Viaggio nella valle del Conca

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1) P.G. Pasini, Piero e i Malatesti. L’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole (1992) 2) E. Grassi, Giustiniano Villa poeta dialettale, 1842-1919 (1993) 3) P.G. Pasini, Il crocifisso dell’Agina e la pittura riminese del Trecento in Valconca (1994) 4) A. Bernucci - P.G. Pasini, Francesco Rosaspina “incisor celebre” (1995) 5) P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Medioevo al Rinascimento (1996) 6) P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Barocco al Novecento (1997) 7) A. Fontemaggi - O. Piolanti, Archeologia in Valconca. Tracce del popolamento tra l’Età del Ferro e la Romanità (1998) 8) P.G. Pasini, Emilio Filippini pittore solitario 1870-1938 (1999) 9) E. Brigliadori - A. Pasquini, Religiosità in Valconca. Vicende e figure (2000) 10) P.G. Pasini (a cura), Arte ritrovata. Un anno di restauri in territorio riminese (2001) 11) L. Bagli, Natura e paesaggio nella Valle del Conca (2002) 12) A. Sistri, Cultura tradizionale nella Valle del Conca. Materiale e appunti etnografici tra Romagna e Montefeltro (2003) 13) O. Delucca, L’uomo e l’ambiente in Valconca (2004) 14) P. Meldini, La cultura del cibo tra Romagna e Marche (2005) 15) P.G. Pasini, Passeggiate incoerenti tra Romagna e Marche (2006) 16) C. Fanti, Pietre e terre malatestiane (2007) 17) P.G. Pasini, Atanasio da Coriano frate pittore (2008) 18) P.G. Pasini, Il tesoro di Sigismondo e le medaglie di Matteo de’ Pasti (2009) 19) G. Mosconi, Valconca cento anni con la banca popolare (2010) Sono in vendita nelle migliori librerie. Alcuni titoli sono esauriti.

Euro 35,00 i.i

Anna-Maria Guccini

VIAGGIO NELLA VALLE DEL CONCA

La COLLANA EDITORIALE della Banca Popolare Valconca (dal 1992)

Anna-Maria Guccini

VIAGGIO NELLA VALLE DEL CONCA

MINERVA EDIZIONI

Le parole e le immagini di questo libro sono espressione del desiderio di raccontare un viaggio che ha lasciato un segno importante nella vita di chi lo ha compiuto e che, come spesso accade, ha sentito l’esigenza di trasmettere il coinvolgimento prodotto dalle sensazioni immediate, le emozioni improvvise, i pensieri che raggiungono e immaginano tempi, paesaggi, architetture ed aspetti di vita che da secoli non ci appartengono, ma ai quali sentiamo in qualche modo di far parte e che ci catturano. Un insieme di aspetti che, nel territorio della Valle del fiume Conca, si sono condensati in una moltitudine di presenze e dove, le pietre che danno forma a fattorie fortificate, rocche, castelli ed abbazie, unite alle forme e ai colori dei campi coltivati, raccontano, e poi coinvolgono mente e cuore. Un coinvolgimento che inevitabilmente porta al sentire di una necessità di conoscenza più profonda di questa valle e che si può raggiungere attraverso i mezzi che abbiamo a disposizione: ricerca, lettura, cartografia storica, foto aeree e foto da terra. E per il valore delle informazioni in questo modo ottenute, unite al racconto delle proprie emozioni, l’autrice si augura che altri, come lei, decidano di scoprire o riscoprire l’avvincente complessità di contenuti che il territorio e l’architettura di questa valle conservano e di rimanerne ugualmente coinvolti e affascinati.

Anna-Maria Guccini, nata nell’Appennino tosco-emiliano, ancora prima della frequenza della facoltà di architettura, sviluppa l’interesse per lo studio del territorio e la sua evoluzione storica. Un interesse poi concretizzato attraverso collaborazioni con istituzioni ed enti diversi tra i quali: Comuni, Parchi storici, il Settore Pianificazione territoriale e l’Assessorato Cultura della Provincia di Bologna e l’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione EmiliaRomagna, per i quali ha condotto ricerche e studi tematici, realizzando pubblicazioni e mostre, presentazioni a convegni e giornate di studi. Alla passione per lo studio e la ricerca sul paesaggio affianca quello per la fotografia, il disegno e la ricerca archivistica. All’interno di quest’ultima, ha reso consultabile l’archivio dell’architetto Giuseppe Mengoni, autore della Galleria di Milano. Di questo archivio è direttore dal 2002 e ne cura la produzione scientifica, organizzando tra l’altro, giornate di studi, ma anche corsi e pubblicazioni finalizzati alla conoscenza dell’architettura e del paesaggio. Ha al suo attivo saggi in riviste e volumi miscellanei, la partecipazione a convegni e la realizzazione di diverse mostre. Fra le monografie pubblicate ricordiamo: Leggere il paesaggio-Conoscere per vedere-La valle del Santerno, Imola, 2005; Tipologie edilizie rurali storiche dell’Appennino bolognese-Persistenze ed evoluzioni formali e volumetriche ricorrenti, Argelato, 2008; Vita e lavoro in Appennino-La presenza femminile, Porretta Terme, 2009; Pane e mulini, Imola, 2009; Fare l’Italia ridisegnare la città: Giuseppe Mengoni, vita tra gli eventi, vita di eventi, Imola, 2011.


viaggio nella valle del conca



Anna-Maria Guccini

viaggio nella valle del conca


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La collana editoriale della Banca Popolare Valconca arriva ad un nuovo traguardo, il volume numero venti. Nella libreria di casa la striscia formata dalla copertina di color nero dei libri della Banca Popolare Valconca si allunga, diventa perfettamente riconoscibile. Ogni volume ricorda un periodo della nostra vita. Ogni volume indaga su questo nostro amato territorio fra Romagna e Marche. Ogni volume è stato scritto come contributo originale da autori locali. Solo una Banca locale, nata dal popolo, poteva inventare qualcosa che è di grande spessore culturale eppure fruibile, divulgativo, accessibile a tutti. Certo, in un periodo così tumultuoso ed incerto, come è quello che stiamo vivendo, sembra poca cosa continuare su questa strada intrapresa vent’anni fa. Troppo grande sembra essere il differenziale fra i problemi del nostro tempo e questo nostro tenacemente essere attaccati alle cose quotidiane e reali, alla nostra storia, alla nostra cultura. O forse è proprio questa la strada. La crisi può essere subita o ignorata. Oppure, in maniera molto più umana, può essere una provocazione, un’opportunità per chi voglia, partendo da esperienze reali, ricominciare a costruire. La realtà, anche quando appare difficile, può mettere in gioco energie positive. La strada per attraversare la crisi è vivere la realtà come una provocazione che ridesta il desiderio e la domanda. E, quindi, che dire di questo libro “Viaggio nella Valle del Conca”? Ben venga lo sguardo dell’autrice che ci permette di riscoprire cose antiche e nuove della nostra amata Valconca attraverso gli occhi di chi non vive in questo territorio. è una provocazione a non dare per scontato ciò che vediamo tutti i giorni. Scrive Josè Saramago a proposito del viaggio: “Bisogna vedere quel che non si è visto, veder di nuovo quel che si è già visto,… Bisogna ritornare sui passi già dati...per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre.” è solo accettando la categoria del viaggio (e che cos’è in fondo la vita se non questo lungo viaggio avventuroso?) che gli occhi si aprono e si scopre che ciò che si guarda con routine è, invece, bello e affascinante. Cosa è necessario perché gli occhi continuino a guardare sempre con attenzione e desiderio? Ci vuole la voglia di lasciare scombinare le nostre certezze e tutte le volte ricominciare. Anche qui soccorre un poeta, il grande Eugenio Montale che, dopo avere narrato di un viaggio preparato in ogni particolare conclude: “E ora che ne sarà del mio viaggio? Troppo accuratamente l’ho studiato senza saperne nulla. Un imprevisto è la sola speranza. Ma mi dicono che è una stoltezza dirselo.”

Avv. Massimo Lazzarini Presidente Banca Popolare Valconca



Indice

I. Dentro le mura Per difesa e per prestigio: il castello di montefiore II. Dall始alto del castello: il paesaggio oltre le mura

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III. Leggere il paesaggio paesaggi su tela e su carta, paesaggi dal cielo e dalla terra

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IV. Forma urbis Dalle carte, dal cielo e dalla terra, dalle colline al mare: forma e rappresentazione degli insediamenti

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Note

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Bibliografia

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Viaggio nella valle del conca

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INTRODUZIONE AL VIAGGIO Immagini, emozioni e brevi note di storia lungo i percorsi delle architetture murate della Valle del Conca I testi introduttivi dei libri, benché posti in apertura, vengono quasi sempre scritti alla fine, dopo aver lavorato ai testi veri e propri che costituiscono il corpus del lavoro. Per questo motivo l’introduzione di fatto non è che una postfazione, un consuntivo che tende a spiegare il senso del lavoro compiuto e le ragioni che hanno indotto a scegliere l’argomento che poi è lo specifico dell’opera. Così è stato anche per il contenuto di queste pagine, in cui il soggetto coincide con il desiderio di riuscir a far convergere, nello stesso percorso, aspetti, anche molto differenti fra loro, colti in secoli diversi di Storia. Aspetti legati all’architettura e al paesaggio, resi in parte concreti dall’obiettivo della macchina fotografica e dalla determinazione di conoscerli e coglierne l’essenza dopo esserne rimasti coinvolti. E ancora, l’aspirazione di poter allacciare una pluralità di temi in una trama attraverso la quale poter “rivedere” alcuni aspetti legati all’architettura e alla vita del periodo temporale percorso. Farne intravedere le figure più potenti e quelle che popolavano le campagne, attraverso immagini di quotidianità e di eventi, all’interno di castelli, borghi, fattorie fortificate ed inserite sullo sfondo del lento mutare del paesaggio. Questo viaggio di conoscenza nella Valle del Conca è frutto di una serie di quesiti posti a priori sull’architettura e i luoghi di questa valle, ma ha trovato la sua consistenza attraverso la curiosità accesa – talvolta dominata dal caso – dalle espressioni architettoniche dei luoghi e dei paesaggi che vi si possono cogliere, così come dal desiderio di documentarne aspetti diversi attraverso la scrittura e la fotografia. La seconda, più immediata nella percezione, che non si ritrova gregaria alla prima ma la completa, diventa perfino primaria nel cogliere aspetti e momenti che per mezzo delle parole magari troveranno completezza. Quello che un viaggiatore prova nelle scoperte che gli riserva il percorso è una complessità di emozioni come meraviglia, stupore, disapprovazione, partecipazione. Proprio perché emozioni, però, esse sono spesso suscettibili del desiderio di poterle comunicare e condividere, di poter far “vedere” ciò che è stato visto e che ha affascinato. Un fascino sprigionato anche solamente da combinazioni di sfumature cromatiche, dalle atmosfere, da sguardi senza confine, oltre che da contenuti e significati propri del soggetto. Contenuti come quelli emanati con forza coinvolgente dalle strutture fortificate che, in questa parte della Romagna, hanno radici profonde. Per questa motivazione ho desiderato che architetture e momenti di vita dei tempi delle “architetture murate”, assieme, perdessero un poco del loro distacco temporale e un poco museale, aspirando di ritrovare, seppure per poche sfumature, il clima che li aveva prodotti e, nel caso degli edifici, pensati e poi voluti in quel modo preciso; realizzati grazie alla genialità e al lavoro dell’uomo e poi diventati proiezione del modo di vivere della società di quei tempi. Inizialmente, infatti, per i contenuti di queste pagine era stato pensato uno sviluppo un poco diverso. Soggetti storici come nuclei e insediamenti, case rurali e viabilità, dalla costa all’entroterra, sarebbero stati letti in modo abbastanza sistematico nel loro aspetto architettonico e di relazione con il paesaggio. Poi, nel percorrere la valle, le idee sono mutate. In esse è subentrato il desiderio di raccontare l’interesse e le emozioni provate durante il viaggio, con l’architettura non più essenzialmente indagata al fine di catalogare e descrivere perché, all’interno di questo taglio di ricerca, si può perdere la vibrazione di vita che la produsse, e che, attraverso le diverse strutture formali generate, ha plasmato quei luoghi e quel paesaggio che tanto hanno coinvolto. Forme e colori, che si strutturano in immagini alle quali è affidato molto del compito di raccontare. E, ancora alle immagini – sia disegnate che fotografiche – concluso il viaggio, è stato assegnato l’ulteriore compito di suggerire possibilità diverse per la comprensione di paesaggio ed insediamenti: sono i rilievi dei periti e quelli dei cartografi, le carte militari e le foto aeree fino alle riprese da elicottero – spesso così vicine alle rappresentazioni pittoriche – e, infine, gli scatti fotografici da terra. Mezzi ormai a disposizione di tutti 9


e che ci permettono di conoscere il percorso temporale di questo paesaggio e con esso le trasformazioni che nei secoli si sono succedute. Sono modifiche che si concretano tra estremi diversi: dal messaggio di forza e importanza del possente castello di Montefiore al mosaico composto dal diverso taglio e coltivazioni dei campi. Al loro interno, una gamma di sfumature che si compongono attraverso aspetti ed elementi che, qui, hanno contrassegnato il periodo storico della signoria dei Malatesti. Rocche, torri, castelli, fattorie fortificate, aree boscate o diversamente coltivate che si appropriano di tutte le sfumature neutre e calde della pietra e del cotto, del verde e del dorato, dei colori del legno e della terra, raccontando, a chi desidera ascoltare, dell’antico rapporto tra l’uomo e l’ambiente naturale, dello sfruttamento e del rispetto. Parlare di quest’estremo lembo della terra di Romagna, incuneato tra quelle di Toscana e delle Marche e poi, ad est, contenuto dalle acque del Mare Adriatico, non è cosa semplice. Proprio perché territorio scrigno di testimonianze che i tempi hanno colmato, il desiderio di conoscerne il percorso secolare si è concretato in studi che vi hanno ricercato la presenza dell’uomo dai primordi della sua vita; hanno individuato i segni della sua conquista da parte di Roma attraverso le testimonianze della suddivisione del territorio coltivato e delle strade costruite, per giungere fino a tutto il periodo medievale e al Rinascimento. Poi, il racconto di un passato più lontano è continuato fino a giungere ad un tempo più vicino, con studi incerniati sugli ultimi due secoli che hanno raccolto una testimonianza di tempi espressa dai valori e dalle usanze della cultura popolare e da un’architettura, loro manifestazione concreta, non più legata a forme importanti ma a quella – comunque di valore – sia sparsa sui campi che aggregata in piccoli nuclei. Abitazioni di piccoli proprietari e contadini, che vivevano sul podere che coltivavano e, oggi, ormai sempre più abbandonate e sostituite da tipi edilizi con caratteri tipicamente urbani. Un’architettura semplice, in pietra, legno e cotto, che per lungo tempo è stata elemento distintivo di questo paesaggio e che oggi, sempre più spesso, si presenta abbandonata o restaurata senza il rispetto che proviene dalla conoscenza, quasi una caricatura dell’essenzialità di forme, tecniche e materiali, che per secoli l’ha contraddistinta. Allo sguardo e alla ricerca questo territorio si offre denso di significati e l’architettura – com’è nel suo essere –, è contemporaneamente sia testimone che prodotto materiale di conoscenze e attività umane

Nella pagina precedente: particolare di flora muricola sul castello di Montefiore Conca.

Antica casa rurale, viabilità poderale e campi coltivati nei pressi di Casarola. (San Clemente)

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trasmesse nel tempo, sia espressione di organizzazione sociale, politica ed economica. E secondo questi presupposti essa, in qualsiasi sua espressione, diventa la struttura formale della storia di ogni luogo. Una storia che possiamo iniziare a conoscere attraverso la lettura di edifici monumentali, nuclei, insediamenti, case sparse, edifici religiosi, strade e ponti e poi nelle tecniche costruttive, nelle forme e nei materiali. Inseguendo questo punto di vista, il cammino intrapreso sui percorsi dell’architettura della Valle del Conca è un insieme di quegli aspetti della Storia, anche molto diversi tra loro, che, in questi luoghi, l’architettura racconta. Potranno quindi essere le emozioni e le domande suscitate da una grande sala affrescata all’interno di una rocca che aprono al desiderio di conoscere chi in quel luogo viveva, incontrava altre personalità del suo stesso lignaggio, amministrava la giustizia e offriva e condivideva momenti conviviali con un’arte culinaria così diversa dalla nostra; potrà essere, ancora, il desiderio di capire – percorrendone le mura e incontrando un cumulo di pietre rotondeggianti – come, da quella rocca, ci si poteva difendere da una possibile aggressione; e ancora, in che modo, da quelle stesse mura come da altre similari, si potesse dominare con lo sguardo l’entroterra fino a quando i colori della terraferma si arrendevano all’azzurro del mare, provando sensazioni di potenza sul territorio e sugli uomini o di timore per un possibile attacco o forse, solo il gusto della bellezza di ciò che gli occhi guardavano. Uscendo poi dal perimetro murato di rocche e castelli e percorrendo le vie che li collegavano, riunendoli in un fronte comune a difesa dei confini e del potere, potranno essere fattorie fortificate, torri e case sparse a raccontare momenti della loro storia e di quella del territorio coltivato. Un territorio in cui le diverse epoche storiche si sono stratificate, lasciando segni geometrici o irregolari; sistemi di coltivazioni antiche che sono leggibili anche da lontano, nelle diverse sfumature di verde o dorato dei campi e in quelle degli alberi: dall’argento dell’ulivo e del salice a quello intenso degli olmi e dei castagni fino a quello brillante e ormai solitario dei pochi plurisecolari gelsi rimasti, testimoni di un’economia familiare sostenuta dalla donna e della quale forse si è già persa memoria. Un percorso, il mio, certo non erudito come quello che poeti, scrittori, pittori e musicisti, provenienti da tutta l’Europa, compivano scendendo nella nostra penisola, realizzando “il viaggio in Italia”, ma

Quinte di paesaggio da una finestra del castello di Montefiore Conca.

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in ogni modo, come quelli, colmo delle sensazioni immediate del piacere della contemplazione e da quello, più complesso, della comprensione di manufatti architettonici, luoghi e paesaggi frutto di una conoscenza più approfondita. Forse questo potrà sembrare un viaggio disorganico, non pianificato e poco coerente per una lettura dei racconti della storia di questa valle. Ma è un viaggio, un’esperienza di conoscenza personale. È, in un certo senso, un’esplorazione come quella compiuta da quei viaggiatori che, dal Cinquecento a tutto l’Ottocento, vivevano aspetti della Storia assieme alle emozioni suscitate da ciò su cui il loro sguardo si posava: paesaggi, architetture, reperti archeologici, sculture e dipinti fino a tutto ciò che poteva suscitare interesse, suggestioni e domande. E che poi, per ricordare, con frasi e disegni avrebbero appuntato sui loro “taccuini di viaggio”. Come loro, anch’io ho realizzato il mio taccuino di viaggio. Ho cercato di fissare impressioni, emozioni, domande e risposte, con frasi scritte in modo essenziale come sono quelle che servono per poter annotare ciò che ci ha colpito, per poi poterlo ritrovare nella memoria e nel cuore. E, assieme alle frasi, immagini, non in questo caso schizzate dalla mano esercitata e sapiente di architetti o pittori di epoche trascorse, ma fissate dalla tecnologia di un apparecchio fotografico. Profetico per me, è stato l’auspicio conclusivo contenuto nella prefazione di Lucio Gambi al lavoro di Oreste Delucca1, quando egli si augura che il lettore si aggiri per le stanze delle dimore riportate alla luce dalla documentazione d’archivio e ne tocchi materialmente le pareti e poi, in un crescendo di situazioni da scoprire, desideri giungere a conoscere fino l’ultimo degli annessi come le fosse da grano e le cisterne, perché vi è garantita la promessa di un viaggio affascinante. Io, anche se troppo brevemente, l’ho compiuto. È stato un avvicinamento a momenti del passato per mezzo dei frutti della ricerca d’archivio, della lettura di testi, dell’immersione emozionante in antiche dimore e fattorie fortificate, del percorrere il territorio cercando di comprendere e conservare le immagini legate alla sua storia e alle mie emozioni.

I colori delle coltivazioni e il taglio dei campi nei pressi di Cella tonda. (San Clemente)

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Il viaggio, come Lucio Gambi aveva promesso, è stato affascinante. Oggi, esattamente venti anni dopo quelle parole, anch’io mi auguro che la mia esperienza possa accendere il desiderio di percorrere questi luoghi e volerli conoscere piĂš profondamente, oppure anche solo di riavvicinarli, per scoprire aspetti sempre nuovi di questa terra. Terreni coltivati da Montegridolfo.

Antica casa rurale di tipo riminese in direzione di Agello e del mare.

