorbire in terrazza un cappuccino, di fremere al sorriso di un stella che liquefà negli occhi, il sopravvento sereno di un solstizio, nel giardino di frusciare le pagine a una bella stampa col dito, di sfiorare il lino grezzo di un seno. «Su, - dice - non fare così. Fatti coraggio! Tieni duro, - rimbrotta già qualcuno - anima ignava! La pena eleggi che ti fa più brava!» In casi come questi resta oscuro nel coro dei gaudenti chi ascoltare.


LXV a M.D. Ma già di questo posso ringraziarti a tua insaputa di essere salpata mia seconda al timone del vascellofantasma. In fuga ho traversato innata in me la conca sfonda degli scarti umani, il golfo lacrimoso, il chiuso specchio delle mie brame (svello surrettizie radici al disilluso amore) insieme a te per sanguinari bracci, per agri mari, ancora in gola colla gioia di quando dai binari si spicca il treno in corsa e il ventre squarcia di Parigi per l’aria infranta e vola... Mia commodora, addio! Torno alla marcia.


LXVI a D.C. L’ignobile settembre che s’avanza sempre uguale a se stesso, sempre allegro bambi caracollante ancora dà la stura al walzer delle vacuità : il cilindro, la piazza, la iattanza omiletica e trita di chi il negro risvolto si pittura di impossibili copule e viaggi, incontri, di infrangibili dogmi portatili, la discoteca, fare tardi la sera, la ribeca che ripete: «Chiappe! Poppe!» ... Stupisci disincantato amico, che io pisci asti e lagne e con occhi da scafandro scruti se torni un mitico Alessandro?


LXVII a E.G. Ho smesso i panni dell’Ottantanove : qualche mutanda forse una camicia tiene duro all’assalto delle nuove nel guardaroba e, intanto, la vettura che avevo allora in tinta Coca-Cola ha preso il via per il pendio. «Incornicia altro quadro; - concludo nella scuola della vita - ribatti la ventura che ogni volta si intreccia e si districa». Se dal mazzo non esce la mia carta, che farò delle attese e del continuo diverbio col presente, finché parta ogni forza da me? «Sempre l’antica urgenza incomberà dei giorni» - insinuo.


LXVIII a L.P. Che recherai notizie dall’Ibernia, amica, riapprodando? E i caldi voti sussurrati al guanciale nell’occulto penetrale dei sensi agli dei ignoti? Io, nel frattempo, che rischiavo l’ernia curvo sotto di me, sotto remoti crucci senza più nome in un sussulto i raggi ho visto occidui dietro i vuoti boccali rossi della birra, ho visto l’irruzione del verde nell’austero paradiso di noia in cui sprofondo. Più non domando a questo velo tristo che mi esclude, intessuto di un altero riso e di pianto: un voto anch’io nascondo.


LXIX a E.M. Non ho mai detto che sarò il tuo uomo (né negato, però): sai che non posso dare il mio pegno, se con me non vuole la deità che vive negli sguardi rilucenti e furtivi, nei maliardi baci rubati in auto. Intero un duomo di zucchero e canditi e, poi, carriole di cornetti stracolme, quel tuo grosso cuore di panna e mi riporti il culto del cargo e tutto ciò che è buono, ma porti pure il biasimo e l’indulto per me che non invento la mia vita, ma la trovo così con quel che sono o voglio e come gioco la partita.


LXX a J.B. Mont-Saint-Michel, se replico episodi stralciati a caso dal mio repertorio stinto di poche gioie, se risalgo la giostra che bambino un promontorio di paure mi parve e senza approdi (semicieco cercavo rotatorio il volto di mia madre), se quei chiodi stacco dalla memoria, che piĂš valgo contro il frullo del tempo? Nel tuo addome capace un angelo picchi le tempie piĂš forte ancora se cosĂŹ le scempie rimozioni sobbarchi a queste some dei ricordi. Quale meta rifuggo, se, moroso, chi ero non distruggo?


LXXI

Qui da Gemmano (in prospettiva inversa alla mia infanzia) vedo Montescudo e quella macchia bianca che si aggrappa al colle è la mia casa; dunque, tutto si ribalta alla fine e nella tersa fissità trasparente di ogni ignudo sogno c’è dentro un sogno e un altro. «Scappa finché sei in tempo, finché il brutto mælstrom si turi» accenti vani altoparla non so dove infossato un nunzio di aldilà. Non posso credere alle sillabe più che a perdifiato rutta il cielo. Mi tuffo sulle federe, spengo e mi scontro coi Polinesiani.


