Passeggiate incoerenti

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Pier Giorgio Pasini

PASSEGGIATE INCOERENTI tra Romagna e Marche

BANCA POPOLARE VALCONCA

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Pier Giorgio Pasini

PASSEGGIATE INCOERENTI tra Romagna e Marche

Pier Giorgio Pasini, riminese, storico dellʼarte, da tempo si applica allo studio di temi e problemi riguardanti la cultura e la tutela del patrimonio artistico del territorio romagnolo e marchigiano, collaborando con la Soprintendenza per i Beni artistici e storici. Ha al suo attivo una lunga serie di saggi in riviste e volumi miscellanei e la partecipazione a convegni e a comitati scientiÞci di mostre. Fra le monograÞe pubblicate ricordiamo: I Malatesti e lʼarte, Milano 1983; La Pinacoteca di Rimini, Milano 1983; Guido Cagnacci, Rimini 1986; La pittura riminese del Trecento, Milano 1990; Piero e i Malatesti, Milano 1992; Arte in Valconca, I-II, Milano 1996-97; Il Museo di Stato della Repubblica di San Marino, Milano 2000; Il Tempio malatestiano. Splendore cortese e classicismo umanistico, Milano 2000.

Questo libro vorrebbe essere un modesto invito a passeggiate mentali senza itinerari o con molti itinerari, e comunque a rißessioni su temi inconsueti, peregrini, fra storia e arte, lungo le valli del Marecchia e del Conca. La pittura del Seicento fra Romagna e Marche, le insegne “silenziosamente parlanti” delle botteghe di un tempo, gli stemmi mercantili e nobiliari sono alcune mete di queste passeggiate, che si estendono poi alla revisione della “leggenda” di santʼAntonio con la mula dellʼeretico Bonvillo, alla ricerca delle ormai scomparse immagini delle Madonne “vestite”, alla ricostruzione della curiosa storia di un panno da morto. Lʼautore indica e accompagna a rivedere cose e luoghi noti e ignoti, attento allʼumanità che sta dietro a quelle cose e dentro a quei luoghi, che sanno dʼarte, di religione, di tradizione. Cose e luoghi che sono scomparsi o rischiano di scomparire dallʼorizzonte del nostro mondo frettoloso, in cui in verità è ormai difÞcile trovare un poʼ di tempo e di curiosità per passeggiate “incoerenti” (e innocenti) come queste.

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In copertina: Addo Cupi (1874-1958), La valle del Marecchia, 1915. Torino, raccolta privata. Particolare

Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le modalità di legge GraÞca e impaginazione: Francesco Angeli

MINERVA EDIZIONI Via Due Ponti, 2 – 40050 Argelato (Bologna) Tel. 051.6630557 – Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com – www.minervaedizioni.com Copyright © 2006 Minerva Soluzioni Editoriali s.r.l., Bologna Copyright © 2006 Banca Popolare Valconca, Morciano di Romagna

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Il titolo del quindicesimo libro della collana editoriale della Banca Popolare Valconca appare davvero strano. Provare, poi, a scorrere lʼindice convalida questa prima impressione: pare proprio che lʼautore si sia divertito a confonderci le idee. Che cosa cʼentrano le antiche insegne dei mestieri con le Madonne impagliate? E il capitolo dedicato a santʼAntonio da Padova con quello dedicato ai concorsi estemporanei di pittura degli anni cinquanta? Quale attinenza può essere trovata fra il panno da morto di don Gaetano Vitali ed il perduto anello del Papa? Si tratta di una raccolta di saggi ed articoli in parte già pubblicati su riviste e giornali che sembrano a prima vista davvero “incoerenti” saltando di palo in frasca. Non fermiamoci però allʼindice: leggiamo il libro tutto di un Þato seguendo in qualche modo anche il percorso e la disposizione dei capitoli proposta dallʼautore. Allora lʼincoerenza sparisce e appare il “Þl rouge” dellʼopera. Mi permetto di indicare alcuni percorsi che credo di avere individuato. In primo luogo lʼamore di Pier Giorgio Pasini per il nostro territorio. Si tratta di una dichiarazione dʼamore a questa terra fra Romagna e Marche che non avrà forse prodotto “lʼopera dʼarte universale”, quella da salvare in caso di guerra nucleare. Da noi per tanti secoli vi è stata da combattere unʼaltra guerra, quella della quotidiana sopravvivenza. La povertà non lasciava a disposizione molte risorse per lʼarte. Eppure la nostra terra è piena di belle sorprese e Pasini scopre e riscopre cose, oggetti, quadri di grande bellezza, riproponendoceli. Con quale amore lʼautore scrive, ad esempio, di due artisti sconosciuti al grande pubblico, Bartolomeo Giorgetti e Giovan Battista Fantoni. Ancora di più: con quale delicatezza egli narra di un anonimo pittore, quello che ha dipinto la Madonna di Cailungo. A volte lʼamore si mischia con una delicata ironia per raccontare della sottana della Madonna oppure della Madonna “pompiera”. È lʼamore per le cose umili, per le storie di gente comune. In realtà lʼArte e la Storia sono fatte di questa quotidianità operosa, di umili e, a volte, di potenti che, però, non perdono mai di vista il bene comune. È forte nellʼautore (ed è il secondo percorso che mi permetto di indicare) il desiderio di conoscere. È sempre il desiderio che spinge ogni azione umana. In Pasini è potente la voglia di andare al fondo delle questioni, di non fermarsi a ciò che appare. È proprio vero ciò che dice Ulisse nel canto XXVI dellʼInferno: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza. Vi è, inÞne, un ultimo elemento davvero ragguardevole di questʼopera: si racconta di quello che non cʼè più. O meglio: un frammento è spunto per una ricerca appassionata, per unʼindagine puntuale su ciò a cui questo frammento rimanda. In questo libro anche le insegne parlano e gli stemmi raccontano le loro storie: come, ad esempio, lo stemma di Alessandro Gambalunga, Þglio e nipote di mercanti e forse palazzinari, personaggio contraddittorio ma che ha lasciato alla città di Rimini un bene così grande come la biblioteca comunale. Un grande teologo svizzero Hans Urs Von Balthasar ha scritto unʼopera dal titolo “Il tutto nel frammento”. Anche il lavoro del nostro autore è un gioco di rimandi, di associazioni storico-letterarie per indicarci altre vie ed altri percorsi, per aprirci gli occhi, per portarci su strade sconosciute. È come cercare “lʼanello che non tiene, il Þlo da disbrogliare che Þnalmente ci metta nel mezzo di una verità”, scriveva Montale. In fondo il compito della vita è questo viaggio alla ricerca della verità. Avv. Massimo Lazzarini Presidente Banca Popolare Valconca

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INDICE

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I. Valli riminesi 1. La Valmarecchia 2. In Valconca

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II. Lettera pittorica dalla periferia meridionale della Romagna

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III. Antiche insegne 1. Le insegne parlanti 2. Marchi e insegne medievali 3. Il mercante Giacomo consiglia: nota e taci 4. Mercanti in Piazza Grande 5. Simone, carpentiere e boccalaro

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IV. Antichi stemmi nobiliari 1. Antichi stemmi 2. Stemmi vescovili del Rinascimento 3. Lʼanello del papa 4. Lo stemma di Alessandro Gambalunga

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V. Attorno a santʼAntonio da Padova 1. La casa di Bonvillo 2. Il “petrone” e il tempietto di santʼAntonio 3. Culto e immagini riminesi di santʼAntonio 4. SantʼAntonio da Rimini e san Bernardino da Siena

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VI. Per la Madonna 1. La sottana della Madonna 2. Le Madonne impagliate 3. Sotto le sottane 4. La Madonna “pompiera” 5. Santa Maria dellʼOliva a Maciano di Pennabilli 6. La Madonna di Cailungo, a San Marino

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VII. Il panno da morto di don Gaetano Vitali

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VIII. Pennelli al vento

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Note

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Indice dei nomi

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Indice dei luoghi

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BibliograÞa citata

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Nel 1901 un certo signor Riminucci offriva in vendita al Comune di Rimini gli stipiti rinascimentali della sua porta di casa, sita a Rimini sulla via maestra (il Corso dʼAugusto) al n. 12. Il Comune si dichiarò «non interessato» allʼacquisto. In quanto allo Stato li fece fotografare e ne impedì la vendita, ma aveva altro a cui pensare. Così gli stipiti rimasero al loro posto almeno Þno al 1926; dopo il qual anno se ne è persa ogni traccia. Ora ce ne rimangono solo due nitide fotograÞe del 1902, da grandi lastre fotograÞche su vetro. Nella prima si vede la strada con le case dal n. 10 al n. 16, semplici e anonime con le loro facciate intonacate, le Þnestre con le persiane, le botteghe del macellaio, della “Corameria Ruggero Fabri”, dellʼarrotino e del ciabattino (tranne la seconda tutte senza insegne Þsse). È inutile cercare queste botteghe, e anche queste case: sono state demolite nel 1936 per allargare il Corso e isolare lʼArco dʼAugusto. Al loro posto ora cʼè, in parte, il Palazzo delle Poste. Nella seconda fotograÞa si vede lo stipite sinistro di casa Riminucci (anzi più esattamente Cambrisi-Riminucci) con le sue belle candelabre Þorite che piacevano tanto ad un illustre studioso, Francesco Malaguzzi Valeri, che nel 1903 le deÞniva «leggiadramente intagliate a foglie, Þori, perline, vasi, svolazzi». Tutte le volte che queste fotograÞe mi capitano fra le mani mi incanto a guardarle; non per gli stipiti scolpiti, ma per via dei personaggi marginali che sono capitati

casualmente nellʼinquadratura e che sembrano osservarci con preoccupata curiosità. Sulla strada ci sono soprattutto bambini già garzoni o manovali, una signora con il cesto della spesa e un uomo col cappello, mentre nel vano di una Þnestra si intravede una mamma con la sua bambina e nel vano di una porta un ragazzetto. Tutti questi personaggi appaiono vivi, veri, belli e in un certo senso sembrano interpellarci, anche quelli che il movimento ha trasformato in fantasmi. Non vanno certo a passeggio, ma si affrettano al lavoro in una indeterminata mattina di primavera dellʼanno 1902, e tuttavia (ad eccezione della donna) sostano sorpresi e perplessi davanti al grosso marchingegno del fotografo; il quale fotografo sicuramente e inutilmente avrà fatto cenno di sgomberare il campo per lasciare libera lʼinquadratura del suo soggetto. Chissà che destino hanno avuto queste persone, e chissà quanti di questi ragazzi sono sopravvissuti alla prima grande guerra, alla “spagnola” e alla seconda grande guerra. Ci guardano senza sapere chi siamo, e noi li guardiamo senza sapere chi sono; senza possibilità di fare presentazioni, e di fare conoscenza. Per simpatia è a loro, e particolarmente alla bella signora frettolosa dai tratti asciutti e dallʼaria corrucciata – certo una donna di città, stando al cappellino, e forse vedova, stando allʼabito scuro – che sono dedicate queste “passeggiate incoerenti”, che spaziano fra il Rimine-

1. Sulla Via Maestra di Rimini nel 1902. Particolare.

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PASSEGGIANDO 2. La Via Maestra (ora Corso d’Augusto) di Rimini, in prossimità dell’Arco d’Augusto. Al centro la casa Cambrisi-Riminucci, 1902. 3. Uno stipite del portale della casa Cambrisi Riminucci, sulla Via Maestra di Rimini, 1902.

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se e il Montefeltro ma seguono, quando seguono, itinerari più storici e mentali che topograÞci, e che come tutte le passeggiate sono da compiersi con soste incoerenti, a piccoli passi e con un minimo di curiosità; come si vedrà non sono né lunghe, né impegnative, anche se un tantino pedanti e divaganti, né hanno mete alte e lontane. In gran parte risalgono a parecchi anni fa (insieme ad altre che lo spazio non ha permesso di riproporre) e sono state pub-

blicate qua e là; ora, in parte riviste e corredate da buone fotograÞe, vengono riunite afÞnché non vadano del tutto disperse, nella speranza che possano essere di una qualche utilità per osservare, rißettere e ricordare, e comunque per conoscere, rivedere, ritrovare qualche particolare del nostro piccolo mondo che cambia sempre più in fretta; e che è fatto di luoghi, di ambienti, di cose e di sentimenti, ma soprattutto di incontri con le persone e con le loro storie, di oggi e di ieri.

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I. LE VALLI RIMINESI

1. La Valmarecchia La valle del Marecchia è una delle molte piccole valli dellʼAppennino che nascono complicate, si sviluppano imponenti e pittoresche e poi Þniscono in niente, cioè si allargano tanto da annullarsi Þno a diventare pianura assai prima del dovuto; per colpa dei loro Þumi, che dopo essersi fatti ambiziosi per la cattura di tanti piccoli corsi dʼacqua Þniscono per impigrire e ondeggiano e divagano senza alcuna fretta di arrivare al mare. Nel nostro caso il Þume è la Marecchia, dal nome stranamente femminile, che per un semplice errore di lettura o di stampa è stato anche detto “Mariela”, e ha fatto scrivere qualche buona pagina di fantasie letterarie al femminile. Dʼaltra parte le fantasie e le divagazioni si attagliano bene tanto alla valle quanto al Þume che lʼha scavata con pazienza in un terreno assai più accidentato di altri, creandovi un bel letto comodo, in cui alla Þne del non lieve e non breve lavoro si è nascosto accuratamente. Tanto accuratamente anzi da non Þgurare più come il grande protagonista della valle, ma come il grande assente, appena rappresentato, bene che vada, da un Þlo dʼacqua che serpeggia in un ampio letto di sassi. «Il Þume non è quel rigagnolo che vedi per la maggior parte dellʼanno; il Þume vero sta nascosto sotto la ghiaia», mi ha assicurato in conÞdenza un amico geologo. Lʼidea del Þume disteso pigramente sotto una coltre di sassi è una delle cose

che più mi affascina di tutta la valle. E mi permette di immaginare la Marecchia – in maniera troppo convenzionale, lo ammetto – come una delle antiche divinità ßuviali care alla classicità; cioè come un omone robusto (a dispetto del nome al femminile) placidamente sdraiato, ma severo e anche capace di grandi sfuriate. Che sia capace di grandi sfuriate è certo: non sono rari i racconti di piene improvvise che non lasciano scampo e trascinano massi e alberi e ponti; maestose, rapinose, vorticose, irruenti, paurose; però ai tempi nostri sempre più rare, come se il Þume fosse stanco e ormai troppo vecchio. Del resto sembra che proprio alle sue ormai mitiche piene, che lo rendevano simile a un piccolo mare, egli debba il suo nome medievale, Maricla, e lʼattuale, Marecchia. In antico aveva un altro nome, e maschile, Ariminus. Cʼè il fondato sospetto che lʼabbia voluto cambiare perché troppo uguale a quello della città sorta al suo termine, Ariminum, Rimini. Infatti pare che il Marecchia (userò impropriamente il maschile, come ormai fanno tutti) e la sua valle, che di tratto in tratto sono toscani, marchigiani, romagnoli, non amino identiÞcarsi troppo con la città che ne presidia e ne sfrutta lʼultima parte, cioè che non vogliano essere considerati troppo “riminesi”. Posso sbagliare, naturalmente, ma mi sembra che mentre i rapporti di Rimini con la valle (almeno con la bassa valle) siano stati solo o soprattutto di buon vicinato, con il Þume siano stati piuttosto

4. Il Senatello alla conßuenza con il Marecchia nell’alta valle.

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PASSEGGIATE INCOERENTI 5. Emo Curugnani (1883-1976), Il ponte romano sul Marecchia, c. 1930. Rimini, raccolta privata.

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conßittuali, e comunque non molto buoni; forse perché la città, che lo avrebbe voluto sempre sottomesso e tranquillo, ha cercato di imbrigliarlo, Þno a strozzarlo, per utilizzarne la foce come porto, prima di deviarlo con la forza. Quella dei rapporti di Rimini con il Marecchia è una lunga storia di sospetti e di dispetti, a cui il Þume si è ribellato continuamente, allagando la città, corrodendo le strade, rompendo gli argini e addirittura, una volta, fuggendo verso Viserba (a San Martino in Riparotta); chissà, forse se ne sarebbe andato anche più lontano, magari per congiungersi allʼUso, se non avesse incontrato sulla sua strada le colline di Santarcangelo. Del resto i riminesi, forse indispettiti per non poterlo navigare, e quindi sfruttare anche come utile via dʼacqua, lʼhanno considerato a lungo un torrentaccio selvatico e pazzo; a domarlo non sono mai riusciti, ma sono stati i primi (e gli unici per molti secoli) a mettergli un ponte addosso: certo grazie allʼaiuto di un diavolo ingenuo, come vuole la leggenda.