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I. Dentro le mura

Per difesa e per prestigio: il castello di Montefiore

Da Morciano le promesse della valle e l’impatto con il castello di Montefiore Conoscevo di passaggio questa valle. Poi, percorrendo il suo territorio e inseguendo la conoscenza del paesaggio, fino a cercare di entrare nello spirito delle sue architetture murate, il desiderio di conoscerla ha coinvolto la mente e il cuore. Quando, dopo l’intensità urbana della costa e di Cattolica si giunge nei pressi di San Giovanni in Marignano, ci si spiega perché, ormai da secoli, questo luogo sia considerato la porta ideale della Valle del Conca. Da qui, infatti, ci si forma la prima forte impressione sulla valle e s’inizia ad intuire il coinvolgimento che eserciteranno la diversità e la ricchezza di contenuti di un territorio che condensa, in uno spazio fisico limitato, le testimonianze visibili di molti secoli di storia. Poi, poco oltre, proseguendo verso l’entroterra, è dall’insediamento di Morciano che, da visuali diverse, si concretano le promesse della “porta della valle”. Da questo luogo lo sguardo è catturato da volumi di pietra articolati, rigorosi e possenti, quasi surreali che emergono in alto, tra il verde fitto degli alberi, quasi contrapposti alla linea del mare. È il primo immediato messaggio che la storia di questi luoghi comunica a chi guarda: Montefiore, una rocca o meglio un castello, che si erge compatto e vigile e, nonostante l’imponenza, in rapporto armonico col paesaggio, perché quasi un’estensione della roccia su cui sorge. Un’architettura fortificata, che nell’intenzione di chi inizialmente lo aveva

fatto erigere, e poi di coloro che in seguito lo avevano ampliato, doveva costituire uno degli elementi, il più importante, a protezione del loro territorio e del loro potere ma che, per il fascino che sprigiona, rimase negli occhi e probabilmente anche tra i disegni del taccuino di viaggio di un pittore come Goivanni Bellini2. Inizialmente Montefiore fu un presidio armato, probabilmente eretto a difesa dei confini, una salvaguardia organizzata e condivisa con un sistema di torri, rocche e castelli che, da posizioni strategiche, spaziavano sul territorio circostante per evitare e prevenire possibili intrusioni esterne come quelle delle signorie confinanti desiderose di estendere i loro territori. La sua storia costruttiva si articola negli anni; al corpo iniziale della rocca furono aggiunti altri volumi, e alla funzione difensiva si aggiunse quella residenziale. In questo modo la rocca si trasformò in castello; alla difesa si aggiunse il prestigio di una residenza che comunicava all’intorno e agli ospiti di rango la potenza dei Malatesti. Una famiglia con la quale la Valle del Conca è diventata territorio di rocche, castelli, torri e fattorie fortificate. Nel viaggio compiuto in questo territorio, la conoscenza di Montefiore assume un duplice aspetto: è, contemporaneamente, sia la scoperta della sua unicità sia, – attraverso gli aspetti che lo accomunano con le altre strutture fortificate del territorio –, mezzo ed esempio per comunicare come ogni castello ha una sua storia e ogni

Il castello di Montefiore Conca visto da Morciano.

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Viaggio nella valle del conca Giovanni Bellini, Madonna con Bambino (ca.1480-1490), particolare con il castello di Montefiore (Londra, national gallery). Particolare con il castello di Montefiore e Borgo Novo, in un dipinto esistente presso il santuario della Madonna di Bonora (Montefiore Conca).

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castello ha una storia condivisa, come ad esempio, in questa valle, quella dei potenti Malatesti. I signori del castello, di tutti i castelli Anche se questo castello dall’inizio del ’500 iniziò ad avere passaggi di potere, i signori dei quali parla ogni pietra del complesso – come quelle di quasi tutte le architetture murate della valle – sono i Malatesti.

Questa Signoria nasce e si consolida tra il XIII e il XVI secolo e governerà su buona parte della Romagna, sviluppando il suo punto di potere più stabile e potente nelle terre riminesi. Tra Medioevo e Rinascimento questa casata è tra le più importanti d’Italia, una delle grandi famiglie che riuscì ad imprimere un segno rilevante sia nella storia politica ed economica sia in quella culturale. È in questa terra che essa dà vita ai suoi più grandi personaggi, tra cui Sigismondo Pandolfo, condottiero di fama ma anche signore illuminato ed amante delle arti, famoso per aver lasciato segni di straordinario valore architettonico come Castel Sismondo e il Tempio Malatestiano progettato la Leon Battista Alberti. Nel 1377, proprio tra le mura di Montefiore nacque Galeotto Novello Malatesta, detto “Belfiore”. Dopo di lui la proprietà passò al fratello Carlo e poi al nipote Galeotto, al quale successero Pandolfo Malatesta, Malatesta Ungaro e Sigismondo Pandolfo. E con Sigismondo, i Malatesti giunsero al declino del loro potere. Nel Natale del 1460, infatti, lo stesso Sigismondo fu scomunicato come eretico da Papa Pio II. Durante il dominio malatestiano, nell’entroterra riminese sorsero rocche imponenti, castelli e borghi fortificati in posizioni strategiche sul territorio collinare tra Romagna, Marche ed Adriatico, al fine di costituire un solido sistema di difesa del malatestiano per dominio e per proteggerlo in modo particolare dagli attacchi dei Montefeltro, signori di Urbino. All’inizio del ’500, la pressione dei Montefeltro sui confini, i conflitti con il papato, i contrasti e le divisioni interne alla famiglia portarono alla fine del loro potere e con esso, le terre e i luoghi fortificati passarono sotto dominazioni diverse, per poi ritornare, fino all’Unità d’Italia, sotto quella papale. Ma l’impronta della signoria dei Malatesti sarebbe rimasta per sempre su questa


Dentro le mura

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Viaggio nella valle del conca Nella pagina precedente: il castello di Montefiore.

terra. Castelli e rocche avrebbero continuato a parlare di questa famiglia, raccontando di un periodo storico in cui grandi modificazioni erano state impresse nel territorio, sia attraverso l’architettura sia nella gestione agraria del suolo, determinando forme di paesaggio ancora oggi percepibili. In particolare, sarebbe stata l’architettura fortificata a parlare di quei tempi, delle lotte e del potere, dei personaggi e della cultura, della vita quotidiana nei castelli e nel contado. Rocca, castello e poi cava di pietra

Castello di Montefiore, la salita verso la seconda porta.

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Il termine rocca, deriva dal latino verruca, cioè rupe, in quanto queste costruzioni venivano localizzate su picchi, generalmente rocciosi e isolati, scelti per le loro naturali caratteristiche difensive. È un termine, come sostiene Cassi Ramelli, che dovrebbe essere usato solo per fortificazioni adatte ad ospitare unicamente la guarnigione ed il castellano, senza appartamenti signorili. In pratica però molti castelli, vengono definiti rocche.

La parola castello, deriva sempre dal latino, dal diminutivo di castrum, quindi un castello è un piccolo castrum. Nel Medioevo castrum significava “luogo fortificato”, quindi scelto e allestito in maniera tale da consentire ad un gruppo armato di resistere ad un nemico di fronte al quale, in campo aperto, avrebbe avuto scarse se non nulle possibilità di vittoria. I termini di castello e castrum si applicano a due situazioni assai differenti: un abitato fortificato, nel quale risiedono molte famiglie ed eventualmente una guarnigione, oppure un edificio o un recinto con edifici nel quale abita solo la famiglia proprietaria ed una guarnigione. È chiaro che le forme dei due tipi sono molto diverse. Generalmente, si utilizza il termine castrum per definire un “abitato fortificato”, come era in uso nel Medioevo, ed il termine castello solo per la “dimora fortificata” di un persona importante con la sua guarnigione. Il complesso di Montefiore, ha ricoperto diversi di questi aspetti e racconta la sua destinazione di presidio e residenza: un “abitato fortificato” che includeva una “dimora fortificata” e oggi alternativamente definito sia rocca sia castello. La nascita di questo presidio fortificato è stata a lungo fissata intorno alla metà del secolo XIV, ma i recenti scavi archeologici3 hanno dimostrato l’esistenza di strutture databili al XIII secolo, ritrovate al di sotto del muro di vela del mastio, oggi non più esistente. La prima notizia relativa al Castrum Montis Floris individuata dalla ricerca storica, risale al 1170, quando Papa Alessandro III lo concesse in enfiteusi alla Chiesa di Rimini. In seguito, dal “Registro di lettere dei Malatesta”, sappiamo che il castello fu costruito da Malatesta Guastafamiglia (1299-1364), che promosse il primo intervento finalizzato a rinforzare la rocca e a trasformarla


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anche in palazzo residenziale. Già nel 1347, dieci anni dopo l’inizio dei lavori da lui promossi, la costruzione risulta degna di ospitare il Re d’Ungheria con tutta la sua corte e, successivamente, i Papi Gregorio XII e Giulio II, l’Imperatore di Boemia Sigismondo e innumerevoli nobili e Signori del tempo. Come si è visto, dopo Galeotto Novello Malatesta, detto “Belfiore”, la proprietà passò al fratello Carlo e poi al nipote Galeotto, al quale succedettero i figli di Malatesta Guastafamiglia: Pandolfo II (1325-1378) e Ungaro (1327-1372), che effettuano un ulteriore ampliamento ed abbellimento del castello. All’Ungaro si lega la committenza del ciclo di affreschi che decorano la “Sala dell’Imperatore”, un’opera attribuita al pittore bolognese Jacopo Avanzi4. Nel corso del XV secolo si registra poi un ulteriore intervento di migliorie da parte di Sigismondo Pandolfo che non apportò variazioni di rilievo alla volumetria complessiva. Il complesso attuale è il risultato di trasformazioni avvenute nel suo II e III periodo di vita, concretizzate in diverse fasi architettoniche, la più antica delle quali risale alla metà del XIV secolo, mentre la più recente al pieno secolo XV. Con certezza, il castello di Montefiore non solo è legato ma è anche espressione della potere della famiglia Malatesta, che ebbe cura particolare per palazzi e fortezze, apportando loro frequenti modifiche per renderle più sicure. Dopo la scomunica di Sigismondo avvenuta nel 1460, Montefiore, nell’anno 1462, passò sotto il dominio papale. Nel 1514 fu concesso in feudo al principe macedone Costantino Comneno e nel 1517 a Lorenzo di Piero de’ Medici, per ritornare nel 1524 al Comneno, che qui morì sei anni dopo. Nel 1578 Montefiore risulta soggetto alla Provincia ecclesiastica di Romagna, che non ebbe una gran cura del castello,

se già nel 1600, per mancanza di manutenzione, vennero documentati i primi crolli. Nei secoli seguenti rimase di fatto abbandonato e considerato luogo di rifornimento di pietra, tanto che all’inizio del ’800, come attestò anche Arrigo Boito, risultava privo di copertura e pavimentazione5. Il percorso del suo recupero inizia nel secondo dopoguerra, con un discutibile intervento del Genio Civile; buona parte delle strutture dell’attuale castello sono frutto della ricostruzione realizzata in quegli anni. Da quel periodo sarebbe dovuto trascorrere ancora diverso tempo per giungere agli scavi archeologici che, recentemente, hanno riportato alla luce ambienti e reperti che aprono alla conoscenza di aspetti fino ad ora poco noti dell’organizzazione quotidiana della vita nel castello. La complessa e articolata storia di Montefiore non si esaurisce certamente in queste poche righe. Assieme a quello eretto nella città di Rimini, al quale forse prestò

Castello di Montefiore, proiettili per bombarda.

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inganni e congiure. La sua storia è stata scritta e ormai conosciuta. Il viaggiatore può accoglierla, approfondirla e desiderare di andare oltre, cercando di penetrare negli aspetti della vita quotidiana di questo luogo, fondendo le informazioni degli storici con le proprie sensazioni e suggestioni, le prime di supporto alle seconde nella ricerca e poi nella scoperta di situazioni di vita che queste pietre, trasformate in architettura, possono ancora raccontare.

Castello di Montefiore, ingresso alla sala dell’imperatore.

La scoperta del castello

il suo genio anche Filippo Brunelleschi, può, infatti, essere considerato simultaneamente sia un luogo di presidio armato dove ci si allenava anche a guerreggiare, sia un luogo dove il signore viveva, anche se saltuariamente, spesso organizzando banchetti per festeggiamenti e ospiti di rango, ma anche dove si potevano ordire

Una delle aperture che illuminano la sala dell'Imperatore.

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È quasi con impazienza che si sale la gradinata in pietra che collega le tre porte del castello, desiderosi di entrare nel cuore di una vita che possiamo solo immaginare, appropriandoci del racconto di parole scritte, oppure, adattando alla nostra immaginazione rappresentazioni dipinte, affrescate, perfino incise. Spazi e luoghi temporali dove non abbiamo potuto però sentirci avvolti e come contenuti nei volumi e nelle atmosfere di alte sale affrescate o costretti in ripide scale, fino a sentirci liberati, attraverso gli occhi, verso un paesaggio del quale non è possibile fissare esattamente i confini. Ma questo castello ha in serbo coinvolgimenti e meraviglie inaspettati. Terminata infatti la salita e giunti nel cortile e poi di nuovo superate decine di gradini, ma questa volta interni, si giunge all’ultimo piano del castello e a due grandi sale: la “sala dell’Imperatore” e quella “del trono”. Entrambe imponenti come dimensioni, probabilmente facevano sentire la propria limitata umanità a chi vi era ammesso per motivi giudiziari o per la perorazione di cause, oppure agli ospiti meno influenti in visita. In modo particolare però, è la prima che conquista in modo singolare. Qui, la congiunzione mentale ed emotiva con un’epoca di ormai quattro secoli fa diventa concreta. Tutto pare contribuire a creare suggestioni. Sembra, infatti, che anche la por-


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ta d’ingresso alla sala sia stata realizzata così minuta per esaltare la magnificenza del grande spazio nel quale immette. Di fatto, entrati nella sala, le pareti che si riuniscono in alto nella volta ogivale ci fanno misurare con la nostra limitatezza umana, ma oggi non schiacciano, anzi, raccontano. Lo fanno attraverso la luce che entra, con raggi luminosi che si inclinano in modo diverso dalle finestre e che la illuminano di una luce allora sapientemente cercata; lo fanno attraverso le stesse pareti e la copertura che plasmano uno spazio in cui, oggi, sicuramente viviamo sensazioni diverse dai secoli nei quali la vita vi si svolgeva piena, quasi sempre sotto il sole estivo; continuano poi il racconto attraverso i pochi resti dei colori e degli affreschi che confermano come la volta originariamente fosse dipinta d’azzurro e trapuntata di stelle. Una sala che possiamo immaginare magnifica, per impressionare chi vi entrava o vi era ammesso, espressione del potere e del fasto. Singolari, in questo ambiente, sono anche gli affreschi. Raro nel suo genere laico per i tempi nei quali fu realizzato, è quello collocato sulla parete a destra della porta, una delle due pareti strette e realizzato nel primo decennio dopo la metà del secolo XIV, su incarico di Malatesta Ungaro. È la rappresentazione di una scena di battaglia con fanti alle porte di una città, al di sotto della quale è raffigurata la figura imponente di un uomo armato che regge lo scettro nella mano destra e la spada nella sinistra: probabilmente l’imperatore, figura ancora piena di mistero, al quale è dedicata la vasta sala. Su di lui, gli storici hanno avanzato ipotesi diverse: potrebbe essere Tarcone, figlio di Laomedonte re di Troia, cugino di Ettore e di Enea e, sulla base di una leggenda divulgata nella seconda metà del Trecento, presunto capostipite della famiglia dei Malatesti; oppure, potrebbe trattarsi anche di Ettore, di Enea o di Scipione l’Africano che per Sigismondo Pandolfo Malatesta acquisterà un ruolo determinante. Sulla

parete di fronte esisteva un altro affresco, ora staccato e collocato nella Sala del trono. Di questo, la parte che ci è pervenuta raffigura una battaglia tra cavalieri, con alcuni che, in fuga, vengono inseguiti. Entrambi sono quasi sicuramente opera del bolognese Jacopo Avanzi – pittore formatosi sulle esperienze giottesche padovane e collaboratore di Altichiero negli affreschi della Cappella di San Giacomo a Padova – e realizzati nella seconda metà del Trecento6. Un pittore di valore, quindi, per un castello importante come Montefiore, che, assieme, e più di quello di Gradara, come afferma P.G. Pasini, furono oltre che rocche pressoché imprendibili, sontuose residenze estive.

La sala dell’imperatore con, sullo sfondo, i resti degli affreschi attribuiti a Jacopo Avanzi. Il volume attuale corrisponde a due sale originariamente sovrapposte come testimoniano le immorsature delle travi del solaio sulla parete.

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Immaginare un banchetto nella sala dell’imperatore Chi scriveva di cucina nel periodo medievale Nell’alto Medioevo l’arte culinaria antica trova un primo veicolo di trasmissione nei trattati di medicina e nei grandi repertori di erbe, piante e animali, con il loro corredo di consigli dietetici e valutazioni dei prodotti capaci di esercitare effetti positivi sulla salute umana. In questa tradizione si colloca il Regimen sanitatis, elaborato nel XII secolo dalla celebre Scuola medica Salernitana, nella quale confluiscono preziosi contributi della medicina araba ed ebraica, e attraverso queste, anche le conoscenze della medicina e della farmacopea del mondo antico. Nei successivi secoli XIV e XV l’opera vede numerosi ampliamenti, come i celebri Theatrum sanitatis e Tacuinum sanitatis in medicina, spesso arricchiti da miniature dedicate agli alimenti e alle loro principali caratteristiche7. Ai primi del Trecento si colloca il Liber ruralium commodorum del bolognese Piero de’ Crescenzi, prezioso per i suoi contributi sulle erbe medicinali e commestibili, sulla frutta, le carni, le uve e i vini. Si dovrà però giungere all’inizio

Tacuinum sanitatis in medicina, miniatura sulla preparazione dell’agresto, molto usato nella cucina medievale e sul trasporto dell'olio di oliva. (Oesterreichische Nationalbibliothek, Vienna).

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del XIV secolo per vedere la comparsa di opere espressamente dedicate alla cucina, come l’anonimo Enseignemenz qui enseignent a apareiller toutes manieres de viandes, del 1306, che contiene una sessantina di ricette. A circa il 1330 risale il Liber de coquina, interessante soprattutto per le ricette a base di legumi e vegetali. Allo stesso periodo appartiene anche l’opera di cucina forse più conosciuta e consultata del Medioevo, il Viandier di Guillaume Tirel detto Taillevent, cuoco del re di Francia Carlo V. Ad essa dobbiamo le prime informazioni precise sui banchetti, le pietanze che vi venivano servite e gli entremets, o intermezzi di intrattenimento degli ospiti fra una portata e l’altra. In Italia fra il Tre e il Quattrocento emergono due importanti ricettari: il Libro della cocina, di un autore anonimo e, un poco posteriore, il Libro per cuoco, anch’esso opera anonima. Di grande importanza, sopratutto per comprendere l’organizzazione del banchetto signorile quattrocentesco, col suo elaborato e fastoso cerimoniale a base di simboli e allegorie, è il Fait de cuisine di Maître Chiquart, cuoco del duca di Savoia Amedeo VIII, ricco come nessun'altra opera precedente di insegnamenti e in-


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formazioni pratiche. Il Rinascimento porterà, specialmente in Italia, a una produzione di testi come il Libro de arte coquinaria di Mastro Martino, della seconda metà del XV secolo, poi ripreso dal De honesta voluptate et valetudine del dotto Bartolomeo Platina. Entrambi aprono la strada ai grandi trattati cinquecenteschi sulla cucina e l’elaborata arte del banchetto nobile del Panunzio e di Bartolomeo Scappi.

Tavoli posati su cavalletti e una preziosa tovaglia bianca Il banchetto medievale non era finalizzato solo al mangiare, ma anche ad offrire una dimostrazione di potere, ricchezza e magnanimità. In un contesto nobiliare la sua funzione era in prevalenza sociale e serviva a sottolineare l’appartenenza di chi lo offriva ad una elite privilegiata. Ne erano segni esteriori il lusso e lo splendore

Banchetto medievale con scena di cucina (Andrea Delitio, Le nozze di Cana, particolare, c.1480-90. Atri, Cattedrale).

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di cui amavano circondarsi le grandi famiglie: ambienti decorati, stuoli di servitori, stoviglie in terracotta verniciata, stagno e argento, bottiglie e bicchieri in vetro prezioso. Ad essi si aggiungeva anche il complesso cerimoniale del servizio che era parte integrante dell’apparato scenografico del banchetto. Nel periodo medievale e ancora per molto tempo dopo, nei diversi giri di portata, conosciuti anche come servizi, venivano messe in tavola un certo numero di pietanze, fra le quali i commensali potevano scegliere ciò che preferivano. In linea di principio i servizi erano tradizionalmente ripartiti in alimenti liquidi, asciutti e carni e nell’ultimo veniva servita l’“uscita”, che segnava il termine del pasto e il momento in cui si iniziava a sparecchiare i tavoli. Fra un servizio e l’altro era una pratica costante intrattenere gli ospiti con musiche e spettacoli di cantastorie, giocolieri

Banchetto nuziale con musici. (Francesco Zavattari e figli, Il matrimonio di Teodolinda e Agilulfo, 1444, chiesa di San Giovanni Battista, Monza).

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e saltimbanchi, oppure, nei banchetti più prestigiosi, con rappresentazioni – a volte fastosissime – di fatti storici, mitologici e allegorici, che miravano a celebrare il signore oppure la famiglia o il personaggio in onore dei quali si teneva il banchetto. I tavoli erano posati su cavalletti o banchetti (da cui il nome assunto dal convito), e venivano smontati al termine del pasto. I commensali sedevano di solito su panche, rese più comode da cuscini e disposte solo sul lato esterno dei tavoli, per lasciare libero quello interno sia per il servizio sia per poter assistere agli intrattenimenti. Le mense erano coperte da una tovaglia bianca, sulla quale poteva essere posato un secondo drappo di stoffa. Non esistendo ancora i tovaglioli, i commensali pulivano mani e bocca con la tovaglia stessa, che nei banchetti più sontuosi poteva anche essere cambiata dopo ogni servizio.


