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IL SATELLITE AL GUINZAGLIO
COVER STORY
DI ANTONIO LO CAMPO
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UN SATELLITE AL GUINZAGLIO
DURANTE LA MISSIONE STS-46 FU ESEGUITA UNA DELLE PIÙ COMPLESSE OPERAZIONI DEL PROGRAMMA SHUTTLE
Racchiuso nella stiva dello Shuttle Atlantis, partito a fine luglio 1992 per la missione Sts-46, c’era il primo “satellite a filo”, il Tethered Satellite System (Tss-1), nato da un’idea italiana e realizzato nell’ambito di un programma congiunto Asi-Nasa. Nella stiva c’erano anche la piattaforma Eureca dell’Agenzia spaziale europea, che sarebbe stata rilasciata nello spazio per essere recuperata nove mesi più tardi da un’altra navetta, e altri esperimenti della Nasa per studiare gli effetti dell’ossigeno atomico sui materiali, ai fini della costruzione della Stazione spaziale che era allora in fase di progetto. Atlantis, con a bordo l’astronauta italiano Franco Malerba, salì su un’orbita circolare alta 425 chilometri per rilasciare il 2 agosto la piattaforma Eureca e poi discese a 288 chilometri, per iniziare il 3 agosto le operazioni di uscita del Tss-1. Il satellite costruito da Alenia Spazio (oggi Thales Alenia Space), capo-commessa per le industrie italiane, era “nato” a Torino. Costituito da una sfera di 1,6 metri di diametro, pesava 520 chilogrammi, 70 dei quali rappresentati dagli strumenti di bordo. Il Tss-1 era composto da tre moduli: quello di servizio, sistemato nella parte inferiore della sfera, ospitava i vari sottosistemi (alimentazione, controllo di assetto, elaborazione e trasmissione dei dati); il secondo modulo era il sistema di propulsione, che forniva la spinta per il rilascio, il ritiro e la stabilizzazione del satellite; il terzo modulo, alloggiato nella semisfera superiore, raccoglieva gli esperimenti italiani e statunitensi. La sua struttura interna era in nido d’ape d’alluminio, mentre gli otto pannelli di copertura a forma
» Il satellite Tss-1 rilasciato nel corso della missione Sts-46 (disegno di Mauro Gariglio).
» Il Tethered alla massima estensione raggiunta durante l’esperimento, legato al filo lungo il quale scorreva la corrente generata dal sistema.


» Il Tss-1 nella stiva dello Shuttle prima del rilascio.
di petali erano in lega d’alluminio e spessi un millimetro. Oltre ai due bracci telescopici, ciascuno lungo due metri, che uscivano in direzione opposta all’emisfero superiore del satellite, il Tss-1 disponeva di un braccio fisso lungo un metro, alla cui estremità alloggiavano 4,5 chilogrammi di sensori.
L’USCITA DEL SATELLITE
Il 4 agosto si alzava il traliccio alto quasi 12 metri, che sollevava il satellite al di sopra della stiva dello Shuttle. Il passo successivo era il distacco dei due cavi ombelicali che portavano uno l’energia e l’altro i comandi agli apparati del satellite. Quest’ultimo si rifiutò di staccarsi: la bassa temperatura dello spazio aveva bloccato la connessione. Ma dopo dieci tentativi diversi, compreso anche l’orientamento del sistema al Sole, con un’accensione combinata dei motori dello Shuttle e del satellite, il cavo riuscì a staccarsi. Finalmente il satellite, sotto la spinta dei due micromotori a gas freddo, cominciò a sollevarsi dal suo alloggiamento, dando inizio al suo viaggio appeso al filo. Dopo appena 10 centimetri, però, il Tethered era già fermo. La difficoltà, questa
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DI ANTONIO LO CAMPO
volta, sembrava essere nel sistema di avvolgimento del filo. I controllori di Houston decisero di riavvolgere il cavo per poi riprenderne lo svolgimento. L’operazione sembrava funzionare e il satellite si allontanò sino a 256 metri dallo Shuttle, quando per la terza volta arrestò la sua corsa. Il 5 agosto, azionando il meccanismo di rilancio, la tensione del filo salì oltre i livelli consentiti e tutto fu interrotto. Il tempo trascorso era ormai troppo e le riserve di combustibile del satellite erano in gran parte consumate dalle operazioni. Ora bisognava tentare il recupero del satellite. Due astronauti erano pronti per un’uscita nella stiva a riavvolgere manualmente il filo nel caso che il sistema automatico di recupero fallisse. Ma l’operazione automatica funzionò e il Tethered tornò nella stiva, con un coro di Alleluia da parte degli astronauti. Durante questo tempo, anche se il satellite non aveva raggiunto la distanza stabilita di 20 chilometri, tutti gli strumenti erano stati accesi e avevano lavorato, dimostrando di funzionare egregiamente assieme a tutti i sistemi del veicolo.