Una valle è sempre una indicazione di percorso, e spesso una strada; anche la valle del Marecchia è una indicazione di percorso e una strada. Gli eruditi ci dicono che proprio grazie ad essa gli antichi popoli del Tirreno si sono affacciati allʼAdriatico, e i cartograÞ moderni ci spiegano che costituisce uno dei passaggi più facili verso la Toscana, dato che permette di valicare gli Appennini senza toccare i mille metri. Certo la valle di oggi non è quella di ieri e di ier lʼaltro; e così la sua strada, che una volta doveva snodarsi più sui crinali che nel fondovalle. Comunque non è mai stata importante; i romani lʼavevano usata qualche volta come strada militare per spostare in fretta le truppe da Arezzo a Rimini, ma senza mai promuoverla a “via consolare” e quindi senza mai consolidarne a puntino il tracciato, che nel Medioevo doveva essersi ridotto a un semplice sentiero, e che poco più di un sentiero è rimasto Þno al 1924, anno di inaugurazione di una carrozzabile, la Marecchiese, diventata statale (col suo

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bravo numero: 258) solo nel dopoguerra. Una pista, dunque, presto sfrangiata in tante piste di interesse locale, appena in grado di unire luoghi interni e impervi per secoli con scarso interesse a comunicare fra loro dato che erano divisi, oltre che da una orograÞa complicata, da vicende politiche complicate, e quindi da guerre e guerricciole, da scontri di bande di banditi e di soldati. Le contese maggiori hanno avuto dei protagonisti illustri e ben noti; anche a voler lasciare cadere i nomi di Vitige e Belisario, di Ottone il grande e Berengario, bisognerà ricordare almeno quelli dei Malatesti e dei Montefeltro, dei Della Rovere e dei Medici: antagonisti e combattenti e, per forza di cose, costruttori sui greppi e sulle cime di rocche e castelli, torri e avamposti, che in gran parte, più o meno sbocconcellati, esistono ancora. Non è un caso, dunque, se da Verucchio in poi chi risale la valle si sente sempre osservato e sorvegliato dallʼalto delle colline e delle rupi, e capisce subito di non potersi Þdare. Le colline e le rupi sono spesso alte e anche selvagge, ma si rivelano quasi sempre animate e abitate; e mostrano ben radicati sulle pendici scoscese e sui crinali torri e paesi che non hanno lʼaria di essere ingenue costruzioni da presepio o arcadiche dimore, ma presidi da guerra che non nascondono la propria natura e la propria

funzione, appena mascherata dai moderni arrangiamenti o appena corrotta dallʼattuale abbandono. Ci si libera della loro occhiuta presenza solo quando le alture si fanno più gonÞe e più solenni, e si ammantano di boschi bassi, Þtti e intricati. Fra il verde sofÞce di quei boschi, secondo le stagioni vario di bruni e di gialli, non di rado compaiono inaspettate pareti e fratture che lasciano intravedere strati di argilla e di roccia; forse per permettere di fantasticare sui segreti di un mare grande e antico e ora lontano, ma un tempo intimamente unito a quello piccolo della Marecchia; o forse per ammonire che la natura si tiene e si prende le sue libertà, e si trasforma a suo capriccio con una forza del tutto indipendente da quella, insigniÞcante, degli uomini. Fra i rilievi verdi e silenziosi dellʼalta valle il Þume assottiglia il suo letto, si complica e tenta di far perdere le tracce. Se in pianura riusciva a nascondersi sotto la ghiaia, qui riesce a nascondersi fra le pieghe dei monti, scivolando fra rocce e pendii, fra massi e anfratti e ramaglie, diramandosi in molte direzioni: la sua sorgente? sul Fumaiolo, sul Monte della Zucca, al Poggio dei tre Vescovi, a Pratieghi. Forse. Una sorgente, o non piuttosto molte sorgenti? Se è “lʼalbero dellʼacqua” (nascosta), come vuole un poeta, è un albero dalle molte radici (nascoste, naturalmente).

6. Addo Cupi (18741958), La valle del Marecchia, 1915. Torino, raccolta privata.

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7. Edoardo Pazzini (1897-1967), La vallata del Marecchia da Verucchio, 1938. Rimini, Liceo ScientiÞco A. Serpieri.

Allʼinizio, per chi la considera partendo dal mare, la valle del Marecchia non sembra una valle, ma una pianura piatta, appena orlata da colline; ampia, fertile, verde nelle parti non ancora urbanizzate, attraversata da un largo nastro di ghiaia. Per chi viene dal mare la valle diventa percepibile solo allʼaltezza di Verucchio e di Torriana; e subito si rivela un altro mondo: pieno di sorprese, di scorci pittoreschi, di situazioni cromatiche e plastiche inattese e inattendibili, di accidentalità concatenate ma staccate, e inoltre spesso “drammatiche” dal punto di vista visivo. Le quinte rocciose e boscose animano e limitano un paesaggio sempre più vario e complesso, negano ogni valore allʼorizzonte, alterano le geometrie campestri, si scontrano e si rinnovano continuamente; le alture rocciose si impennano sui prati; le frane e le cave feriscono le colline; ed enormi massi galleggiano nella campagna. Questa dei massi galleggianti non è pura apparenza, perché anche i più seri geologi ne parlano, sia pure con un lin-

guaggio reso surreale da incredibili termini scientiÞci (sembrano “singulti ermetici”, con colate gravitative, argille scagliose e zatteroni calcarei che si mescolano a rupi alloctone e a matrici litologiche!); e fanno notare che questi massi da millenni sono in viaggio, protesi verso il mare – cosa che può veriÞcare anche il più superÞciale passante – e che quindi non è detto che prima o poi non lo raggiungano, scivolando sul loro letto dʼargilla; sempre che non sia il mare in crescita (effetto serra bla bla…), a raggiungere loro. Confesso di guardare con occhi diversi e San Leo e San Marino, da quando li so in viaggio; forse perché i viaggiatori e i pellegrini, specialmente quelli che non hanno fretta, mi sono simpatici. Certo mi piacerebbe molto essere presente al momento del loro arrivo sulla costa, anche per registrare le reazioni dei romagnoli quando se li troveranno in casa; a meno che non decidano di deviare verso il Foglia e Þnire in quel di Pesaro, diventando o rimanendo marchigiani. Già, ma chi,

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oltre ai pesaresi, può sostenere che – oggi come oggi – questi monti e questi massi sono marchigiani? «Il Montefeltro è Montefeltro»: né Marche né Romagna, dunque, sostengono i miei amici di queste parti. Amici simpatici e in genere fantasiosi, che non potranno certo rimproverare le divagazioni e le animazioni di cui sopra, perché sono soliti divagare anche loro, discettando Þn sui sospiri del vento e sullo spessore della nebbia, e litigando (da secoli) sulla capitale della loro “regione”, o sulla patria dei Malatesti: fantasmi inquieti e sconÞtti, questi ultimi, ma sempre presenti e certo più consistenti e più vivi di altri, di recente invenzione, e sempre pronti ad animare di storia vera questo rustico paesaggio “naturalmente” medievale. In genere le valli, specialmente quelle piccole e medie, costituiscono dei mondi organici, abbastanza omogenei se non unitari. Invece la valle del Marecchia, forse perché attraversata da molti conÞni, è

un mosaico di piccoli mondi, di situazioni diverse, di campanili (dove sui campanili prevalgono le torri) diversi, tenuto insieme dal corso pallido del Þume, del grande Þume di ghiaia che si snoda con unʼarmonia eccezionale, talvolta impreziosendosi di gemmee pozze e di Þli dʼacqua lucenti. Detto per inciso: per la degustazione estetica di questa valle-mosaico lʼosservatorio dʼeccezione rimane, come ben noto, Verucchio, “vero occhio”, come spiegavano fantasiosamente i nostri vecchi, anche se è un osservatorio parziale. Dunque, nei suoi settanta chilometri scarsi di percorso, il Marecchia tocca e, anzi, dà forma a situazioni diversissime. La varietà è una delle caratteristiche più interessanti della valle: le colture, le costruzioni, la forma degli abitati, ma anche quella delle superÞci naturali, cambiano da luogo a luogo, da situazione a situazione. Chiesette isolate e torri isolate si alternano a piccoli borghi in cima e sui Þanchi delle colline, legati solo dal Þlo bianco di strade ondulate; città intere

8. Gino Ravaioli (1895-1982), La vallata del Marecchia, 1947. Verucchio, raccolta privata.

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9. Il corso mediano del Marecchia.

si raccolgono su sassi per dominare e spiare ben al di là del territorio di loro pertinenza; i paesi distribuiscono le loro costruzioni su selle e dirupi, o le spargono in piano quasi Þno al letto del Þume. Le colture si ritagliano spazi irregolari, inframmezzate da rocce e da piccoli boschi, che nellʼalta valle si fanno sempre più frequenti e lasciano spazio a larghi pascoli e a piccole radure verdi che fanno tenerezza. In pochi altri paesaggi sono visibili ed apprezzabili con tanta chiarezza la forza della natura e lʼoperosità dellʼuomo, cioè una stretta mescolanza di intatta naturalità e di ingegnosità umana; per dirla più facile unʼunione così intima fra natura e storia. Con questo non penserei ad unʼalleanza: la natura non si allea, al massimo offre delle opportunità, ed è sempre pronta a ritirare il suo appoggio e a sostenere

le sue ragioni con una forza spropositata: come dimostra per esempio la totale, clamorosa e drammatica “disfatta” di Maiolo, appena tre secoli fa. Ma le opportunità che la natura offre vanno, oltre che colte, coltivate; cioè comportano partecipazione, comprensione, assidua e paziente presenza dellʼuomo. Nel territorio, nei campi e nelle strade, si vedono poco gli uomini, i protagonisti attuali della storia della valle; il fatto è che sono pochi, ormai, e in maggioranza raccolti nei paesi più grandi, che si contano sulle dita di una mano. Verrebbe quasi da pensare che il Þume se li è trascinati a valle, ammucchiandoli a Rimini; o che li ha convogliati in qualche ansa e strettoia, come a Novafeltria: centri in crescita, questi, a scapito degli altri. Nella valle, però, non si danno responsabilità al Þume; si pensa piuttosto alla società, allʼeconomia,

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al mercato, al turismo, alla sanità, alla viabilità, alla modernità…, quando se ne parla, fantasticando e divagando nostalgicamente tra passato e presente secondo il costume, nei circoli sempre più esigui e nei bar della media valle; qualche volta se ne parlerà anche, e forse più pericolosamente, magari progettando stradoni e insediamenti industriali, nelle sedi ufÞciali e istituzionali. Al di là dei discorsi rimane il turbamento di paesi vuoti, di ediÞci dalle Þnestre sbarrate, di case, magari seconde, chiuse e disabitate, di terreni incolti che franano, di sentieri che spariscono. Ora in certi luoghi della valle il silenzio è diventato veramente alto e il tempo, non più scandito da alcun suono di campana, troppo lungo: molte piccole valli nascoste, i crinali più impervi, i borghi più isolati, i boschi più Þtti stanno ritrovando e sperimentando il silenzio e il tempo della natura. E la natura volentieri e in fretta si scioglie dagli impacci, dalle scansioni, dai limiti imposti, per ritrovare la sua selvaggia, misteriosa, orrida bellezza; non apre conßitti: ma cura le piccole ferite dovute ai piccoli uomini irrispettosi e dispettosi ora in ritirata, e si riprende, come è giusto, tutta la sua “inumana” libertà. Al Þume, che continua a riposare indolente nel suo letto comodo, sotto la sua coperta di sassi, non sembra importare gran che, almeno per ora; ma ovviamente sta più dalla parte di madre natura che da quella dei piccoli uomini.1 2. In Valconca «La Conca è assai grosso Þume, il quale per correre con gran caduta, se ne cavano tanti e così spessi canali da Molini, che bastano per macinar a tutto il monte e il piano della Diocesi di Rimino in Þno aʼ monti di Pesaro», scriveva Raffaele Adimari nel 1616. La sua testimonianza veniva ripresa e ampliata mezzo secolo dopo da Pier Antonio Guerrieri che ci ha lasciato una bella descrizione del Þume:

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«Questo Þume Conca scatorisce quasi dalla più alta cima del monte di Carpegna poco più sopra la chiesa della Cella più verso tramontana da una bellissima fontana detta per il suo proprio nome la Bocca della Conca, quale scendendo al basso fra queglʼallegri prati riceve ancor seco le gioiose fontane che sono intorno alla detta Cella e con esse viene crescendo con altri copiosi rivi di fonti di quella spiaggia e pendice con il torrente del lago che unitamente forma un grosso Þume. Il quale perché non fa più lungo corso che circa trenta miglia però non perde mai la

10. Tramonto d’estate sul Conca, sotto Gemmano.

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PASSEGGIATE INCOERENTI 11. Sante Braschi (1644-1711), Il beato Amato attraversa il Conca sul mantello, incisione. Saludecio, Archivio della Chiesa parrocchiale di San Biagio.

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dovitia delle sue vene ne anco per qual si voglia gran siccità dellʼEstate. E però non restano quelle genti di valersi della commodità di tale elemento per il che le sue rive si vedano arrichite di spessi Mollini, siccome compete a quelle regioni tutte fertilissime di grani intanto che da Monte Buaggine sin alla Catolica si contano settantasei Mollini senza lʼingualchiere et artiÞtii da polvere a cui somministra-

no il movimento lʼacque della medesima Þumara». Lʼinsistenza dei vecchi scrittori nel sottolineare la presenza di tanti mulini oggi ci può meravigliare. Del resto dei settantasei mulini contati dal Guerrieri più di tre secoli fa, oggi rimane ben poco di concreto, di materiale, e ben poco anche di immateriale. Eppure una volta si faceva un gran parlare di mulini, nella

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vita quotidiana come nelle cronache, nelle storie, nei romanzi, nelle favole e anche nei proverbi. E si faceva un gran parlare, naturalmente, dei mugnai; che in genere non sembra fossero tipi molto simpatici (contrariamente alle mugnaie, quasi sempre deÞnite ‘avvenentiʼ). Una volta, cioè Þno a cinquanta, sessantʼanni fa. Ora i mulini sono completamente spariti, dalla realtà come dallʼimmaginario. Erano in genere ediÞci poveri e pittoreschi, rumorosi e polverosi, spesso cadenti e rabberciati, discretamente nascosti da pioppi e salici; e considerati con un certo sospetto e anche con un certo timore. Con sospetto perché non cʼera mai la certezza di non essere ingannati dallʼastuto mugnaio; con timore per i loro canali dʼacqua veloce e per i loro bottazzi profondi che attiravano i bambini e qualche volta, irrimediabilmente, giovanette deluse o offese da incauti e impossibili amori. I mulini sono spariti in fretta, senza clamore, senza proteste e senza suscitare proteste, e come loro sono sparite tante altre cose ormai invecchiate e ritenute inutilizzabili, particolarmente le tradizioni e le lingue del mondo contadino e popolare. Nel territorio riminese la valle che, in questo senso, sembra aver “perduto” di più, o meglio essersi trasformata di più, è forse la valle del Conca, la più pittoresca e fertile, ma anche la più lontana dal capoluogo. Lʼisolamento e la povertà lʼavevano preservata a lungo dai cambiamenti, ma nello stesso tempo lʼavevano mantenuta a lungo in condizioni di arretratezza. La “modernità” e il “progresso” vi sono arrivati tardi e quasi dʼimprovviso, e troppo in fretta hanno sovvertito usi e costumi, colture e gerarchie amministrative, demograÞa ed economia, trasformando le sue capitali (come Saludecio e MonteÞore) in borghi, e i borghi (come Morciano e Cattolica) in capitali, e sviluppando in modo abnorme la zona costiera a scapito della parte interna del territorio, che ha visto lʼarrivo di gente nuova, dalle Marche

12. Paesaggio della Valconca, verso MonteÞore.

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e dalla Sardegna, e nellʼalta valle lo spopolamento di case e borghi e paesi interi. La valle del Conca è vissuta Þno allʼUnità dʼItalia in un isolamento ora quasi incredibile. La via Flaminia costiera, infatti, non era in collegamento con la valle. Questa era unita alla Romagna da unʼunica strada, la Flaminia Conca, cioè lʼantica Flaminia minor, o via regalis dei Romani, che conduceva da Rimini nelle Marche attraverso Coriano e MonteÞore o Saludecio, purché si riuscisse a guadare il Conca, che era un ostacolo pericoloso e talvolta insuperabile. Quella strada era percorsa soprattutto da viaggiatori con scarso bagaglio, in genere da romei che si recavano alle tombe degli Apostoli e nelle basiliche romane specialmente negli anni giubilari, come il beato Amato di Saludecio, pellegrino e fondatore di un ospedale per pellegrini, e il beato Enrico, un ungherese (pare) morto a Passano durante il suo pellegrinaggio. I trafÞci mercantili preferivano passare per la più facile e sicura via consolare di costa, lʼantica Fla21

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13. Edoardo Pazzini (1897-1967), Paesaggio della valle del Conca, 1938. Rimini, collezione privata.

minia, e si guardavano bene dallʼinoltrarsi nella valle non tanto per la piccolezza dei mercati, quanto per la mancanza di strade carrabili e appunto per paura del Conca, un Þume particolarmente inafÞdabile che non a caso era stato deÞnito “rapace” da un poeta latino (Crustumium rapax: Lucano). La sua rapacità in effetti è testimoniata da molte fonti, oltre che dai più anziani abitanti della media e bassa valle, ancora memori delle piene improvvise cui andava soggetto, accompagnate da un rombo pauroso; piene che nei secoli passati hanno “rapito” buona parte della vecchia Morciano e a cui, forse, si deve la scomparsa dellʼantica città di Conca, sulla costa. Fino a poco più di un secolo fa attraversare il Conca nella parte bassa della valle era effettivamente pericoloso, perchè il suo corso era veloce e perché il suo letto ghiaioso era larghissimo (Þno a 600

metri, scriveva Emilio Rosetti nel 1894). Non cʼerano ponti nellʼentroterra; i romani ne avevano costruiti più di uno, ma erano stati tutti distrutti dalle piene. Pare che poco più di mille anni dopo i Malatesti ne avessero costruito uno sotto MonteÞore e Gemmano, ma avrebbe subito la stessa sorte. Dopo quello sulla Flaminia il primo dei ponti moderni sul Þume è stato quello di Morciano, che è veramente moderno, essendo del 1870. Fino a quellʼanno il Þume bisognava adattarsi a guadarlo, con la speranza di non essere sorpresi da una piena mentre si era nel ghiaieto, come capitò al beato Amato di Saludecio alla Þne del XIII secolo, secondo la testimonianza di G.A. Modesti: «Tornando egli un giorno da Rimino, e trovandosi in mezo del Þume detto Conca per passarlo, fu (come spesse Þate suol avvenire) sopra giunto da una grandissima piena, per la quale non potendo uscire da banda veruna, e

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vedendosi in grande pericolo, …distese il mantello sopra lʼacqua, e … passò allʼaltra riva sano e salvo». Di mantelli altrettanto miracolosi sembra che ben poche altre persone fossero dotate, e non cʼè da meravigliarsi, dunque, che la valle sia rimasta appartata, quasi isolata dal resto del territorio, soprattutto dal punto in cui comincia a spianarsi, a diventare tanto ampia da accogliere altri torrenti le cui acque, almeno nellʼalto Medio Evo, si confondevano e ristagnavano, cancellando i vecchi tracciati viari e creando isole selvose e ghiaiose fra paludi, alla cui boniÞca si applicarono diligentemente per secoli lʼingegno e le fatiche dei Benedettini. La strada che congiunge San Giovanni in Marignano a Morciano, che permette cioè allʼalta e media valle di entrare in contatto con il mare e con la Flaminia costiera, è solo del 1817. Ora la portata del Conca è assai modesta («Perché viene dissanguato dai marchigiani», si mormora nella bassa valle) e quindi la violenza delle sue acque è molto diminuita. Forse contando su questo fatto allʼinizio degli anni settanta del Novecento il Þume è stato sbarrato alla foce da una diga che ha creato un bellʼinvaso; avrebbe dovuto dissetare la zona marina, ma la sua funzionalità è stata sempre scarsa perché si è subito riempito di sedimenti. Comunque lʼinvaso ha fatto la gioia dei naturalisti, essendo stato rapidamente colonizzato da varie specie di uccelli. Ancor più della valle del Marecchia, che è la sua somigliantissima sorella maggiore, quella del Conca è complicata nella parte marchigiana da valli e vallette ciascuna con il suo torrente o fosso più o meno tortuoso e pittoresco; invece è unitaria, aperta e ampia nella parte romagnola, dove il corso del Þume, afÞancato da altri corsi dʼacqua, si fa consistente per lʼimmissione di diversi afßuenti. Nellʼinsieme è davvero una valle solare, bellissima e varia; nasconde tesori dʼarte e

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ostenta piccole chiese bianche, quasi tutte costruite sul “suolo lateranense” forse per difÞdenza nei confronti di poteri lontani e vicini, e castelli bellissimi, come quelli di Montecerignone, di MonteÞore e di Gradara. Ha prati e boschi, calanchi nudi e declivi dolci coltivati come giardini, dove la vite convive con ulivi e castagni prima di cedere il passo ai faggi e alle roverelle, paesi pittoreschi appollaiati sul dorso delle colline e collegati da una rete di piccole strade di cresta o nascoste nel fondo di piccole valli. Ed è fra le più interessanti del riminese dal punto di vista naturalistico, per la varietà della ßora e della fauna. Ma soprattutto è interessante dal punto di vista storico. Infatti essa conclude la

14. Scorcio di Saludecio, Þno all’Ottocento la capitale della Valconca romagnola.

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15. Romolo Liverani (1802-1872), Paesaggio attorno a Gradara,1859. Forlì, Biblioteca Comunale, Raccolte Piancastelli.