LXXII a F.P. Ti porto solo dodici sonetti strappati alla stampante, a un computiere pigro (scappava il treno per Bologna). Ăˆ certo imperdonabile vergogna che non sappia neppure ai miei diletti sbadati dare un ordine, nocchiere perdigiorno e lunatico, pupazzo dei sentimenti tutti. Un qualche lazzo un qualche invito ancora alla tua agenda impulsiva e gremita di saluti, baci e biglietti, fiori, voli e astuti dinieghi e assensi strapperò? Chi emenda bizzosa malavita che ha suoi svaghi solo in griglia di rime che ti appaghi?


LXXIII a L.B. La dama spigolosa, incantatrice di alcove inesistenti, che disdegna la mia corte, profferte, viaggi, rose, che deliba e non sente le mie cose con chi sostituirò, quando infelice il mio ultimo tralcio sarà legna prosciugata e caduca? Quali storie saprò imbastire dopo, quante glorie da un baiocco nel colmo andirivieni di proposte insolute, di ripulse superflue bacchierò, d’ampie e convulse apostrofi notturne e frusti beni di fortuna? Basico istinto d’uomo, chi domando alla fine sarai domo?


LXXIV

Odio i treni, ma solo per Parigi e Bologna li prendo volentieri. Partendo nella notte alla mattina ci si sveglia e si è là. L’adamantina persistenza dell’alba a questo gioco presto mi abitua e mi rilancia il fuoco d’Ariete e le canzoni delle strigi, ritrovo Primavera e i suoi corsieri nel maggio trafelati già da spiaggia, poi, fulmine sereno, il professore tanto inseguito e la sorella saggia, (e pareva difficile!) l’amica dei libri di Italiano... (Che fatica sprecata anticiparsi quelle ore!)....


LXXV

«Che? Sarà ora di tornare in Scozia?» ogni estate mi chiedo e l’esorcismo rimando dei miei giorni più felici (inutilmente se per noi decide un Genio inesistente che divide dagli affetti la causa) e, dunque, ozia in me di tante storpie e meretrici memorie, divertendo, il fatalismo superbo di quel tempo. Il mio diluvio - se di questo si tratta - non ha fretta, ma rifiuta e si appella alla disdetta che è mio alibi e impaccio nel profluvio di cose immaginate e mai godute : in che non so io trovi una salute.


LXXVI

I finestrini aperti alle vetture in lotta per un refolo di brezza dentro l’afa, l’ardore dei cristalli che infrangono le lame della luce la fiumana di musica che cuce in una danza sola pigri sballi, lampi di ilarità che a tratti olezza del suo contrario, labili sventure senza ragione poi compiante: questa - me ne accorgo - è l’estate; questo è il punto più azzurro in cui convergono gli istinti di gioia e di preservazione. Avvinti vorrei piuttosto che due noi in congiunto trasporto ricreassimo la festa.


LXXVII

Per una prima volta della morte ho intravvisto il baleno. Era, sul punto di trasvolare all’Isola del Tè, un riflesso sfuggito anche alle accorte pupille del delirio. È stato un forte silenzio, un lampo cieco in contrappunto al violetto del cielo. Nel sakè che rimesto di un giorno senza porte si è aperto d’ombra un adito, finale, che, sfumando, oltrepassa il bene e il male, aspersorio di quiete e, poi, l’orrore. Di qua dal vetro inerte dell’acquario di noie e querimonia nel sudario mi riavvolgo e mi aggrappo alle mie ore.


LXXVIII a E.M. Non salirò le chiatte dell’Olanda insieme a te, per coste, per canali, per le isole ferme di Zelanda a cui chiedi ristoro dai tuoi mali se mali sono i gemiti perduti nelle notti virtuose di campagna a casa tua. Smarrita, gli occhi muti mi ricorda di te quando scompagna ogni senso da sé la mia loquela (è il suo bello) e non sai la meraviglia della mia inconcludenza, della casta malizia che mi è propria, ma se anela al mio il tuo sguardo, animo ripiglia : il gioco è peso e la bontà non basta.


LXXIX

Dal fondo delle notti più languente di Burgos, di Miami, di Colombo vi penso, tante vite parallele che per voglia, comando od accidente ho incrociate: subito un continente inconfesso e tortuoso, nel rimbombo querulo di un singhiozzo, per sequele ripide di rancori in cui si sente ancora un’eco tarda, di creduto finale turbamento, di scommesse amare, di amori stralunati, nostalgia malriposta, di storie, dal suo mare si staglia impertinente in un saluto : «Siate felici!» - dico. E così sia.