GENERARE ENERGIA CON IL CAMPO MAGNETICO TERRESTRE
Il cavo che univa la navetta al satellite aveva un diametro di 2,54 millimetri. Lungo 22 chilometri, pesava complessivamente 8,2 chilogrammi. Aveva una struttura a più strati costruita dalla Courtland Cable di New York con un’anima centrale attorno alla quale erano avvolti a spirale 10 fili di rame accostati, ciascuno di 0,16 millimetri di spessore. Il bilancio della missione, riguardante i due obiettivi principali, vale a dire la generazione di energia e la verifica del comportamento del filo, soprattutto nelle ultime fasi del recupero, doveva considerarsi positivo, nonostante il limitato rilascio del satellite. Il sistema riuscì infatti a generare una corrente elettrica di 2,3 milliampere con una tensione 40 volt, grazie al “taglio” delle linee di forza del campo magnetico terrestre da parte del filo, che procedeva alla velocità orbitale dello Shuttle. Una applicazione diretta dell’induzione elettromagnetica, a spese di un rallentamento (trascurabile) della navetta spaziale. Nel successivo esperimento Tss-2, eseguito dalla missione Sts-75 nel 1996, il filo porterà il satellite fino a 20 chilometri di distanza, anche se per un periodo breve, generando fino a un ampere di corrente. Questi esperimenti dimostrarono che l’idea dei sistemi a filo, suggerita tanti anni prima dal fisico Giuseppe Colombo, funzionava, anche se le difficoltà tecnologiche sconsigliarono di ripetere l’impresa su larga scala. E fu quindi un grande successo dello spazio made in Italy.
L’INDUSTRIA ITALIANA MOBILITATA PER IL TSS
Responsabili della conduzione del programma Tss erano gli ingegneri Gianfranco Manarini per Asi e Bruno Strim per Alenia Spazio. Il lavoro era stato realizzato al 95 per cento in Italia: Alenia Spazio aveva coordinato le undici industrie coinvolte, aveva realizzato il progetto e provveduto all’integrazione e alle prove, aveva costruito la struttura, il sistema di controllo termico, il cablaggio, gli apparati di telemetria e comando e il controllo d’assetto, con elementi forniti da Matra (giroscopi) e dalle Officine Galileo (sensori elettro-ottici). La Laben di Milano (poi confluita in Thales Alenia Space) aveva realizzato il sistema computerizzato di acquisizione e trattamento dati a bordo del satellite e le attrezzature elettroniche per provare il satellite a terra. Fiar aveva preparato gli apparati per la distribuzione della potenza a bordo fornita da quattro batterie argento-zinco, con una carica che poteva durare 35 giorni. Un altro sistema era quello di propulsione: costruito da Bpd-Difesa e Spazio, impiegava azoto freddo, per non inquinare l’ambiente intorno al satellite. Il gas era contenuto in un serbatoio sferico di titanio della capacità di 60 chilogrammi che alimentava l’intero impianto, formato da otto propulsori distribuiti in diversi punti della sfera. Alla sua base, attorno all’aggancio del filo, se ne trovavano due set, ognuno dei quali sfociava in due ugelli di scarico sistemati a croce. Dalla cupola superiore del satellite spuntavano due bracci telescopici che recavano alle estremità dei sensori realizzati da Rinaldo Piaggio, che però non sono stati collaudati nel corso della missione.