Romagna e nello stesso tempo costituisce lʼestremo limite orientale dellʼItalia settentrionale. Umbra e sabina e gallica, fu colonizzata dai romani e a lungo contesa da bizantini e longobardi; divenuta “territorio di San Pietro”, passò in parte alla chiesa di Ravenna e in parte a quella di Rimini, Þnendo poi soggetta al Comune di Rimini; nel XIV secolo visse e subì le lotte intestine dei Malatesti, e nel XV quelle fra i Malatesti e i Montefeltro; in seguito fu stabilmente papale, subendo però le violenze delle milizie di passaggio, spagnole, austriache e francesi; e durante la

seconda guerra mondiale fu martoriata dagli ultimi feroci combattimenti della “Linea gotica”. Dunque è stata sempre una valle di conÞne, destinata a fare da “cuscinetto” fra territori diversi – quelli marchigiani al di là del Foglia e quelli romagnoli al di là del Marecchia -, mediando usi, costumi e destini, accogliendo mercanti e ospitando contrabbandieri e banditi, barcamenandosi tra legalità e illegalità, protestando per le ingerenze del centro da cui si sentiva lontana e trascurata. Le tracce della sua storia complessa di terra marginale e di frontiera si avvertono ovunque, nella con-

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formazione dei paesi e nellʼandamento delle strade, nei toponimi e nelle dedicazioni delle chiese, nei resti delle antiche fortiÞcazioni che ancora sorvegliano valli e guadi. E anche nel carattere degli abitanti, che mescola cordialità e difÞdenza e che è incline ad un campanilismo esasperato, ancor oggi presente, come dimostrano i falliti tentativi di razionalizzare unitariamente alcuni servizi pubblici. Un piccolo e marginale episodio che rivela, insieme al campanilismo, lʼantica difÞdenza degli abitanti è costituito da una inedita disavventura capitata intorno al 1530 al padre domenicano Leandro Alberti, un illustre bolognese che è stato predicatore e inquisitore oltre che colto poligrafo. Nella sua Descrittione di tutta Italia pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1551 egli si è occupato naturalmente anche della valle del Conca ed ha elencato i suoi paesi – Cattolica,

San Giovanni in Marignano, Mondaino, Saludecio, Monte Gridolfo, Gemmano, Tavoleto, Castel Nuovo –, dimenticando però MonteÞore. In uno degli esemplari di questa sua opera conservato nella Biblioteca Gambalunghiana di Rimini, edito sempre a Venezia, ma nel 1581, al verso della pagina 297 (dove appunto è lʼelenco dei paesi) si trova questa curiosa nota manoscritta: «Le bastonate che ti diede lʼhoste di Monte Fiore ti dovevano pure far ricordare di quella Terra, senza comparazione più nobile et antica di tutte le da te sopranominate; pagasti lʼhoste à suon di bastone, e lasciasti la descritione di MonteÞore, bella vendetta». Il fatto è chiaro: il povero frate, passando per MonteÞore durante uno dei suoi numerosi viaggi e non trovando un convento domenicano a cui appoggiarsi né ospitalità presso il difÞdente clero locale, avrà mangiato o pernottato nellʼosteria del

16. Il Conca e la sua valle verso Mercatino Conca.

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buona memoria (la nota infatti è per forza di cose – anzi di stampa – posteriore al 1581) e certamente monteÞorese, se deÞniva quella terra «senza comparazione più nobile et antica» di tutte le altre. Questo dellʼAlberti è stato certo un assai secondario incidente di percorso; e va messo in rapporto con la vita dura del tempo, con lʼisolamento dei luoghi, con i sospetti determinati dalla condizione di terra di frontiera di tutta la valle, durata Þno allʼUnità dʼItalia: da cui il carattere chiuso e difÞdente degli abitanti e ostile alle novità e alle ingerenze, come peraltro dimostrano ampiamente le notizie di secolari invidie, liti e baruffe fra i paesi, e le proteste continue contro i governatori riminesi, sorrette da minacce di “secessione” e da tentativi di aggregazione ai centri delle legazioni marchigiane. Un carattere di molto stemperato, certo, nei tempi moderni, da quando le comunicazioni stradali hanno permesso rapporti più normali con il mondo e da quando lʼeconomia locale si è aperta al commercio e allʼindustria, creando alternative ad unʼagricoltura che era monopolizzata da possidenti tradizionalisti arroccati nei maggiori centri collinari o nella lontana città.

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17. Morciano, dominata dal suo “castello” che in realtà è il moderno PastiÞcio Ghigi. Nello sfondo, sulla collina, il proÞlo di Saludecio.

paese conÞdando nella carità dellʼoste, che invece lo cacciò a bastonate. Il frate, dai contemporanei deÞnito un uomo sereno e mite, dimenticò lʼumiliante episodio, dimenticando però anche il luogo in cui era accaduto. Nel Cinquecento, quando ancora si credeva umanisticamente nel valore e nel potere della scrittura, sembrava davvero una “vendetta” pesante, e quindi suscitava il risentimento dellʼanonimo lettore-annotatore, certamente di

La valle del Conca non è molto conosciuta dal punto di vista turistico, dato che il turismo privilegia le vie del mare e si ferma per lo più a Cattolica. Ma è una valle da conoscere perché è davvero bella in tutte le stagioni; ed è una valle da vivere con la sua gente laboriosa, con le sue Þere e le sue sagre, con i suoi santuari. Certo può apparire un poʼ bizzarra, con Þumi senza foce, con campanili che sembrano torri e torri che sembrano campanili, con tanti piccoli teatrini voluti dalla piccola romanticheria dei possidenti, con fabbriche che sembrano castelli e castelli che somigliano a povere bicocche; e inoltre ingenuamente magica, perché le leggende più incredibili vi hanno un incredibile credito, tanto che riguardino città som-

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merse e tesori nascosti, quanto lʼingresso allʼInferno e il sommo Dante, presente sotto presunti travestimenti e pseudonimi, o la polenta cotta nel pozzo, o paesani esasperati che si mangiano i “tedeschi”. Ma non ci si lasci suggestionare da queste sciocchezze, e si ricordi piuttosto che è una valle che ha dato i natali a molte personalità importanti e a molti “geni”: da Uguccione della Faggiola ai Carpegna, dai duchi di Urbino, che la tradizione vuole di Montecopiolo, e dallʼumanista saludecese Publio Francesco Modesti al poeta e cantastorie Giustiniano Villa di San Clemente e al grande pedagogista Gaspare Mariotti di Morciano; dal latinista Giuseppe Albini di Saludecio allʼammiraglio Luciano Bigi di Morciano; da artisti come Cesare Pronti, Francesco Rosaspina, Emilio Filippini, Umberto Boccioni e Arnaldo Pomodoro a personaggi dello spettacolo come Pina Renzi; Þno a beati come Amato Ronconi, Cipriano Mosconi ed Elisabetta Renzi, tutti e tre di Saludecio, cui sono da afÞancare beati ‘importatiʼ come il domenicano Domenico Spadafora a Montecerignone e il pellegrino ungaro Enrico a Passano di Coriano. Anche un papa è debitore di qualcosa a questa valle: Clemente XIV, che ricevette la sua prima educazione a Montegridolfo e lʼabito francescano a Mondaino. È anche una valle “di riguardo”, dunque, che merita tutta la nostra considerazione.

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18. Montecerignone, con la sua rocca e la sua torre, che in realtà è il campanile della chiesa parrocchiale.

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II. LETTERA PITTORICA DALLA PERIFERIA MERIDIONALE DELLA ROMAGNA Per Andrea Emiliani che lascia la Soprintendenza Caro Emiliani, sempre più spesso mi capita di rißettere sui nostri primi incontri e colloqui “fuori orario” nel tuo silenzioso ufÞcio di via Belle Arti o nella biblioteca deserta della Soprintendenza bolognese. Erano gli anni sessanta, pieni di impegno e di Þducia, di curiosità e di speranze, di letture “interdisciplinari” e di “censimenti”. Quegli incontri sono stati certo fondamentali per me, e spero di non aver lasciato cadere nel vuoto troppe delle tue raccomandazioni... È naturale, dunque, che anchʼio voglia approÞttare di questa occasione, oltre che per porgerti gli auguri di rito, per ringraziarti ancora: e non solo per quei lontani preziosi colloqui, ma anche per i quasi quarantʼanni che ne hanno costituito il seguito di dialogo, di amicizia, di Þducia e di stimolo ad un lavoro di esplorazione e di studio che spero sia stato di una qualche piccola utilità collettiva, ma che in ogni caso per me è stato bellissimo. Vorrei accompagnare il mio ringraziamento e il mio augurio con qualcosa di “signiÞcativo” del mio – e indirettamente tuo – tanto girare e registrare in chiese e cappelle più o meno cadenti e del tanto frugare negli armadi delle sagrestie e negli archivi del territorio che ho di preferenza praticato per tuo consiglio e con il tuo aiuto, oltre che, naturalmente, per amore del “natio loco”. Ho però difÞcoltà a scegliere: se deve essere signiÞcativo quel “qualcosa” non può certo essere un

qualche capolavoro; sai bene, per averlo tu stesso percorso e studiato in gioventù, che questo “estremo lembo di Romagna” non è certo caratterizzato da capolavori (come forse tutti i territori di periferia). Tolte le eccezioni, le opere con cui ho avuto e con cui ho a che fare, con cui mi sono trovato e mi trovo a dialogare sono quasi tutte piuttosto anonime e bastarde, oltre che guaste, e appartengono soprattutto al Seicento: un secolo che da questo mio osservatorio non appare di grande creatività, ma certamente di enorme attività, privo di slanci e fastosità barocche e caratterizzato da unʼarte votata allʼumanizzazione del sacro e a una didattica devozionale efÞcace, ma priva di fantasia. Poco, in confronto, fu fatto nei secoli successivi, anche se il Settecento è stato abbastanza fortunato, soprattutto per lʼarchitettura e le arti minori; pochissimo poi rimane dei secoli precedenti: è stata davvero eccezionale (e irripetibile) la scoperta degli affreschi trecenteschi della rocca di MonteÞore, che la tua Soprintendenza infatti, proprio perché li riconobbe eccezionali, provvide a restaurare immediatamente dopo le mie prime segnalazioni. Ma tutte, o quasi, le scoperte e le segnalazioni di opere importanti, anonime o riconducibili ad autori noti (fossero il Cagnacci o il Centino, il Picchi o il Pomarancio, lʼArrigoni o il Guerrieri), per la verità hanno trovato attenzione e cure adeguate da parte della Soprintendenza. I guai cominciano quando dallʼeccezionalità si

19. Bartolomeo Giorgetti (c. 1605-1660), Circoncisione, particolare. Pennabilli, Museo Diocesano.

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PASSEGGIATE INCOERENTI 20. Bartolomeo Giorgetti (c. 1605-1660), Circoncisione, Pennabilli, Museo Diocesano.

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passa alla normalità. E la stragrande maggioranza delle opere che si trovano qui è dovuta a “normali” artigiani del pennello incapaci di produrre capolavori, anche se sufÞcienti a soddisfare le esigenze della gente comune del loro tempo e a rispecchiarne le attese, le speranze, i dolori, i sentimenti; diciamo, più semplicemente, la vita e la storia comune. Questo territorio, appena fuori dai centri maggiori, è segnato appunto dalle loro opere e non dai capolavori; e queste

stanno a poco a poco scomparendo perché per le loro “caratteristiche intrinseche” raramente sono ritenute degne di un restauro (lo so che preferisci parlare di manutenzione: ma in molti casi il tempo della manutenzione è passato da un pezzo) tanto dai pochi fedeli superstiti, che non se ne curano più e le considerano fuori moda, quanto dalle autorità teoricamente preposte alla bisogna, che hanno pensieri – non dubito – ben più alti e ben più gravi; e perché quasi mai godono del diritto ad

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una “salute ambientale” che potrebbe rallentarne la dissoluzione e salvarle, almeno per un altro poʼ, dalla rovina. Sono ancora molte; probabilmente sono state proprio le loro “caratteristiche intrinseche”, ovvero la loro evidente mediocrità, a salvaguardarle, oltre che da caserecci e avventurosi restauri, dai furti, poco numerosi da queste parti: in verità grazie alla collaborazione del clero, opportunamente sensibilizzato da reiterate “grida” vescovili e da qualche buon restauro che ha dimostrato la possibilità di recuperare persino opere considerate irrimediabilmente perdute, ma anche allertato dai censimenti e dai sopralluoghi e confortato dalla collaborazione o almeno dalla vicinanza della “lontana” soprintendenza attraverso la persona di chi ti scrive (credo; non so se è proprio vero, ma mi piace pensarlo). Come sai ci sarebbe ancora tanto da fare in queste campagne collinari semispopolate, oltre che censire e registrare. A proposito, invecchiando ho imparato a difÞdare dei censimenti e delle schedature e delle segnalazioni che rimangono atti burocratici nascosti; anche se continuo a registrare quel che posso (e “sconÞnando” sempre più spesso nella parte più debole del territorio, che è quella verso le Marche) e a fare questue (sempre umilianti e non sempre fortunate) per salvare concretamente qualcosa che possa testimoniare in futuro, almeno a grandi linee, il tessuto di civiltà di queste periferie. In verità senza grandi speranze nellʼimmediato, nonostante alcuni buoni segnali, peraltro contraddittori. Ma lasciamo andare queste malinconie e queste cose dette e ridette, e dalle parole passiamo alle opere (non sei stato tu a deÞnirmi luterano e calvinista?). Quelle che incontro più frequentemente in questi posti sono frutti per lo più meschini del lavoro di artisti che di rado hanno un nome. E oltre che senza nome, e quindi ignoti, in genere sono

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veramente anonimi, perché si nascondono in un fare spesso addirittura impersonale. La maggior parte delle volte si tratta di copisti-di-copisti più che di traduttori, e non sai mai bene se per volontà dei committenti, o per scarsezza di ingegno, o per saltuarietà di applicazione; di solito si dice per scarsità di cultura, di informazione. “SconÞnando”, ma in territori vicini e a te cari, ne ho trovato uno che per quanto riguarda le informazioni ne aveva un sacco, anche se non proprio tutte di prima

21. Orazio Gentileschi (1563-1639), Circoncisione, Ancona, chiesa del Gesù.

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PASSEGGIATE INCOERENTI 22. Bartolomeo Giorgetti (c. 1605-1660), La decollazione di san Giovanni Battista, 1630/38, Castel della Pieve (Mercatello). 23. San Benedetto riceve le offerte dei contadini, incisione di G.M. Giovannini, da Guido Reni. Pinacoteca Naz. di Bologna, Gabinetto delle Stampe.

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mano. E siccome potrebbero essere le sue opere quel “qualcosa” di signiÞcativo, se non proprio di “caratteristicamente normale”, che cercavo per fartene omaggio, permettimi di presentartelo.