LXXX

Il cielo blu al tramonto è come un fondo rovesciato di zangola. Mettevo i piedi a mollo un tempo e l’acqua calda era carezza tiepida nel tondo recipiente alle piante. «Forse, il mondo tutto sta in un catino e già si sfalda ogni forma - ho pensato - se le levo il mio consenso.» Ormai meditabondo riscorro la catena dei miei fatti e mi sento perduto: non ci trovo alcun conseguimento o direttrice plausibili. Così, se baro e i patti straccio dell’ovvio, che ci perdo? Un uovo in me riarde d’araba fenice.


LXXXI

Tre cose ho care soprattutto e sono la poesia, la musica e il teatro, ma delle tre nessuna corrisponde a queste ingenue mie passioni: in dono tutto me stesso ai loro altari d’atro fulgore e incenso ho speso, tese ronde fumose ho trepestato e già impersono lo scialo di virtù promesse. Latro Anubi bastonato oltre il deserto procelloso di ghibli e di annassite anime erranti (ho in serbo troppe vite per finire così): sono inesperto se non di rime e sillabe, che fare d’altro? Il mio giorno ha voluttà più rare.


LXXXII a D.S. Spoglia la galleria di questa vita di nicchie, arcate cieche, volte, rampe si riempie a capriccio di alte statue sognanti cerimonie e riti, fatue forme di bronzo intrallacciate, stampe puntigliose di leggi, di infinita mappe avventura, di graffiti osceni, pitali, baldacchini, di prosceni e veroni da cui storie di addii, provvidi matrimoni con divorzi altrettanto previsti recitare e, in piĂš, carriere, manifesti, gare di ingegno e nobiltĂ . Ahi, quanti sforzi per compiacere negligenti iddii!


LXXXIII a E.M. Avevamo scambiato un casamento tetro e moderno per il Monastero de las Huelgas e non ci dispiaceva; ci vedevamo l’arte di un austero sconosciuto maestro e, forse, il vero non ci ha più dato alcun trasalimento. Capita a volte di scambiare un cero vacillante per stella, per l’allieva musicante dell’alba i merli nelle aurore, una pozza negletta, anche tranquilla, per un vago miracolo di Antilla o prendere per morso di un amore (può essere più grave a ben pensarne) pretta una dilezione della carne.


LXXXIV

Fra tutti proprio non invidio Dio sull’amaca del cielo in pace quando gli scaricano addosso carrettate di preghiere, di voti e blasfemie che profondono labbra chiuse e rie dal pozzo un’ambascia per frustrate genuflessioni rotte al contrabbando : «Dammi l’impunità, l’arte, l’oblio il successo, un marito, dammi i soldi, una copula, un pasto, che mi assoldi non importa che truppa, un giorno, un viaggio la santità, una dose, un buon impiego». Infedele e credente anch’io lo prego di fare parte a me nel mio miraggio.


LXXXV a P. C. Da in fondo al cuore aggalla Barcellona, incrostata di tulle, piatta ancona, nerbo di orgoglio catalano, ignara di celate mentali anamorfosi contro il vallo di un’ora che sanziona la fine, ma non è la Barcellona di qua, quella che è vera e che separa dal mio groppo dolente pochi implosi singhiozzi, che mi spenzola da un filo troncato di telefono (a che serve partire, se, poi, tutto torna?). Cerve mi promette impudiche e cacce, un silo di buone cose la Città Celeste, quando del mio sensibile si sveste.


LXXXVI

In cerca di presagi il ramo d’oro a miti e favole divelto imploro, ominoso scuotendo, le finestre serrate degli dei. Quante maldestre mascherate dovrò contro il decoro che ormai pretendo e che mi spetta (alloro mi metto in testa, vesto i panni smessi di Telefo e di Priamo, dei messi tragici, le ali di Mercurio ai miei piedi con esito un po’ spurio) mio malgrado inscenare? Una malia perversa e simpatetica rapprende in un unico intrigo le stupende ambagi degli eroi e questa mia.


LXXXVII a S.M. Liquida e trasparente la Jamaica mi è apparsa sotto forma di caracca alla fonda cogli alberi nel sogno tentennare a languori di risacca, mi è apparsa nell’intensa e poco laica trepidazione della primavera con quei suoi lidi intonsi al mio bisogno di gioia e di passione in una sera opulenta. «Nostromo, olà!, straorza! - grido in silenzio - Vira a tutta forza, mio Capitano! Su, lancia la sfida al destino!» Nei portolani inquieti che tracciarmi saprò fitti di lieti approdi e rotte è un’isola più fida.