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Tra il personale spiccavano, oltre al maestro di cucina, il coppiere, lo scalco e il trinciante che si occupavano delle bevande e delle carni. Seguivano gli addetti al servizio della tavola e quelli che si occupavano della cucina. Coppiere e scalco erano quasi sempre cavalieri, e, al pari del cuoco, accompagnavano il loro signore in tutti i suoi spostamenti. Su tutti soprintendeva il maestro di casa, il quale, per l’importanza del suo servizio, doveva, più degli altri, essere colto, leale e pronto a subordinare l’interesse personale alle esigenze del suo signore. Inoltre, era tenuto ad essere sempre al corrente di chi era di passaggio e, in modo riservato, doveva informare il signore affinché questi potesse decidere quale accoglienza eventualmente riservare al possibile ospite8. Fasti e nefasti dei banchetti dei Malatesti Alla morte di Carlo Malatesta, avvenuta nel 1429, gli successe il nipote Galeotto Roberto, il Beato, che però preferì dedicarsi alla vita monastica, ritirandosi nel convento dei Frati Minori di Sant’Arcangelo dove morì tre anni dopo. La crisi dinastica che seguì e che influì negativa-

mente sia sulla vita della corte che dell’intera città di Rimini, fu risolta con grande abilità e decisione da Sigismondo. Già dall’inizio della sua signoria egli consolidò il suo prestigio personale con imprese di guerra in diversi luoghi della penisola. Fu condottiero dei veneziani, al servizio dei Papi e dei fiorentini, rimanendo profondamente influenzato dall’ambiente di Cosimo de’ Medici. Da quest’ultimo, ai contatti militari, politici ed economici, Sigismondo aggiunse anche quelli culturali ed artistici che di fatto in lui produssero nuovi valori che influirono profondamente anche sulla vita di corte. Non sono note descrizioni dirette dei lavori da lui effettuati su Montefiore, ma possiamo pensare che si muovesse come per Castel Sismondo che, come afferma P.G.Pasini, «volle che fosse insieme fortezza e palazzo, residenza della guarnigione e della corte, segno della potenza e della supremazia del signore sulla città e monumento insigne per la città». Le poche cronache relative a feste e celebrazioni della famiglia dei Malatesti, fanno eccezione per i due matrimoni di Sigismondo e per quello del figlio Roberto con Elisabetta da Montefeltro, queste ul-

Danze durante il banchetto nuziale della regina Teodolinda. (Francesco Zavattari e figli, Il matrimonio di Teodolinda e Agilulfo, 1444, chiesa di San Giovanni Battista, Monza).

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time avvenute a Rimini l’anno 1475. Per queste ultime, dalla cronaca del Broglio9, emergono lo sfarzo degli addobbi di Castel Sismondo, di strade e piazze e degli apparati per il banchetto, con i tavoli per i commensali allestiti nelle sale del castello e al suo esterno, del numero degli addetti al servizio fino alla disposizione degli ospiti secondo il grado d’importanza. È un matrimonio festeggiato a Castel Sismondo, ma possiamo pensare che in misura ovviamente più contenuta, il cerimoniale del pranzo fosse seguito anche per visitatori di alto rango ospiti di Montefiore. Il resoconto del Broglio, dopo aver riferito dello sposalizio, descrive come furono approntate le tavole, elenca l’ordine di portata delle vivande e la disposizione dei convitati, annotandone i nomi e le cariche e conclude affermando come la festa si concludesse con il ballo «il quale durò gran tempo del dì, conseguendo ogni degno piacere10». Il cronista, parla di ogni degno piacere, ma la tavola malatestiana, famosa per abusi ed eccessi, godeva anche di una cattiva fama che le derivava dall’essere spesso luogo deputato per intrighi, prepotenze, tradimenti ed inganni, per giungere in alcuni casi fino all’omicidio. Una fama della quale approfittò anche il Papa Pio II, quando, scomunicando Sigismondo nel Natale 1860, tra le altre imputazioni lo accusò di crapule, gozzoviglie ed ubriachezza anche in tempo di digiuno. Nelle “fosse da butto” il ricordo dei conviti Dopo centinaia di anni, oggi, lentamente, dalla terra e dai detriti sono emersi stalle, magazzini, cucine, e piccoli locali che raccontano della vita quotidiana del castello tra il XIV e il XVII secolo. Ed è proprio dai più umili di questi spazi che oggi giungono informazioni preziose su quegli aspetti di quotidianità o di momenti speciali legati in modo parti26


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colare alle funzioni della cucina di ogni giorno, ai momenti conviviali di festa e rappresentanza e alla sfera privata. Dalle “fosse da butto” – contenute strutture interrate formate da una camera completamente chiusa, priva di accesso, dotata di piccole caditoie o di condotti a botola attraverso i quali veniva scaricato tutto ciò che veniva considerato rifiuto –, la pazienza degli archeologi ha recuperato resti di piatti, ciotole, brocche, bottiglie da dispensa o da tavola, bicchieri e calici fino ai residui dei pasti. I pezzi ritrovati, che raccontano storie di cucina e di pranzi, sono sostanzialmente di “ceramica comune” trecentesca e di quella più raffinata da mensa, in uso tra il Quattrocento e il Seicento. Dalla ceramica comune, di lavorazione più grossolana e di uso quotidiano in cucina, si distinguevano i recipienti destinati a contenere acqua o vino che avevano invece una lavorazione più accurata conosciuta come “ceramica depurata”. Tra questi oggetti alcuni spiccano per qualità e raffinatezza di forme e colori come il grande boccale, della metà del Trecento, decorato con le due mani che si stringono, accompagnate dalla scritta fides, motto molto diffuso nella simbologia di corte del periodo, quale augurio d’amore e fedeltà. Assieme ad oggetti della quotidianità, da una delle caditoie delle “fosse da butto” di Montefiore, furono gettati anche i frantumi di una coppia di piatti da esposizione in maiolica istoriata, che probabilmente facevano parte di un più ampio ciclo di ceramiche da parata; risalenti all’inizio del Cinquecento i due piatti raffigurano scene a tema erotico ed allegorico che raccontano di un’altra era per la storia di questo castello, con la fortuna dei Malatesti ormai tramontata e sostituita dal potere pontificio11. I reperti recuperati sono quindi piatti, ciotole e scodelle, bottiglie e bicchieri che adornavano la tavola del Quattrocento, un secolo verso la cui metà inizia ormai

ad affermarsi il servizio da tavola, inteso come corredo decorato in modo omogeneo, e atto a fornire l’occorrente per ogni singolo commensale. Oggi, i materiali contenuti in queste fosse, sedimentati e perfettamente stratificati, non solo hanno permesso di ricostruire minuziosamente le abitudini di vita del castello tra il XIV e il XVII secolo ma anche ad illustrare collegamenti commerciali ed economici con le potenze vicine. Ne sono testimoni alcune monete coniate nelle zecche di Firenze, Siena, Lucca e Bologna, magari chissà, perdute da qualche convitato e fatte scivolare, assieme a cocci ed avanzi di cibo nella “fossa da butto”.

Nella pagina a fianco: ciotola con il monogramma di S. Bernardino della seconda metà del XV secolo. Piatto da esposizione in maiolica istoriata con decorazione di satiro a pesca degli inizi del XVI secolo. Piatto da esposizione in maiolica istoriata con decorazione di tipo erotico.

In questa pagina: Boccale del XV secolo, con mani che si stringono e la scritta Fides. I quattro reperti sono stati ritrovati nelle “fosse da butto” durante gli scavi archeologici nel castello. (Museo del castello di Montefiore Conca).

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ii. Dall’alto

del castello: il paesaggio oltre le mura “Il paesaggio, (...) quella tela ovunque molto complessa che l’organizzazione storica dello spazio ha disteso sopra la superficie della terra”. (Lucio Gambi)

Lasciati alle spalle gli ampi volumi e le intense suggestioni mosse dalla magia della Sala dell’Imperatore – che attraverso notizie storiche e immaginazione ha ricreato nella mente aspetti di vita conviviale –, un altro luogo attende, sicuramente, di nuovo, per sorprendere. Come avvolti dalle pareti, con movimenti quasi obbligati alla salita da gradini incassati in uno stretto involucro in mattoni, si continua a salire ancora più in alto, e, in un certo qual modo, ci si sente quasi fisicamente costretti ed impazienti nell’attesa di qualcosa che è ancora impossibile prevedere. Non prevedibile, come sarà lo spazio nel quale, terminata la salita, lo sguardo potrà liberarsi e respirare, svincolato dai legami che la terra impone alla nostra umanità. Spazio che annulla parte dei suoi confini, quasi allargato oltre il limite in cui il cielo si fonde con il mare e solo le morbide curve degli Appennini possono sbarrare, per poco, la fuga degli occhi e del pensiero. È questo, che in modo quasi improvviso appare oltre il basso muro, ultimo limite sulla visuale di un paesaggio che, secoli fa, poteva acuire la sensazione di potenza del signore del castello, ma che oggi suscita un’indefinibile sensazione di libertà, permessa dall’articolazione dei terrazzi sulle mura che consentono allo sguardo di non avere barriere, se non quelle dei monti, del mare Adriatico e del cielo. Uno spazio, in cui si colgono la meraviglia, la complessità e in parte anche gli abu-

si di e sul paesaggio che ci circonda. Un insieme di forme, volumi, colori, un documento storico vivo che narra contemporaneamente di vicende fisiche ed umane, il risultato di un lungo, continuo ed incessante processo di trasformazione e stratificazione, dove sono impresse le fasi evolutive della civiltà di questo territorio. Il viaggio: limiti nello spazio e nel tempo A questo punto del cammino, quando lo sguardo inizia a distendersi su un paesaggio frutto di secoli di interventi umani e sui diversi segni che questi hanno lasciato, è necessario definire due aspetti di questo viaggio. Ogni studio, approfondimento o viaggio su di un territorio è necessariamente obbligato da confini geografici e da limiti temporali. Anche questo percorso si è dovuto adeguare alla stessa necessità. Per quanto riguarda lo spazio è stato semplice: confini ideali erano quelli che delimitano il territorio attorno al percorso del fiume Conca, dalle colline fino al luogo in cui le sue acque dolci incontrano quelle del mare. Il primo estremo temporale, anche se solo per mirati ricorsi, è stata l’Età di Mezzo, in pratica il momento di passaggio tra la “romanità” e quelli che a lungo sono stati definiti i “secoli bui”. Un periodo al cui inizio si assiste alla progressiva separazione e contrappo­sizione tra l’Occidente e l’Oriente, al lento dissolvimento delle struttu­re‑cardine dell’Impero

Dai terrazzi del castello di Montefiore Conca il paesaggio oltre le mura, fino al mare e all’orizzonte.

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Viaggio nella valle del conca Vista dal castello di San Clemente verso nord, Gemmano e San Marino. L’ampia visuale permette di cogliere la molteplicità della frammentazione poderale, delle coltivazioni agrarie e degli edifici, sia di antica che di recente costruzione, sparsi sul territorio coltivato.

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Romano in Italia, nelle Gallie, in Britannia e nella penisola Iberica, alla profonda decaden­za e regressione di ogni settore della vita civile, che portò anche ad una limitata attività umana sul terri­torio. Come secondo estremo è stato considerato l’inizio del periodo rinascimentale quando la signoria malatestiana in pratica cessò di esistere. L’area temporale principalmente interessata è quella del XV secolo, che ha in sé tutto quanto in architettura è stato prodotto dai Malatesti. In effetti, pur riconoscendo che qualsiasi suddivisione nella continuità storica è soltanto un espediente di comodo, è indispensabile ammettere che, in questa parte di territorio, l’area storica medievale si esprime in una straordinaria completezza di soggetti e contenuti, che concorrono a definire gli aspetti prevalenti del paesaggio. Un percorso articolato che si appropria delle testimonianze che ci comunicano rocche e castelli, piccoli nuclei e fattorie fortificate, fino alle ormai poche antiche case sorte sui poderi e che punteggiano il territorio coltivato attorno

l’architettura fortificata. Ovviamente, dal momento che ogni periodo è anche la conseguenza di quello che lo ha preceduto, del quale conserva sia l’anima, che parte degli elementi visibili che questa ha generato, si sono resi necessari riferimenti ai caratteri salienti che la conquista e la permanenza di Roma ha impresso in questa parte di territorio. La terra: dissodare , disboscare, bonificare e coltivare

La società di Roma, dalle origini sino alla fine della repubblica, fu prevalente agricola. Sono testimoni di questa sua caratteristica anche i diversi e fondamentali trattati di agricoltura prodotti in quel periodo, che ci permettono di cogliere l’evoluzione delle coltivazioni, l’impostazione dell’impresa agricola fino al diverso utilizzo del suolo. Nel più antico testo di età repubblicana, il De agricultura di Catone viene descritta l’or­ganizzazione di una piccola azienda condotta con preparazione ed accortezza,


Dall'alto del castello: il paesaggio oltre le mura

direttamente dal domi­nus, un capofamiglia legato alla ter­ra, rispettoso dei doveri civili e religiosi e amante della semplicità del­la vita in campagna. Nel secolo successivo, nel De re rustica di Varrone, la trattazione agronomica si fa più scientifica, basandosi su cognizioni naturali­stiche, climatiche e pedologiche e dove il razionale ordine del paesaggio agricolo viene visto soprattutto in funzione dell’utilitas; una corretta gestione della villa poteva infatti accrescere la rendita produttiva del fondo e il va­lore economico delle campagne. Il poderoso De re Rustica di Columella è invece una preziosa testimonianza della situazione del periodo dell’impero. Columella, oltre che letterato, era un appassionato agricoltore e nella sua opera, che rimase a lungo un punto di riferimento, elenca con ricchezza di particolari i criteri per la scelta del podere, illustra le tecniche agricole, anche le più specialistiche e giunge fino alle proporzioni dei fabbricati, valutate in rapporto all’estensione del fondo. Nelle pagine del suo trattato, accanto alle testimonianze dei pro­gressi tecnici in

agricoltura, si può leggere anche l’evoluzione della piccola azienda condotta in latifondo direttamente dal do­minus, dove il nuovo proprietario è generalmente un patrizio di recente ricchezza che non pone nella gestione della proprietà agricola un interesse particolare. Un disinteresse che diventerà diffuso e che sarà una delle premesse che porteranno alla graduale decadenza di quell’economia agricola che era stata motivo di prosperità nei secoli precedenti. Dalla cronaca di Columella si può comprendere come inizino a manifestarsi quei feno­meni di degrado del paesaggio dovuto all’abban­dono dei terreni di pianura e ai disboscamenti dei pendii collinari, con conseguenze di squilibri e dissesti che, nei secoli succes­sivi alla caduta dell’impero romano, diventeranno una delle prime cause dello spopo­lamento della campagna e del ritorno a forme di paesaggio primitive. Una situazione che accomunò buona parte dei territori dell’impero, compresa questa parte della Romandiola, come allora era definita.

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Viaggio nella valle del conca Nella pagina a fianco: vista su una casa rurale di tipo riminese in rovina, campi di grano, vigne e ulivi prima e attorno la “tomba” di Agello e poi fino all’orizzonte e al mare.

Il castello di San Clemente, il territorio e le coltivazioni circostanti.

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Nei tempi che seguirono, caratterizzati da un progressivo impoverimento, nella Valle del Conca ritroviamo villae e tumbae sparse un po’ in tutto il territorio: alcune su posizioni rilevate come Pietrafitta e Marignano, altre nel piano, lungo la direttrice della via Mesoita che collegava il castello di Conca con il forum Morzani – il mercato di Morciano – e con le vie di traffico dell’entroterra. Giunti verso la seconda metà del XIII secolo la loro dislocazione fu soggetta ad una sostanziale trasformazione dovuta a cause diverse, come la decadenza dell’antico capoluogo di Conca, sconvolgimenti di carattere naturale e trasformazioni del territorio, queste ultime derivate sia da nuove forme di coltivazione sia da ulteriori terre disponibili alla coltura. Fra il XIII e il XIV secolo, infatti, ad opera di alcuni monasteri (San Vitale di Ravenna, Sant’Apollinare in Classe, San Severo in Classe, Santa Maria di Pomposa) venne programmato un

imponente piano di dissodamento, disboscamento e bonifica delle terre comprese fra i fiumi Ventena, Conca e Tavollo che implicò e favorì lo spostamento degli antichi abitati, provocando anche sostanziali modifiche nei percorsi viari. Le denominazioni dei fondi agrari attraverso l’utilizzo di fitotoponimi come selve, cerreto, farneto o idrotoponimi come conca vecchia e laghi, esprimono l’antico paesaggio naturale e termini come giardino e paradiso nuovi aspetti conseguenti alla bonifica. È in questo vasto disegno di riconversione agricola che si attua l’abbandono dell’insediamento di Marignano di Castelvecchio, la creazione ex novo nella pianura risanata dalla bonifica, in vicinanza del torrente Ventena, del castello di San Giovanni in Marignano (Castelnuovo) e, nel tratto costiero a poca distanza dal mare, la fondazione del castello di Cattolica; due nuovi insediamenti che nel Basso Medioevo diventeranno poli della concentrazione


Dall'alto del castello: il paesaggio oltre le mura

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Viaggio nella valle del conca Contrasti cromatici tra terra arata, macchie arborate, appezzamenti diversamente coltivati, vigneti ed ulivi.

demografica. Su San Giovanni in Marignano graviterà, infatti, la riorganizzazione del territorio circostante – originariamente caratterizzato da ampie zone paludose, terre non dissodate e boscaglie – e reso particolarmente fertile dalle bonifiche, mentre Cattolica, per la felice ubicazione costiera troverà il suo ruolo come necessario sbocco al mare per l’esportazione di preziose derrate agricole come cereali e vino, prodotte nella zona confinante.

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Per questa caratteristica di suolo altamente produttivo, a partire dal Trecento si svilupperà per il territorio di San Giovanni in Marignano la fama di un’alta produttività agricola, che finirà per identificarne il capoluogo come il “granaio dei Malatesti”. Lo stesso castello, fortificato fin dalla sua costruzione – e potenziato da Sigismondo Pandolfo –, poteva infatti essere visto come un enorme contenitore frumentario, capace di proteggere il “te-


Dall'alto del castello: il paesaggio oltre le mura

soro” cerealicolo depositato in numerose fosse ipogee, scavate all’interno della cortina difensiva. Difendersi dentro le mura: incastellamento, torri, palazzi, “tombe” Castelli e incastellamento: la protezione nel borgo Dalla sua comparsa sulla terra l’uomo iniziò a costruire la sua abitazione nell’ambiente naturale, modificandolo con il lavoro e adattandolo alle sue necessità, ricavandone gli alimenti necessari per la sopravvivenza sua e degli animali. Ai primordi della sua vita, scegliendo il luogo in cui insediarsi, lo racchiuse con un recinto per proteggersi e per proteggere i propri animali. Iniziò a trasformare il suolo lavorando la terra, dissodando, vangando e seminando, tracciandovi sentieri, compiendo i primi disboscamenti per procurarsi il legname necessario alla costruzione di un rifugio contro le avversità del clima. In questo ciclo mai interrotto, solamente dilatato, in ogni tempo l’uomo ha continuato ad avere necessità, vere o presunte, di protezione personale e dei propri beni

e di conseguenza, ogni epoca storica, con differenti problematiche ed esigenze, ha richiesto e prodotto adeguamenti e soluzioni diversificate per i sistemi di difesa. Tra il IX e il XVII secolo, possiamo assistere ad una parabola nella quale, la necessità di protezione di chi viveva in modo isolato nella campagna che coltivava, lo porta ad avvicinarsi al castello, luogo di protezione per eccellenza. Durante questo periodo, all’inizio del Trecento, si assiste ad un parziale ritorno verso la vita in campagna, ma sempre con la protezione di mura, torri o palazzi fortificati, opere diverse di difesa che esprimevano un timore ed un senso di insicurezza che si attenueranno solo verso la fine del Seicento. Il primo e più evidente esempio della necessità di protezione a causa di guerre, scorrerie e violenze si coglie nell’incastellamento. In questo fenomeno sono confluiti due distinti processi: da un lato la concentrazione attorno al castello della popolazione rurale prima dispersa nelle campagne, dall’altro la necessità di realizzare difese adatte a proteggere il nuovo insediamento che andava sviluppandosi attorno al fortilizio. Nasce così il borgo, in spiccato

Il borgo sviluppato dentro le mura del castello di Montefiore Conca.

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Viaggio nella valle del conca

contrasto con la città ancora distaccata dal territorio rurale, sia per gli aspetti agricoli che per quelli artigianali e produttivi. Il borgo, diventato parte del castello, mantiene una caratteristica rurale, ma la vita di questi centri non è scandita unicamente dalla coltivazione dei campi. A partire dal IX secolo, ciascuno di questi villaggi dispone almeno di una bottega del fabbro, di un laboratorio per la tessitura, di una conceria e una falegnameria e, più o meno nei pressi, di un mulino. Bisogna giungere verso la fine del XV secolo, con un protrarsi fino al XVII, per vedere il progressivo abbandono della protezione fornita del castello, che ormai aveva esaurito la sua funzione, per una migrazione verso i centri urbani. Il processo di incastellamento che riguardò tutta la penisola, ha avuto il suo picco nel X secolo, in tempi che vedevano il regno italico in crisi e le terribili incursioni degli Ungari. Per il territorio della Valconca, probabilmente si può risalire al tempo in cui faceva parte di quella provincia delle Alpi Appennine di cui ci parla Paolo Diacono e che era stata organizzata dal governo bizantino per difendere l’Esarcato dalla pressione dei Longobardi stanziati nella pianura padana e in Toscana12. Anche se la Valle del Conca non era certamente la via di collegamento più frequentata tra la pianura padana e il territorio aretino, è verosimile che facesse parte del complesso difensivo e che, quindi, vi fossero state realizzate fortificazioni più o meno efficienti che potevano servire come punto di riferimento per la popolazione circostante13. In relazione al loro scopo di salvaguardia, l’ubicazione di rocche e castelli è sempre stata individuata con grande attenzione e, ad esclusione di quelli di pianura, sempre edificati in posizioni elevate, su colli, picchi emergenti e crinali. Testimoni di questa scelta sono i toponimi ricorrenti che nella valle contengono la parola monte: Monte Colombo, 36


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Montegridolfo, Montescudo. Logisticamente, rocche e castelli erano poi costruiti non molto distanti in linea d’aria e tra loro erano perfettamente visibili. Una visibilità necessaria, che permetteva la possibilità di scambio di segnalazioni sia diurne che notturne per mezzo di fumo e fuochi. Agli inizi del XIII secolo il territorio della Valle del Conca e i suoi castelli erano frammentati tra signorie ed autorità diverse. Montescudo apparteneva ai Carpegna; la Chiesa di Ravenna possedeva i castelli di Gemmano e Montecolombo; la Chiesa di Rimini quelli di San Savino, Onferno e Saludecio; i Canonici di Rimini possedevano Mon-

tefiore; l’Abate di San Pietro di Rimini aveva la proprietà di Montegridolfo, mentre Mondaino apparteneva all’Abbazia di San Gregorio in Conca. Questa suddivisione, mentre sicuramente stimolò il rafforzamento dei castelli, in guardia l’uno contro l’altro, impedì lo sviluppo omogeneo dei collegamenti viari sia tra i diversi luoghi fortificati, sia tra gli insediamenti sul territorio14. Le notizie sulla datazione della rete difensiva, abbastanza frammentarie, diventeranno più precise all’inizio del XIV secolo, con il consolidamento, nella valle, del potere della famiglia dei Malatesti, che realizzerà le proprie opere fortificate tra il XIV e XV secolo.