Guarda questa modesta paletta, che si trovava nella chiesa di San Donato di Rocca PratifÞ, nel Montefeltro rivolto verso il Cesenate (è la zona di SantʼAgata Feltria), e che ora è ricoverata nel Museo diocesano di Pennabilli. A prima vista sembra (o almeno a me è sembrata) la prova di accademia di un falsario ottocentesco, quasi un ingenuo collage di motivi e Þgure costruito a scopo didattico (ricordi il soÞsticato indovinello proposto da Roberto Longhi nel primo numero di “Paragone”, 1950?). Al centro vi si contempla, riconoscibilissimo, un gruppo di Þgure tratte dalla famosa Circoncisione dipinta da Orazio Gentileschi per la chiesa del Gesù di Ancona, opportunamente modiÞcato ricorrendo a suggerimenti barocceschi e inserito in unʼarchitettura grigia che fa riferimento alle ambientazioni manieriste di Simone de Magistris, lʼispiratore anche degli agitati angioletti trasvolanti. Ma a queste desunzioni, forse inevitabili per un piccolo pittore della periferia marchigiana, anche se in verità un poʼ troppo letterali per essere “giustiÞcate” pienamente, si accompagnano, rimanendo ben distinti e quindi ben leggibili, riferimenti molto diversi. Infatti i tre personaggi di destra sono stati rubati nientemeno che dalla Scuola dʼAtene delle Stanze vaticane, e rimangono ben riconoscibili nonostante siano stati rivestiti da roboni più pesanti (forse solo per via del clima della nuova alpestre destinazione); anche lʼautoritratto di Raffaello è ancora ben riconoscibile, per quanto qui dotato di minuscoli baffetti seicenteschi. Sempre da Roma, ma da un luogo diverso, benché parimenti illustre (cioè dalla chiesa di San Luigi dei Francesi), proviene il gruppo di donne sulla sinistra, che però è di marca bolognese, poiché si tratta di unʼinvenzione del Domenichino (nellʼaffresco con La morte di santa Cecilia). In quanto alla bella donna in primo piano, con lo scialle bianco e la veste giallo zolfo, sarà di origine toscana, forse da unʼopera di Santi di

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Tito o di qualche suo bravo collega della generazione successiva come Andrea Boscoli; non ne so indicare la fonte precisa, ma mi riÞuto di pensare a un inserto “originale” fra tanti copiaticci. Vedi dunque che bei minestroni si possono cucinare nella periferia della provincia quando si hanno molte informazioni! Peccato che nel mescolarli magari ci cada dentro qualche ingrediente un poʼ troppo ingenuo, come qui lʼarcaico pavimento a piastrelle bianche e rosse, o le due teste di donne tonte che stanno allʼestrema sinistra; peccato perché, alla Þn Þne, la chiarezza di impostazione, la pastosità del colore, una certa franca diligenza di stesura rendono accettabile il dipinto e fanno capire che il suo autore non solo non mancava di informazioni, ma nemmeno di una qualche abilità tecnica che gli permetteva persino di tentare effetti di cangiantismo piuttosto ricercati, anche se arcaizzanti (come nei panneggi della veste del sacerdote, virati dolcemente dallʼazzurro-grigio al rosaceo). Chi potrà mai essere costui? Senza dubbio è lo stesso pittore cui si deve la pala dʼaltare della chiesa di Castel della Pieve, piccolo paese medievale, bellissimo e completamente disabitato, in provincia di Pesaro, proprio sopra Mercatello (un luogo che insieme alla vicina Urbania noi romagnoli non possiamo fare a meno di bazzicare di tanto in tanto, se non altro per via dei CrociÞssi trecenteschi di Giovanni e di Pietro da Rimini). Anche in questo caso non si tratta, come puoi intravedere da questa brutta ma unica fotograÞa artigianale, di un capolavoro; infatti la composizione è incerta, disarmonica e piena di sproporzioni, il racconto della Decollazione di san Giovanni Battista è inespressivo e i colori sono intonati senza alcuna fantasia su un bruno terroso ben poco modulato. Questo bruno invasivo e invadente (più profondo, in origine; ora il quadro è bruttato da colle, polvere e strappi), interrotto

dalla toppa della Þnestra con inferriata e, in origine, squarciato dal rosso della veste del martire e del “basco” del carneÞce, è lʼunico elemento che dà una qualche parvenza di unità e di modernità al dipinto. Il legnoso carneÞce di schiena, o almeno il suo abbigliamento, con quelle brache grigio azzurre e la camicia a sÞlacci biancastri, ha palesi intenzioni realistiche: per il momento (perché potrebbe avere un più preciso prototipo) lo considero “ispirato” a quello della Decollazione del Battista di Massimo Stanzione ora al Prado (in origine a Napoli, 1630-1634), un quadro nel cui fondo compare, come qui, una Þnestra ferrata. Comunque le sue intenzioni realistiche contrastano con il generico chiaroscuro e con il ricorso alle invenzioni classicheggianti di Guido Reni ben visibili nelle restanti Þgure: soprattutto in quelle del manigoldo di destra e delle donne al centro, desunte fedelissimamente da un ben noto, benché ora distrutto, affresco del chiostro ottagonale di San Michele in Bosco a Bologna (San Benedetto riceve le offerte dei contadini). La dama principale, anziché portare un canestro di uova come a Bologna, si fa servire su un vassoio la testa del santo dal troppo lontano carneÞce, e perciò qui va chiamata Salomè. Più interessante è la Þgura del manigoldo ignudo che, sulla destra, si esercita in un tiro alla fune del tutto inutile, visto che il suo prigioniero non oppone resistenza e anzi ha già perso la testa: nellʼoriginale del Reni alla fune era attaccato un somarello testardo e stracarico, che giustiÞcava assai meglio lo sforzo; e inoltre la scena era così affollata da giustiÞcare assai meglio il taglio della Þgura, che qui appare “mutilata” dalla cornice. Ma questo eroico manigoldo va osservato con cura, perché il suo colore chiaro e il suo chiaroscuro tornito da una luce decisa e calda, ma pigra e avvolgente (di lontanissima ascendenza gentileschiana, direi), si dimostrano uguali a quelli che caratterizzano la Circoncisione di Rocca PratifÞ; le due opere sono 33

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PASSEGGIATE INCOERENTI 24. Bartolomeo Giorgetti (c. 16051660), San Donato, 1638. Rocca PratifÞ (Sant’Agata F.), chiesa di San Donato. 25. Bartolomeo Giorgetti (c. 16051660), Sei santi, Montemaggio (San Leo), chiesa di San Francesco.

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del resto unite anche dal gusto per il furto di motivi disparati da dipinti diversi. La pala di Città della Pieve – che ho potuto conoscere e fotografare molti anni fa grazie alla gentilezza e alla disponibilità dellʼallora sindaco di Mercatello, Paolo Cincilla – è fortunatamente Þrmata a tutte lettere da un tal Bartolomeo Giorgetti di Pennabilli, e inoltre porta la data del MDCXXX; ma poiché sembra che il battente della cornice nasconda qualche altro numerale romano, potrebbe essere un poʼ più tarda, fra il 1630 e il 1638. Ed esattamente la data 1638 compare alla base di un solitario San Donato vescovo ancora conservato in quella chiesetta di San Donato di Rocca PratifÞ da cui proviene la Circoncisione di cui sopra. La frontalità immobile della Þgura, il suo volto realisticamente caratterizzato e ben curato, lʼorizzonte basso, ricordano Bartolomeo Cesi (in molte opere, e particolarmente nel San Nicola di Imola); ma non i colori caldi e sgargianti sui quali è intonato il giallo aranciato del cielo, né i reniani angioletti svolazzanti attorno al capo del santo, che ne diminuiscono lʼiconica solennità, fastidiosi e anche un poʼ dispettosi (dato che sono sicuramente intenzionati a togliergli proditoriamente la mitria per imporgli la corona del martirio e a sostituirgli il pastorale con la canonica palma). Credo fermamente che anche questo sia un dipinto del Giorgetti, per lʼidentità della stesura pittorica, per lʼuso di una luce dorata e pigra e di un chiaroscuro diligente e un poʼ greve, per lʼappoggio richiesto a prototipi vecchi e ormai scontati; insomma per lʼidentità di stile con le opere precedenti (anche se in una pittura tutto sommato così modesta si fa fatica a parlare di stile). Ne ho ritrovato la mano anche in una pala di qualità migliore nella chiesa francescana di Montemaggio (sempre nel Montefeltro, vicino al conÞne meridionale della Repubblica di San Marino), che rafÞgura ben schierati Sei santi sormon-

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tati da un angioletto, dalla luce chiara che tornisce i volumi e viviÞca il colore terroso e lʼarcaizzante impostazione uniÞcando tutta una serie di diseguali desunzioni; vi traspaiono i fantasmi del Gentileschi, del Guerrieri e di pittori veneti antichi e moderni, da Tiziano al Bassetti, ma il tono complessivo è abbastanza al corrente sia dellʼaccademismo bolognese che del naturalismo marchigiano. Specialmente nellʼangioletto seduto sulle nuvole alla sommità della tela sembra di scorgere una dipendenza o unʼassonanza con le opere giovanili del cesenate Giovan Battista Razzani: per lʼimpaccio del gesto, la rotondità delle forme chiuse, lʼesecuzione tarda e diligente. Non è il caso di meravigliarsene, perché anche i pittori piccoli possono suggerire spunti e fornire modelli ai pittori minimi. E dunque anche al nostro “Carneade”, che tuttavia in patria doveva essere abbastanza noto e molto attivo: infatti gli va attribuita almeno unʼaltra pala, affollata di Þgure di santi attorno ad una Madonna con il Bambino, già a Cernitosa di Soanne (ora, in pessime condizioni e, temo, irriproducibile, nel Museo Diocesano di Pennabilli). Che il pittore fosse abbastanza stimato in patria, oltre che dalla relativa abbondanza di opere superstiti è dimostrato da quella che considero la sua ultima fatica: la pala con la Decollazione di san Sisto papa esistente nella chiesa di San Sisto di Piandimeleto, che porta lo stemma dellʼabate mitrato Guido dei Conti di Carpegna, committente sia del dipinto che della chiesa (conclusa, stando ad unʼiscrizione riportata da Pier Antonio Guerrieri, nel 1661). Si tratta indubbiamente di unʼopera fortunata, in quanto è stata lʼunica fra quelle del nostro ad avere subito un intervento conservativo: sicuramente dovuto a una lusinghiera attribuzione a Giovan Francesco Guerrieri, da te confermata con una datazione verso la Þne del terzo decennio del secolo quando la tela era ancora corrotta dalla sporcizia e

26. Bartolomeo Giorgetti (c. 1605-1660), La decollazione di san Sisto, Piandimeleto, chiesa di San Sisto.

resa quasi indecifrabile dal pessimo stato di conservazione. Ma vai a rivederla oggi, dopo il restauro che permette Þnalmente di coglierne le vere caratteristiche: i contrasti di colore, lʼintensità dei chiaroscuri, lʼambientazione grigia e prospetticamente incoerente, la meccanicità dei gesti fanno pensare piuttosto a un pittore che si studia faticosamente di aggiornare il suo sostanziale e arcaico accademismo sui testi di un naturalismo locale ormai superato, certamente guardando alle opere del Guerrieri e del Cagnacci. Quel pittore non può essere altri che il nostro modesto, camaleontico Giorgetti: il carneÞce, sia pure

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PASSEGGIATE INCOERENTI 27. Bartolomeo Giorgetti (c. 16051660), Elia nel deserto, Perugia, Oratorio della Congregazione dei Nobili.

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imbottito di ricostituenti chiaroscurali, ha lʼaria impacciata e rotonda delle sue Þgure migliori; il rosso del piviale – in velluto operato, cioè in versione papale, di lusso – è ancora quello del San Donato del 1638; e la testa del santo martire è la stessa dei san Giuseppi che appaiono nelle pale di Montemaggio e di Rocca PratifÞ, derivata fedelmente da quella del san Giuseppe che sta al centro della Circoncisione del Gentileschi ad Ancona. La ritroverai, questa testa così caratteristica, ancora in unʼaltra opera del nostro pittore (a rafÞgurare però il profeta Elia) inaspettatamente ubicata piuttosto lontano da qui, a Perugia, nota da tempo ma pubblicata solo recentemente da Carlo Inzerillo, che ha ricostruito con molta cura la vicenda umana del Giorgetti fra il 1640 e il 1659: vicenda più che da pittore da maggiorente di paese e da agiato mercante che ha molto girato lʼItalia (in Studi per Pietro Zampetti, Ancona 1993, pp. 401-404). Si tratta di una lunetta affresca-

ta dellʼOratorio della Congregazione dei Nobili di Perugia, sottostante la chiesa del Gesù, chiaramente Þrmata dal pittore che vi si speciÞca “de Pinna Billorum” (chissà, forse per timore di essere scambiato con il collega assisiate Giacomo Giorgetti, coetaneo e possibile parente?). Nel pubblicarla lʼInzerillo lʼha correttamente collegata alla pala di Castel della Pieve, vi ha riconosciuto due Storie di Giacobbe (ma più esattamente si tratta di Elia nel deserto – Primo libro dei Re, 19, 4-8 – e del Sogno di Giacobbe – Genesi, 28, 10-17) e, dal punto di vista formale vi ha evidenziato inßuenze e derivazioni da Guido Reni; tanto da essere indotto a pensare – credo suggestionato dai riporti presenti nella pala di Castel della Pieve – che il Giorgetti fosse un suo “fedele discepolo”. In realtà le derivazioni e le interpolazioni anche qui sono molte e molteplici per quanto, al solito, sempliÞcate Þno alla banalità: dal Barocci per lʼEterno in cima alla scala, al Saraceni per il paesaggio, ai pittori napo-

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LETTERA PITTORICA 28. Bartolomeo Giorgetti (c. 16051660), Il sogno di Giacobbe, Perugia, Oratorio della Congregazione dei Nobili.

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letani (specialmente il Ribera del Sogno di Giacobbe ora al Prado) per le Þgure dei protagonisti, agli accademici bolognesi per gli angeli; in quanto al risultato è al solito modesto, se non proprio banale. Ho alcuni sospetti (positivi) sullʼappartenenza al Giorgetti – che dovrebbe essere nato entro il primo decennio del secolo e morto poco dopo il 1659 – di altre cosucce, anche ad affresco, tutte malandate e pericolanti, e inoltre abbastanza sciatte; e penso che se si potessero visitare sistematicamente e con cura le tante chiesette del Montefeltro chiuse e cadenti, altre ancora ne verrebbero fuori. In territorio romagnolo invece la sua presenza sembra scarsa, e posso segnalare solo una scadente Sacra Famiglia con SantʼAntonio da Padova nella chiesa parrocchiale di Corpolò, nel Riminese, anzi nella valle del Marecchia, dove è presente anche un suo compaesano contemporaneo, il pittore Giulio Bistolli, forse più dotato di lui o almeno più schierato di lui con i “naturalisti”. Comunque

mi sembra che lʼorizzonte dei riferimenti del Giorgetti sia chiaro: cioè è amplissimo, tanto da risultare generico. Infatti dal punto di vista temporale va dal Cinquecento alla prima metà del Seicento; e da quello geograÞco da Bologna a Venezia a Napoli, passando da Rimini, Pesaro, Urbino, Ancona, Roma (sembra un orario ferroviario!). Ed è chiaro il fatto che non ci troviamo di fronte a un pittore che “desume” da opere di altri pittori o che si “ispira” al loro stile, ma a un pittore ladro che letteralmente “ruba” senza scrupoli Þgure, elementi, situazioni riutilizzandoli a suo modo e senza preoccupazioni di stile, anche se li combina e riassume con una qualche correttezza accademica e una certa propensione naïve per un letterale, semplicistico naturalismo. Ovviamente non è il solo; nelle campagne collinari fra Romagna e Marche anzi ne trovo parecchi altri, che però in genere attingevano ad un arco di esperienze più coerente e breve e con minor disinvoltu37

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29. Giovan Battista Fantoni, Cinque Santi, Mondaino, chiesa di San Michele.

ra: in gran parte si tratta di pittori di zona urbinate, che compongono Þgure e frammenti, debitamente impoveriti, di opere del tuo caro Federico Barocci, generoso fornitore in vita e in morte di una inÞnita serie di motivi ad una squadra assai folta di pittorelli-copisti anonimi sempre a corto di invenzioni. Nel copiare palesemente brani di opere, o intere opere note, spesso questi pittori di campagna avranno avuto

il “consenso informato” e forse addirittura il plauso dei loro committenti, dato che le immagini celebri o riconosciute come tradizionali potevano godere sia di una autorevolezza devozionale notevole, sia di un certo credito formale. Ma questo è il caso dei “copisti” dichiarati, che non sono la maggioranza. Non sembra comunque il caso del Giorgetti che abbiamo appena conosciuto, che ha cercato appoggi solo per supplire in qualche modo a carenza di idee, di fantasia, di abilità creativa senza mai denunciarsi come semplice copista, e che anche per questo possiamo considerare piuttosto scarso di “moralità professionale”; né di tanti altri piccoli artigiani presuntuosi e senza inventiva che, pur riÞutando la copia esatta, non si sforzavano nemmeno di “comporre” e si accontentavano di “giustapporre” intere scene travasate da opere altrui, con poche varianti e con molte sempliÞcazioni. Come esempio di questa categoria posso presentarti (perché forse non lo conosci) un certo Giovan Battista Fantoni, non so di quale patria, che è contemporaneo del Giorgetti e che ha lavorato nelle valli del Marecchia e del Conca, cioè in un territorio contiguo al Montefeltro, e che quindi potrebbe essergli stato concorrente. A Mondaino (nella chiesa parrocchiale), questo Fantoni ha lasciato, Þrmata e datata (1650), una pala con quattro santi immobili, caratterizzati da un poco di diligente naturalismo di maniera. A San Marino, nella Pieve, ha Þrmato e datato (1662) un San Sebastiano che un secolo fa Corrado Ricci – senza sapere chi ne fosse lʼautore, scoperto solo nel 1987 grazie a un restauro – deÞniva come “parafrasi da Tiziano”, ed è infatti copia in controparte di una Þgura desunta dalla pala di Tiziano già ai Frari e ora alla Vaticana, intristita da qualche cupezza chiaroscurale forse di discendenza guercinesca o comunque bolognese. Il “capolavoro” di questo pittore è visibile sullʼaltare della chiesa parrocchiale

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di San Martino dei Mulini, nella valle del Marecchia. Si tratta di una gran pala che in alto allinea santʼAntonio Abate, la Madonna con il Bambino, san Bernardino, e in basso afÞanca il Martirio di san Bartolomeo a san Martino che dà il mantello al povero. Il Martirio deriva dalla celebre incisione del Ribera che deve avere largamente circolato nella zona (perché ne conosco almeno una decina di povere traduzioni pittoriche); il San Martino, invece, è copia variata in alcune parti del quadro del Centino già nella vicina omonima pieve di Verucchio, e ora allʼaltar maggiore della Collegiata dello stesso paese: solo che il cavallo è diventato bianco, e il cavaliere si è dotato di elmo piumato e di unʼespressione da bambolina raffaellesca “che è un incanto”. Qui le Þgure e le scene sono copiate per intero e come ritagliate e applicate su un fondo neutro di paesaggio, senza intenzione di unirle in qualche modo e di farle dialogare: solo afÞancandole. Lo stesso sistema è stato usato dal pittore in unʼaltra paletta con la Madonna di Loreto e cinque santi che si trova nella parrocchiale di San Vito: la composizione ricorda una collezione di farfalle, con le Þgurette provenienti da idee, luoghi, stili diversi, allineate ordinatamente una accanto allʼaltra, e si direbbe opera di un entomologo dilettante più che di un pittore devoto. Dimenticavo di dire che la pala di San Martino, oltre che Þrmata, è datata: 1654. A conferma (forse inutile), che quella del Centino a Verucchio è sicuramente anteriore a tale data. Questi pittori (potremmo deÞnire il Giorgetti un “collagista” e il Fantoni un “collezionista”) sono in un certo senso due rappresentanti tipici degli artisti che in prevalenza hanno lavorato qui durante il Seicento, e che si incontrano dappertutto, più o meno pasticcioni, più o meno frettolosi, più o meno vivaci. Hanno in comune una personalità scarsa e opere che ogni giorno diventano sempre più polverose e spente, e sempre più illeggi-

30. Giovan Battista Fantoni, Madonna e santi, 1654. San Martino dei Molini (Santarcangelo di R.), chiesa di San Martino. 31. Giovan Battista Fantoni, La Madonna di Loreto e santi, San Vito (Santarcangelo di R.), chiesa di San Vito.