LXXXVIII a D.C., L.A. & A.M. Bel tramonto di sangue!, ci affogavo patemi e solitudini inesplose e tutto mi sembrava sopportabile. Adesso che discendo nelle cose con più discernimento e sono bravo a fare e, poi, disfare un presentabile ruolo di marcia, adesso che le rose non mando più, non sono tanto affabile da illudermi, ma tutto è alla deriva, forse, mi sento meglio e non soggiaccio agli obblighi di un fine che mi priva di ciò che è. Verrà tempo briccone che effimeri - se ancora non lo faccio rimpiangerò i passeggi di Riccione.


LXXXIX a C.N. Nel dormiveglia acerbo in cui mi cullo, fasciame alla deriva, per trastullo ecco lo Spettro ormeggia tra vapori salsi del Millenovencentottantacinque (o del sette?): «Olà - grido (ahi, dolori!, megafono di Dio per questa santa transigenza) - sei tu, dunque, che incidi le tue iniziali sugli opali di Idi appese ancora al calendario?» «Cresci - mi schernisce - nel gorgo della notte non mulini tu solo: intere flotte veleggiano sul gran sonno dei pesci. Tolgo il velo ai tuoi occhi acché tu veda quanto fallace è il sogno e non receda».


XC a L.Pi. Eh già, non torneremo a questo ponte spaccato dal torrente, non all’altro venerando ed altero sopra il limo nello stesso tramonto. Forse, il primo incontro cogli eventi nel simbionte circo fatato ha un fascino che scaltro emulare non può qual sillogismo difettivo o efficiente. «Anacronismo più dissono non c’è che la tua brama forsennata di perdere l’avuto e, dopo, di riavere il già perduto». È vero, sì, ma in questa trama contusa e luccicante di emozioni inseguo sensi no, folgorazioni.


XCI a G.A.B. Con noi morranno fiaccole segrete di stelle che non sono mai rifulse, moriranno le lacrime convulse, strozzate nei guanciali, ogni puttana vastità mai solcata ed irrequiete le giumente di amori senza nome, immobili al galoppo, intente come gli eserciti corruschi in porcellana negli ipogei a nanna dell’Impero efferato e Celeste della Cina. Quanti incontri sfumati, quante ire inespresse, ma pure quanto vero stordimento e dissidio sulla china greve di un’ora che non sa finire!


CII a R.V. Perché un raggio anche solo può scalfire questo coma insipiente che condanna senza appello o rimpianto le mie mire irrite e spumeggianti, perché (un colpo di fulmine potrà, dunque, le dire Parche dell’imminente in un osanna totale allegramente sovvertire?), appeso ad un attendere, mi spolpo di gioie e di dolori e sono fatto ormai d’ombra e di stasi un mero segno sul limite, perché non ho riscatto se non nel sì che agogno e mi si nega possibile, per giubilo e contegno il gioco a sopravvivere mi strega.


XCIII

Avevo quindici anni e già (ne cito qualcuno: «Piene di tanti ricordi sono le vostre correnti», «Di luce ti colori anche tu», «Forse che è amore quello della candela?») per partito scrivevo versi. Amavo ritirarmi in campagna da solo o sulla spiaggia a torturare fitti stracciafogli e ad altro non pensavo, non a mogli o figli, non ai soldi (troppo saggia costumanza!); semmai c’erano allarmi si smentivano poi senza il dolore. Sono chi sono ormai, ma non si scuce di dosso a me il Signore dei balordi.


XCIV

L’ombra che mi persegue non demorde ma il suo passo di piombo ad una inculca ad una addosso a tutte le mie impronte finché saprà del poco mio orizzonte fare un solco dolente. Sulle corde flosce mi addestro (tutta non conculca la mia speranza): «Ancora hai molto filo rido di me - davanti e il fiero stilo tante volte hai schivato». Questo adoro ingegno mattacchione e vagabondo, Anteo, figlio del caso, che il mio vuoto fortifica e ridesta. È lui l’ignoto compare che ringrazio se del mondo traverso il lato oscuro e non scoloro.