Nella pagina a fianco: Monte Colombo, la porta d’ingresso al castello vista dall’interno. Montegridolfo, porta d’ingresso al castello.

Particolare della Carta della Legatione della Romagna dell’Abbate Filippo Titi. Probabilmente derivata dall’impianto di A. Magini del 1598, in essa sono individuati tutti i castelli della valle del Conca, l’Abbazia di San Gregorio, la via Flaminia e la strada: Coriano, Gemmano, Montefiore, Mondaino. Pubblicata a Roma nell’anno 1694, nel volume: Mercurio Geografico, ovvero Guida Geografica in tutte le parti del mondo (...).

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Viaggio nella valle del conca Nella pagina a fianco: tre immagini della “tomba” di Agello a confronto: l’inserimento nel circostante paesaggio coltivato, l’impianto planimetrico racchiuso tra le mura rilevato nel Catasto Calindri (Archivio di Stato, Rimini) e la torre ricostruita.

Piero de’ Crescenzi, De agricoltura istoriato, Venezia, 1504. Rappresentazione schematica di “tomba” o fattoria fortificata con elementi costruiti interni ed esterni, coltivazioni, allevamento di animali e aspetti di vita quotidiana.

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Vivere in campagna protetti in palazzi, torri e “tombe” Nel territorio della Valle del Conca, nel secolo XV oltre alle abitazioni rurali propriamente dette, erano presenti altre costruzioni: i palazzi, le torri e le “tombe”. Ciò che li accomunava era la caratteristica di essere elementi fortificati. Si tratta di tipi non sempre ben classificabili, ma per i quali possono valere alcune considerazioni di base. Oreste Delucca15 definisce il palazzo come un’entità edilizia meno articolata della tomba, anzi spesso ne può fare parte; in sostanza è una casa-forte, ma sempre una casa, un elemento distinto da altre costruzioni; talvolta può essere equiparato al columbario, che, sostanzialmen-

te, corrisponde alla torre e alla casa-forte di un mulino. La “tomba” ricopre invece le caratteristiche della villa fortificata che possono estendersi fino a quelle di un piccolo borgo rurale; quando è sinonimo di palazzo, rappresenta comunque una dimora significativa e quando lo è di torre si inserisce in un nucleo che presenta funzioni diversificate. Ciò che in ogni caso le accomuna è la predisposizione a difendere gli abitanti della campagna, dal momento che costituiscono luogo di rifugio nei momenti di pericolo. Parlando dei palazzi, in modo generico si può affermare che sorgono in un periodo in cui la città non ha ancora iniziato ad avere un ruolo di predominio sul territorio, che presenta ancora una grande


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Viaggio nella valle del conca Castello di San Savino, particolare con il torrione d’angolo e la porta d'accesso. (Monte Colombo)

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frammentazione sia a livello di proprietà che di poteri. Costruiti sia all’interno di agglomerati, sia in luogo isolato, essi sono la residenza delle famiglie che hanno visto accresciuta la loro importanza. Per questo motivo, il palazzo diventa espressione della loro nuova posizione, senza peraltro perdere la peculiarità di luogo di ricovero per la popolazione del territorio circostante in caso di guerre o scorribande di armati irregolari. In seguito, quando la città diventerà il fulcro del potere politico ed economico, quelle stesse famiglie vi convergeranno trasformando in saltuaria la residenza del palazzo. Accanto al palazzo ritroviamo le casetorri, che Lucio Gambi definì la prima e più antica forma di insediamento sparso. Nate anch’esse a scopo difensivo, per queste costruzioni, nel tempo, si diffuse la tendenza a separarne la funzione abitativa

da quella di difesa; una propensione che portò la torre ad essere un elemento attiguo alla casa, utilizzato solo in particolari circostanze, fino ad essere talvolta degradato a colombaia. In questa varietà di utilizzo, la documentazione del XV secolo trasmette per questi edifici un insieme di situazioni che mancano di omogeneità. Accanto alle costruzioni che mantengono il loro aspetto di protezione, come nel caso di quelle accanto ai mulini, altre risultano trasformate in rustico di pertinenza delle case vicine. Molto di questo declassamento fu causato dall’avvento delle armi da fuoco e da una maggiore aggressività sia degli eserciti che delle compagnie di ventura, che costrinsero ad una necessità di difesa che non poteva più essere individuale ma collettiva, all’interno di strutture fortificate più importanti16. Oltre a strutture difensive come castelli, rocche e borghi fortificati, nel periodo del basso Medioevo, e in particolare nei secoli XIII e XIV, si assiste alla realizzazione di diverse strutture difensive di forme più contenute e realizzate in modo sparso sul territorio. Sono le nuove aziende agricole che, nonostante i tempi siano ancora pericolosi per le residenze isolate, iniziano comunque a diffondersi. Il fenomeno si sviluppa in modo consistente anche nella Valle del Conca, dove i caratteri delle abitazioni e dei loro sistemi difensivi sono in genere riconducibili a quelli descritti all’inizio del Trecento dal trattatista bolognese Piero de’ Crescenzi17. I trattati sia latini che medievali sono infatti il mezzo per comprendere l’evoluzione dell’agricoltura e dell’insediamento rurale. Due tematiche tra loro legate e che si ritrovano ampiamente sviluppate nel Liber ruralium commodorum, del de’ Crescenzi, dove lo scrittore non si limita a parlare di tecniche agricole, ma estende la trattazione anche alle costruzioni da edificare sul fondo coltivato, prodigandosi anche in consigli sulla loro sicurezza. Attraverso i suggerimenti dispensati, si coglie la necessità di prote-


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zione di chi viveva o decideva di vivere in quei tempi in un luogo isolato in campagna e ci si può formare un’idea delle diverse tipologie di quelle che generalmente sono conosciute come “fattorie fortificate”. La questione della sicurezza è introdotta da un passo del suo trattato dove, rivolgendosi ad un ipotetico possidente intenzionato ad organizzare un’azienda agricola, gli consiglia di valutare innanzitutto la scelta del luogo secondo la sua posizione e poi in base alle condizioni di sicurezza che esso è in grado di offrire. Si preoccupa poi di avvertirlo che, se «il luogo si trovasse in una zona pericolosa ed esposto all’offesa di nemici troppo potenti, sarà più conveniente allontanarsene in tempo anziché esporsi incautamente al rischio di morire»18. Le condizioni generali di sicurezza della vita in campagna che si ritrovavano in Romagna al tempo dello scrittore, corrispondevano alla situazione da lui presentata e, di conseguenza, confermavano la sua prudenza nel consigliare di non abitare in poderi isolati. Per chi, invece, era disposto a correre il rischio, il de’ Crescenzi consigliava l’unica soluzione possibile: provvedersi di valide difese, calibrate sull’ipotizzata gravità dei pericoli da affrontare e sulle possibilità economiche disponibili per realizzarle. Lo scrittore precisa poi che chi è dotato di sufficienti ricchezze è opportuno che costruisca un «castello o rocca inespugnabile», dai quali potrà tenere sotto controllo l’eventuale situazione di minaccia. Coloro che invece avessero avuto sia minori risorse economiche che pericoli da affrontare, avrebbero potuto accontentarsi di una semplice «tomba», ossia di un’azienda comunque sempre ben recintata e munita almeno di una torre in cui rifugiarsi in caso di necessità19. Dalle descrizioni del trattato sulle necessità di difesa per aziende agricole isolate, si può dedurre come queste, nonostante i problemi di sicurezza, fossero abbastanza diffuse sul territorio. Questi

insediamenti, il cui nome deriva dal greco tymbos che sta per “tumulo”, erano generalmente realizzati su di un rialzo naturale del terreno e per renderne difficoltoso l’accesso erano spesso circondati da zone paludose o fossati. Notizie più particolareggiate su questo tipo di luoghi, sui numeri delle presenze nel territorio del Conca, come sulle possibili variazioni nella tipologia, si devono a un fondamentale lavoro di Oreste Delucca20. Lo studioso afferma inoltre come «assunto come elemento comune il carattere fortificato e quindi la capacità difensiva, i documenti riminesi del XV secolo ricomprendono, col termine “tomba”, realtà non omogenee». Dalla ricerca emergono almeno quattro tipologie distinte come: le residenze-fortezze di casati nobiliari, siano esse in luogo isolato oppure costituiscano l’edificio emergente di quei nuclei

Castello di San Savino, particolare del camminamento lungo le mura.

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Viaggio nella valle del conca Castello di San Savino, particolare della vista sul territorio dal camminamento.

abitativi non incastellati chiamati ville. Un secondo gruppo assume le caratteristiche delle fattorie fortificate poste al centro di proprietà terriere. In queste, accanto alla residenza padronale possono essere individuate altre funzioni come le abitazioni dei lavoratori, ricoveri per attrezzi e bestiame, spazi per depositi dei prodotti agricoli e per la loro lavorazione (aia, fosse da grano e cantine), fino agli annessi come forno, pozzo, cisterna. Alcuni di questi ricetti erano circondati da mura e fossato con porta e ponte levatoio. Un terzo gruppo di “tombe” è costituito da caseforti più semplici – non molto dissimili dai caratteri del palazzo o della torre –, poste a difesa di strutture produttive necessariamente localizzate in luogo isolato. È il caso dei mulini da cereali e castagne. In questi casi la “tomba” si trova accosta-

ta alla residenza del mugnaio o nelle immediate vicinanze. Una quarta tipologia è costituita dai piccoli agglomerati rurali, formati da poche case e da qualche attività artigianale, ma muniti di cinta difensiva. Sono qualcosa in più della fattoria fortificata con la quale si differenziano per una pluralità di proprietari contro quella unica della fattoria e per la molteplicità di aspetti della vita che vi si svolgeva21. Sorte per proteggere, le “tombe” e in genere tutte le fortificazioni rurali, assieme ai castelli e ai borghi hanno in comune l’oscillazione nel numero degli abitanti: solo residenti o proprietari in periodo di pace e ricovero di tutte le famiglie circostanti in periodo di guerra. Una funzione di protezione delle persone alla quale si associava anche quella per gli animali e per le scorte alimentari. Oggi, nella Valle del fiume Conca, nonostante i segni che il tempo, aiutato dall’incuria degli uomini, talvolta ha impresso in modo impietoso su questi insediamenti, possiamo cercare di riscoprirne forme e volumi nella tomba di Agello – talvolta definita anche castello –, ricercare il luogo di quella di Albereto e di San Savino fino a quella di Oradino, proprietà del benedettino monastero di San Gregorio in Conca. Fuori dalle mura, mercati e fiera Morciano: perdere il castello ma continuare ad essere un’importante mercato Come San Giovanni in Marignano può essere considerato l’ingresso ideale della Valle del Conca, Morciano, in seguito allo sviluppo degli ultimi due secoli, può essere considerato il luogo con la più alta concentrazione di servizi e commerci di tutta la media e bassa valle. Questa sua importanza – della quale i servizi sono una naturale conseguenza –, è sì frutto del suo recente sviluppo, della posizione favorevole ai piedi delle colline e del crocevia di strade che portano verso la costa e la pianura,

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ma trova le sue radici in diversi secoli fa, nell’essere stato un forum, un mercato. è infatti con questo termine che nell’anno 1203 esso viene individuato tra i vari castrum, tumba, villa della valle, ma la sua origine è da far risalire a quasi cento anni prima, quando nel 1014, sorge il castrum, un centro fortificato dalle caratteristiche modeste collocato sullo sperone di terreno proteso sul fiume Conca: poche case raccolte attorno alla piccola chiesa dedicata a San Giovanni, presumibilmente protette da una palizzata in legno. Al di fuori, prima dei campi coltivati, il luogo destinato allo svolgimento di quel mercato la cui importanza si assesterà nei secoli. Un luogo inizialmente non abitato stabilmente, – forse ricetto per le popolazioni circostanti in caso di pericolo – ma raggiunto periodicamente da persone, anima-

li e merci. Qui commercianti, contadini e artigiani provenienti dai castelli e dalle fattorie disseminate nel territorio circostante, a terra e su tavoli poco più che improvvisati, esponevano le proprie merci: vendevano, compravano e barattavano animali, stoffe, attrezzi, scarpe, orci, scodelle e prodotti della terra. Una fiera-mercato talmente importante che continuò ad esistere anche dopo che il fiume Conca si portò via il castello. Dall’anno 1203, infatti, Morciano non fu più identificato come Castrum Morciani ma come un forum, un mercato. L’abbazia di San Gregorio in Conca: la potenza, la fiera e il mercato Oggi, aggirarsi attorno ai ruderi delle murature che, si intuisce, definivano i volumi della chiesa, quelli comuni di

Catasto napoleonicogregoriano: particolare della “mappetta” di Morciano, con la suddivisione particellare dell’edificato attorno alla stradapiazza del mercato (Archivio di Stato, Roma).

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preghiera e lavoro assieme a quelli delle celle dei monaci che vivevano in questo convento, non è un’esperienza serena. Non lo è perché nelle condizioni in cui il complesso si trova, a causa dell’opera impropria dell’uomo, appare evidente come un’importante fulcro propulsore attorno al quale è ruotata l’evoluzione di questa parte della Valle del Conca, stia lentamente perdendo la potenzialità della sua testimonianza. Il monastero di San Gregorio in Conca, fondato presumibilmente nel 1061 da San Pier Damiani, era una struttura relativamente contenuta e semplice, una razionale semplicità che era caratteristica comune delle abbazie benedettine costruite nella seconda metà dell’ XI secolo. Già dai primi anni della sua esistenza, il monastero di San Gregorio conob-

be una rapida espansione, grazie alle donazioni di castelli e terreni nel riminese e nel sammarinese, giungendo in questo modo a controllare un vasto territorio. Nel XII secolo, periodo del suo massimo splendore, attraverso una terza e rilevante donazione sempre da parte di Pietro Bennone e della moglie Ermengarda, avvenuta il 17 giugno del 1069, furono devoluti al monastero beni sconfinati: terre ed immobili a Pesaro, Rimini, Verucchio, Corpolò, Faetano, San Vito, Bordonchio, Misano Monte, San Savino, Mondaino, Montecchio, Fiorentino, Chiesanuova. Era una fortuna immensa e probabilmente fu per tutelarla che Pier Damiani assoggettò tutti i beni che la costituivano al vescovo di Rimini. Fu però un’azione che in seguito scatenò forti attriti tra il vescovo e i benedettini di San

La piazza del mercato di Porta Ravegnana a Bologna nel 1411. In questa miniatura, oltre a merci come tessuti, letti, panche e cassapanche, oggetti da cucina e monili sono raffigurate scene di vita. Anche a Morciano, in quel periodo, il mercato non era certamente molto diverso (miniatura dalle Note dei negozianti di stoffe della città, Museo Civico Medievale, Bologna).

Morciano di Romagna, abbazia di San Gregorio in Conca, particolare di arco tamponato.

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Viaggio nella valle del conca Due particolari di archi tamponati dell'abbazia di San Gregorio in Conca.

Gregorio. Una situazione che vide una parziale risoluzione quando l’alto prelato riminese restituì all’abbazia i beni in enfiteusi, cioè in proprietà perpetua23. Nell’ambito della stessa donazione del 1069, nella descrizione dei beni elargiti all’abbazia di San Gregorio, veniva fatto esplicito riferimento a Morciano e al suo castello. Nell’atto, Pietro Bennone

Nella pagina a fianco: Abbazia di San Gregorio in Conca, porta tamponata con arco decorato in cotto.

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donava: «la parte sua della chiesa ch’egli haveva nel castello di Morciano, chiamata San Giovanni Evangelista et hoggi non vi è chiesa né castello essendo stato atterrato da continuo et impetuoso corso del fiume Conca che lo costeggiava, et nel suo letto et ripe si scorgono le vestigia24». Una chiesa e un castello, rubati dalla corrente erosiva del fiume Conca,


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che del secondo conservava però le tracce lungo le sponde e all’interno del suo alveo. Nel secolo seguente, il convento, grazie ad ulteriori donazioni, acquisti ed enfiteusi, continuò ad ampliarsi e tra le maggiori acquisizioni vi fu il possedimento di Saludecio, che giungeva fino al fiume Foglia. Una vastità di possedimenti che fece acquisire all’abbazia un’importanza tale da farle assumere un ruolo di primo piano nella gestione del potere sul territorio circostante. Anche la vasta opera di bonifica, realizzata dai monaci per rendere coltivabili le zone paludose della valle, assieme alla realizzazione di nuove strade come la mesoita, cioè “strada di mezzo” – che iniziava nei pressi del convento e raggiungeva la romana via

Abbazia di San Gregorio in Conca, un paramento murario mosaico di murature eseguite con diversi tipi di pietrame, conci lavorati e con tamponature di porte ed archi eseguite in tempi diversi.

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Flaminia al ponte sul Conca –, diedero un forte incremento agli scambi commerciali, che trovarono presso l’abbazia il loro punto di riferimento privilegiato; un luogo dove, ogni anno, nella seconda settimana di marzo, in occasione dell’importante fiera di San Gregorio, contadini, allevatori, mercanti, artigiani, mugnai e mendicanti si davano appuntamento per vendite, acquisti e baratti. Accanto alla fiera, con cadenze più ravvicinate, il convento sviluppò anche un solido mercato, alimentato in gran parte dalla produzione agricola dei terreni appartenenti alla stessa abbazia. Dal punto di vista architettonico, tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, il complesso subì una consistente riorga-


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nizzazione, testimoniata dalle tamponature delle arcate romaniche della navata centrale. Quasi contemporaneamente però, iniziò a manifestarsi la tendenza del monastero a chiudersi in sè stesso, fino a trascurare la funzione sociale che, dalla sua fondazione, lo aveva caratterizzato per secoli. Questo nuovo orientamento fu l’inizio di un cammino che lo avrebbe portato ad assumere l’aspetto di luogo privilegiato e ristretto e che fu una delle cause della crisi del monachesimo che maturò alla fine del secolo XIV in tutta Europa. Anche per l’Abbazia di San Gregorio, la fine di questo secolo fu l’inizio di un lento processo di decadenza che, nell’anno 1402, portò al suo temporaneo affidamento ai frati di San Paolo

Eremita di Rimini, che poco tempo dopo, a causa di una spaccatura esplosa fra i monaci, lo cedettero a Carlo Malatesta, che a sua volta lo cedette ai monaci Olivetani di Scolca. Il monastero di San Gregorio cominciò, anche a causa dell’incuria a cui lo abbandonarono gli Olivetani, a perdere autonomia ed importanza, destinato ormai a vivere in funzione del monastero riminese di Scolca, che assorbì gran parte dei suoi beni e il prezioso patrimonio culturale della sua ricca biblioteca. Per l’Abbazia fu una parabola di declino che arrivò al culmine con le soppressioni napoleoniche degli ordini monastici. A quel periodo risale infatti il definitivo abbandono del convento, che il 4 luglio 1797 fu acquistato dal conte riminese Luigi Baldini.

Abbazia di San Gregorio in Conca, due tipi di paramento murario.

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Viaggio nella valle del conca Gelso plurisecolare tra Morciano e l’Abbazia di San Gregorio in Conca.

Mura per proteggere un tesoro in chicchi dorati

Le fosse da grano

Ritornando verso Cattolica e la costa sono le mura di un castello che, così come hanno accolto l’inizio del cammino, in un certo senso lo concludono. San Giovanni in Marignano è contemporaneamente inizio e termine del viaggio, per il quale ha in serbo un’ultima scoperta. Si è visto come, diventato un territorio con un suolo altamente produttivo dal punto di vista agricolo, anche a conseguenza delle vaste opere di bonifica, San Giovanni in Marignano, già ad iniziare dal Trecento, sviluppasse la fama di “granaio dei Malatesti” e come lo stesso

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castello, originariamente fortificato e in seguito potenziato da questa famiglia, di fatto fosse anche un enorme contenitore di grano. Il castello, oltre le persone, le proprietà e il potere, era in grado di proteggere il “tesoro” in chicchi di cereali ammassato in numerose fosse ipogee, scavate all’interno delle sue mura. Notizie relative al numero, alla capacità e alla localizzazione dei granai “a fossa”, situate all’interno del nuovo recinto fortificato del XIII secolo, si ricavano essenzialmente dalle informazioni provenienti da fonti notarili26; riferimenti a queste strutture ipogee si ritrovano infatti principalmente nei contratti di compravendita o di divisioni ereditarie. In questi documenti il notaio, oltre a specificare la posizione dei manufatti


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all’interno del castello, indicando l’asse viario nel cui sottosuolo erano collocati, riportava i nominativi di chi possedeva i contenitori adiacenti, la capacità delle fosse e, talvolta, le caratteristiche con le quali erano state realizzate. Per individuare ancor meglio queste strutture, i notai riportavano – oltre ai soliti riferimenti alle proprietà confinanti –, anche alcune ulteriori indicazioni, come per esempio la vicinanza all’ingresso di un’abitazione, la presenza di una bottega o la prossimità della fossa ad una porta, come nel caso della porta-torre verso Pesaro, detta “torre della campana”. L’individuazione della posizione era abbastanza semplice poiché all’interno delle mura le strade erano classificate in modo essenziale: platea magistra era l’asse viario prin-

cipale e il più ampio, nel cui sottosuolo era localizzato il numero maggiore delle fosse, confermato anche dal loro rilievo compiuto nell’Ottocento; seguiva la platea de suptus o “contrada inferiore”, che era l’asse viario parallelo a quello principale lato mare, la platea de super, o “contrada superiore” e la platea putei o “contrada del pozzo”. Strutturalmente, queste forme di granaio sotterraneo, con forma prevalente a tronco di cono, potevano essere costruite in muratura, oppure, come nella maggioranza dei casi, scavate nel suolo argilloso senza nessun rivestimento murario, mentre il loro accesso era sigillato con una piastra circolare in pietra di circa sessanta centimetri di diametro. La capacità delle fosse granarie era variabile, con capacità di 20,

Sulla strada per Agello, una piccola parte degli appezzamenti di terreno coltivati a grano.

