Pepeverde

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INTERVISTE e INTERVENTI

Rilettura dell’opera di De Amicis

Quel che oggi resta del Cuore Non ci sono bellezza e arte che compensino un unico istante di vera infanzia. Heinrich Böll

di David Baldini

Taluni libri sono definiti “classici” per la semplice ragione che non risentono dell’ingiuria del tempo. La loro longevità è, di conseguenza, la migliore garanzia nei confronti degli effimeri mutamenti imposti dalle mode e dai gusti del tempo. Giorgio Pasquali, ad esempio, circa un trentennio fa, scriveva: «Due anni or sono, che ne avevo sessantadue, dopo un intervallo di molti decenni, ho ripreso in mano Cuore di De Amicis per rileggerlo con un ragazzetto di ott’anni e mezzo, cui del resto non era nuovo»1 .

I

n questo caso, la ri-lettura dell’opera deamicisiana da parte dell’illustre filologo rappresenta senza dubbio – per l’originalità delle condizioni in cui era avvenuta – una sorta di verifica a «quattro mani», nella quale – immaginiamo – un ruolo non secondario dovette essere svolto dal «ragazzetto» (il nipote). Possiamo arguire che, in quella occasione, il “sessantaduenne” Pasquali abbia avuto modo di verificare – sia pure in modo “riflesso” – non solo le reazioni prodotte dalla lettura del libro in quel bambino, ma probabilmente anche in se stesso, anche se non ne conosciamo il giudizio. Ma, al di là degli aspetti privati, occorre anche tener conto di quelli pubblici. Ce lo ha ricordato Michele Serra in un articolo comparso su “la Repubblica” alcuni anni fa, dal titolo La maestra che lasciò l’eredità alla sua classe. In esso il giornalista vi commentava uno specifico fatto di cronaca riguardante la maestra abruzzese (di Chieti) Ilia Pierantoni, la quale aveva

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lasciato in eredità ad una sua vecchia classe del 1971 – una 1ª elementare di Orogna – venticinquemila euro. Il lascito comportava però l’obbligo, da parte dei destinatari, di rispettare due vincoli: quello di non poter usare la somma a titolo individuale e quello che essa fosse utilizzata dagli alunni – all’epoca signori poco più che quarantenni – per finalità esclusivamente be-

nefiche. A fronte di un tal episodio, Serra non ha esitato a parlare di «banalità del bene», parodiando così, con una ardita inversione di segno, la celebre espressione usata da Hannah Arendt con riferimento ad Adolf Eichman («la banalità del male»).2 Inoltre, riportando la notizia, Serra non ha potuto fare a meno di individuare – quale modello “archetipico” di riferimento dell’episodio – proprio l’Edmondo De Amicis di Cuore. Del resto, il riferimento letterario era quasi d’obbligo, se si pensa che in un altro articolo dello stesso giornale, un alunno, riandando con la memoria ai bei tempi andati, riportava un aneddoto – che più deamicisiano non si potrebbe –, sempre con riferimento alla


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