XCV a F.C. Afflitto da nevrosi e tonsilliti vedo che attorno a me scorrono gli anni e scorrono anche in me: questo è il più crudo fra tutti che lamento dei malanni. Dopo numeri e numeri finiti quando avrò tutti i trucchi, quando ai molti fremiti non saprò più dare un nudo nome neanche, niente che mi ascolti più gremirà per me gli astanti palchi. Che si allontani l’ora!, che non calchi le mie scene per prova il suo pensiero, se un febbraio (chissà quanto sincero!) di un’ulcera carminia ha fatto rosa e ride, un marzo, dopo la mimosa!


XCVI

Un passato mi suona la puntina arando come a nuovo sfrigolii di vinile, su rauche ruote nere e mi ridona tempi interi, addii ferali e, dopo, un’altra e repentina ricongiunzione. «I no di oggi i sì saranno di domani e queste sere penose, vacue e tante anche così si trasfigureranno nei ricordi belli a venire» ho canticchiato solo tra il riso e il pianto incerto al karaoke intimo e mio. Perché, Musica, accordi ripestando il tuo giro, queste poche reviviscenze, se, poi, stronchi il volo?


XCVII a E.V. Chissà se la mia suora della Quinta Elementare è ancora viva (spero per lei di sì). Nel minimo ridotto ricavato per noi dal sottotetto traballante di sopra o dal salotto della televisione, buono e stretto, impartiva apodittica un severo sermone e, poi, con altrettale grinta nei mondi trasfondeva e nei paesi pensati dalle carte un che di vivo : Portorico, l’Aral, Guam, lo Zambesi collo sguardo del sogno già lambivo. Per compito così ho contratto il vizio dei viaggi e ormai completo l’esercizio.


XCVIII a M.D. Invece delle isole c’è Vienna; (magra consolazione!) avanzo a stento contro l’urto congiunto (pioggia e vento) sulla mia faccia. Anche l’ombrello (strenna ormai non so di chi) non è contento, ma si rivolta, quasi goffa benna, all’indietro su me (migliore penna meriterebbe il fatto). Il mio talento se mai c’è stato - spreco in queste fughe patetiche, se a sera nello specchio la mia fronte si scopre nuove rughe e in lizza già mi staccano gli aitanti stalloni di San Piero in Bagno. Vecchio ragazzo, perché perdi tempo? Avanti!!


XCIX a A.N. Ho sempre amato la presidentessa di Tourvel, sempre uguale a se stessa, ho amato di Odisseo quando la ressa ricaccia delle anime, indefessa Clitennestra, le lagne dei pastori fannulloni. Per me che si innamori e che si infuri Orlando o si lavori Don Giovanni Zerlina, che trafori le sfere il Ghibellino o quali intrecci intrallazzino in ozio i goderecci di Fiesole, come MacBeth non sbrecci l’orlo del fato o in cuore una zaffata dei bei Fiori del Male sia esalata può, se ci credi, fare la giornata.


C a M.P.R. Ostile, assente la città mi nega ogni svago perché quando si è soli costa di più il conforto elementare di infilarsi tra gli altri in coda ai riti vieti del quotidiano a cui si piega l’ansia di darsi un senso, almeno. Voli spezzati, corsi senza svolte, chiare traiettorie nel nulla, ardenti siti che spegne pioggia senza fine ho visto negli occhi miei, negli occhi di chi incrocia i miei per sbaglio o carità, ma sfocia qualche dove la passione del Cristo che geme dentro me? Il pianto mi scalza, la pena che mi faccio mi rialza.


CI a Fl. F. Si infila nel pareo, ma non le cade uno sguardo, per sbaglio, su di me neppure, che disteso sul lettino mi fingo raggiungibili le forme bronzee del suo seno, quelle spade luccicanti degli occhi nel turchino infitte, il passo raso senza orme su scivoli di sabbia, ma perché manca sempre qualcosa alla più piena felicità? Perché, dopo, si svena ogni volta l’umore in cui mi insedio, quando si mostra appena e si diparte l’angelo dell’altrove? Quale arte fonderà col tormento il suo rimedio?


CII

Infantili i Sessanta e qualche anno vano di stordimenti, poi, i Settanta convulsivi e zelanti di ideali e passioni imperterrite, tribali ripulse e accanimenti ( - Ma che hanno di incredibile o grave i miei propositi? - mi chiedevo), ma già ecco gli Ottanta strafottenti ed ottusi, assai compositi di sentimenti innominati, amici e sbalzi come sempre d’umore e di destino, la laurea, il servizio e poi il lavoro, la rumba arcana degli affetti scalzi (torneranno gli spasimi?): declino già nei Novanta e un esito non sfioro.