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30, 40, 50 fino a 70 staia di frumento e il loro numero, risultante da un accurato censimento ottocentesco, era come minimo di 128. Se si riflette sul fatto che la motivazione del loro inventario era dovuta alla decisione del Comune di vietarne definitivamente l’uso – già proclamato dal 1871, quando era stato fatto divieto di “infossare il grano” –, ci si può rendere conto di come l’utilizzo di questi depositi ipogei si sia protratto per circa sei secoli. Il loro uso terminò pochi anni prima della fine dell’Ottocento, quando dopo essere

La scansione ortogonale delle strade di San Giovanni in Marignano, in parte sedi delle fosse granarie, nel Catasto Calindri (Archivio di Stato, Rimini).

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state espropriate, furono definitivamente rese inservibili e occultate sotto il manto stradale. Di quell’esteso deposito da cereali, oggi sono state recuperate cinque fosse, tra le circa 130 protette per centinaia di anni dalle mura del castello. Mura che oltre che alle persone estendevano la loro protezione ad un imponente deposito di cereali, riserva alimentare preziosa per la popolazione in caso di assedio e, contemporaneamente, per molti anche una notevole risorsa commerciale. Nel caso di esaurimento delle scorte e soprattutto


Dall'alto del castello: il paesaggio oltre le mura

in tempi di carestia, l’occultamento del grano sotto terra favoriva infatti manovre speculative e la possibilità di usufruire di depositi ben protetti, a poca distanza dal mare e da un facile punto di imbarco, andava ad incrementare anche l’uso commerciale delle eccedenze27.

Oltre ogni altra valutazione di carattere commerciale ed economico, questo imponente numero di fosse da grano ci fa capire perché San Giovanni in Marignano da allora in poi sarebbe stato conosciuto come il “granaio dei Malatesti”.

San Giovanni in Marignano, le strade delle fosse da grano: platea magistra, platea de suptus, platea de super. Oggi, dopo il loro restauro, le fosse sono indicate e visibili.

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iii. Leggere il paesaggio

Paesaggi su tela e su carta, paesaggi dal cielo e dalla terra

Per approfondire la conoscenza di un edificio, di un luogo o di un territorio, si può fare ricorso a due tipi di indagine: quella diretta, “sul campo”, che analizza il paesaggio nel suo complesso o per settori tematici e quella indiretta, che esamina le preesistenze territoriali attraverso fonti storiche tradizionali. Tra queste ultime occupa un ruolo di primo piano la cartografia storica, costituita da cabrei, catasti e documentazione grafica di provenienza diversa: questa fornisce un complesso di informazioni che spesso supera l’intento primario per il quale era stata prodotta. Ovviamente, i due tipi di indagine interagiscono e si approfondiscono reciprocamente. Per alcune aree territoriali, e la valle del Conca è tra queste, oltre alla cartografia storica – che assieme al rilievo fotografico aereo ci guida alla conoscenza dell’evoluzione di territorio, insediamenti urbani, architetture murate e singoli edifici –, attraverso il rilievo fotografico attuale a confronto con quello prodotto negli anni Settanta del secolo scorso dalle “Campagne di rilevamento dei beni culturali”, abbiamo l’ulteriore possibilità di compiere anche un loro “confronto storico-formale” più ravvicinato. Segni e disegni di paesaggio Nella porzione di territorio che si sviluppa con maggiore estensione alla sinistra del fiume Conca, dalla Via Flaminia

verso l’entroterra, è talvolta possibile cogliere il segno dell’assetto agricolo fondiario di epoca romana, anche se la sua lettura non è immediatamente riconoscibile a causa del susseguirsi di modificazioni che si sono sovrapposte all’impianto originario. Ancora oggi sono però percepibili le maglie d’impianto della partizione del territorio in centurie, individuabili sia nella cartografia storica sia, per alcune aree, anche a vista d’occhio, come nel caso dell’ampio terrazzo di San Pietro in Cotto, che fu sede di un importante nucleo insediativo. A modificare vaste aree di questa valle hanno contribuito sia fenomeni naturali, come le ricorrenti esondazioni del fiume Conca, sia altri di origine antropica. Tra questi ultimi ricadono quelli prodotti dalle evoluzioni del diverso assetto della proprietà fondiaria che, assieme a differenti tecniche di coltivazione dei terreni, hanno prodotto nel periodo temporale considerato notevoli cambiamenti alla struttura dei luoghi. Mutamenti secolari che è possibile ricostruire nelle tappe principali della loro successione attraverso la cartografia e i catasti storici, prodotti per rispondere all’esigenza di definire i confini giuridici, la consistenza e i limiti delle proprietà, nonché per fini fiscali. Ad iniziare dal XVII secolo la descrizione del territorio con i suoi caratteri salienti non rimane più relegata solo agli scritti. Per l’individuazione sia delle proprietà terriere sia di quelle urba-

Geometrie e colori del paesaggio dalle mura del castello di San Clemente.

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ne, entrava in funzione un nuovo modo di catalogarle che non descriveva solamente ma che rappresentava e che, attraverso lo studio della diversa cartografia prodotta, sarebbe in seguito diventato chiave di lettura per la conoscenza delle stratificazioni storiche del paesaggio. Strumenti di carta, che ci permettono di confrontare ed analizzare il tipo e l’entità delle trasformazioni subite dal territorio negli ultimi quattro secoli. In questo percorso temporale le limitate e talvolta casuali rappresentazioni grafiche e pittoriche di aree territoriali, ben identificabili sia nella rappresentazione di edifici fortificati sia di abitazioni poderali28, trovano degna continuazione e sviluppo nelle tavole dei cabrei e poi anche nell’essenzialità dei catasti storici, che possono essere considerati il passaggio naturale tra la rappresentazione pittorica del paesaggio e la moderna cartografia. È quindi da cabrei e catasti storici, nel loro insieme di disegni e registri, che può iniziare il percorso di confronto per individuare diverse fasi evolutive del paesaggio, che usufruirà inoltre della produzione cartografica, ormai storica anch’essa, dell’IGM per giungere alle riprese aeree degli anni ’50 del secolo scorso29.

Schemi esemplificativi dell’impostazione della suddivisione centuriale romana del territorio.

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Segni sul territorio I segni della centuriazione e delle bonifiche In epoca romana la maglia tracciata sui territori soggetti a colonizzazione e quindi ripartiti per l’assegnazione a fini agricoli, si basava, nella sua più consolidata forma, su un modulo di forma quadrata, l’actus, e su progressivi sovramoduli. Il tracciato della maglia si imperniava su assi ortogonali che avevano come origine, secondo la tradizione e la morfologia dei luoghi, il centro della città e ad esso faceva riferimento il territorio agricolo. L’orientamento degli assi sul territorio poteva tuttavia variare leggermente rispetto a quello dei due assi urbani: il “Cardo” e il “Decumano”, le due vie principali che ripartivano l’abitato e dal cui innesto avevano origine le principali vie di collegamento con gli insediamenti più importanti. Il tracciamento iniziava con il Decumano, successivamente veniva tracciato il Cardo, perpendicolare al Decumano, seguendo un principio tecnico‑religioso, già impostato dalla cultura tardo‑etrusca che individuava le due direzioni, ad coelum e ad naturam, ovvero secondo un punto cardinale e l’andamento del terreno.


Leggere il paesaggio

Il reticolo viario era articolato secondo una precisa gerarchia di percorsi, scanditi secondo l’importanza attribuita; il Decumano e il Cardo erano gli assi centrali della centuria, che veniva ripartita in quattro settori. La viabilità minore, invece, era organizzata secondo due livelli di importanza, infatti, ogni fondo assegnato all’interno dei territorio centuriato doveva essere raggiungibile sia dai conduttori dei fondi, sia dagli animali utilizzati per l’aratura. Il primo livello era costituito da una suddivisione ad un quinto della maglia centuriale, con le strade nominate Quintaríus o actuarius, parallele al Decumano, e Subruncívus, parallele al Cardo. La strada d’uso costante per tutti era il Quíntaríus, mentre il Subruncivus poteva anche essere d’uso secondario o molto limitato. I tracciati della viabilità meno importante, spesso anche all’interno della singola proprietà, erano chiamati Rigores o Intercisivi, indifferentemente dalla direzione dei percorso30. In seguito, ai segni della centuriazione si accostarono quelli lasciati nel periodo medievale delle bonifiche delle zone paludose condotte dagli ordini monastici, in particolar modo Benedettini. Certamente meno estesi della suddivisione centuriale romana, ma altrettanto riconoscibili, a causa della forma

dei campi allungati a spina verso gli scolmatori o le tracce della centuriazione. Disegni su tela e su carta Paesaggi dipinti I primi atteggiamenti dell’uomo verso la natura furono di timore e rispetto: ai fenomeni naturali venivano attribuiti poteri magici, nume­rosi elementi della natura erano considerati sacri; sa­cro era il bosco selvatico e sconosciuto che veni­va immaginato popolato dalle ninfe che vivevano nelle acque dei ruscelli, così come negli alberi e nelle selve. In seguito è soprattutto la bellezza degli spettacoli naturali e dei paesaggi, che in ogni epoca e in ogni civiltà, suscitando nell’uomo emozioni pro­ fonde, ha stimolato in lui la necessità di ricreare in prosa, versi e pittura, la suprema bellezza delle immagini che il paesaggio gli offriva. La storia evolutiva della sua rappresentazione si evolve dal paesaggio essenziale e schematico nei dipinti di Giotto e Masaccio, per giungere ad assumere una crescente importanza ed una maggiore ricchezza di dettagli attraverso il Beato Ange­lico, Andrea Mantegna e Giovanni Bellini, fino a diventare protagonista della composizione pittorica con

I segni della centuriazione riminese nel vasto terrazzo di San Pietro in Cotto.

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i pittori del Sei e Settecento, giungendo a completarsi attraverso le interpretazioni romantiche. Ogni paesaggio racconta la sua storia e accende suggestioni che ognuno coglie e interpreta secondo la propria sensibilità e formazione e che talvolta si ampliano nel desiderio di comunicare quel qualcosa di più recondito che, della sua essenza, può essere stato intuito o anche solo immaginato. Un tipo di messaggio che ci è giunto anche dalla sensibilità e dall’arte di Giovanni Bellini quando, dopo aver percorso questa valle, come molti prima e dopo di lui e dopo essere rimasto affascinato dal Castello di Montefiore, dall’espressione delle forme, dall’equilibrio e dalla potenza sprigionata, lo ha riprodotto sullo sfondo di almeno due dei suoi quadri più conosciuti 31. Nei dipinti, il castello è raffigurato nelle sembianze di quel periodo, documento fedele, al medesimo livello di una foto prima dell’era della riproduzione digitale. È un anticipo di ciò che saranno le immagini scattate ai luoghi e alle loro architetture, ma con un fascino che proviene dal concorso tra ciò che gli occhi hanno visto, poi guardato attraverso l’emozionalità e le riflessioni e, infine, trasmesso alle dita del pittore 32.

Il castello e il borgo di Montefiore Conca in un particolare del dipinto La Madonna col bambino, Sant’Anna e San Carlo Borromeo, opera dell’anno 1656 di Gian Francesco Guerrieri da Fossombrone.

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I “cabrei” L’etimologia del termine “cabreo” deriva dallo spagnolo “cabrero” e dal latino medievale caput breve o capi brevium, da cui cabreum. In origine questa parola indicava la raccolta fatta redigere da Alfonso XI (1311‑1350) per registrare i privilegi e le proprietà della monarchia nella Castiglia medievale33. In seguito questo sistema di registrazione si estese agli inventari dei beni delle grandi amministrazioni pubbliche e private e costituì l’insieme dei documenti che li formavano e che si estendevano dalle mappe dei possedimenti agli elenchi di beni mobili ed immobili, alla stima del valore della proprietà, fino alle servitù attive e passive. I cabrei erano quasi sempre commissionati da enti ecclesiastici e da famiglie nobiliari, che li utilizzavano sia come registro delle proprietà sia per scopi ad esse collegati, come avere un limite fissato e dimostrabile per i confini dei propri possedimenti, che all’occorrenza, poteva essere impiegato per dirimere questioni sorte con le proprietà confinanti. La realizzazione delle mappe dei Cabrei, che prevedeva il rilievo dell’appezzamento di terreno con tutto ciò che conteneva – dagli edifici alle diverse coltivazioni e alle relative superfici – erano frutto di un rilievo preciso e minuzioso. Il podere o


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la parte di territorio riprodotta, si caratterizzava per l’attendibilità delle misure e la ricchezza delle informazioni contenute, come le indicazioni sulla qualità e l’uso del suolo, sui tipi delle colture, sugli alberi presenti oltre a quelli da frutto, riferimenti topografici, le indicazioni dei confini e l’eventuale affittanza del fondo, il tutto condensato in tavole di un’elevatissima qualità grafica nella rappresentazione del luogo. I cabrei erano generalmente composti da due serie di documenti: una parte descrittiva e una di allegati. Nella prima venivano riportati le unità di misura, i prezzi e i corrispettivi dei canoni annuali pagati ai proprietari. Gli allegati, quelli che generalmente identificano il cabreo, erano rappresentati da tavole disegnate e quasi sempre acquerellate, che riproducevano i beni inventariati. Le stesse tavole erano corredate da un cartiglio, che indicava il luogo in cui si trovavano le aree rappresentate, a chi appartenevano, e ne descriveva le tipologie di utilizzo, le superfici delle diverse coltivazioni e il loro valore. La redazione di queste mappe era affidata agli agrimensori, che, secondo i tempi, potevano essere capomastri e architetti, e poi dal Settecento anche geometri. L’agrimensore doveva possedere cognizioni teoriche e pratiche di matematica e di geometria ed essere in grado, con gli strumenti dell’epo-

ca, di eseguire misure lineari, angolari e di superficie; dal punto di vista cartografico doveva anche possedere la competenza di riportare in pianta, alla scala adeguata, la superficie del terreno misurato evidenziando, con opportuna simbologia e grafica, le caratteristiche morfologiche, la disposizione delle colture e la collocazione degli edifici. Suo compito era di rilevare esattamente i confini di ogni bene e l’estensione di ogni proprietà, attraverso misurazioni effettuate con le antiche unità di misura italiane usate su quel territorio. Il titolo di Agrimensore spesso era accompagnato dalla qualifica di perito, che stava ad indicare persona dotata di particolare competenza in una determinata materia e che quindi poteva essere chiamato a compiere indagini tecniche sia da privati sia dall’autorità giudiziaria34. Nel 1744 vennero pubblicate in Bologna le «Provisioni ed Ordinazioni sopra li Periti, e li Mercedi di quelli», che avevano lo scopo di definire le competenze dei periti ed evitare quindi abusi dovuti ad imperizia o a mancanza di titolo. All’interno delle quattro distinte categorie professionali individuate, Periti idrostatici o Idrometrici, Periti Architetti, Periti Agricoltori e Periti Agrimensori, erano sancite le specifiche competenze. Ai Periti Agrimensori era riconosciuta la competenza per: «Le Misure, Piante e

Mappa di un cabreo del Conca a Cevolabate di San Clemente dell’anno 1795 (Archivio di Stato, Rimini).

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Stime, Divisioni, e Separazioni de’ Terreni, Confinazioni, Scoli, Direzzioni, Detrimenti, ed Accrescimenti di quelli, ed altro concernente la cognizione d’Agrimensore, al quale dovrebbe essere unita la Perizia ancora d’Agricoltore». La produzione dei cabrei raggiunse il picco più alto nel diciassettesimo e diciottesimo secolo per una forte richiesta di documentazione dei beni, accresciuta dalla necessità di precisazioni di confini e divisioni ereditarie. Spetta ai cabrei, pur nella loro mancanza di sistematicità nel rilievo del territorio, a coprire il periodo di tempo vedrà l’avvento generalizzato dei catasti. Queste raccolte di mappe e scritti costituiscono una preziosa documentazione archivistica per ricostruire momenti diversi dell’evoluzione del paesaggio, assieme alla storia della sua rappresentazione. Una caratteristica, quest’ultima, che in queste mappe spesso esce dai confini della pura rappresentazione tecnica per materializzarsi in una grafica che

Cartiglio di cabreo seicentesco (Archivio di Stato, Bologna).

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non può che stupire ed essere apprezzata: per la perizia del tratto, la sensibilità e la padronanza del segno e dei colori e il saper rendere, anche nelle minuscole forme approssimativamente assonometriche o prospettiche, i caratteri salienti delle costruzioni. Spesso, piccoli capolavori, dove anche le ombre proiettate dagli alberi sul suolo del podere hanno la proprietà di farci immaginare i filari di alberi da frutto e le piante isolate, pur nel rigore del loro rilievo. L’assenza dei catasti medievali Nel suo intervento sui sistemi di gestione catastale tra basso Medioevo e Rinascimento, Oreste Delucca chiarisce il motivo della mancanza dei catasti medievali riminesi35. Egli spiega come «oggi il catasto ha una doppia funzione: è uno strumento fiscale e al medesimo tempo uno strumento di attestazione delle proprietà. Nel Medioevo era del tutto prevalente la prima funzione, cioè quella di catasto come strumento fiscale – in quanto


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per la certificazione della proprietà si faceva ricorso all’Archivio Notarile». Continua poi affermando come «questa precisazione non sia irrilevante, perché ci aiuta a comprendere il motivo per cui i catasti medievali riminesi non si sono conservati. Infatti, in occasione dei tanti tumulti e delle tante sommosse storicamente documentate nella città adriatica, i più facinorosi provvedevano sempre a bruciare i pubblici registri. Il gesto non era casuale: mentre avevano interesse a risparmiare l’archivio notarile, cercavano viceversa di distruggere i libri catastali (in base ai quali si pagavano le imposte) e i libri giudiziari (che registravano le condanne). Di conseguenza, i soli documenti catastali giunti fino a noi sono quelli che, per qualche ragione fortuita, si trovavano fuori posto». Catasto Calindri36 Catasto Calindri: 1762-1774 anni di edizione: 1774-1787 contenuti: catasto geometrico particellare scala: 1:4000

copertura: territorio provinciale non completo reperibilità: Archivio di Stato - Rimini Nell’anno 1762 il perugino Serafino Calindri, allievo di Ruggero Boscovich e già conosciuto per esperienze analoghe, concorre e vince l’incarico per la realizzazione del catasto geometrico-particellare del territorio riminese; un catasto di nuova impostazione basato sulle misure, realizzato con la tavoletta pretoriana e dise­gnato sul posto e che doveva assegnare ad ogni singolo appezzamento un valore di stima «intrinseco della cultu­ra più idonea». Ad ogni particella di terreno era assegnato un numero che veniva in parte spiegato dall’elenco progressivo riportato sul retro della mappa, dove ad ogni numero era accostato il nome del proprietario e l’estensione dell’appezzamento. Notizie più estese erano elencate nei brogliardi, registri che accompagnavano sempre le mappe. Fatto assolutamente nuovo l’estimo, non più basato sulle denunce, ma sul valore stimato, stimolava la produttività e, con l’assegnazione di parametri ogget-

Una delle tavole del Catasto Calindri del territorio di San Clemente nella quale è rilevato anche il castello (Archivio di Stato, Rimini).

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tivi, sconvolgeva la precedente tenden­za da parte dei proprietari al mantenimento passivo dello stato di fatto. Suddiviso in due parti, Barigellato e Contado, è nel secondo che ricade la quasi totalità della Valle del Conca. Il Catasto Calindri assieme alla copia realizzata nel 1788 da Alessandro Bertolucci, si rivela uno strumento determinante per la conoscenza del territorio e la sua gestione. Interessante è anche l’aspetto che emerge relativamente ai toponimi. Attraverso un confronto viene infatti evidenziato come dal secolo XVIII inizi un progressivo appiattimento delle radici genetiche, che, nella loro etimologia origina­ria, sono rivelatrici non solo di influenze linguistiche di genti ege­moni, ma anche di fattori ambientali, climatici e vegetazionali. Informazioni immediate provengono invece da una serie di mappe, come quella di Castelleale, realizzate dal Bartolucci. In esse emergono le diverse colture ed anche senza risalire ai registri delle partite si può compiere il confronto fra la situazione settecentesca e

Stralcio della mappa di Gemmano del Catasto gregoriano (Archivio di Stato, Forlì).