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bili. Dʼaltra parte cosa dire a loro difesa? Hanno “caratteristiche intrinseche” che non incoraggiano certo né lo studio né la conservazione; e nemmeno “caratteristiche estrinseche” sufÞcienti a un utilizzo 39

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PASSEGGIATE INCOERENTI 32. Giovan Francesco Nagli, detto il Centino (1601-1675), San Vicinio. Raccolta privata.

e lasciate dialogare fra di loro, di più vaste realtà territoriali. Mi accorgo, caro Maestro, di farti malamente il verso, dato che queste considerazioni e questi interrogativi li stai esponendo e ponendo da decenni. Ma, siccome la situazione è cambiata poco, almeno dalle mie parti, permettimi di ripeterli in nome della solita vecchia speranza che repetita iuvant.

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pratico, per via di tutti quei santi che presentano, ormai surclassati dalla medicina moderna: Rocco e Sebastiano, Lucia e Agata, Bartolomeo e Antonio. Oggi sembra dimostrato che anche san Cristoforo sia meno efÞcace delle cinture di sicurezza! Certo per i contadini e i viaggiatori di un tempo la situazione era diversa; ma i contadini e i viaggiatori “di un tempo” sono “da tempo” scomparsi senza lasciare molte altre memorie al di fuori di queste. E allora a chi le afÞderemo: a antropologi e sociologi, o a storici delle religioni, piuttosto che agli storici dellʼarte? E con quali strumenti le salveranno? Perché non abbiamo dubbi che debbano essere salvate, almeno in quanto testimonianze pubbliche e ufÞciali (come infatti sono sempre le pale dʼaltare, indipendentemente dalla loro qualità) capaci di fornire una incredibile quantità di informazioni e di stimolare letture multiformi di mentalità, gusti, culture e necessità speciÞche di singole realtà e, una volte messe a confronto

Nel presentarti come tipiche della zona le opere del Giorgetti e del Fantoni forse ho sbagliato, perché in realtà hanno qualcosa di eccezionale, di anomalo rispetto alla generalità: alcune infatti sono Þrmate e datate. Questi elementi certamente non le rendono migliori, ma invogliano la ricerca e ne favoriscono la conservazione. Anche altri quadri senza nome e senza data sono componibili a gruppi (quasi sempre di pochi numeri), ma con minore soddisfazione perché di autore ignoto e perché non lasciano capire nemmeno a che “scuola” facciano capo, verso chi guardino e da chi dipendano in prevalenza. In molti casi la fatica e il tempo – quanti chilometri macinati nella ricerca di parroci ormai inesistenti e quanto tempo perso in telefonate inutili e in sopralluoghi andati a vuoto per la mancanza di custodi, e quanto sforzo di memoria in mancanza di fotograÞe – sembrano inutilmente spesi sia per la pochezza della loro testimonianza artistica (la famosa “qualità”), sia per lʼimpossibilità di comprenderne lo stile, sia per la troppo scarsa speranza di salvarle dal degrado ultimo. Questʼultimo fatto mi fa sempre più spesso demoralizzare e, a volte, mi induce a rimandare o a evitare gli incontri con loro (si tratterà di un effetto di “amore pietoso” o di semplice e colpevole stanchezza?). Comunque credo di dover ribadire, anche se è quasi inutile, che i pittori operanti in questa zona, con poche eccezioni, si guardavano bene dal Þrmare le loro opere, anche e soprattutto i migliori. Che io

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sappia nemmeno il Centino, lʼunico buon pittore del Seicento che in queste campagne ha avuto una presenza costante e una clientela affezionata, ha mai Þrmato una pala: limitandosi, al massimo, ad apporvi qualche preziosissima data. A Rimini e nel territorio riminese il Centino – come sai bene – risulta sempre più il vero protagonista della pittura del Seicento tanto per la qualità che per la quantità delle opere; ma non pare si sia arrampicato volentieri su per le colline ripide fra Romagna e Montefeltro, forse perché costituivano un mercato troppo povero, da lasciare ai modesti pittori indigeni o a quelli “erranti”, di passaggio. Certo qualcosa ha fatto per i centri maggiori (ho trovato infatti cose sue a Saludecio e a MonteÞore, a SantʼAgata Feltria e a Montemaggio), ma più volentieri curava la clientela della zona settentrionale, fra Santarcangelo e Cesena. E a questo proposito mi permetto di presentarti, ancora una volta con una pessima fotograÞa di fortuna, una tela assai sciupata (cm. 188 x 127) che si è affacciata brevemente sul mercato antiquario di San Marino diversi anni fa (nel 1992) e che mi era stata segnalata come opera del Cagnacci di provenienza romana; non sono riuscito ad averne documentazione migliore e non so dove sia Þnita, ma non mi sembra sia mai stata pubblicata. Evidentemente non si tratta di unʼopera del Cagnacci, ma del Centino, e certamente tarda, e sicuramente di provenienza romagnola perché il suo soggetto principale è San Vicinio (il tipico collare appoggiato al gradino non lascia dubbi). Dovrebbe trattarsi, anzi, della pala un tempo nella cattedrale di Sarsina, scomparsa nel Settecento

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dopo essere stata sostituita dallʼattuale, per la quale talvolta e incongruamente si continua a ripetere il nome del Centino. La Þgura della santa martire a destra è un poʼ di maniera; non così le altre due, specialmente quella del ragazzino ingenuo e Þducioso, pettinato e inÞocchettato per il festoso incontro con il santo parato per la celebrazione della messa: uno di quegli incontri pieni di verità e di umanità di cui il Centino era vero maestro. Insieme ai fantasmi di tante meschine, anonime e bastarde opere pericolanti e in via di dissoluzione che costituiscono la parte maggiore dellʼimagerie seicentesca della periferia riminese, ti giunga gradito lʼomaggio di questo disperso incontro centinesco, quasi a simbolico ricordo dei nostri primi incontri di molti anni fa, e a ringraziamento del lavoro che ne è seguito, dal tuo affezionatissimo P. G. P.2

33. Giovan Francesco Nagli, detto il Centino (1601-1675), San Vicinio, particolare. Raccolta privata.

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III. ANTICHE INSEGNE

1. Le insegne parlanti Quando toccava al nonno il compito di venirmi a prendere a scuola, era per me una buona giornata. Infatti il tragitto comportava inevitabilmente una tappa per il suo toscano; e insieme al toscano per lui una caramella per me, accompagnata, nelle circostanze più fortunate, dal sempre desideratissimo pennino a campanile o a pagoda o a manina, da sfoggiare a scuola (ma inusabile a casa, dove certe “frivolezze” venivano aspramente redarguite e represse). È probabile che i giovani (e anche i giovani-adulti) di oggi non sappiano niente dei pennini di una volta; se lo credono opportuno si informino dai nonni: qui vogliamo occuparci di altro. Dunque in quei giorni fausti immancabilmente si deviava dal tragitto più breve per passare alla “pipa”, una tabaccheria che noi familiarmente chiamavamo così per la sua insegna “a bandiera”, forse di latta, rafÞgurante un proÞlo d’uomo a mezzo busto munito di una poderosa pipa ritorta. Si trattava di una tipica insegna “parlante” (cioè che si faceva capire senza bisogno di parole scritte) comune a tutte le tabaccherie (quindi d’ordinanza, ma io allora non lo sapevo). Rifatto di sana pianta diversi anni dopo, e rilucente di vernici plastiche, l’uomo dalla pipa ha indicato silenziosamente e sorvegliato fedelmente la sua bottega Þno all’obbligatoria e meritoria rimozione di tutte le insegne “a bandiera” decretata da

un’ordinanza comunale negli anni ottanta del Novecento. Era forse uno degli ultimi rappresentanti di una generazione di cui rimangono scarse testimonianze solo presso qualche rigattiere, e scarsi ricordi. D’altra parte anche le botteghe sul tipo di quelle della “pipa” sono scomparse. Esistono, è vero, tabaccherie che sono anche cartolerie, chincaglierie, dolcerie e via dicendo; ma per la loro asettica lucentezza e la trasparenza delle loro vetrine sono diversissime da quelle di prima della guerra e dell’immediato dopoguerra (di una volta, insomma), vecchie, scure, odorose, zeppe di cose invisibili e irraggiungibili in scaffali e cassetti misteriosi. Di vecchie insegne analoghe a quella della “pipa”, cioè “a bandiera” e “silenziosamente parlanti”, ne ricordo ben poche, e soprattutto una sul corso d’Augusto con una manona penzolante da un gancio su un negozio di merceria (credo intitolato “al guanto rosso”, e la mano era appunto rossa). Dello stesso tipo, anche se più modesta e primitiva e ormai indecifrabile, era quella che si trovava da sempre sulla porta del mio vecchio biciclettaio di Þducia, formata da un mezzo cerchione di bicicletta; mezzo, perché da tempo la ruggine se ne era mangiata una parte. Quando il biciclettaio è andato in pensione la bottega è stata ristrutturata ed è sparito anche il vecchio mezzo cerchione, ultimo esempio di antica “insegna parlante a bandiera” e nello stesso tempo di genuina pop-art autoctona.

34. Il marchio del mercante Giacomo, 1397, particolare. Rimini, già Musei comunali.

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PASSEGGIATE INCOERENTI 35. “Mostra” di una superstite bottega ottocentesca prima dell’eliminazione delle vecchie chiusure in legno. Rimini, via Garibaldi (circa 1975). 36. Giovan Battista Piranesi (1720-1778), Il ponte romano di Rimini, da Antichità romane, II, Roma 1748, particolare. È ben visibile una insegna di osteria o di locanda situata proprio all’imbocco del ponte nel borgo San Giuliano. 37. L’insegna ottocentesca dell’antico albergo Leon d’Oro, accanto alla vecchia pescheria di Rimini. 38. Una spiritosa riproposizione moderna di “insegne parlanti a bandiera” a Santarcangelo di Romagna.

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Ci sono stati anni in cui le insegne “a bandiera”, più o meno luminose, ma in genere solo scritte, hanno furoreggiato. Il cattivo esempio era partito dal mare, in parte giustiÞcato da certa anonima uniformità di viali e di costruzioni e si era rapidamente diffuso ovunque. Ad un certo momento anche sul Þanco della chiesa riminese di Sant’Agostino, accanto alla porta laterale, era spuntata una bella insegna a bandiera con scritto: «Entra e prega». Non ne ricordo il colore, forse giallo. Avrebbe potuto costituire il modello per tutta una serie di locali “a luce gialla”, ma il buon gusto dei superiori costrinse prestissimo il vecchio parroco a smurarla, e la cosa Þnì lì. Il repulisti di tanta inutile paccottiglia insegnistica forse ha apportato qualche danno ad elettricisti e afÞni, però ha giovato sensibilmente al paesaggio urbano. Le strade sembrano più ordinate e perÞno più larghe, e il cielo che appare nel vano fra i cornicioni più profondo e

luminoso. Ma non si tratta di un ritorno all’antico, come a prima vista potrebbe sembrare. Certo le insegne un tempo erano rare, perché rari erano artigiani e negozianti, e perché il lavoro o la vendita dei prodotti si svolgeva in massima parte sulla strada o sulla soglia della bottega e perciò non aveva bisogno di particolari indicazioni; comunque molte botteghe avevano la loro brava insegna, e quasi sempre “a bandiera” e inevitabilmente “parlante”. Purtroppo non ne rimangono esempi campione, ma possiamo immaginarle facilmente: per esempio vicino alla porta del maniscalco pendeva da una staffa un ferro di cavallo; vicino a quella del carraio una ruota; su quella del fabbro una zappa o una vanga, e via dicendo. Le osterie, invece, si distinguevano subito per una banderuola, e ancora più spesso per una semplice frasca appesa all’architrave: l’osteria era, com’è ben noto, un elemento frequente e importantissimo della città, insieme trattoria e albergo, luogo di ritrovo e di gioco, centro di affari e di commerci sessuali. Accanto a queste insegne semplici, e in Þn dei conti anonime, ce n’erano poi di elaborate, appese soprattutto sulle porte delle locande principali: presentavano Þgure stilizzate, ritagliate nella lamiera o nel legno, e quindi facilmente riconosci-

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bili anche quando si scolorivano. Per la gente che non sapeva leggere, ed era la stragrande maggioranza, esse erano veramente “parlanti” e tutti potevano riconoscerle e quindi indirizzarsi con esattezza all’osteria o alla locanda dell’Angelo, o a quelle della Luna, del Giglio, della Ruota, della Campana, dell’Aquila e così via. Non invento dei nomi a caso: questi erano i nomi di alcune delle locande realmente esistenti a Rimini durante il Medioevo, e si afÞancavano a quelle che prendevano il nome dalla vicinanza di luoghi noti a tutti, come la posta o la fontana. Naturalmente esse erano sparse nei vari rioni e borghi della città, ma la zona attorno alla piazza della fontana ne vedeva la maggior concentrazione: nel Quattrocento, infatti, una “via degli alberghi” si trovava proprio dietro ai palazzi comunali, mentre “via delle tavernelle” era il signiÞcativo nome dell’attuale via Sigismondo. Qualcuna di queste locande è sopravvissuta a lungo, con alterne vicende e con più o meno profondi e sostanziali mutamenti e lunghe interruzioni. Per esempio l’albergo del Leon d’Oro, sulla pescheria, doveva discendere da una di queste; e così forse l’albergo l’“Aquila d’oro”, sul Corso. A proposito del quale si può ricordare che la sua antenata, l’antica locanda dell’Aquila, ebbe l’insegna distrutta dai giacobini durante l’invasione napoleonica perché la sua innocente aquila fu scambiata per lo stemma dell’odiatissima Austria.3

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2. Marchi e insegne medievali Oggi sembra impossibile, ma c’è stato un tempo in cui Rimini veniva considerata una città “molto mercantile”. Si veda per esempio cosa ne diceva l’Adimari all’inizio del Seicento (1616), conÞgurando una città in crescita dove cominciava già ad essere sensibile una certa crisi degli alloggi. Ma poi le cose cambiarono, per

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le mutate circostanze politiche ed economiche, e perché il porto, che costituiva il terminale della via per Rimini (o da Rimini) più ampia e comoda, quella del mare (tuttavia già infestata dai pirati all’inizio del Seicento), s’interrò, e tutto subì un rallentamento, ed anzi un arresto. Comunque ora dei fondaci, magazzini e botteghe che dovevano caratterizzare l’antica città non rimane più niente, salvo il noto “canevone dei veneziani”. I documenti per tracciare un’approssimativa mappa dei magazzini e dei negozi riminesi nei vari secoli non sono scarsi, ma mancano quasi del tutto elementi materiali che ne suggeriscano visivamente l’aspetto, con l’eccezione di qualche rara “insegna” murale interessantissima, quasi sconosciuta o dimenticata. Non si pensi a grandi cose: si tratta sempre di segni e segnali modesti come forma e dimensioni, ma nonostante questo originariamente ben visibili e senza dubbio efÞcaci. Oggi, per comprenderne la visibilità e l’efÞcacia, bisogna fare uno sforzo di immaginazione, nel senso che bisogna tentare di ricuperare idealmente il volto della città antica, o anche solo vecchia, ben diverso dall’attuale. Recentemente si è parlato, a proposito delle nostre città, oltre che di inquinamento ecologico e acustico, di “inquinamento immaginiÞco”, cioè per eccesso di immagini (si veda, a proposito, un bell’elzeviro di Gillo Dorßes sul “Corriere della sera” del 7 aprile 1989). Tutta la congerie di immagini – manifesti di ogni genere, insegne, striscioni, murales e via dicendo – che ci circonda nelle strade e nelle piazze, ma anche in casa (dove alle immagini Þsse dei giornali e delle riviste si accompagnano quelle mobili e mutevoli della televisione) era assolutamente sconosciuta e impensabile Þno a un secolo fa. Fino ad allora le immagini ‘pubbliche’, dalle madonne sulle cantonate ai dipinti delle chiese, dagli stemmi gentilizi alle insegne delle botteghe e ai cartelloni dei

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ANTICHE INSEGNE 39. Insegna-marchio di un mercante del XIV secolo, a Rimini, in via Serpieri. 40-41. Rimini, l’ediÞcio medioevale sul “cantone di Sant’Arcangelo” con un pilastro in pietra e l’insegna di un mercante, nel 1945. 42. Questi misteriosi segni “cabalistici” sono semplici signa di mercanti del Medio Evo, tratti dal Sepoltuario di San Francesco compilato dal notaio Franceschino q. Muziolo nel 1362, ora conservato nella Biblioteca Gambalughiana di Rimini. Appartenevano ai seguenti personaggi: Zangolo di Ventura, speziale; Ondideo di Giuliano, pellizzaro; Giacomo Grossi, mercante; Rizio e Pietro Pellacani; Bartolomeo da San Vito, mercante; Patrignano de’ Forti; Andrea di Pietro Tedesco, conciapelli; mastro Dino, mastro Giovanni delle Lance e mastro Bartolino de’ Barili; Bertazzolo di Mencio Fattiboni.