CIII

«Non so perché dai Nuovi Zelandesi si pretende che usino vocaboli uguali ai nostri e per le stesse cose» protesto e gli accigliati conciliaboli mi censurano intanto per palesi contraddizioni al senso più comune, «Chissà» mi chiedo «quando dico rose se anche a loro si apre come in dune bellicose un bel rivolo d’affetto o quando dico rocca di scalini un mondo intero e intrighi clandestini sgorga e di storie, fughe e di sospetto». È una figura: capirete, Amori contrariati, che voglio cento fiori?


CIV

Per un’altra - se esiste - prendo appunti esistenza: so già come la voglio. Innanzitutto, basta cogli smunti sguardi da troppo studio, col cordoglio di rinunce e distacchi involontari, usuali con nevrosi e miopie, coi tranelli, gli scacchi, coi più vari e lisi scampoli di strategie : una vita vorrei fatta di poche anime iscritte al mio vagabondaggio; vorrei dopo i convegni delle oche morte, sberleffi e lotte giù nel fango giocare la mia mano ingenuo e saggio, ma niente cresce in me l’eterno tango.


CV a M.C. «Attento! In te coi diavoli, impaziente, non spegnere anche gli angeli!» consiglia un aio a pagamento. «Ciò - mi dice e ascolto compiaciuto - meraviglia ancora più che lo zelo già - non mente si abbarbagli e decada al primo spiro avverso e si scombussoli il felice accordo degli sforzi col deliro auspicio». «Dove vanno, dove - chiedo dai ristagni ribollenti e preclusi di mangrovie a uno schiocco delle dita i palpiti d’aironi?» C’è una vita tutta, sospesa a quel segnali d’usi smarrimenti e ritrovi e non la cedo.


CVI

L’inconsolato, il vedovo, l’afflitto che non vince i concorsi e non fa breccia nei cuori altrui, che resta senza donne quando è un dio che le vuole, che sta zitto nei ranghi supponenti della feccia, l’esausto trapezista, il vate insonne di un vangelo cifrato e mai trascritto, il danzatore immaginario, freccia ratta e anche pomo e, in più, sordo fruscio, albeggio e chiaroscuro, compassione, ebbrezza e improntitudine, potrà mai calare la maschera? Al di là di tanti volti e scambi di persone, c’è una tara incompresa e sono io.


CVII a F.F. «Quelle assurde promesse che non sai mai mantenere» mi dicevi «e i giorni che butti al vento, l’estro giramondo, i discorsi scoscesi (ormai frastorni nessuno con certezze che non hai) su cui ti arrampichi al domani suonano tante campane e crepi dal profondo scontento a cui soccombi. Tuonano per te gli squilli mai rocambolesca di una resa?» «Ma i cinque piani, il fiume sornione di battelli e ponti e tresca delle piscine galleggianti?» - penso. (Il gioco è troppo breve e spento il lume, l’edificio dei cuori è un Ade immenso).


CVIII a A.M.P. «Compro una casa a Borghi - meraviglio nessuno più con queste mie trovate e la rifaccio in stile postmoderno» peroro. Piroetto su macerie (le mie - si intende) di castelli, piglio in prestito le vite altrui, le fate adesco ed abbandono eppure sverno ogni anno più o meno. Ah, le materie sode di cui più sono fatti i vostri progetti e realizzi, le sagaci ostinazioni! Mi lasciate ai rostri torvi del caso e compatirmi è svago. Tra me sorrido e che un’ansia vi baci prego per voi San Giorgio e prego il Drago.


CIX a R.M., E.D. & V.B. Sì, ben che abbiano amato i cantautori : Claudio e Renato e cantavamo in classe in fondo all’aula o nei convegni del martedì (per me quali congegni si sono rotti più che senza amori veri ho scolato gli anni?). Nelle crasse balere di oggidì, dall’autoradio mi giunge ed è la fine di uno stadio ridanciano e fugace che ho creduto colpevolmente eterno) un qualche suono che non può più essere il mio. Se intono un requiem dissacrante al ripetuto recupero posticcio, appena scampo ad un kharma che già in un altro inciampo.


CX a D.C Credo ancora in un posto che si chiama Felicità (lo crede anche la lama che decapita e strema i desideri per rappresaglia e pure gli strateghi di questa universale prostrazione) e continuo il mio corso, la tenzone che mi spossa e rallegra. Refrigeri precari in cui mi immergo, i miei ripieghi salvifici e triviali, grami viaggi, passatempi e dispendi (mi scoraggi, invano, guazzabuglio di cammini persi!) sono un riflesso e un po’ sbiadito soltanto dell’Idea. Sono avvertito : mi impiccheranno infine ai miei mulini!