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quella, attuale desumi­b ile dalla foto aerea. Lo stesso vale per la zona di Morciano, dove presso il monastero di San Gregorio in Conca emerge il prevalere delle colture estensive, corrispondente ad un appoderamento a grandi maglie, tipico delle proprietà ecclesiastiche di vaste proporzioni, mentre invece tutto attorno a Castelleale prevalgono coltivazioni intensive, specie a vigneto e uliveto. Le informazioni contenute sono molteplici, basti citare il disegno delle particelle catastali tra le quali si possono distinguere le forme medievali di assegnazione (con fronte limitato e lunghezza tale da premiare la laboriosità dell’assegnatario), dalle appropriazioni libere per corpi compatti. I catasti pre-unitari Catasto napoleonico Catasto napoleonico: 1810-1818 Contenuti: catasto geometrico particellare Scala: 1:2000


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Copertura: territorio provinciale Reperibilità: Archivio di Stato - Roma Catasto gregoriano Catasto gregoriano: 1815-1835 Contenuti: catasto geometrico particellare Scala: 1:2000 copertura: territorio provinciale non completo reperibilità: Archivio di Stato - Forlì (limitato alla Valle del Conca), Archivio di Stato - Roma, Consorzio di Bonifica - Rimini, Collegio Geometri - Rimini Al periodo che va dal 1812 al 1835 risalgono i catasti pre-unitari, comuni a tutta la Romagna pontificia. Presero l’avvio dal decre­to napoleonico del 1807 e furono immediatamente ripresi da Pio VII dopo la Restaurazione. Per tale motivo questo catasto è conosciuto anche come napoleonico-gregoriano. Per il territorio rurale il Catasto gregoriano offre il preciso riscontro planimetrico della consistenza e, in modo sommario,

della pianta dei fabbricati e fornisce una ricca toponomastica; nei quadri d’unione, approssimativamente in scala 1:4000, sono individuate le unità amministrative generalmente corrispondenti alle parrocchie o comunità e la rete viaria in rapporto agli insediamenti principali. Di­zionari corografici Parallela all’opera catastale si riscontra anche la compilazione dei “di­zionari corografici” che, delle varie circoscrizioni, descrivono le località in ordine alfabetico riportando anche notizie storiche e statistiche contemporanee. Tra i diversi dizionari, il più prestigioso fu realizzato per la Monta­gna bolognese da Serafino Calindri, fra il 1781 ed il 1785. Nella Romagna pontifica la vasta opera di sintesi di Emilio Rosetti37 – un dizionario di respiro provinciale –, vedrà le stampe quasi un secolo dopo. Per i periodi precedenti, per trovare una documentazione altrettanto sintetica ed omogenea, occorre fare riferimento a fonti settoriali che si possono trovare in modo

Stralcio della mappa del centro urbano di Cattolica del Catasto gregoriano (Archivio di Stato, Forlì).

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sistematico solo per aspetti di interesse politico o religioso. Con un salto di secoli occorre infatti risalire alle Rationes Decimarum dei secoli XIII e XIV ed alle successive “visite pastorali” per ricavare il quadro dell’organizzazione religiosa e al tempo stesso amministrativa ed economica fra il XIII ed il XVIII secolo. Per quanto riguarda la struttura insediati­va e quella difensiva è invece necessario ricorrere alla Descriptio Romandiole del cardinale Anglic Grimoard de Grisac, un censimento del 1371 che descriveva anche le caratteristiche di alcuni insediamenti, per avere, per tutto il territorio roma­gnolo suddiviso nelle circoscrizioni vicariali, un quadro completo dei castelli, delle vil­le, dei rispettivi fumanti e delle guarnigioni38. Carta austriaca Carta austriaca: 1828-1851 anno di edizione: 1851 contenuti: carta da rilievo topografico degli aspetti morfologici, insediativi e della rete viaria

Stralcio della Carta austriaca con gli insediamenti della media e alta valle del Conca. (Istituto Geografico Militare Italiano).

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scala: 1:86400 copertura: territorio provinciale reperibilità: Istituto Geografico Militare Tavolette IGM Tavolette IGM di primo impianto: 18771894 contenuti: carta realizzata mediante rilievo topografico con appoggio ai capisaldi della I rete geodetica nazionale (1861-1882) scala: 1:25000 - 1:50000 copertura: territorio provinciale reperibilità: Istituto Geografico Militare note: la scala 1:50000 copre le zone collinari; inoltre la carta prevede il primo impiego generalizzato delle curve di livello e dei segni convenzionali, ma gli insediamenti vi figurano nella loro reale consistenza. Tavolette IGM: tra 1894 e 1939 anni di edizione: 1907 - 1908 - 1911 1917 - 1929 - 1937 - 1939 contenuti: carta realizzata mediante rilievo topografico con appoggio ai capisaldi


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della rete geodetica nazionale scala: 1:25000 copertura: territorio provinciale reperibilità: Istituto Geografico Militare Paesaggi dal cielo e dalla terra Paesaggi dal cielo Molti degli interventi umani sul territorio sono leggibili osservando i paesi dall’alto o attraverso la rappresentazione aerofotogra­fica, che ci permette una lettura che, progressivamente, si sposta dall’ambiente “naturale” e sfuma in quello agricolo fino a quello urbanizzato, cogliendo inoltre la frammentazione del suolo nelle varie e complesse suddivisioni di superficie a volte regolari e uniformi, a volte spezzate in modo multiforme. La visione dall’alto di un territorio costitui­sce uno spettacolo sempre notevole della capacità organizzativa umana, del comples­so sviluppo delle città o della forma immutata di piccoli centri storici e dei vari gradi di trasformazione subiti dall’am­biente.

La Valle del Conca ci offre un campionario di situazioni varie e mutevoli da zona a zona, dei multiformi interventi antropici nell’ambiente “naturale”: tracce di pianure geometricamente organizzate secondo la maglia centuriata romana, varie orditure dei campi e delle strade, castelli e borghi medioevali dall’impianto lineare o polare (Saludecio, Mondaino, Montefiore), torri e fattorie fortificate che ricordano l’insicurezza di tempi in cui vivere sul podere che si coltivava poteva essere anche estremamente pericoloso e, ancora, cit­tà della costa dove l’antico tessuto cittadino è reso quasi illeggibile dall’espansione dei successivi interventi edilizi (Cattolica); e poi zone industriali, vie di grande comunicazione che separano l’entroterra dal mare, interventi progettuali estensivi che modificano la linea costiera, (porticciolo di Cattolica) ma anche luoghi dove gli insediamenti non interferiscono con vaste aree boscate che ricordano antichi paesaggi pa­storali (Onferno). Iniziando dai rilievi fotografici effettuati dall’Istituto Geografico Mili-

Stralcio della Tavola dell’IGM di primo impianto relativo a San Clemente ed Agello. (Istituto Geografico Militare Italiano).

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tare, proseguendo attraverso le recenti immagini satellitari fino alle riprese da elicottero, possiamo appropriarci di informazioni sul paesaggio che sono indiscutibili, e che ci mettono al corrente della sua evoluzione, dei fatti, ma anche dei misfatti compiuti in questo periodo temporale. Le foto aeree e la cartografia regionale Le riprese aeree del territorio provinciale iniziano negli anni Trenta del Novecento con l’attività dell’Istituto Geografico Militare Italiano. In seguito sarà la Royal Air Force britannica a sorvolare il territorio riminese per ricognizioni belliche tra il 1944-45 (volo RAF). Seguono negli anni 1954-55 i voli GAI e alla fine degli anni ’60 inizio anni ’70 del ’900, ulteriori riprese aeree complete del territorio riminese finalizzate alla redazione del Piano Intercomunale (PIC). Con l’istituzione delle Regioni, vengono svolte negli anni Settanta e Ottanta sempre del secolo scorso sistematiche ricognizioni aerofotogrammetriche a

Particolare del territorio della Valle del Conca nella ripresa aerea GAI degli anni 1954-55 (Istituto Geografico Militare Italiano).

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bassa quota del territorio, per la costruzione delle carte regionali a grande e media scala, alle quali si sommano e fanno seguito ricognizioni per le carte tecniche e, negli anni Novanta, numerosi altri voli dell’IGM e di Consorzi privati. Infine, negli anni 2000, 2002, 2003 e 2004, sono state fatte sistematiche ricognizioni aeree a bassa quota sia finalizzate alla realizzazione della nuova Carta Tecnica Regionale numerica 2002, sia per la realizzazione delle ortofotocarte del territorio39. Riprese da elicottero Permettono la lettura dell’impianto urbano e il confronto con la cartografia storica come il Catasto Calindri e il Catasto gregoriano. Paesaggi dalla terra Le foto delle Campagne di rilevamento dei beni culturali dell’Appennino forlivese Le “Campagne di rilevamento dei beni culturali dell’Appennino forlivese” furono


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promosse dalla Provincia di Forlì ad iniziare dall’anno 1971 e nel 1979 fu stampata la pubblicazione relativa a Gli insediamenti rurali nelle vallate del Marecchia, Conca e Ventena40. Nelle schede relative ad ogni nucleo o edificio, le foto del soggetto rilevato erano corredate con notizie di lettura tipologica, decorativa e di localizzazione storica. Realizzate allo scopo di una più precisa conoscenza dei beni culturali in zona agricola, per una pianificazione che ne promuovesse tutela e valorizzazione, oggi questi scatti sono il confronto più immediato verso le mutazioni di architetture e paesaggio che di questa valle abbiamo a disposizione. Già alcuni anni dopo la citata pubblicazione, nel suo contributo Il rilevamento degli insediamenti storici41, Marina Foschi affermava come la situazione della valle fosse già variata dalla prima indagine condotta all’inizio degli anni Settanta dello scorso secolo, in seguito alla realizzazione di infrastrutture, insediamenti turistici sulla costa, con l’attraversamento dell’autostrada e con

lo stesso fiume Conca in pochi anni sprofondato di sei metri in alcuni tratti del suo corso. La situazione allora rilevata mostrava quanto era sopravvissuto, negli insediamenti e nell’edilizia sparsa, al processo evolutivo, lento, ma costante, che aveva visto l’ab­bandono della fascia collinare e montana, nonostante la fertilità delle zone rurali. Era poi evidenziato come, nel recupero, i fattori economici avessero evidentemente pre­ceduto e scavalcato quelli culturali, come già era avvenuto per la fascia costiera. Fattori che avevano inoltre portato alla privatizzazione degli immobili chiesastici e conventuali come Santa Lucia e San Gregorio in Conca, fino all’espansione ininterrotta delle lottizzazioni. Nel 2007, Pier Giorgio Pasini, nell’introduzione a Pietre e terre malatestiane di Corrado Fanti42, tracciava con parole nette e sensibili il valore contenuto nelle foto prodotte durante le campagne di rilevamento e l’importanza della loro testimonianza: «(...) da quando sono state scattate è passato più di un quarto di se-

Particolare del borgo di Montegridolfo in una ripresa aerea prospettica realizzata da elicottero negli anni 1994-1995 (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione EmiliaRomagna, CRC-Centro Regionale per il Catalogo).

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colo: potrebbe essere considerato un periodo breve, ma certo in questi tempi di rapidi cambiamenti è stato sufficiente a modificare nell’aspetto e nella sostanza il paesaggio, l’ambiente, i manufatti. Ne siamo stati testimoni, ma forse non ce ne siamo accorti: il confronto fra l’oggi e queste immagini di ieri potrà servire a darci la misura e la coscienza dei cambiamenti avvenuti nelle colture e nella loro disposizione, nelle strade e nel loro arredo, nei centri abitati e anche nei monumenti: infatti gli edifici o le loro rovine sono stati in alcuni casi restaurati e consolidati diventando talvolta irriconoscibili (...) e interi borghi hanno usufruito di radicali restauri (...); in altri casi la volgarità di certi vecchi interventi si è attenuata, corrosa dall’azione del tempo cui si deve – certo in concomitanza con il disinteresse degli uomini – più di qualche perdita grave o dolorosa (e la memoria corre subito alla stupenda e rara torre di Agello, miseramente crollata). (...)». Oggi, quella torre «miseramente crollata» è stata ricostruita in modo attento

La torre di ingresso alla “tomba” di Agello in una delle riprese fotografiche del “Rilevamento dei beni culturali dell’Appennino forlivese” eseguito dell’inizio degli anni Settanta del secolo scorso (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna).

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e rigoroso nei volumi e nei particolari architettonici, ma nel confronto con le foto di allora appare in un certo modo diversa e non per l’ovvia “freschezza” della muratura. Forse è la perdita delle cicatrici che il tempo aveva lasciato sulla sua pelle di mattoni, alcune lievi, altre deturpanti, ma che, assieme, raccontavano la sua storia. Conservati prima del crollo in un’altrettanto attento restauro, questi segni di sofferenza – dovuti a motivazioni storiche legate sempre all’agire umano – le avrebbero consentito di mantenere ed esprimere la sua “anima”. Questo è ciò che appare nel confronto tra le immagini di allora e la situazione attuale, perchè, a differenza di quelle di oggi, alle foto di allora non è concesso mentire. Gli scatti di oggi L’uso della tecnologia digitale si presta alla possibilità di alterare l’immagine, ma non è il caso delle foto scattate durante il percorso di conoscenza


Leggere il paesaggio

di questa valle. Sono il prodotto delle emozioni e dell’interesse suscitati da questo paesaggio, dalla frammentazione colorata del territorio coltivato, dalla potenza ancora espressa dalle architetture fortificate o dalla loro irreparabile distruzione (non sempre dovuta al crollo), dal rapporto che le legava al territorio e che le rendeva espressione del potere politico, economico e religioso. Sono anche, come quelle prodotte agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, un documento a suo modo storico, perché ormai, in un paesaggio in continua e veloce mutazione, sono ieri. Con queste immagini, per le quali non vi è stata la ricerca a priori della “bella in-

quadratura”, ma quella di poter fissare e documentare, si conclude l’elenco dei mezzi più immediati per la ricostruzione del percorso storico di questo paesaggio. Un percorso costituito da segni sul suolo, immagini disegnate e foto, che confrontati e letti in successione, iniziano a raccontare delle diverse stratificazioni che la storia, sul suolo, ha dispiegato. Una ricerca dei segni che il territorio materialmente conserva o che fa intravedere e che si sviluppa attraverso i paesaggi di carta delle mappe dei cabrei e dei catasti, per giungere infine ai paesaggi degli scatti fotografici, sia dal cielo che dalla terra.

Il castello di Onferno, edificato su di uno sperone gessoso all’interno di una vasta area naturale, ripreso durante la campagna di “Rilevamento dei beni culturali dell’Appennino forlivese” (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna).

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iv. Forma urbis

Dalle carte, dal cielo e dalla terra, dalle colline al mare: forma e rappresentazione degli insediamenti

L’evoluzione della forma degli insediamenti è prodotta da una complessità di fattori tra i quali preponderanti sono quelli economici e politici che tra loro si intrecciano e, in questa valle, anche da quelli naturali come le esondazioni e le erosioni del fiume Conca, per giungere alle ampie opere di bonifica delle aree paludose compiute nel periodo medievale da importanti ordini monastici. Nel corso dei secoli le modifiche si sono succedute più o meno visibili. Più o meno devastanti. Per ripercorrere le tappe della loro storia e, in particolare, avvicinarsi all’evoluzione sia degli insediamenti murati della valle sia del paesaggio circostante, è necessario individuare le tappe della produzione cartografica storica, che in momenti precisi ha fissato sulla carta la situazione del territorio: la sua parcellizzazione nei poderi e nelle coltivazioni, le aree strappate alle paludi, l’impianto dell’insediamento murato sia urbano che rurale, lo sviluppo dei borghi oltre le mura. Per compiere questo avvicinamento è indispensabile l’ausilio della cartografia catastale storica ovviamente mai disgiunta da dati storico‑bibliografici coevi. Strumenti di particolare utilità si dimostrano i catasti come il Calindri e quelli pre-unitari come il Napoleonico e il Gregoriano che consentono la visione di modifiche, spesso consistenti, nella forma urbana.

Il pri­mo, nonostante sia essenzialmente un catasto terreni, riporta sempre gli insediamenti, evidenziandone l’impianto con gli assi viari principali e la presenza delle mura, assieme ad una attenzione particolare per la toponamastica, mentre il secondo e il terzo consentono anche la lettura del frazionamento urbano. Attraverso il confronto tra queste fonti si può risalire alle funzioni attribuite ai centri nelle varie epoche e ripercorrere le fasi salienti della formazione degli insediamenti maggiori. Risultano infatti ben evidenti feno­meni come la tendenza all’accentramento degli insediamenti in borghi di dimensioni minime, voluti in genere da una politica di colonizzazione ripetutasi in forme ed epoche diverse. Una forma di governo che ha prodotto, durante l’epoca malatestiana, centri e nuclei murati e in seguito, con la bonifica di nuove terre prima im­paludate, centri e soprattutto piccoli nuclei con una configurazione urbanistica lineare, senza più mura. Il bacino del Conca segna poi un confine netto per certi aspetti tipolo­gici dell’edilizia sparsa: a nord rocche e castelli isolati ed i residui di proprietà fondiarie estese, a sud le torri, testimoniate fin dal XV secolo, tipiche di un maggior frazionamento poderale. In questo territorio poi anche i fattori morfologico­-ambientali, hanno impresso caratteri distintivi agli insediamenti rispetto ad altri contesti regionali; particolarmente significativo è il confronto con l’acclività, col rilievo del crinali e l’esposizione dei versanti.

Particolare con il castello di Monte Colombo tratto dal Catasto Calindri, (Archivio di Stato, Rimini).

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Viaggio nella valle del conca Particolare dell’impianto urbano di Mondaino, di tipo lineare e di crinale (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna).

Anche con una rapida lettura cartografica, attraverso il confronto di questi parametri si nota subito come l’insediarsi dei centri e delle località di maggiore importanza storica abbia privilegiato le zone di crinale e le esposizioni verso ­sud e sud‑est, creando spesso vincoli «formali» alla tipologia urbana: ne sono esempio Saludecio e Mondaino con la loro forma a fuso, una disposizione lineare tipica di molti insediamenti di crinale. Su particolari emergenze orografiche assistiamo invece alla forma tipica dell’arroccamento, un’impianto urbano di tipo polare, avvolgente secondo le curve di livello, come nel caso di Montefiore Conca, dove si riscontra la rocca in posizione

Montefiore Conca, espressione tipica dell’arroccamento, con impianto urbano polare e avvolgente secondo le curve di livello (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna).

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centrale ed una prima cinta difensiva, su cui sorge parte dell’abitato, seguita da una ulteriore fascia concentrica. Nel periodo tardo medievale questi centri sviluppano la formazione di un borgo esterno alle mura, situato sulla viabilità maggiore, spesso incentivato dalla presenza dei conventi degli ordini mendicanti che di solito sorgevano all’esterno del borgo fortifica­ to. Nel caso di siti sufficientemente pianeggianti si nota poi la tendenza ippodamea o poligonale regolare. Spesso laddove il centro maggiore risulta dominante sul contado si osservano tentativi non casuali di pianificazione, come la ri­cerca dell’organizzazione della viabilità interna; un fenomeno visibile, oltre che nei centri di pianura di fondazione


Forma urbis Le recenti lottizzazioni: il nuovo “borgo fuori dalle mura” del castello di San Savino.

o rifondazione medioevale, anche in alcuni centri della montagna43. Abbiamo inoltre esempi – come è accaduto per San Giovanni in Marignano –, di traslazione di un centro dalla sede originaria a carattere difensivo, ad una sottostante che consentisse maggior sviluppo in tempi di maggiore tranquillità. Spostamenti spesso innescati anche dalle opere di bonifica­dei centri monastici che avevano reso disponibili vaste aree di terreno ad alta fertilità agraria. La stessa Cattolica, nella quale è difficilmente identificabile il nucleo originario dislocato attorno alla via Flaminia, si rivela immediatamente nella sua natura di strada fortificata nel catasto Pon­tificio.

Esistono poi anche due casi di “città fondate”, San Giovanni in Marignano e Montegridolfo, sorte su “piani” prestabiliti definiti a tavolino, che per regolarità di impianto sono piccoli ma validi esempi di urbanistica pre-rinascimentale. Oltre ai catasti, il confronto può continuare attraverso le tavole dell’IGM di primo impianto nelle quali, anche se a diversa scala, le delimitazioni dell’impianto urbano corrispondono alla situazione reale. Attraverso le foto aeree degli anni Trenta dell’IGM e quelle degli anni ’54 e ’55 del secolo scorso oltre ad individuare l’espansione urbana, la lettura si può estendere anche alla ricostruzione di diverse fasi evolutive del territorio coltivato.

Oltre le case e i nuclei sparsi sul territorio coltivato, sulla fascia costiera l’ininterrotto sviluppo urbano e la perdita di identità dei singoli insediamenti.

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Viaggio nella valle del conca

Castelleale Eseguita da Alessandro Bartolucci, questa tavola del Catasto Calindri è uno degli esempi più completi per l’impostazione cartografica e per la somma di informazioni contenute. Nel disegno sono riportate le diverse proprietà e le loro delimitazioni, gli edifici e il tipo di

Particolare della tavola di Castelleale del Catasto Calindri con la “tomba” di Castelleale (Archivio di Stato, Rimini).

Particolare della foto del rilievo aereo GAI degli anni 1954-55 con Castelleale e il territorio circostante che presenta una frammentazione di colture agrarie oggi scomparsa (Istituto Geografico Militare Italiano).

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coltivazioni tra le quali predominano il vitato e l’olivato. Attraverso essa è quindi possibile riconoscere la proprietà di ognuno, che viene indicata con un numero e i confini che la delimitano, come i fossi e le siepi. Le diverse coltivazioni, anche all’interno di una stessa proprietà,


Forma urbis

sono separate da una linea tratteggiata che permette di ricostruire l’effettiva superficie destinata ad un determinato coltivo. La “tomba” di Castelleale è poi rappresentata nell’insieme degli edifici che la compongono e che generano di fatto un borgo murato.