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cantastorie, attiravano l’attenzione per la loro rarità e venivano guardate con interesse e curiosità. Di questo si tenga conto sempre, quando ci si occupa di antiche città e di antiche Þgurazioni; e particolarmente quando si rißette sul tema delle antiche insegne. Nel Medioevo (ma anche prima e anche dopo) ogni mercante aveva un particolare “marchio”, o signum, con cui contrassegnava la sua mercanzia: veniva stampigliato sui sacchi o sulle casse di merce, veniva tracciato sui documenti, veniva registrato nelle “matricole” ufÞciali, ma veniva anche scolpito su capitelli e architravi per contrassegnare le botteghe e le proprietà immobiliari, e fungeva in un certo senso da “stemma” (come dire: laico?) tanto che spesso veniva inciso come segno di riconoscimento anche sulle pietre tombali, magari insieme al simbolo dell’arte che il mercante o l’artigiano aveva professato. Questi segni, che oggi ci appaiono spesso incomprensibili e misteriosi, erano in genere formati da una croce, o una stella

ad asterisco, o un Þore, uniti quasi sempre ad un intreccio di lettere che formavano un monogramma. Ma qualche volta erano costituiti da una sola lettera: un esempio di questo genere è ancora presente, sia pure fuori posto, in una strada riminese: si tratta di una t minuscola, scolpita in rilievo su un concio di pietra ora sul muro della canonica di Santa Croce, in via Serpieri: concio che è l’unico elemento superstite di un ediÞcio medioevale (e più

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43. Gentile da Fabriano (1380/85-1427), San Nicola risuscita tre fanciulli, 1425. Roma, Pinacoteca Vaticana.

precisamente trecentesco) che, lì accanto, formava “il cantone di Sant’Arcangelo” (chiamato così perché vi era una nicchia con l’immagine di san Michele). Questo ediÞcio era costituito da un insieme di botteghe, e la sua facciata medioevale era in parte ricomparsa sotto alle superfeta-

zioni ed agli intonaci moderni nel 1944, fra le rovine dell’ediÞcio bombardato. È stata radicalmente distrutta durante la ... ricostruzione. Nessun dubbio che questa lettera costituisse il signum di un mercante: ma è difÞcile dire se si trattava di un semplice

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contrassegno di proprietà, o se fungeva anche da vera e propria insegna di fondaco o negozio o laboratorio (perché anche questa poteva essere la sua funzione) o di entrambi. Invece è completamente infondata l’ipotesi che si tratti di un emblema ospitaliero riferibile all’ordine degli “Antoniani”, come pure è stato prospettato, la cui simbolica T aveva una forma diversa, ed il cui ospedale era in tutt’altra parte della città. Il “cantone di Sant’Arcangelo” faceva parte della contrada di San Simone; molti dei ricchi mercanti che vi abitavano vollero essere seppelliti nel cimitero della vicina chiesa di San Francesco (la cattedrale di oggi), nel cui trecentesco sepoltuario sono diligentemente annotati i loro sepolcri. Uno di questi era di un certo Andrea da Cattolica, della stessa contrada, contrassegnato proprio con una t (“Que habet t”): probabilmente si trattava della tomba del nostro mercante. Può essere di una qualche utilità, a questo punto, tenere presente un pannello della predella del Polittico Quaratesi di Gentile da Fabriano, compiuto nel 1425, rafÞgurante un miracolo di san Nicola. Nello sfondo è rafÞgurato l’ingresso al cortile di una locanda, che doveva senza dubbio chiamarsi “della luna”, perché l’insegna a bandiera che pende sulla porta è appunto una luna. Di Þanco all’ingresso compaiono dipinti alcuni segni misteriosi, che non sono altro che segni mercantili: ovviamente in quella locanda alcuni mercanti avevano il loro recapito (o il loro magazzino). In una copia di questo dipinto dovuta a Bicci di Lorenzo dieci anni dopo, trovandosi il pittore a disporre di una superÞcie maggiore in quanto doveva sviluppare orizzontalmente la scena, aumentò il numero dei segni di mercatura, che da quattro divennero ben diciannove. Il dipinto di Gentile da Fabriano ora è conservato nella Pinacoteca Vaticana; quello di Bicci al Metropolitan Museum di New York.4

3. Il mercante Giacomo consiglia: nota e taci Di antichi contrassegni di mercante scolpiti in pietra al Museo della Città di Rimini ne esistevano due, entrambi molto interessanti e anche molto belli. Uno è inedito e non so da dove provenga: presenta due lettere in nesso, forse T e P, sormontate da una croce, scolpite in rilievo sulla chiave di volta di un arco; credo sia databile alla Þne del Trecento o all’inizio del Quattrocento. L’altro, rubato qualche decennio fa, è conosciuto per la sua curiosa e bella iscrizione in volgare, in parte rilevata e in parte incisa, eseguita in forme gotiche abbastanza accurate. È divisa in due parti; nella prima c’è la data, 14 agosto 1397, seguita dall’invocazione: “Cristo aita Iacomo”! La seconda parte spiega indirettamente il motivo di questa invocazione, perché ammonisce i chiacchieroni e i maldicenti: «Nota e taci – dice fra l’altro – se vuoi vivere in pace; ricordati che è più facile dir male, che dir bene». E conclude: «A buon intenditor, eccetera”». Questa pietra era murata nell’angolo fra la strada maestra (il corso d’Augusto) e la breve via che conduceva alla piazza della fontana (piazza Cavour), prima che questa venisse ampliata Þno alla strada: un angolo sempre affollato di sfaccendati, di disoccupati in cerca di lavoro, di fattori e sensali vocianti, in cui si facevano chiacchiere su chiacchiere a voce altissima, e che veniva chiamato “canto de’ puntiroli” (dal pungere che fanno i maldicenti, spiega Luigi Tonini). L’uso di soffermarsi a chiacchierare in questa parte della città, tra la fontana e il corso, è antichissimo ed è durato Þno a pochi decenni fa. Proprio lì Þn dal IX secolo i documenti segnalano una pietra detta “oziosa”: forse un paracarro, o comunque una sporgenza su cui ci si poteva sedere o appoggiare. Ma ritorniamo alla nostra iscrizione: al centro reca in rilievo un complicato 49

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monogramma in cui si scorgono le lettere S V T , terminante in una croce afÞancata dalle lettere i a. Il Tonini, forse imbrogliato e dalla cornice dentata che borda la pietra (erroneamente deÞnita malatestiana, mentre deve essere genericamente ritenuta di gusto veneto) e dal buon carattere di Carlo Malatesta, attribuiva l’iscrizione all’iniziativa di quest’ultimo, noto come uno dei più saggi signori di Rimini. Ma questa volta i Malatesti non c’entrano: il monogramma è il signum di un mercante, anzi del mercante Iacomo (le prime lettere del suo nome – i a – appaiono accanto alla croce del marchio), disperato per il chiasso che si faceva davanti al suo negozio. Nelle sue intenzioni quella pietra bianca voleva essere una supplica e un ammonimento, ma anche l’insegna del suo esercizio.5

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4. Mercanti in piazza grande Solo recentemente, grazie al lodevole repulisti di bacheche operato in città, è saltata fuori una nuova e interessante “marca” di un antico mercante riminese. È incisa su un pilastro del portico della “piazza grande”, oggi Tre Martiri, e corrisponde al civico numero 12. Sotto ai portici di questa piazza sono sempre esistite botteghe di tutti i generi, da quelle di stoffa a quelle di granaglie, da quelle di pesce salato e fresco a quelle di carne, inframmezzate da vari laboratori artigiani. Fra le tante se ne può ricordare almeno una, settecentesca: quella di Nicola Giangi, posta davanti al tempietto di sant’Antonio. Il Giangi commerciava in “generi diversi”, e soprattutto vendeva stoffe e cereali; oltre ad avere un notevole senso degli affari, era curioso degli avvenimenti e degli uomini, ed aveva il gusto del pettegolezzo. Grazie alla sua attività e alla posizione del suo negozio poteva vedere e sentire una gran quantità di cose: che, per nostra fortuna, ci ha lasciato scritto in un diario ora conservato in Gambalunga; un diario minuzioso e

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voluminoso che va dal 1782 al 1811 e che fu continuato Þno al 1841 da suo Þglio Filippo. Si tratta naturalmente di un documento preziosissimo per conoscere gli avvenimenti cittadini di quegli anni burrascosi, confusi, molto spesso tragici. Ma ritorniamo al pilastro da cui eravamo partiti: reca scolpita subito sotto al capitello la data 1557 e ancora più sotto il signum di un mercante, l’unico dei pochi che conosciamo rimasto al suo posto. È formato da uno scudo che contiene alcune lettere, sormontato da una croce e bipartito orizzontalmente. Naturalmente queste lettere potrebbero corrispondere alle iniziali del mercante e di eventuali soci, ma non è certo. Di che genere di negozio o di magazzino o di laboratorio si trattasse non saprei proprio dire. Solo un’accurata e fortunata ricerca documentaria potrà illuminarci su questo particolare niente affatto secondario. In quanto alla datazione del signum in questione, non c’è dubbio

che corrisponda al 1557 che vi è inciso sopra, prezioso anche per collocare cronologicamente la costruzione, o meglio ricostruzione, della porzione corrispondente di portico. La data ci riporta all’avanzato Rinascimento; e del Rinascimento anche le forme del marchio hanno tutte le caratteristiche: la semplicità geometrica, il gusto della simmetria, la nitidezza del tratto. Dunque non è un caso se assomiglia agli elegantissimi marchi dei primi tipograÞ, disegnati, com’è noto, alla Þne del Quattrocento (e da qualcuno usati ancor oggi: Olshki, per esempio). Va precisato però che non tutti i mercanti del Rinascimento adottarono forme ‘moderne’ per i loro marchi; in genere, anzi, mantennero forme tradizionali, appena regolarizzate. Una buona dimostrazione è costituita da questa pietra riminese con la sigla G P e la data 1555, conservata in una raccolta privata. Una pietra con un segno analogo, anche se meno elaborato, è stata trovata nel 1990 nell’alveo del Marecchia, durante il restauro del ponte romano detto di Tiberio (e ora è custodita nei magazzini del Museo della Città). Nella stessa piazza riminese per diversi secoli ha attirato l’attenzione dei passanti una lapide bianca murata nel voltone detto “dei Magnani”, sotto cui terminava appunto la via dei Magnani, ora Garibal-

44. L’epigrafe contro i maldicenti del mercante Giacomo, 1397. Rimini, già Musei comunali, dall’attuale piazza Cavour. 45-46. Pilastro del portico di Piazza Tre Martiri, a Rimini, con la data 1557 e il signum di un mercante.

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47. Pietra con il marchio di un mercante e la data 1555. Rimini, raccolta privata. 48. Altra pietra con il marchio del mercante G P. Rimini, Museo Civico.

di. Questa lapide ‘si faceva vedere’ non solo e non tanto per la sua posizione e il suo colore, ma perché vi era scolpito uno scheletro con due cartigli. In uno di esso è inciso questo avvertimento: Usque ad Þnem regnabo, regnerò Þno alla Þne. Sembrerebbe una variante del solito “ricordati che devi morire” caro alla tradizione cristiana ed alla saggezza precristiana, eccezionalmente posto in un luogo pubblico di grande frequentazione: i vanitosi, i prepotenti, i proÞttatori che si recavano all’affollatissimo mercato del sabato, che si teneva appunto in quella piazza, avrebbero fatto bene a tenerlo presente. Nell’altro cartiglio, sottostante al braccio dello scheletro che tiene alto un marchio ovoidale, era scolpito un altro motto, quasi a mitigare la durezza del primo: Moderata durant, le cose moderate sono quelle che durano; ed anche questo è pieno di antica

saggezza, e può riferirsi tanto alla sfera morale che a quella materiale: “Sii prudente, evita ogni eccesso: non sfuggirai alla morte, ma vivrai di più”. L’incidenza di queste iscrizioni sulla gente doveva essere minima: ben pochi sapevano leggere e, fra quei pochi, pochissimi dovevano conoscere il latino. Però tutti riconoscevano Þn dal primo colpo d’occhio nella Þgura scolpita l’immagine della morte. Ma chi aveva avuto la macabra idea di rattristare uno dei luoghi più importanti della città con quella immagine? L’idea non era stata del “pubblico”, cioè del potere politico o religioso, ma di un privato: uno speziale o farmacista che proprio accanto a quel voltone aveva la sua bottega “all’insegna della morte”. Se un’insegna deve prima di tutto attirare l’attenzione e farsi facilmente riconoscere, questa era veramente indovinata. Tuttavia sembrava fatta apposta per avvilire il cliente ammalato, a cui ricordava l’ineluttabilità della morte – la vera invincibile regina, la vera immortale padrona della vita (usque ad Þnem regnabo) – e al quale consigliava una condotta di vita sobria e prudente (moderata durant). Insomma lo speziale sembra voler mettere le mani avanti, e dare un consiglio consolatorio, gratuito quanto generico.

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ANTICHE INSEGNE 49. Insegna della Farmacia della morte, XVI secolo. Rimini, Museo della Città , dall’attuale piazza Tre Martiri.

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PASSEGGIATE INCOERENTI 50. Targa di Simone Cinquedenti, 1498. Londra, Victoria and Albert Museum.

Ma in quel moderata durant non c’è solo un consiglio: infatti il farmacista in questione apparteneva alla famiglia dei Moderati, e dunque il motto può essere interpretato anche così: le cose (prodotti, pozioni, cure ecc. ) dei Moderati durano, sono efÞcaci nel tempo. Contemporaneamente il motto, che si trovava esattamente sotto al “marchio di fabbrica” della speziera, ostentava la continuità nel tempo della famiglia, cioè una tradizione, un’esperienza familiare che era garanzia di qualità per i suoi prodotti, e anche un auto-augurio di lunga discendenza: i Moderati durano, la famiglia Moderati non si estingue. I Moderati sono durati a lungo, ma sono Þniti anch’essi sotto la falce; sopravvive tuttavia questa loro insegna (credo della Þne del Cinquecento o del primo Seicento), acquistata nel 1871 dal conte Giuseppe Garampi e da lui donata al Museo di Rimini, dove è ancora conservata; e sopravvive la loro farmacia, che ha cambiato nome e proprietario ma che è ancora sullo stesso angolo fra piazza Tre Martiri e via Garibaldi. Nel 1864 così il Tonini ricordava questa “spetiaria della Morte”: “fu dei Gottardi, dai quali fu venduta nel 1537 a Giuseppe Moderati da Longiano, dotto botanico lodato dal Mattioli qual possessore del miglior Orto botanico de’ suoi tempi in Italia, poi trasmessa ai Þgli Pompeo, Bonaparte e Nicandro; da uno dei quali venne quel Giulio Cesare Moderati, che dicesi aver mandato ad Ulisse Aldrovandi circa il 1590 il ferro calamitato, che ebbe trovato sul Campanile di S. Agostino”. Noto che un cugino di Giulio Cesare, Moderato Moderati, faceva il pittore e lo scultore; ha lavorato a Rimini, dove risiedeva e dove aveva sposato Adriana Terenzi, almeno dall’ultimo quarto del Cinquecento al 1618: si era specializzato nel fare crociÞssi. E noto, inÞne, che all’altro capo dello stesso portico, l’ultima casa apparteneva alla famiglia Modesti:

Moderati e Modesti, dunque, questi Riminesi del Seicento. Estinti, naturalmente, e da molto tempo.6 5. Simone, carpentiere e boccalaro A proposito di insegne, il Rinascimento ci ha lasciato anche un curioso esemplare di insegna in ceramica. Si tratta di una “targa murale ad angolo”, come l’ha deÞnita Þn dal 1933 Gaetano Ballardini, alta 38 centimetri, conservata al Victoria and Albert Museum di Londra, dove era considerata di una manifattura faentina. A “restituirla” idealmente alla città è stato Oreste Delucca, che è riuscito a ricostruirne la storia e a decifrarne lo stemma, che è quello di Simone di Roberto Cinquedenti. Costui, carpentiere come lo zio Francesco, che era stato al servizio di Sigismondo ed aveva avuto un notevole ruolo nei lavori del Tempio Malatestiano, ha esercitato anche molte altre attività; verso il 1490, sposando in quarte nozze la vedova di un boccalaro, divenne padrone di una bottega di ceramica posta sul corso, vicino alla piazza grande. In questa bottega, e forse per essa, deve essere stata fatta la targa di cui si diceva, rafÞgurante uno stemma con cinque bei denti molari (cinque-denti: dunque uno stemma parlante), la sigla S R (che Delucca propone di sciogliere in Simone di Roberto) e la data 1498. Si tratta della più antica ceramica riminese datata e di cui è possibile identiÞcare la bottega di provenienza. Un particolare curioso: sul retro della targa, nella parte che doveva essere murata e quindi rimanere invisibile, c’è questa frase: «Chi me voltarà grande texoro atroverà»; deve essere stata scritta da un lavorante per fare uno scherzo ai colleghi che, vedendo sul banco di lavoro il pezzo, l’avranno rivoltato incuriositi per trovarvi... il marchio della bottega, ovvero lo “stemma” del padrone! Non si sa come questa targa si sia salvata dalla distruzione; nel suo genere e per il suo tempo potrebbe essere un unicum,

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ma ho qualche difÞcoltà a pensarla come insegna di bottega e preferisco crederla un semplice segno di proprietà. Ma da chi sarà stato autorizzato il Cinquedenti a fregiarsi di uno stemma che, anche se privo di ‘cimiero’, ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio stemma gentilizio? Forse suo zio o suo padre ne aveva ottenuto il benevolo consenso da Sigismondo? O lui stesso dal poco serio nipote di Sigismondo, il Pandolfaccio? O se l’era attribuito da sé, approÞttando dei torbidi politici e delle vicende militari di quegli ultimi anni del secolo? O anziché di stemma si tratta di un segno di fabbrica o di mercatura inserito in uno scudo pseudo-nobiliare? Anche questo sarebbe possibile, se non trovassimo lo stesso motivo in un vero e proprio stemma araldico bipartito su un’altra ceramica riminese, racchiuso in una bella ghirlanda che ricorda quelle malatestiane del Tempio: un boccaletto ora esposto nel Museo della Città. Ma forse tutte queste domande sono oziose, perché la famiglia Cinquedenti, originaria di Verucchio, poteva anche avere antiche e nobili ascendenze a noi sconosciute. Comunque nel Tre e Quattrocento il marchio di un artigiano o di un mercante poteva trasformarsi poco a poco in un uno stemma, più o meno parlante, ed essere usato da una famiglia ambiziosa per distinguersi dalle altre, indipendentemente dall’uso primitivo di semplice signum mercantile. Qualche esempio ce lo offre anche il già ricordato sepoltuario trecentesco di San Francesco, in cui sono disegnati signa di mercanti racchiusi in scudi triangolari: quello di mastro Pasio, calzolaio, ha una stella; quello di mastro Biagio, mercante, ha bande oblique sormontate dal vero e proprio marchio (una B con croce); quello di mastro Floriano, maniscalco, ha tre ferri da cavallo. E vale la pena ricordare che già dalla Þne del Trecento Franco Sacchetti lamentava la smania dei ricchi mercanti di possedere un blasone, tanto che non esitavano a ri-

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PASSEGGIATE INCOERENTI 51. Boccale in maiolica con “stemma” di Simone Cinquedenti. Rimini, Museo della Città (per deposito della Fondazione Cassa di Risparmio).

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ANTICHE INSEGNE 52. Signa di mercanti e artigiani racchiusi in scudi come veri e propri stemmi. Dal sepoltuario di San Francesco (1362), Rimini Biblioteca Gambalunghiana. Gli ultimi due appartengono a mastro Pasio, calzolaio, e a mastro Biagio, mercante.