CXI

Solo, sul letto appisolato (fuori urge l’estate e quasi basterebbe a raddrizzare il rovere mio inerte) recupero le veglie, ma ristori veri non sa più dare senza cori petulanti di eroi questo giulebbe stucchevole e prolisso al mio solerte ingegno. Se spalanco gli illusori veroni a cui si affaccia la mansarda mio carcere e fornace, mia beffarda contenzione, se ventilo il salone cupido d’ombre e di intrattenimenti concertanti e di auguri, mi violenti già lo zampillo della creazione.


CXII a L.A. Quando esco la sera e faccio tardi, magari, mi diverto, canterino un animo mi sprizza nelle vene, mi segue a letto e salta nelle amene con me onde del sonno dei goliardi rintronati. Oltre il limite, supino, tra la veglia e il sopore mentre scivolo di soppiatto fremente - quasi rivolo -, sfila in parata la FelicitĂ sulla spiaggia incedendo col corteggio paredro delle tante deitĂ minori: Gioia, GratuitĂ , Delizia, tutte insieme si affollano al mio seggio, ma subito e di nuovo un giorno inizia.


CXIII a P.M. Non prevarranno porte dell’Inferno su questa mia, se per felice caso busserete, sbandati pellegrini, saltimbanchi, ribelli e clandestini, se l’ospite inatteso è il più gradito ancora a questa soglia, se di nuovo si apre a rifugio per i malandrini quest’anima che più non ha confini, antro sommesso, lepido e fraterno, che un brivido di assenso ha già persuaso, se aspetto ancora fate e cavalieri e congreghe invadenti senza invito al mio falò d’attorno e mi commuovo, se non esaurirò genio e mestieri.


CXIV a C.Q., E.M. & P.B. Non possono le dure il torpedone sagomate magioni dei patrizi bolognesi per prova intercettare neppure. Il giorno lungo di interstizi fuggevoli e taglienti alle persone separate riporta appena un rigo di quella che era stata basilare l’epopea di una vita. PiÚ non brigo per questo o quello scopo e già mi stanco solo a pensare a chi vorrei al mio fianco, ma astratto e personale esiste un luogo che porto dentro me, recinto in luglio di ritmi e rime in cui spento il subbuglio si fa bonaccia e mi consegna al rogo.


CXV a E.B. E «Le piacciono i viaggi?» mi informavo con mia sorella di una sua cliente eleggibile a donna della vita e «Che pensa dei versi e dei romanzi? Esce spesso la sera coi suoi ganzi al cinema, a teatro? Come schiavo tratta il suo uomo e, se la invita, vuole rose e biglietti oppure sente qualcosa dentro e gli apre lo sportello quando partono insieme?» «Non so dirti tutti i dettagli,» mi previene d’irti presentimenti «ma nel suo fardello c’è del pianto, c’è un sogno e molta gente, molte guerre e conforti.» «È sufficiente.»


CXVI a S.F. Sono triste perché ieri il Ministro del Tesoro è defunto, per i fondi di investimento, per la lira, il bollo dell’auto troppo caro (già un sinistro scrocchio presento come cupo sistro che minacci tracolli), per i mondi che collidono in alto, perché ingollo troppo cibo, perché un colloso bistro mi marezza gli albori, per le piogge acide, per la fine già prevista di questa civiltà, per le balene estinte, il piano oscuro delle logge ed altro ancora, ma più mi rattrista essere solo a sera in queste pene.


CXVII a S.A. Non mi va più di chi mi svende i giornispazzatura, superflui chi i rimpianti di eventi in cui non sono, in cui non c’entro; sono stanco di inutili ritorni a figure, carismi, volti santi da scongiurare invano. In preda sventro all’immaginazione nei piovorni cantoni della psiche i pochi o tanti sobbalzi della mia carriera e perde la saga il suo mordente. - Quale treno gongolante di sbuffi e fischi, pieno di entusiasmi novelli e nuove merde potrò prendere e poi tirare il freno? mi chiedo e, in più,: - Ci sarà sempre un treno? -


CXVIII a L.O. Malsana quando un’ombra il bello specchio religioso e vibrante degli affetti per un attimo solo nel suo cono investe e concupisce, non rinasce con lui l’intima luce. Dietro un vecchio muro che gli urti e i sentimenti ha retti, però, tengo un nasturzio, quieto dono di me. Resisto (e non so come d’asce rancorose si sfugga alla falange, che cosa incida e smagli la lorica dei cuori e non ricordo antica la lingua in cui si parlano), ma un Gange sofferto e ineluttabile di mille pire mi inonderà nelle pupille.