L’insediamento, attraverso queste informazioni, può quindi essere letto nella completezza del suo rapporto con la varietà delle coltivazioni agrarie e sulla produzione prevalente della fattoria: olio e vino. Con un salto di secoli, prendendo atto della situazione attuale del nucleo, che

Vista satellitare di Castelleale che evidenzia la differenza colturale del territorio circostante con le foto aeree degli anni 195455 (Google 2011).

Particolare con la “tomba” di Castelleale della tavola del catasto Calindri realizzata da A. Bertolucci. Attorno al nucleo, in verde scuro l’area di pertinenza dell’abitato e le indicazioni delle coltivazioni di “vitato” e “olivato” (Archivio di Stato, Rimini).

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Viaggio nella valle del conca

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Tavola di Castelleale del Catasto Calindri ridisegnata da Alessandro Bertolucci nel 1788 (Archivio di Stato, Rimini).

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Viaggio nella valle del conca

conserva esigue tracce dell’impianto originario, possiamo però raccogliere informazioni sull’evoluzione delle coltivazioni, veramente macroscopica, che emerge dal confronto tra la mappa del catasto, la foto del rilievo aereo degli anni 19541955 e l’immagine satellitare (fonte Google). Alla geometrica frammentazione Dall’interno della “tomba” di Castelleale vista su San Marino e sul territorio circostante, che presenta una sistemazione idraulicoagraria a “ritocchino”, cioè con lavorazioni e fossi di scolo dall’alto in basso.

Particolare dell’arco d’ingresso della porta carraia e dell’attigua porta pedonale di Castelleale.

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delle coltivazioni è subentrata una vasta area per la produzione cerealicola. Ma ritornando al catasto settecentesco, ciò che emerge nell’immediatezza della consultazione, è l’immagine di un territorio fertile che aveva giustificato la scelta di vivere in una fattoria fortificata, pur di poter coltivare viti ed ulivi.


Forma urbis

Il 13 settembre 1400, Leale Malatesta, vescovo di Rimini, fece il suo testamento in Castel Leale, da lui edificato, e che da lui prese il nome. L’importanza e il grado di prosperità di questa “tomba”, appartenente alla Diocesi di Rimini nella Pieve di S. Savino, emergono dai pochi elementi architettonici rimasti: l’arco dell’ingresso della

porta carraia, e la vicina porta pedonale. I pochi ed essenziali elementi decorativi che le caratterizzano, sono indice della ricerca di una forma di raffinatezza formale che avvalora l’idea di un nucleo agricolo forte e ben organizzato, che dalla sua collocazione poteva anche dominare visivamente su buona parte del territorio circostante.

Castelleale, la porta pedonale.

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Viaggio nella valle del conca

San Clemente Il castello di San Clemente presenta un’impostazione planimetrica con una strada centrale e due laterali più brevi, che iniziano dalla porta d’accesso ed immettono nel borgo. Le mura che lo contengono, importanti come struttura, sembrano nate per proteggere un luogo di valore.

Stralcio della tavola del Catasto Calindri con il castello di San Clemente (Archivio di Stato, Rimini).

Stralcio della tavola del Catasto napoleonicogregoriano con il castello di San Clemente (Archivio di Stato, Forlì).

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Oggi, dell’impianto urbano medievale si conserva la suddivisione in tre settori tra di loro paralleli. Dalle mura è possibile dominare una vasta parte del territorio limitrofo che permette di percepire la complessità delle diverse coltivazioni.


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San Clemente, ripresa prospettica da elicottero (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, CRC-Centro Regionale per il Catalogo).

San Clemente, particolare della cortina muraria con torri e beccadelli.

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Viaggio nella valle del conca

Monte Colombo All’interno delle mura che ancora lo contengono il borgo di Monte Colombo ha mantenuto il suo impianto medievale. L’abitato è suddiviso in tre blocchi, determinati dalle due vie principali che si ricongiungono in prossimità della porta d’accesso.

Il castello di Monte Colombo e il borgo fuori le mura nello stralcio della tavola del Catasto Calindri (Archivio di Stato, Rimini).

Il castello di Monte Colombo e il borgo fuori le mura nello stralcio della tavola del Catasto gregoriano (Archivio di Stato, Forlì).

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L’uso della pietra e del mattone, particolarmente visibile nella porta e nell’androne con le feritoie per i bolzoni, in condizioni particolari di luce crea particolari suggestioni di colore. Fuori dalle mura, a valle della chiesa e lungo la strada, si è sviluppato il borgo.


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Ripresa prospettica da elicottero del castello di Monte Colombo e del borgo fuori dalle mura (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, CRC-Centro Regionale per il Catalogo).

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Viaggio nella valle del conca Esterno ed interno della porta d’accesso al castello di Monte Colombo.

Nella pagina a fianco: Monte Colombo, luce su pietra e mattoni dell’androne.

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Viaggio nella valle del conca

Albereto Forse perché minuscolo o per una concomitanza di condizioni favorevoli, il castello di Albereto è in grado di comunicare più di quanto sia materialmente visibile. Dall’esterno, le case che emergono al di sopra delle mura a scarpa già fanno intuire quale possa essere il suo impian-

Il castello di Albereto nello stralcio del Catasto Calindri (Archivio di Stato, Rimini).

Il castello di Albereto nello stralcio del Catasto napoleonicogregoriano (Archivio di Stato, Forlì).

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to; poche basse costruzioni attorno alle due brevissime vie tra loro parallele che, iniziando dall’accesso, suddividono in tre parti l’abitato. Poche abitazioni di volumi contenuti, alcune recuperate e altre che ancora fanno intravedere, sotto l’intonaco scrostato, la muratura origina-


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Ripresa prospettica da elicottero del castello di Albereto (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, CRC-Centro Regionale per il Catalogo).

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Le mura a scarpa del castello di Albereto.

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Viaggio nella valle del conca Nella pagina a fianco, Albereto: muratura con pietra, mattoni e architravi in legno.

Albereto, strada interna al castello.

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ria e, dalle finestre, il vuoto degli interni. Ciò però non deve trarre in inganno, questo non è un luogo in decadenza. Le murature in parte sgretolate, alzate con sasso di fiume e mattoni, acqua e terra, sia all’esterno che dentro alle stanze che si intravedono oltre le finestre, portano ad immaginare la vita che vi si svolgeva, fatta della quotidianità del lavoro, della vita familiare, della gioia e della fatica

del vivere. Con questo, non si vuole certo sostenere la necessità di mantenere questo luogo ed altri simili in una variante attuale del “ruderismo” per non perderne l’essenza intrinseca, ma ci si augura un restauro rispettoso, che non li trasformi in ciò che non sono mai stati, una parodia di perfezione di ciò che, spesso realizzato con essenzialità di mezzi, perfetto non è mai stato.


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Viaggio nella valle del conca

Gemmano Semidistrutto durante l’ultimo conflitto mondiale, Gemmano ha perduto l’antico impianto del borgo medievale. Attraverso la testimonianza del Catasto Calindri e di quelli pre-unitari è però possibile ri-

Il castello di Gemmano e il borgo fuori le mura rappresentati nel Catasto Calindri (Archivio di Stato, Rimini).

Il castello di Gemmano e il borgo fuori le mura nella “mappetta” del Catasto gregoriano (Archivio di Stato, Roma).

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trovare traccia dello sviluppo planimetrico dell’abitato che, cinto da mura quasi circolari ancora esistenti, presentava due brevi vie tra loro quasi parallele e perpendicolari alla porta d’accesso.


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Il nucleo abitato di Gemmano, ancora contenuto tra le mura, ricostruito dopo le distruzioni causate dalla seconda guerra mondiale (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, CRC-Centro Regionale per il Catalogo).

Il colle su cui sorge Gemmano ripreso da San Clemente.

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Viaggio nella valle del conca

Montefiore Conca Con il frazionamento delle campagne in giurisdizioni e signorie terriere indipendenti e con l’aumentare delle dimensioni del latifondo, sul territorio sorsero castelli, con funzione difensiva e di residenza signorile. Quando poi si aggiunse una rinnovata necessità di difesa dagli spazi aperti delle

Il castello, il borgo murato e quello fuori le mura di Montefiore Conca, rappresentati nella “mappetta” del Catasto gregoriano (Archivio di Stato, Roma).

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campagne, attorno al presidio fortificato iniziò a svilupparsi il borgo. Il castello è stato uno degli elementi che ha caratterizzato il paesaggio medievale: un’emergenza strettamente legata nella forma e nell’uso dei materiali all’ambiente naturale in cui era inserito. Tutta una serie di elementi


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che si ritrovano nel castello di Montefiore Conca che, con il borgo sviluppato dentro alla prima e poi alla seconda cerchia delle mura, è un esempio tipico prima di arroccamento e poi di incastellamento, sviluppato quando, dalle campagne, venne ricercata la difesa del vivere entro le mura.

Il suo impianto urbano, arroccato su di un’emergenza rocciosa, si è sviluppato in modo polare e avvolgente secondo le curve di livello che evidenzia, anche se in modo parziale, con le polarizzazioni interne baricentriche.

Montefiore Conca nella ripresa da elicottero che evidenzia la struttura polare e avvolgente secondo le curve di livello delle mura e del borgo, quest’ultimo sviluppato attorno al castello e all’interno della seconda cerchia di mura. In evidenza anche parte del borgo fuori le mura sorto lungo la strada (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, CRCCentro Regionale per il Catalogo).

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Viaggio nella valle del conca

Saludecio L’importanza dei fattori morfologico­ -ambientali ha impresso caratteri distintivi particolari agli insediamenti di questa valle. Particolarmente significativo è il rapporto con l’acclività e col rilievo

Il rilievo urbano di Saludecio riprodotto nel Catasto Calindri (Archivio di Stato, Rimini).

Il rilievo urbano di Saludecio riprodotto nel Catasto napoleonicogregoriano. Come per gli altri insediamenti, a differenza del catasto precedente, l’impianto urbano è identificato per blocchi (Archivio di Stato, Forlì).

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del crinali che ha portato a sviluppi polari e lineari degli insediamenti. Considerando questi parametri si nota subito come l’insediarsi dei centri e delle località di maggiore importan-


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za storica abbia privilegiato le zone di crinale, originando spesso tipologie urbane lineari con la tipica forma a fuso, come quelle di Saludecio e Mondaino. Saludecio si presenta racchiuso tra le

mura rinascimentali con il paese sviluppato a fuso e percorso sempre in modo lineare delle vie, tra Porta Montanara e Porta Marina, risalenti all’epoca malatestiana.

L’impianto urbano di Saludecio, di tipo lineare e con forma a fuso, scandito in due blocchi dalla via principale (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, CRC-Centro Regionale per il Catalogo).

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Viaggio nella valle del conca Saludecio, l’ingresso da porta Montanara e il portale della chiesa seicentesca di San Girolamo.

Alla base della torre civica di Saludecio: 12 giugno 1859, giunta provvisoria di governo e innalzamento della bandiera italiana sulla torre. 22 marzo 1911, lapide a ricordo dell’evento e celebrazione dei primi cinquant’anni di Unità. Marzo 2011, dopo 100 anni, in questa pagina, una parentesi aperta all’interno del periodo malatestiano per celebrare il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia.

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Forma urbis Saludecio, porta Marina; a destra l'ingresso al Museo di Saludecio e del Beato Amato e, al di lĂ della porta, la facciata della chiesa parrocchiale (San Biagio).

Saludecio, dalla porta Marina lo sguardo verso il mare e il ricordo.

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Viaggio nella valle del conca

Mondaino Sviluppata come Saludecio su di un crinale in modo lineare e con forma a fuso, Mondaino ha conservato l’impianto medievale con l’abitato suddiviso in due da una strada centrale. Tanto le mura di cinta che la porta settentrionale e la rocca si sono sviluppate su un grande basamento rialzato che dona alla rocca stessa un senso di inaccessibilità. Per quanto riguarda la rocca poi, si ha notizia della parziale individuazione di una lunga galleria sotterranea che dal for-

L’insediamento urbano di Mondaino rappresentato nel Catasto napoleonicogregoriano (Archivio di Stato, Forlì) e nella “mappetta” del Catasto gregoriano (Archivio di Stato, Roma).

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tilizio forse portava al fiume: un probabile passaggio segreto per inviare messaggerie, ma anche una possibile via di fuga. Il caratteristico impianto planimetrico dell’insediamento, in un confronto tra la mappa catastale pre-unitaria, la tavoletta IGM di primo impianto, la foto aerea degli anni 1954-1955 e quella ravvicinata da elicottero, mostra una riconoscibilità spaziale che, oltre alla suddivisione insediativa, si estende anche agli spazi verdi e coltivati presenti entro le mura.


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L’impianto urbano di Mondaino, sviluppato su di un crinale, di tipo lineare e con forma a fuso, perfettamente leggibile nella ripresa da elicottero che evidenzia la scansione urbana prodotta dalla via centrale (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, CRC-Centro Regionale per il Catalogo).

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Viaggio nella valle del conca Mondaino riprodotto in una delle tavole della Carta austriaca (Istituto Geografico Militare Italiano).

La forma urbana di Mondaino riprodotta nella tavola dell’IGM di primo impianto (Istituto Geografico Militare Italiano).

L’insediamento di Mondaino ben identificabile nel rilievo aereo GAI degli anni 1954-55 (Istituto Geografico Militare Italiano).

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Forma urbis

quattro particolari della torre portaia presso la rocca Mondaino, e vista sul territorio circostante dalla stessa torre.

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Viaggio nella valle del conca

Mondaino, viabilitĂ secondaria ortogonale a quella principale.

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Forma urbis La merlatura della rocca malatestiana sopra al porticato della semicircolare piazza ottocentesca.

Sul campanile il simbolo di Mondaino.

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Viaggio nella valle del conca

Montegridolfo Nell’anno 1337, a seguito di lotte intestine nella famiglia dei Malatesti, Montegridolfo fu completamente distrutto. Dopo circa cinque anni fu totalmente

Castello di Montegridolfo, l’impianto urbano nel Catasto Calindri (Archivio di Stato, Rimini).

Castello di Montegridolfo, l’impianto urbano nel Catasto napoleonicogregoriano (Archivio di Stato, Forlì).

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ricostruito nella forma ancora oggi visibile, seppur con modeste variazioni, che non ne hanno comunque stravolto l’impianto planimetrico.


Forma urbis

Il borgo è situato su di un terrapieno rialzato, contenuto da alte mura a scarpa; al suo interno le costruzioni, di moderate dimensioni, si sviluppano in

modo allineato fra tre vie tra loro parallele. Un’unica porta-torre, in origine con ponte levatoio, consente l’accesso al borgo.

Castello di Montegridolfo, ripresa prospettica da elicottero dell’impianto urbano durante i restauri (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, CRC-Centro Regionale per il Catalogo).

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Viaggio nella valle del conca

Morciano di Romagna Come per ogni insediamento di questa valle, anche la storia di Morciano ha origini lontane. Forse, a prima vista, a motivo della sua attuale espansione urbana – unica su questo territorio – ciò potrebbe non essere di percezione immediata, ma basta poco per individuare la struttura formale del primo nucleo edificato e, contemporaneamente, avvicinarsi alla comprensione dello spirito propulsore che lo originò. Morciano contiene, e spesso evidenzia, una pluralità di aspetti che riconducono sia alla sua storia, sia a quella condivisa con questa parte della valle. Sono, innanzitutto, forme che gli appartengono in modo esclusivo e che sono espressione della secolare presenza dei mercati e delle fiere. Aspetti che

Parte dell’insediamento urbano di Morciano, sottostante a San Clemente nel Catasto Calindri (Archivio di Stato, Rimini).

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si estendono poi a quelli condivisi e legati all’evoluzione storica degli insediamenti urbani e alla loro origine, come la gestione del territorio da parte delle signorie che ne avevano il dominio; a forme politico-economiche e culturali che ne hanno influenzato lo sviluppo, estese alle manifestazioni concrete di un avanzato utilizzo agrario; ad aspetti di tipo artigianale come quelli legati all’allevamento del baco da seta – originariamente espressione di un’economia di tipo familiare –, che, con l’estensione a forme proto-industriali, e poi industriali diedero origine ai setifici, fino a giungere a quelle naturali e spesso imprevedibili, come le disastrose esondazioni del fiume Conca che a Morciano modificarono il tessuto urbano-storico rubandone il castello.


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Il primo documento in cui Morciano è menzionato è il Codice Bavaro – registro delle investiture concesse dalla Chiesa di Ravenna nei secoli VIII, IX e X, dei fondi che questa possedeva nei territori dal riminese fino al Montefeltro e al Pesarese –, dove è nominato un fundus Morciani, un appezzamento di terra chiamato Morciano. Un luogo sicuramente abitato, ma che non aveva alcuna connotazione politica o civile. In seguito esso diventa un castrum, come ci attesta l’atto, datato 1014, con cui il feudatario riminese Bennone di Vitaliano cede al figlio Pietro il: castrum integrum quod vocatur Morcianum cum Capella ibi fundata cui vocabulus est S. Johannes. Dopo la fondazione dell’Abbazia di San Gregorio, avvenuta attorno al 1061, che diventa punto di riferimento della vita religiosa ed economica della bassa Valle del Conca, Morciano perde progressivamente importanza e parte della sua popolazione si trasferisce sulle colline o alle dipendenze dello stesso monastero di San Gregorio. In seguito, nell’anno 1069 Pietro di Benno, e sua moglie Erigunda, donarono al monastero una cospicua quantità di beni fra cui il castello di Morciano. è il momento

in cui Morciano entra alle dipendenze dell’Abbazia di San Gregorio dove viene trasferita parte dei mercati che si svolgevano nel suo borgo. Da allora, la sua storia, sempre in ogni modo legata al mercato, si dipana con fasi alterne lungo i secoli, nei quali si riappropria di una propria identità insediativa, commerciale e politica. Sviluppato lungo la sponda destra del fiume Conca, per secoli Morciano continua ad essere suddiviso in due parti: il territorio alla destra del fiume – con ciò che restava del borgo, dopo che il Conca ne aveva ghermito il castello –, apparteneva al Comune di Montefiore, mentre i terreni a sinistra del fiume, sui quali erano presenti numerosi mulini, ricadevano nel Comune di San Clemente. Morciano quindi continuava ad esistere, ma come un forum o un emporius. Bisogna giungere al 1827 per vederlo diventare Comune, ma sempre come appodiato di San Clemente e poi all’anno 1857, per vederlo ottenere, a seguito del decreto di Pio IX, la sua completa autonomia. Oggi, considerando sempre l’architettura come la struttura formale della storia di un luogo, attraverso la comparazione di cartografie e rilievi aereofotogrammetrici

A sinistra: Morciano, suddivisione particellare urbana nella “mappetta” del Catasto gregoriano (Archivio di Stato, Roma). La “luna” dell’antico impianto urbano di Morciano, sviluppata attorno all’antica viapiazza del mercato e parte del nuovo insediamento ad assi ortogonali (Google 2011).

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Viaggio nella valle del conca Morciano, catasto napoleonicogregoriano (Archivio di Stato, ForlĂŹ).

Morciano, tavola IGM di primo impianto (Istituto Geografico Militare Italiano).

Morciano, rilievo aereo gai degli anni 195455 (Istituto Geografico Militare Italiano).

Banca Popolare Valconca, Via Bucci, Morciano di Romagna - Google Maps

Pagina 1 d

Per vedere tutti i dettagli visibili sullo schermo usa il link Stampa accanto alla mappa.

Morciano, vista satellitare (Google 2011).

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Š2011 Google - Immagini Š2011 Cnes/Spot Image, DigitalGlobe, GeoEye -


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storici con rilievi attuali dello stesso tipo, possiamo cogliere agevolmente buona parte delle fasi evolutive del suo impianto urbano. In questo, ciò che colpisce è l’ulteriore sviluppo della “luna” del nucleo storico. Essa si amplia nelle proposte delle soluzioni urbanistiche programmatiche

che vediamo concretate nello sviluppo urbano, sempre a destra del Conca e accanto al nucleo storico. Un’espansione che prevedeva, ed ha attuato, una scansione urbana ad assi ortogonali. Quasi un ricordo della programmazione urbana di Roma nel “nuovo cuore storico” di Morciano.

Morciano, il centro storico (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, CRC-Centro Regionale per il Catalogo).

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Viaggio nella valle del conca

San Giovanni in Marignano Situato nella zona pianeggiante della valle del Conca, l’insediamento di San Giovanni in Marignano presenta uno schema urbano regolare ad incrocio di assi con isolati rettangolari.

L’impianto urbano a incrocio di assi ortogonali di San Giovanni in Marignano nel rilievo del Catasto Calindri e nel Catasto napoleonicogregoriano (Archivio di Stato, Rimini).

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La suddivisione dell’abitato è quindi prodotta dall’intersezione tra la strada principale e quelle secondarie. Questo schema planimetrico con tutta probabilità non è sorto a caso, in quanto in questo luogo,


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le strade e la loro regolaritĂ assumono un aspetto di particolare importanza. Sotto il loro livello erano infatti situate le centinaia di fosse granarie nelle quali venivano ammassati i cereali e, in modo preponderante

il grano, scorte utilizzate sia per il sostentamento della popolazione in tempi di crisi e possibili assedi, sia per i commerci che avevano il centro nel litorale della vicina Cattolica.

L’insediamento attuale di San Giovanni in Marignano. Quasi scomparse le mura malatestiane rimane perfettamente visibile la forma urbana (Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, CRC-Centro Regionale per il Catalogo).

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Viaggio nella valle del conca

Cattolica L’antica villa di Cattolica, è l’esempio più evidente di come si possa sviluppare un piccolo borgo attorno ad una strada di importante comunicazione. Sorta sul tracciato della romana Via Flaminia, luogo di commerci e scambi dovuti alla presenza del porto, Cattolica,

La parte superiore alla Via Flaminia del primitivo insediamento di Cattolica nel Catasto Calindri (Archivio di Stato, Rimini).