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volgersi anche a grandi artisti per farselo “inventare” e dipingere: “Ché ogni tristo vuol fare arma e far casati; e [anche] cotali che li loro padri saranno stati trovati agli ospedali” (nel Trecentonovelle, novella LXIII). Naturalmente si trattava di blasoni da poco, senza tradizione e in genere di breve durata. Del resto i giochi erano ormai fatti da tempo, le vere grandi casate si erano già quasi tutte costituite, e non tarderanno

molto a regolamentare l’uso degli stemmi. Quelli delle famiglie nobili solo di rado denunciavano un mestiere d’origine, perché esse derivavano la loro condizione “nobile” dall’esercizio delle armi e dal possesso fondiario, o da antichi privilegi dovuti alla burocrazia imperiale, e quindi i loro stemmi “illustravano” le loro “imprese” e soprattutto i loro nomi: come quello dei Malatesti (le tre teste), o quello dei Cinquedenti (i cinque denti), appunto.7

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IV. ANTICHI STEMMI NOBILIARI

1. Antichi stemmi I muri di tutte le vecchie città erano caratterizzati da una grande quantità di stemmi; e alcuni ediÞci pubblici ne erano letteralmente ricoperti. In genere si trattava di elementi araldici con cui la nobiltà ostentava a scopo promozionale (un tempo si diceva ‘per ambiziosa vanitàʼ) onoriÞcenze ricevute o cariche sostenute o matrimoni di prestigio, e affermava la sua presenza e il suo potere. Accanto a quelli nobiliari non mancavano però gli stemmi di ecclesiastici e di ordini monastici, di confraternite e del Capitolo della Cattedrale, murati a segnalare le rispettive proprietà. Anche a Rimini erano murati in gran quantità stemmi di ogni genere. I giacobini, nostrani e non, aizzati dai così detti liberatori francesi invocanti lʼuguaglianza, durante gli ultimi anni del Settecento debbono aver avuto un bel da fare a scalpellarli e a cancellarli. Per fortuna spesso erano preceduti dai proprietari stessi, che si ritiravano in casa i loro marmorei blasoni in attesa di tempi migliori. Ma non sempre questo era possibile; per esempio nessuno poté nascondere il tamburo marmoreo della fontana pubblica davanti alla pescheria, i cui stemmi furono abrasi senza remissione, come ancora si può osservare. Gli stemmi superstiti ormai sono pochissimi, e andrebbero accuratamente censiti per evitarne la dispersione, ed eventualmente restaurati o protetti. Non

mi riferisco tanto a quelli malatestiani di Castel Sismondo e del Tempio, quanto a quelli sparsi nel territorio, dove se ne trovano di straordinari (per esempio a Sansavino, a Saludecio, a MonteÞore) e a quelli sparsi per la città, esposti alle intemperie e al degrado: lo stemma del “Canevone dei veneziani” (recentemente identiÞcato come appartenente alla famiglia veneziana dei Moro) è già fortemente corroso, e una forte corrosione mostrano gli stemmi di Roberto Malatesta sulla facciata dellʼabbazia di Scolca. Altri stanno meglio, ma non si sa per quanto: ricordo i due dei Battagli in via Garibaldi, quello Þnissimo degli Agolanti sul Þanco della chiesa dei Servi, quello del Capitolo della Cattedrale in piazzetta Zavagli, e inÞne quelli dei Diotallevi, murati sulla facciata della chiesa della Crocina e sul retro del palazzo omonimo: i quali ultimi erano Þno a poco tempo fa nel Museo, uno donato e uno acquistato, e non so proprio per quale misterioso motivo non siano più lì. Il Museo della Città ha una raccolta abbastanza ricca e molto interessante di stemmi lapidei riminesi, che si è formata grazie alla passione di Luigi e Carlo Tonini per le testimonianze riguardanti la storia della città; essi si sono sempre affrettati a raccogliere tutto quanto potevano durante i restauri, quasi sempre radicali, dellʼOttocento e del primissimo Novecento. Così hanno salvato la parte superstite nellʼOttocento del blasonario cittadino “in pietra”, con pezzi compresi fra il Trecento

53. Stemma di Rimini sulla torre dell’orologio in Piazza Tre Martiri (XVIII secolo).

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PASSEGGIATE INCOERENTI 54. Stemmi cinquecenteschi dei consoli cittadini, abrasi nel 1798 dai Giacobini. Rimini, fontana di Piazza Cavour.

e il Settecento. Si tratta di sculture talvolta piacevolissime per le loro forme, anche strane e complicate, aderenti agli stili che si sono susseguiti nel tempo; perché, fatti salvi gli elementi che costituiscono lo stemma vero e proprio, naturalmente immutabili, tutto il resto è pura scultura decorativa, e quindi soggetto al gusto e allʼabilità dellʼartigiano o dellʼartista a cui veniva commissionato. Fra i tanti mi piace presentarne uno, scolpito su un Þttone di ignota provenienza, ma in origine posto a contrassegnare il “conÞne” di uno spazio pubblico o di una proprietà comunale. Si tratta dello stemma ecclesiastico della città e porta la data del 1718; si noti come lo scudo coronato dello stemma si piega a ritmi ormai rococò, esclusivamente decorativi. Lo stesso gusto barocco caratterizza il migliore degli stemmi monumentali riminesi, quello della torre civica, o dellʼorologio, crollato

a terra fragorosamente (e simbolicamente, hanno commentato i malevoli) il I luglio del 1986, per fortuna subito ricuperato, ricomposto, restaurato e ricollocato al suo posto (va detto con un poʼ di vergogna civica, ma va detto: grazie al contributo di unʼassociazione privata). Il gusto e la moda talvolta Þniscono per modiÞcare sensibilmente anche gli elementi costitutivi, e teoricamente immutabili, dello stemma. Non so se è mai stato notato, ma gli stemmi di Rimini più usati allʼinizio del Novecento nella pubblicistica corrente presentavano il ponte e lʼarco canonici stilizzati in una strana maniera; più che ai due classici monumenti romani della vecchia città assomigliavano alla piattaforma dei bagni della nuova città marina, con balaustra traforata e pagodina orientale: e questo rivela meglio di tanti altri documenti la mentalità e gli entusiasmi del governo cittadino in quel periodo.

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ANTICHI STEMMI NOBILIARI 55. Stemmi della torre portaia del castello di San Savino (Monte Colombo), XV secolo.

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Quegli stessi monumenti erano stati “traditi” nella forma, ma non nella sostanza, anche nei sigilli trecenteschi, dove sono stati rappresentati con forme slanciate e acute, cioè ‘goticheʼ: si veda per esempio il bellissimo sigillo che è accompagnato dal motto: Ariminum mittit quod presens littera pandit («È Rimini che manda ciò che questa pagina esprime»).8 2. Stemmi vescovili del Rinascimento Allʼinizio degli anni settanta, sgomberandosi le cantine del vecchio seminario di Þanco al Tempio Malatestiano, furono recuperate alcune pietre che sorreggevano le travi su cui poggiavano le botti. Presto ci si accorse che alcune di quelle pietre facevano parte di un unico stemma di notevoli dimensioni (cm. 90 x 60) che caratteristiche di forma e di stile dichiaravano appartenente senza dubbio allʼavanzato Quattrocento. Lʼindividuazione degli elementi araldici, un caprone inquartato con una stella cometa e due stelle semplici, ha permesso di riconoscervi con facilità lo stemma di Bartolomeo Cocapani da Car-

pi, vescovo di Rimini dal 1472 al 1485, del quale in basso sono incise le iniziali. Se non sbaglio questo è il più antico stemma monumentale che ci sia rimasto di un vescovo riminese, ed è anche uno dei più interessanti per le sue eleganti forme rinascimentali; è stato ricomposto e restaurato con cura e collocato nellʼatrio del nuovo seminario. Di monsignor Bartolomeo Cocapani si hanno poche, ma buone notizie. Era colto (“dottore di Canonica”) ed ebbe incarichi di responsabilità a Roma (come vicelegato del Patrimonio di San Pietro), cosa che non gli impedì di essere presente il più spesso possibile nella sua diocesi, dove nel 1477 indisse un sinodo e dove non si sottrasse alle fatiche delle sacre visite pastorali. Era un creato di Sisto IV, ma non ebbe lʼavidità di molti prelati ‘sistiniʼ, anche se pare inclinasse anche lui ad un certo nepotismo, come rivela la nomina (1481) a suo vicario generale di un nipote, don Cristoforo Cocapani da Carpi, dottore in utroque. Ma bisogna capirlo: viveva in tempi e in luoghi in cui non cʼera da Þdarsi molto degli estranei, neanche dei “dilet61

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56. Stemma Agolanti (XIV-XV secolo) sul Þanco della chiesa dei Servi, a Rimini.

tissimi” canonici. Fu presente alle nozze di Roberto Malatesta con Elisabetta, Þglia di Federico da Montefeltro (1475), che costituirono uno degli ultimi momenti di splendore della corte malatestiana; pochi anni dopo (1482) partecipò al lutto della città per la morte dello stesso Roberto, e fu presente alla legittimazione e investitura dei di lui bastardi, causa di tanta rovina, in un futuro molto prossimo, per la città. Delle modalità della sua Þne, che si dice avvenuta nellʼagosto del 1485 a

Roncofreddo durante una “sacra visita”, gli storici riminesi tacciono, forse per riguardo e per pudore. Ce ne informa succintamente un cronista cesenate suo contemporaneo, Giuliano Fantaguzzi: “Monsignore miser Bartolomeo Cochapano, veschovo de Rimino, abiando cenato una sera a Roncofreddo, caschò dʼuna scala e morì andando per uxare con una donna”. Dunque un malaugurato incidente occorsogli durante una visita galante, e non una sacra visita, nellʼangolo più lontano

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della sua diocesi, e comunque lontano da Rimini, funestata in quel momento dalla peste. A Rimini il Cocapani si era trovato davanti a numerosi problemi, e fra gli altri a quello del completamento del Vescovado, che il suo predecessore era stato costretto a trasferire nelle case poste fra il Tempio Malatestiano e Santa Innocenza, in quanto il Vescovado antico era stato demolito da Sigismondo per la costruzione del suo castello. Ci riuscì vendendo alcuni terreni della mensa vescovile; e nel 1477, a compimento dellʼopera, poté farvi murare una bella iscrizione marmorea ancora visibile alla Þne del XVII secolo (quando lʼha trascritta il GarufÞ nella sua Lucerna lapidaria). Lo stemma del vescovo doveva sormontare o comunque essere vicino a quella iscrizione, che è stata smontata (e chissà come e dove riutilizzata) durante la ricostruzione dellʼediÞcio ad uso del Seminario, iniziata nel 1761 dal cardinal Ludovico Valenti. Il quale, mentre lo stemma del suo lontano predecessore Þniva a pezzi in cantina, faceva issare ben in vista sulla costruzione un suo stemma monumentale in pietra. Stranamente questʼultimo ha resistito al tempo, agli uomini e soprattutto agli altri vescovi, ed è ancora ben visibile nel cortile dellʼex-seminario, abbastanza ben conservato anche se mutilo della cimasa. Ci sarebbe quasi da gridare al miracolo per questo fatto, se

57. Stemma Diotallevi (XV secolo) sulla facciata dell’ex chiesa di Santa Croce (detta “la Crocina”), a Rimini. 58. Stemma di Rimini su un Þttone in pietra, 1718. Rimini, Museo della Città. 59. Stemma di Rimini in uso nel primo Novecento. 60. Stemma di Rimini in un sigillo trecentesco.

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PASSEGGIATE INCOERENTI 61. Stemma di mons. Bartolomeo Cocapani da Carpi, vescovo di Rimini (1477). Rimini, Seminario Vescovile. 62. Stemma del cardinal Ludovico Valenti di Trevi, vescovo di Rimini (1760). Rimini, cortile dell’ex Seminario. 63. Stemma di mons. Simone Bonadies, romano, vescovo di Rimini (1514). Rimini, Museo della Città.

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non se ne conoscesse il trucco: il cardinal Valenti, cioè, era riuscito ad ottenere il titolo ambitissimo di “arciprete” per tutti i parroci della diocesi, guadagnandosene così perpetua riconoscenza. A Rimini e nel suo territorio gli stemmi vescovili in pietra sono rarissimi; per quanto riguarda il Rinascimento oltre a quello del Cocapani ne conosco solo un altro, di Simone Bonadies, vescovo di Rimini dal 1511 al 1518, caratterizzato da tre crescenti lunari. È al Museo della Città, e quasi sicuramente proviene dalla balaustra della “tribuna” (il presbiterio rialzato) dellʼantica cattedrale, tribuna ampliata appunto dal vescovo Bonadies, il cui stemma Þgura anche in una formella in cotto murata allʼinterno del piano terreno del cosiddetto campanile di Santa Colomba.9 3. Lʼanello del papa Forse pochi sanno che nel “tesoro” della Cattedrale di Rimini è stato custodito per parecchi secoli un importante anello del Quattrocento con stemmi papali. Non doveva essere particolarmente prezioso

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per quanto riguardava la materia; invece era certamente molto interessante sia per la ‘fatturaʼ, cioè per la lavorazione, che per lʼinconsueta tipologia, cioè per il carattere, la forma e la grandezza. Si trattava di un anello cerimoniale di papa Sisto IV (il ponteÞce della Sistina, per intenderci). Sembra sia andato perduto durante la guerra: «È rimasto sotto le macerie», mi assicurava monsignor Bruschi, mentre monsignor Polverelli pensava fosse stato rubato subito dopo i bombardamenti e altri canonici dichiaravano candidamente di non avere mai saputo della sua esistenza. Una trentina dʼanni fa ho lavorato molto a raccogliere “testimonianze orali” (se ne faceva un gran conto) su questo ed altri oggetti perduti della Cattedrale, in verità senza apprezzabili risultati: ancora non ho capito se si trattava di reticenza, di noncuranza o di vera e propria ignoranza. Comunque sia, lʼanello è sparito, e non se ne conserva neanche una memoria graÞca o fotograÞca. Però possiamo farcene unʼidea abbastanza precisa grazie ad una descrizione accurata fatta nel 1745 dal dottor Giovanni Bianchi, alias Jano Planco. Si trova in un manoscritto della Gambalunghiana che contiene memorie di viaggio e di visite fatte dal Bianchi, e che viene detto Odeporico; credo sia inedita. Dunque lʼerudito riminese scriveva di aver visto nella sagrestia superiore (e più riservata) della Cattedrale «un anello grandissimo dʼottone dorato, che ha una pietra di cristallo di monte divisa in due lamine, una piana, e lʼaltra a facce, ma che ora è fuori dalla sua incastratura. Nel cerchio dellʼanello sta scritto PPA. SIXTVS. Io credo che vada inteso Sisto quarto della Rovere che fu creato Papa lʼanno 1471, perciocché di qua e di là di questo anello pare che sia lʼarme di questo Papa che è una quercia, ma che in questo anello non è troppo bene espressa parendo piuttosto un pino, e a piedi di questo albero stanno un Angiolo per parte. Nelle parti piane del

castello dellʼanello in ogni angolo vi è un simbolo degli Evangelisti, cioè il Lione per S. Marco, lʼAquila per il S. Giovanni, il Bue per S. Luca, e lʼAngiolo per S. Matteo». Non si potrebbe desiderare, credo, descrizione più accurata; mancano solo le misure, che ci incuriosiscono particolarmente data la straordinaria grandezza dellʼoggetto sottolineata dal Bianchi (e non solo da lui, come vedremo). Per averne unʼidea concreta, comunque, si può tenere presente un anello di Sisto IV, conservato in Vaticano nel Museo del Tesoro (in San Pietro), ed un altro conservato nel Museo Civico medievale di Bologna, che dovevano essere gemelli del nostro e molto simili in tutto, anche nella pietra; che in quello vaticano è un cristallo di rocca molato (cm. 2,2 x 2,5) in un castone dʼargento. Il resto è tutto di metallo non prezioso, dorato; tanto lʼanello vaticano quanto quello bolognese misurano quasi sei centimetri per 3, con un foro di 2 centimetri e mezzo: queste misure così ‘eccessiveʼ si spiegano considerando che venivano usati sui guanti durante le cerimonie solenni. Andrà appena sottolineata

64. Anello pontiÞcale di Sisto IV, Città del Vaticano, Tesoro di san Pietro.

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65. Anelli cerimoniali in bronzo dorato di Sisto IV e Paolo II. Bologna, Museo Civico Medievale.

lʼestrema rarità di questi oggetti: gli anelli cerimoniali del Tesoro di San Pietro e del Museo bolognese sono quasi unici nel loro genere per quanto riguarda il Quattrocento, e ciò rende ancora più dolorosa la perdita del nostro. Probabilmente era stato eseguito dagli stessi oraÞ (forse Pietro Antonio da Siena e Gerolamo di Lorenzo da Sutri), dato che anche nelle decorazioni sembra praticamente uguale ad essi, con i simboli apocalittici degli Evangelisti, con gli angioletti afÞancati alla quercia araldica (più simile ad un pino, notava acutamente il Bianchi) e la scritta con il nome del papa (nellʼanello vaticano è in rilievo nella parte esterna inferiore: PPA – S. XTVS). Sarebbe molto interessante sapere quando e come un così raro e pregevole oggetto sia Þnito nel tesoro della nostra Cattedrale. La ricerca naturalmente deve cominciare dagli antichi inventari superstiti; ed infatti in un inventario quattro-

centesco troviamo questa interessante registrazione: «uno anello grandissimo de argento inorato cum li quatri evangelista, cum una granata che dice de sopto papa Sixto». Lʼinventario in questione è stato datato al 1476. E il 1476 è lʼanno successivo alle sontuose nozze di Roberto Malatesta con Elisabetta da Montefeltro: per quanto non se ne trovi traccia nella lista dei regali di nozze (tramandata da Gaspare Broglio), potrebbe essere un dono del Papa, girato ‘per competenzaʼ ai Canonici dallo sposo, che alla Cattedrale aveva fatto parecchi altri regali. Ma la parte dellʼinventario in cui Þgura lʼanello di Sisto IV ad una attenta revisione (di cui ringrazio Oreste Delucca) si dimostra sicuramente posteriore al 1476, e di essa si può dire solo che è stata stilata dopo il 1476 e prima del 1503. Questo fatto permette di tirare in ballo unʼaltra notizia, fornita da Luigi Tonini, riguardante monsignor Giovanni Rosa, vescovo di Rimini