CXIX

Pochi sanno davvero la bellezza del mare a maggio, quando il pomeriggio si accavalla alla sera e non demorde ancora il giorno, quando gaie orde di muscoli, di seni e di costumi sfollano il bagnasciuga. Lenti i lumi tracimano solari l’osteriggio del cielo e tutto è pronto alla pienezza. Pochi sanno davvero quanto è bello il mare di settembre e il mulinello d’acque e di sabbia, incontri e di saluti sussurrati e si pensa già all’incerto rincalzo dell’inverno. È più deserto il mio mare, più scabri i miei minuti.


CXX a R. Mag. Furenti vaniloqui nella notte dei suicidi non mi hanno ancora spento, ma penso a quanto è stato duro farsi strato su strato e quanto devo agli arsi botti della fucina, quanto a lotte di addendi e sottraendi nel redento agone di chi amo e chi disamo. Chi mi ha dato un appiglio, chi il suo amo, chi tirarsi le ciglia, chi i profumi, chi pacchiano lo spasso dei costumi, chi partenze battenti, chi lo scialo di me, delle sostanze, chi lo strazio di perdersi, chi un porto. Vi ringrazio, miei complici, se ancora non esalo.


CXXI a E.P. L’arguta compagnia delle giulive ore soltanto, la brigata allegra che saluti dispensa, risa, inviti perduti come calici passiti nei piovaschi d’aprile colle dive sembianze immacolate mostra un’egra propensione al distacco. Incauti miti svende alla piazza, svende triti convenevoli e, al colmo, inopinato stende un languore, coltre lusinghiera di bei fiori purpurei e di bisso : teso, in punta di piedi, ho camminato io pure su quel manto e sotto c’era struggente e incontenibile l’abisso.


CXXII a M.P.R. L’arco di Sant’Arcangelo di notte può apparire e sparire a un solo crollo di pensieri o di palpebre. Concentro tutti i poteri e già ci vedo dentro quante sere grattate tante lotte con chi non vuole uscire, già mi affollo, piazza in disarmo, d’anime perdute, caravelle, pellicole, bevute svogliate. Il mio presente è zoppo, falciato da un’obliqua nostalgia : non sarà, forse, che ho vissuto troppo? Se diradano i cieli e muore l’Arte (sia l’una o sia quell’altra compagnia) nel teatro del poi non avrò parte.


CXXIII

Prima o poi sfiderò dell’emisfero opposto il quatto oceano, gli atolli lussureggianti al pelo delle fosse sgomente ed insondabili per scosse occulte al fondo e correrò l’intero vortice d’atti e sentimenti folli e toccherò con mano in me la fine di tutti i sogni, ingoierò le spine di compimenti cedui ad una ad una. Quali potranno arene di teatri, dove il meglio del mondo si raduna, e prose e versi e drammi il plateale contenere mio grido? Fra gli espatri che temo è questo che mi fa più male.


CXXIV a E.G. Zeppo di troppe cose il mio universo è calderone incenso che ribolle di battaglie mancate, di riverso orgoglio (ahimè), di opere mai scritte qualche busto d’Apollo, qualche terso specchio di mare non solcato, un molle senso di inadempienza, un già sommerso grido contro l’ingiusto e le garitte infrante, prolusioni, screzi, truffe spicciole e verghe d’empio rabdomante, sorrisi e sprezzi, calcoli e baruffe simpatiche, ma chi dal colmo pozzo, dove l’urgente scaccia l’importante, saprà pescare un ultimo singhiozzo?


CXXV

Nell’ufficio segreto in cui si imbatte solo per caso chi cerca scartoffie confuse e intarmolite che ingiallendo fanno a pezzi la storia e grette blatte decompongono eventi anch’io (alle loffie renitenze dell’ozio non mi arrendo) mi invento una mia trama di distratte palpitazioni e copio le iatture del Conte a Recanati e i bandi pure degli esuli romantici; le rime trafugo a chi le ha sparse: in me si esprime disincarnata foga di avventure, ma se un’ombra mi chiede perché scrivo non so nemmeno dirle perché vivo.


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