La parte inferiore alla Via Flaminia del primitivo insediamento di Cattolica nel Catasto Calindri (Archivio di Stato, Rimini).

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nel tempo, ha continuato a svilupparsi attorno a queste sue caratteristiche fino a giungere all’ultima, quella che utilizza le spiagge e il mare per cura e vacanza. Per rendersi conto della sua evoluzione urbana è sufficiente il confronto tra la cartografia storica dei catasti pre-unitari,


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le foto aeree del secondo dopoguerra e il rilievo aereo-cartografico regionale degli anni Settanta del secolo scorso. Dalle poche case allineate sui lati del tracciato stradale riportate nel Catasto gregoriano e nella Carta austriaca, nel breve svolgere di un secolo l’impianto

lineare originale si è esteso verso il mare e l’entroterra, in un modo settorialmente ortogonale, che determina i nuovi quartieri. Oggi la consistente espansione urbana difficilmente permette di riconoscerne il nucleo originario. Lo sviluppo urbano di Cattolica rilevato nel Catasto napoleonicogregoriano (Archivio di Stato, Forlì).

Lo sviluppo urbano di Cattolica attorno al nucleo originario sviluppato attorno alla via Flaminia (Google 2011).

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Viaggio nella valle del conca Cattolica nella Carta austriaca (Istituto Geografico Militare Italiano).

L’espansione di Cattolica verso la costa e il tracciato ferroviario nella tavola IGM di primo impianto (Istituto Geografico Militare Italiano).

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Forma urbis Cattolica, l’ampliamento urbano visto dal cielo attraverso il rilievo aereo GAI degli anni 1954-55 (Istituto Geografico Militare Italiano).

Cattolica, la situazone urbana attuale (Google 2011).

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note

1 O. Delucca, L’abitazione Riminese nel Quattrocento. Parte prima. La Casa Rurale, Stefano Patacconi Editore, Rimini, 1991.

Giovanni Bellini apprese il mestiere di pittore nella bottega del padre, ma fu l’influenza del Mantegna che lo segnò profondamente. Attraverso l’arte del cognato, Giovanni conobbe l’ambiente colto e innovatore di Padova, tributario della cultura fiorentina. Del Mantegna adottò la composizione serrata, la prospettiva rigorosa, il disegno preciso e lineare. Ma a differenza del maestro nella sua opera c’è più umanità nei sentimenti espressi: tenerezza, gioia o dolore. La natura è rappresentata, fatto del tutto nuovo, con tanta verità ed amore. Spesso le composizioni si stagliano su fondali paesaggistici dei quali sono riconoscibili i luoghi o le architetture, come nel caso di due Madonna col Bambino che recano sullo sfondo il castello di Montefiore (Londra, National Gallery e Museo di Kansas City - Kress Foundation di New York, periodo di esecuzione ca. 1480 e 1490). Come afferma P.G. Pasini (P.G. Pasini, La Valle delle chiese bianche. Appunti sulla cultura artistica, in Natura e cultura nella valle del Conca, a cura di P. Meldini, P.G. Pasini, S. Pivato, Biblioteca comunale di Cattolica, Cassa di Risparmio di Rimini, Rimini, 1982), Giovanni Bellini durante un suo viaggio tra Romagna e Marche dovette raccogliere «dal vero» diversi elementi paesaggistici e monumentali, che in seguito utilizzò negli sfondi di alcuni dei suoi più importanti dipinti. La conoscenza della valle era dovuta, oltre a documentati rapporti di lavoro con Rimini e Pesaro, all’esistenza di possibili rapporti di parentela che lo legavano a quest’ultima città, luogo dal quale proveniva la madre, Anna Rinversi.

2

3 Lavori eseguiti nel periodo 2006-2008 a cura della Soprintendenza archeologica della Regione Emilia-Romagna.

A Jacopo Avanzi (Bologna, seconda metà del XIV secolo - 21 gennaio 1416), uno dei pittori bolognesi più importanti della seconda metà del XIV secolo, si deve anche una bella tavola raffigurante la Crocifissione (ora a Roma, Galleria Colonna) che reca in basso lo stemma malatestiano; ne è stata ipotizzata la provenienza proprio dalla cappella della rocca di Montefiore (cfr. P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Medioevo a Rinascimento, Pizzi, Milano, 1996, per la Banca Popolare Valconca, Morciano di Romagna).

Per la storia di Montefiore e le vicende della sua rocca è tuttora indispensabile il volume di G. Vitali, Memorie storiche risguardanti la terra di M. Fiore, Rimino 1828; per i recenti lavori di restauro: La rocca e il sigillo ritrovato. Ultimi restauri e scoperte a Montefiore Conca, a cura di Valter Piazza e Cetty Muscolino, Maggioli ed., Santarcangelo di R., 2000. 6 Per le notizie sugli affreschi: Pier Giorgio Pasini, Jacopo Avanzi e i Malatesti. La «camera picta» di Montefiore Conca, in “Romagna arte e storia”, 16, 1986; Cetty Muscolino, “A proposito di un importante ciclo pittorico”, in Montefiore Conca. Passato e futuro della rocca malatestiana, Maggioli Editore, Forlì, 2003.

7 Il Tacuinum sanitatis in medicina, letteralmente, tavole della salute secondo la medicina, è un codice miniato italiano della fine del XIV secolo, conservato nella Öesterreichische Nationalbibliothek di Vienna. In esso sono contenuti tutti i consigli per mantenere giorno per giorno la salute attraverso sei cose fondamentali: l’aria, ossia il clima in cui si vive, il corretto uso di cibi e bevande, il saggio alternare di lavoro e riposo, l’astenersi da troppo lunghi sonni come da eccessive veglie, l’equilibrio ovvero della eliminazione e della ritenzione nelle funzioni corporee e ultima, la moderazione nella gioia e nell’ira, nella paura e nell’angoscia. Tutto ciò che servirà per attuarle, sarà poi esposto secondo i consigli dei migliori autori antichi e da oltre duecento miniature che illustrano i consigli con un breve testo. Le miniature illustrano aspetti di vita dell’Italia settentrionale padana e vi si possono leggere informazioni sulle costruzioni, sul modo di vestire oltre, ovviamente, a quello di mangiare.

Informazioni tratte da: Il libro di casa Cerruti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1983.

4

Arrigo Boito, eminente teorico del restauro architettonico in Italia e membro della Commissione permanente di belle arti, su incarico ministeriale il 3 ottobre 1883 compì un sopraluogo nel castello di Montefiore. Lo scopo era verificare lo stato di avanzamento dei lavori che, secondo il sindaco, non procedevano come previsto. Durante la verifica, compiuta con E. Tonini che ne ha lasciato una cronaca, Boito rilevò aspetti strutturali e decorativi della costruzione, oggi conservati nell’Archivio centrale dello Stato, Ministero della pubblica istruzione.

Per approfondire su chi scriveva di cucina e notizie sul banchetto medievale: G.M. Giughese, Il banchetto medievale, Cuneo, 2008. Per la storia della cucina e la descrizione delle ricette: C. Bemporat, Cucina italiana del Quattrocento, Leo S. Olschki Editore, 1996. Per avvicinarsi alla cucina malatestiana: L. Bartolotti, A tavola con i Malatesti, Panozzo Editore, Rimini, 1989. Agli scritti di G.M. Giughese e di L. Bartolotti è stato fatto diretto riferimento per la stesura del testo. 8

5

Un noce tra i muri di Mondaino.

9 F.V. Lombardi, «Lista» delle nozze di Roberto Malatesta ed Elisabetta da Montefeltro (25 giugno 1475), in “Romagna arte e storia”, 18, 1986, p.23 e ss. Per tutte le vicende malatestiane cfr. L. Tonini e C., Storia civile e sacra riminese, voll. III, IV, Rimini, 1862, 1887.

Attraverso la cronaca del Broglio è possibile ricostruire l’organizzazione e le fasi della festa e del banchetto. Egli infatti racconta come: «Tucti li sopradicti ordini furono conseguiti per tavole quattordici, le quali altre sette erano 10

119


Viaggio nella valle del conca messe da sotto dal Tribunale. Nel Tribunale stettero tucti li gran Signori e le Imbascerie più degne, e quattro Magnifiche Madonne; e dall’altre Tavole più basse nella Sala (furono sette Tavole a nove per Tavola) gli altri Signori e M.ci Gentiluomini e Gentildonne di più bassa mano. Da poi che fu finito il gran triunpho del pasto, se comenzò el sonare delli strumenti, e fo prencipiata la festa del ballare, il quale durò gran tempo del dì, conseguendo ogni degno piacere. Ristrecto li suoni e ’l ballare, le damigelle e gentiluomini pigliando alquanto riposo, li scalchi conseguendo loro officio, fecero portare la gran Colazione a rinfrescamento delli nobili e nobile.» Tratto da: L. Bartolotti, A tavola con i Malatesti, op. cit. Informazioni relative ai reperti archeologici tratte dal sito della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna www.archeobologna.beniculturali.it. Redattore, Carla Conti.

11

G. Fasoli, Incastellamento e vie di comunicazione, in Natura e cultura nella valle del Conca, a cura di, P. Meldini, P.G. Pasini, S. Pivato, Biblioteca comunale di Cattolica, Cassa di Risparmio di Rimini, Rimini, 1982.

E. Bianchi, L’Abbazia di San Gregorio nei secoli, Lions Club Valle del Conca, 2005.

23

Rasi, Racconto istorico, c. 6., in O. Delucca, L’uomo e l’ambiente in Valconca, Minerva Edizioni, Bologna, 2004.

24

25

E. Bianchi, op. cit.

26 Le notizie relative alle fosse da grano di San Giovanni in Marignano contenute nel testo sono tratte da: M.L. De Nicolò, Antichi manufatti ipogei: le fosse granarie di S. Giovanni in Marignano (Rimini), Quaderni di Scienza della conservazione, Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali, Alma Mater Studiorum Università di Bologna (sede di Ravenna).

12

27

M.L. De Nicolò, op. cit.

Pompeo Morganti, L’apparizione della Vergine, 1548, Trebbo di Montegridolfo, Santuario della Beata Vergine delle Grazie. Commissionata al pittore nel 1548 dagli abitanti di Montegridolfo, a seguito di un’apparizione miracolosa della Vergine in prossimità del borgo, il paesaggio sullo sfondo colpisce, come afferma P.G.Pasini (P.G. Pasini, La Valle delle chiese bianche. Appunti sulla cultura artistica, in Natura e cultura nella valle del Conca, op. cit.) «per la vivacità realistica e narrativa.» e come esso costituisca il primo vero ritratto di un paese del territorio della Valle del Conca «e come tale riveste un’importanza documentaria notevolissima». In alto sullo sfondo del dipinto, si nota il castello di Montegridolfo e più sotto la località Serra, in seguito detta Il Trebbo, con la casa accanto alla quale avvenne il primo episodio miracoloso. L’edificio è su due livelli, ha il tetto ricoperto a coppi e accanto vi si colgono aspetti legati alla vita rurale come i pagliai e la presenza del cane. 28

13

G. Fasoli, op. cit.

14

G. Fasoli, op. cit.

15

O. Delucca, L’abitazione Riminese nel Quattrocento, op. cit.

16

O. Delucca, L’abitazione Riminese nel Quattrocento, op. cit.

Piero de’ Crescenzi, (c.a 1233-1321), dottore in legge bolognese, attorno al 1299 rientrò nella sua città dopo circa trent’anni di lontananza dovuta a motivi politici. Un lungo periodo in cui aveva però avuto modo di leggere “molti libri di uomini sapienti, antichi e moderni” e di osservare nelle diverse regioni d’Italia “le varie pratiche dei coltivatori agricoli”. Ritornato a Bologna, settantenne, si ritirò nella sua tenuta di campagna e diede compimento a un’ampia trattazione sull’agricoltura che aveva iniziato da tempo e che ultimò intorno al 1305. L’opera, il Liber ruralium commodorum, stampato per la prima volta ad Augusta nel 1471, ebbe una diffusione immediata negli ambienti colti e fu presto tradotta in volgare toscano e poi in numerose lingue europee. Considerato il miglior trattato di agronomia del Medioevo, ne rimase il testo fondamentale anche secoli successivi. Realizzato secondo un metodo essenzialmente compilativo, il lavoro contiene citazioni, ampi estratti e riassunti dalle opere di autori latini come Catone, Varrone, Virgilio, Columella e di filosofi medievali come Avicenna e Alberto Magno. È un’opera che non ha un carattere strettamente agrario, ma risulta piuttosto una compilazione di carattere scientifico generale, dove hanno largo spazio l’elencazione di specie vegetali ed animali, indipendentemente dalla loro rilevanza per la vita rurale, accompagnate dalle loro proprietà medicinali o di influenza sulla salute, fino ai consigli sull’impostazione delle residenze di campagna. 17

Piero de’ Crescenzi, Delle corti, ovvero tombe da fare in diversi luoghi e in diversi modi, cap 6, Trattato della agricoltura di Piero de’ Crescenzi traslatato nella favella fiorentina rivisto dallo ‘Nferigno [Bastiano de Rossi] accademico della Crusca, In Bologna, nell’Instituto delle scienze, 1784.

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19

Piero de’ Crescenzi, op. cit.

20

O. Delucca, L’abitazione Riminese nel Quattrocento, op. cit.

21

O. Delucca, L’abitazione Riminese nel Quattrocento, op. cit.

Tutti i catasti storici che verranno in seguito descritti, assieme alle tavolette IGM e alle foto aeree, sono disponibili alla consultazione presso la Provincia di Rimini, Settore Pianificazione territoriale.

29

30 Per le notizie sulla centuriazione: G. Vianello, a cura di, Immagini del mondo rurale nello spazio e nel tempo, Accademia Nazionale di Agricoltura, Bologna, 2009.

Giovanni Bellini, Madonna col Bambino, Londra, National Gallery e Museo di Kansas City (Kress Foundation di New York), periodo di esecuzione ca. 1480 e 1490.

31

Per una descrizione approfondita dei quadri di Giovanni Bellini: P.G. Pasini, La Valle delle chiese bianche. Appunti sulla cultura artistica, in Natura e cultura nella valle del Conca, op. cit. e idem, Arte in Valconca dal Medioevo al Rinascimento, op. cit.

32

33

G. Vianello, op. cit.

34

G. Vianello, op. cit.

O. Delucca, Sistemi di gestione catastale tra basso Mediovo e Rinascimento, in Antico Catasto Calindri. Dalla centuria romana al webgis, Pazzini Stampatore Editore, Villa Verucchio, 2009.

35

Tutta la cartografia storica sotto elencata, unitamente alle tavole IGM e alle foto aeree è in consultazione presso la Provincia di Rimini.

36 22

O. Delucca, L’abitazione Riminese nel Quattrocento, op. cit.

120


Note 37 E. Rosetti, La Romagna geografia e storica per l’ing. Emilio Rosetti, Ulrico Hoepli, Miliano, 1894.

Per approfondire l’argomento: M. Foschi, Il rilevamento degli insediamenti storici, in Natura e cultura nella Valle del Conca, op. cit. e O. Delucca, L’uomo e l’ambiente in Valconca, Minerva Edizioni, Bologna, 2004, per la Banca Popolare Valconca, Morciano di R.

M. Foschi, Il rilevamento degli insediamenti storici, in Natura e cultura nella valle del Conca, op. cit.

41

38

39

Dati della Provincia di Rimini, Settore Pianificazione territoriale.

P.G. Pasini, Immagini della Romagna malatestiana, in C.Fanti, Pietre e terre malatestiane, Minerva Edizioni, Bologna, 2007, pp. 7-9.

42

43 S. Venturi, Metodologia di rilevamento territoriale e forma urbana, in Natura e cultura nella valle del Conca, op. cit.

40 V. Degli Esposti, M. Foschi, S. Venturi, G. Vianello, a cura di, Gli insediamenti rurali nelle vallate del Marecchia, Conca e Ventena, Bologna, 1979.

121



bibliografia

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Viaggio nella valle del conca

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futuro della rocca malatestiana, Maggioli Editore, Santarcangelo di R., 2003.

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125


referenze fotografiche

Campagna fotografica realizzata nel 2010-11 da: Š Anna-Maria Guccini Si ringrazia l’Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione EmiliaRomagna che ha messo a disposizione materiale cartografico e fotografico Diapositive aeree prospettiche realizzate da elicottero: Nazario Spadoni, ForlĂŹ Data delle riprese, 1994-1995 IBC-Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna CRC-Centro Regionale per il Catalogo e la documentazione Le immagini di pag. 22 sono tratte da: AA. VV., Il libro di casa Cerruti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1983 Pagg. 23-24 da: P. Thornton, Interni del Rinascimento italiano, Leonardo Editore, Milano, 1992.



finito di stampare nel mese di Novembre 2011 per i tipi della SATE - Ferrara


1) P.G. Pasini, Piero e i Malatesti. L’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole (1992) 2) E. Grassi, Giustiniano Villa poeta dialettale, 1842-1919 (1993) 3) P.G. Pasini, Il crocifisso dell’Agina e la pittura riminese del Trecento in Valconca (1994) 4) A. Bernucci - P.G. Pasini, Francesco Rosaspina “incisor celebre” (1995) 5) P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Medioevo al Rinascimento (1996) 6) P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Barocco al Novecento (1997) 7) A. Fontemaggi - O. Piolanti, Archeologia in Valconca. Tracce del popolamento tra l’Età del Ferro e la Romanità (1998) 8) P.G. Pasini, Emilio Filippini pittore solitario 1870-1938 (1999) 9) E. Brigliadori - A. Pasquini, Religiosità in Valconca. Vicende e figure (2000) 10) P.G. Pasini (a cura), Arte ritrovata. Un anno di restauri in territorio riminese (2001) 11) L. Bagli, Natura e paesaggio nella Valle del Conca (2002) 12) A. Sistri, Cultura tradizionale nella Valle del Conca. Materiale e appunti etnografici tra Romagna e Montefeltro (2003) 13) O. Delucca, L’uomo e l’ambiente in Valconca (2004) 14) P. Meldini, La cultura del cibo tra Romagna e Marche (2005) 15) P.G. Pasini, Passeggiate incoerenti tra Romagna e Marche (2006) 16) C. Fanti, Pietre e terre malatestiane (2007) 17) P.G. Pasini, Atanasio da Coriano frate pittore (2008) 18) P.G. Pasini, Il tesoro di Sigismondo e le medaglie di Matteo de’ Pasti (2009) Sono in vendita nelle migliori librerie. Alcuni titoli sono esauriti.

Anna-Maria Guccini

VIAGGIO NELLA VALLE DEL CONCA

La COLLANA EDITORIALE della Banca Popolare Valconca (dal 1992)

BANCA POPOLARE VALCONCA

Anna-Maria Guccini

VIAGGIO NELLA VALLE DEL CONCA

BANCA POPOLARE VALCONCA

Le parole e le immagini di questo libro sono espressione del desiderio di raccontare un viaggio che ha lasciato un segno importante nella vita di chi lo ha compiuto e che, come spesso accade, ha sentito l’esigenza di trasmettere il coinvolgimento prodotto dalle sensazioni immediate, le emozioni improvvise, i pensieri che raggiungono e immaginano tempi, paesaggi, architetture ed aspetti di vita che da secoli non ci appartengono, ma ai quali sentiamo in qualche modo di far parte e che ci catturano. Un insieme di aspetti che, nel territorio della Valle del fiume Conca, si sono condensati in una moltitudine di presenze e dove, le pietre che danno forma a fattorie fortificate, rocche, castelli ed abbazie, unite alle forme e ai colori dei campi coltivati, raccontano, e poi coinvolgono mente e cuore. Un coinvolgimento che inevitabilmente porta al sentire di una necessità di conoscenza più profonda di questa valle e che si può raggiungere attraverso i mezzi che abbiamo a disposizione: ricerca, lettura, cartografia storica, foto aeree e foto da terra. E per il valore delle informazioni in questo modo ottenute, unite al racconto delle proprie emozioni, l’autrice si augura che altri, come lei, decidano di scoprire o riscoprire l’avvincente complessità di contenuti che il territorio e l’architettura di questa valle conservano e di rimanerne ugualmente coinvolti e affascinati.

Anna-Maria Guccini, nata nell’Appennino tosco-emiliano, ancora prima della frequenza della facoltà di architettura, sviluppa l’interesse per lo studio del territorio e la sua evoluzione storica. Un interesse poi concretizzato attraverso collaborazioni con istituzioni ed enti diversi tra i quali: Comuni, Parchi storici, il Settore Pianificazione territoriale e l’Assessorato Cultura della Provincia di Bologna e l’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione EmiliaRomagna, per i quali ha condotto ricerche e studi tematici, realizzando pubblicazioni e mostre, presentazioni a convegni e giornate di studi. Alla passione per lo studio e la ricerca sul paesaggio affianca quello per la fotografia, il disegno e la ricerca archivistica. All’interno di quest’ultima, ha reso consultabile l’archivio dell’architetto Giuseppe Mengoni, autore della Galleria di Milano. Di questo archivio è direttore dal 2002 e ne cura la produzione scientifica, organizzando tra l’altro, giornate di studi, ma anche corsi e pubblicazioni finalizzati alla conoscenza dell’architettura e del paesaggio. Ha al suo attivo saggi in riviste e volumi miscellanei, la partecipazione a convegni e la realizzazione di diverse mostre. Fra le monografie pubblicate ricordiamo: Leggere il paesaggio-Conoscere per vedere-La valle del Santerno, Imola, 2005; Tipologie edilizie rurali storiche dell’Appennino bolognese-Persistenze ed evoluzioni formali e volumetriche ricorrenti, Argelato, 2008; Vita e lavoro in Appennino-La presenza femminile, Porretta Terme, 2009; Pane e mulini, Imola, 2009; Fare l’Italia ridisegnare la città: Giuseppe Mengoni, vita tra gli eventi, vita di eventi, Imola, 2011.


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