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dal 1485 al 1488: «Aʼ 3 aprile poi del 1488 donò alla Chiesa di S. Colomba, ossia alla Cattedrale, un anello dʼArgento coperto dʼoro con pietra rossa incisa collʼarme di Sisto IV». Il Tonini desume, purtroppo senza speciÞcare, da un documento dello Zanotti che non ho individuato, ma della cui esattezza non dovrebbe esserci motivo di dubitare. Si noterà che la breve descrizione contenuta in questa notizia coincide con quella dellʼinventario (che perciò è posteriore 1488), mentre differisce su due punti fondamentali dalla descrizione settecentesca: cioè il metallo (argento dorato e non ottone dorato) e la pietra (granata e non cristallo di monte). Cosa pensare, dunque? È difÞcile credere che a Rimini fossero Þniti quasi contemporaneamente due rari anelli cerimoniali di Sisto IV; anche se è vero che Sisto IV manifestò di apprezzare il valore di Roberto Malatesta, immaturamente scomparso nel 1482 dopo aver salvato Roma dallʼassalto di Alfonso duca di Calabria; anzi fu molto riconoscente alla sua memoria, perché gli fece erigere un sontuoso monumento funerario in San Pietro e legittimò i Þgli di Roberto, il maggiore dei quali (Pandolfo, allora di sette anni) fu investito del vicariato sullo stato paterno. Che nel tesoro della cattedrale riminese esistessero più anelli, e di vario tipo e di varie epoche, è certo. Già in un inventario del 1387 ne Þgurano tre: «duo anuli magni de arcento cum smaltis Þguratis locorum gemmarum», e «unus anulus arcenti super doratus cum uno granato in eo ad usum domini episcopi». Nellʼinventario quattrocentesco di cui sopra oltre allʼanello di papa Sisto compaiono «doi anelle de argento cum prede et perle, nove intra tute doe». Anche in un altro, del 1584, ne compaiono tre: «doi anelle dʼargento episcopale con gioie allʼantiqua che non si usano più», e «uno anello episcopale nel quale ghʼè legato un carbone falso». Forse esiste una sola possibile soluzione per questo piccolo intrigo: che

allʼ“inutile” anello papale sia stata tolta la pietra originale, sostituita da una di assai più economico cristallo, prima dellʼaccurata ‘autopsiaʼ del dottor Giovanni Bianchi. Comunque il quadro risulta piuttosto confuso. E purtroppo non aiuta a chiarirlo neanche una veloce citazione di Carlo Tonini (1888) che, a proposito del Vescovo Giovanni Rosa, scriveva: «Conservasi ancora un anello prezioso da lui donato alla cattedrale». Ci rende certi però che, avesse un rosso granato o un lucente cristallo, fosse dʼottone o dʼargento, il misterioso anello pontiÞcale era scampato anche alle requisizioni napoleoniche. Per sparire dovevano arrivare le bombe, o i ladri da bombe: e ora non sappiamo nemmeno come esattamente fosse fatto.10

4. Lo stemma di Alessandro Gambalunga Negli anni novanta del secolo scorso, dai magazzini dei Musei Civici è afÞorato un dipinto “araldico” caratterizzato da una splendente gamba dʼoro, “anatomicamente corretta” e dallʼamputazione ben evidente, su un fondo azzurro, sormontata da una grande corona pure dʼoro. Assolutamente kitsch, ma facile da riconoscere come stemma gambalunghiano. Mi dicono che viene da un soffitto di palazzo Gambalunga, anzi che Þgurava al centro di un sofÞtto, credo del piano terra, dove originariamente era posta la biblioteca. Sarà stato distaccato durante la guerra o – più probabilmente – negli anni sessanta, quando la biblioteca antica subì un laborioso quanto necessario trasloco al piano nobile per mettere Þnalmente al riparo il suo patrimonio librario dai danni di unʼumidità sempre lamentata. Occorre tenere conto, naturalmente, del suo posizionamento originario, e immaginare di vederlo dal basso, in piano e non in verticale, su una superÞcie verdolina e in una stanza poco luminosa e con le pareti piene di scaffali scuri. Gli si restituirà così, 67

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pur idealmente, la sua funzione di arredo araldico-decorativo e la sua funzione di segno di appartenenza e di proprietà che non richiede troppo puntuali giudizi di qualità, e nello stesso tempo ne giustiÞca la vivacità e lʼimpronta ornamentale; e inoltre sarà possibile farlo risalire alla volontà e alla committenza del fondatore della biblioteca, il dottor Alessandro Gambalunga, in una data posteriore al 1614, anno di costruzione del palazzo, e anteriore alla sua morte, avvenuta come è ben noto nel 1619. Debbo confessare che al suo apparire la tela mi ha dato lʼimpressione di essere stata ridipinta nella parte propriamente araldica; ma le successive indagini radiograÞche e il restauro hanno dimostrato che si trattava di unʼimpressione totalmente sbagliata, perché sotto allo stemma gambalunghiano non cʼè niente; è dunque più o meno contemporaneo al resto del dipinto, chiaramente seicentesco; più o meno, perché non è detto che sia stato eseguito in ogni sua parte nello stesso momento e dalla stessa mano. Infatti sappiamo come andavano queste cose: artisti votati esclusivamente alla confezione di insegne e di stemmi araldici non ne sono mai esistiti; a dipingere, scolpire, intarsiare, disegnare, incidere blasoni si dedicavano tutte le botteghe artistiche, anche quelle famose. Specialmente nel Seicento erano sempre disponibili stemmi “in bianco”, in tela o in tavola o in pietra, di vario formato e di vario carattere, in genere eseguiti nei periodi morti da aiutanti e da apprendisti, e riÞniti limitatamente alle parti generiche, cioè allo sfondo e allʼapparato decorativo, di contorno (un poʼ come i moderni manifesti da morto – mi si passi il confronto – che le tipograÞe tengono pronti per quanto riguarda la “cornice”). Il cliente poteva scegliere la targa che gli era più gradita e far dipingere o scolpire in un tempo abbastanza breve nello scudo araldico vuoto il suo stemma, secondo un modello da lui fornito.

È probabilmente anche il nostro caso; una tela “prefabbricata” può giustiÞcare, in un certo senso, il contorno dello stemma vero e proprio, cioè quellʼelmo medievale con la visiera abbassata e la gorgiera tipici dei “cimieri” della nobiltà guerriera, e soprattutto quella corona dʼoro con le nove perle, esclusiva dei conti. Sappiamo bene che Alessandro Gambalunga veniva da una famiglia di muratori-imprenditori (palazzinari?) e di negozianti-mercanti, non guerrieri né nobili, e che invano aveva aspirato ad un qualche grado di nobiltà. Nel comporsi uno stemma di fantasia si è comportato proprio da buon mercante, esagerando un poʼ e vantando solo merce di qualità superiore. E così, dopo aver scelto (maliziosamente?) una tela preparata per contenere il blasone di un nobile conte-guerriero, vi ha fatto dipingere uno stemma “parlante” di sua invenzione, pieno di signiÞcati nascosti (nascosti per noi; palesi per i contemporanei): una gamba nuda (la destra), che richiama immediatamente il nome della sua famiglia, interamente dʼoro, che è il più nobile dei “metalli” araldici e simboleggia la ricchezza, di cui era in effetti abbondantemente fornito; su uno sfondo azzurro, che è il più nobile dei “colori” araldici e il più ricco di alti signiÞcati, attraversato da una sbarra rossa (altro colore importante) che porta ai due capi un crescente lunare, simbolo della fortezza dʼanimo, e una stella cometa, simbolo di rapida ascesa delle fortune familiari e anche di virtù superiori (come leggo nel Dizionario araldico di Piero GuelÞ Camaiani). Dellʼarbitrarietà dellʼoperazione il dottor Alessandro Gambalunga (“giureconsulto”!) non poteva essere ignaro: ma in casa propria ciascuno è sovrano; e lo stemma stava dentro alla sua casa, snobbata dalla superba aristocrazia cittadina, e sopra ai suoi duemila e passa libri, che sarebbero stati messi a disposizione di tutti,

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ANTICHI STEMMI NOBILIARI 66. Stemma di Alessandro Gambalunga, olio su tela, circa 1615. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

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ma che i sussiegosi nobili locali probabilmente non avrebbero mai ricercato. Per la confezione dello stemma, comunque, forse per prudenza o più semplicemente per praticità, non deve essersi rivolto ad una bottega locale: almeno così sembra dallo stile del dipinto, lontano dai manierismi usati a Rimini e nel riminese nei primi decenni del Seicento. Proviamo infatti a guardarlo indipendentemente dallʼaraldica. Non cʼè molto da dire sulla composizione generale, che è simile a tutte quelle che accompagnano gli innumerevoli stemmi dipinti, scolpiti, disegnati o incisi fra Cinque e Seicento. Uno stemma, si sa, ha un supporto formato da uno scudo, che qui è ovale e convesso; e questo ha bisogno di essere sorretto: da angioli o angioletti, se si tratta di un emblema sacro o riguardante persona religiosa, altrimenti da putti o giovani scudieri. Tutti ricorderanno, per esempio, i putti alati e soprattutto i paggi reggiscudo o portastemmi di Sigismondo nel Tempio Malatestiano, che sono giovanetti maschi e femmine; in epoca manierista e barocca ai giovani furono preferiti i bambini, a frotte sempre più numerose e chiassose, saltellanti o volanti (anche senza ali). Nel nostro caso ne sono stati reclutati quattro, alati, ma con insigniÞcanti aluccie violacee che si perdono nel fondo scuro: due arrancanti su per aria a sorreggere il cimiero e due, forse più grandicelli e robusti, a sorreggere seriosamente e a sollevare da terra (in segno di trionfo) lo scudo araldico. Hanno teste piccole e rotonde, sguardi divaricati e un poʼ tonti, forme gonÞe e goffe, movimenti simmetrici o speculari (le apparenti variazioni sono determinate soprattutto dal chiaroscuro, un poʼ greve e incerto); i due in basso assumono atteggiamenti eroici; i due in alto cercano un precario e anzi improbabile equilibrio negli appoggi forniti dalle decorazioni “a cartoccio” di contorno al blasone, ta-

glienti e puntute, che sembrano di solido metallo dorato. La pittura è bastarda e rimanda allo stile in voga a Roma fra Cinque e Seicento, anche se è priva della disinvoltura e della gioiosità romane; ma anche a certo faticato manierismo emiliano, incupito e appesantito dallo sfondo scuro e dal chiaroscuro denso, forse per dare un più “moderno” rilievo a corpi e a volute. Ma non la direi né romana né emiliana. Vi noto qualche tangenza con le opere di Bernardino e Vitale Guerrini (o Guarini), con bottega a Ravenna, ma attivi in tutta la Romagna fra il 1579 e il 1624: i confronti però non offrono coincidenze abbastanza puntuali. Forse la ricerca darà maggiori frutti se rivolta verso le Marche; il suo autore allora potrebbe essere rintracciabile fra i tanti pittori attivi fra Pesaro e Fano. Nelle Marche, peraltro, il dottor Gambalunga doveva avere amici più sinceri e addentellati più cordiali che non a Rimini (nessuno è profeta in patria), e certo non per caso ha voluto afÞdare il suo complicato testamento a un notaio pesarese. Comunque va ribadito che non si tratta di pittura di grande qualità; al Gambalunga del resto non doveva interessare gran che avere un capolavoro sul sofÞtto. Alla pittura, almeno a quel tipo di pittura, chiedeva semplicemente di fare da onesto supporto al facile rebus con cui intendeva esaltare il suo nome, escluso dalla gelosa burocrazia dei registri nobiliari, ma effettivamente nobilitato dalla ricchezza, dalla fortuna e dalla virtù: un poʼ sfacciatamente, è vero; ma guardava lontano e si rivolgeva ai posteri, e per questo riteneva utile calcare un poʼ la mano senza preoccuparsi della modestia. I posteri certo non avrebbero fatto caso agli inesistenti quarti di nobiltà, né si sarebbero scandalizzati per quellʼaurea corona comitale e per quellʼimprobabile cimiero guerresco. Dʼaltronde ognuno ha le sue guerre nel presente e conduce le sue battaglie per il futuro. Alessandro Gambalunga le ha

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vinte, almeno le seconde, perché è riuscito a far sopravvivere il suo nome e la fama delle sue fortune e delle sue virtù, prendendosi – come scriveva Luigi Tonini nel 1869 – una «degna riscossa su quegli inconsiderati e sconoscenti patrizi, operando che, mentre il nome deʼ più di coloro sarebbe cessato con essi, il proprio invece passasse, come passerà, ogni dì più splendido agli avvenire». Allʼatto del ritrovamento il dipinto era assolutamente integro, ma offuscato dal tempo, iscurito per lʼossidazione delle vernici e carico di polvere secolare. Il restauro gli ha ridato vita, restituendo alle forme, ai chiaroscuri e ai colori i loro giusti valori, facendo riafÞorare dal fondo elementi prima invisibili (i racemi vegetali che Þngono una tappezzeria, i

panneggi di un velo dietro al cimiero, le ali degli angeli, qualche rigido nastro color vinaccia), attutendo alcune gore dovute allʼumidità, restituendo allʼoro una maggior brillantezza. Ora, ripulito e ripristinato, è tornato a “trionfare” nella sua e nostra biblioteca, nel suo e nostro palazzo. Come è giusto; a ricordo dellʼuomo Gambalunga, che Luigi Tonini guardava (come tutto ciò che era attinente la biblioteca) con una benevolenza credo eccessiva, deÞnendolo senza prove, e anzi forzando i dati a disposizione, «sapiente, modesto, religioso»; e a dimostrazione che ricchezze e virtù private e personali hanno senso e durata quando si mettono a servizio “del pubblico”, come si diceva una volta (e come una volta talvolta si faceva).11

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V. ATTORNO A SANT’ANTONIO DA PADOVA

1. La casa di Bonvillo A Rimini, in piazza Tre Martiri, un tempo chiamata campo del foro, piazza grande o maggiore, piazza del mercato e piazza Giulio Cesare, ma soprattutto piazza SantʼAntonio, la casa di Bonvillo cʼè ancora. Costui era il capo dei Patarini, eretici che pare avessero molti proseliti fra i ‘proletariʼ riminesi del XIII secolo, insediati soprattutto nella zona più povera e più periferica della città, attraversata dallʼApsella (che verrà detta, appunto, “Fossa Patara”), fra il Tempio Malatestiano (ancora semplice chiesa di San Francesco) e lʼanÞteatro romano (già allora quasi irriconoscibile). Questo Bonvillo, da alcuni chiamato anche Bonviglio o Bonello o Bononillo e talvolta deÞnito addirittura nobilis ac spectatus vir, è famoso per aver lungamente resistito alla predicazione e ai miracoli di santʼAntonio da Padova. Nella Vita prima di santʼAntonio, detta anche Assidua – composta nel 1232, cioè nellʼanno stesso della canonizzazione del santo, lʼanno successivo alla sua morte – si dice che nel suo peregrinare il santo ha predicato con successo a Rimini, riuscendo a convertire “molti, che erano ingannati dalle mene degli eretici”, e “tra questi un eresiarca, chiamato Bononillo, da trenta anni risucchiato nei gorghi della incredulità”. Di lui non si sono trovate altre tracce in documenti coevi, ma non è detto che sia un personaggio leggendario.

Naturalmente lʼidentiÞcazione della sua casa, ancor più che ipotetica, è opera di fantasia; una vecchia tradizione la indica in quella posta allʼinizio della piazza, esattamente davanti al tempietto di SantʼAntonio: essa sarebbe appartenuta in seguito ai ghibellini Parcitadi, gli antichi Patres Civitatis cacciati deÞnitivamente da Malatesta da Verucchio nel 1295, dopo una lunga serie di conßitti per la supremazia sulla città. Nel 1333 i Rigazzi avrebbero costruito proprio in quel punto il loro palazzo, che ventʼanni dopo vendettero ai Ricciardelli. E di Pietro Ricciardelli nel 1671 si potevano ancora vedere sui muri gli stemmi e il nome, accompagnati dalla data 1370, forse riguardante un restauro dello stabile o un suo sensibile accrescimento. In seguito passò ai Modesti, poi ai Rinalducci e ai conti Ruffo, che lo possedevano ancora nellʼOttocento. Allʼinizio del XVIII secolo si presentava come “una Casa antica, nella sua antichità sostenuta allʼintorno da chiavi e legami di ferro”. Fu probabilmente il terremoto del 1786 a darle il colpo di grazia, ma la ricostruzione risparmiò alcuni elementi antichi, cioè alcune bifore che venivano deÞnite “belle Þnestre gotiche, ora trasformate” nellʼultima edizione della Guida di Rimini del Tonini, che è del 1926; una di queste è ben visibile in un disegno settecentesco di Pio PanÞli. Solo allʼinizio del Novecento un ‘restauroʼ radicale è riuscito a cancellare ogni traccia dʼantichità nellʼediÞcio; e

67. Elio Morri (19131992), Il miracolo della mula (1964), bronzo, particolare. Rimini, chiesa di Sant’Antonio da Padova.

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ci sono contesi aspramente soprattutto dai francesi di Bourges e dai Portoghesi; questi hanno tanta venerazione per il loro santo nazionale (là costantemente detto “da Lisbona”) da riprodurne lʼimmagine perÞno sulle banconote (pre-euro): senza considerare, naturalmente, che è stato uno dei seguaci della primʼora del Poverello dʼAssisi, che di soldi non voleva nemmeno sentir parlare (un caso di irriverenza per troppo amore, direi).12 68

68. La piazza Tre Martiri di Rimini quando ancora si chiamava piazza Sant’Antonio, in un disegno di Pio PanÞli del 1760 (distrutto). A sinistra in primo piano si vede la casa di Bonvillo e a destra il Tempietto di Sant’Antonio.

proprio allora tutti i suoi antichi elementi in pietra superstiti sono stati venduti. Nel 1931 padre Giovanardi rendeva nota una testimonianza del vecchio tipografo Emilio Renzetti (1844-1931), che ricordava ancora un antico pozzo con la vera di pietra, venduta con altri ornamenti di marmo “a forestieri” molti decenni prima. Nel 1932 i coniugi DellʼAmore, proprietari dello stabile, vollero commemorare il VII centenario antoniano facendo murare sulla facciata della casa una modesta lapide che riproponeva lʼantica leggenda di Bonvillo e che comincia senza esitazioni con un reciso: “Qui, ove abitò lʼeretico Bonvillo, cui rifulse la divina Grazia per miracolo della mula adorante il Sacramento...”. Tanto la casa quanto la lapide sono sopravvissute alla guerra. In quanto al celebre miracolo che sarebbe avvenuto proprio di fronte alla casa, e che ebbe come protagonisti Bonvillo e santʼAntonio (il miracolo, cioè, della mula affamata che, anziché correre a cibarsi, si inginocchiò davanti al Santissimo), cʼè qualcuno che lo nega in assoluto e ci sono molti che pensano non sia avvenuto a Rimini: infatti solo fonti abbastanza tarde lo localizzano nella nostra città, e forse per ‘attrazioneʼ di un altro celebre miracolo antoniano, quello dei pesci, che le biograÞe antoniane, e anche i Fioretti, dicono accaduto nel porto di Rimini. Ambedue i miracoli, comunque,

2. Il “petrone” e il “tempietto” di SantʼAntonio da Padova Per quanto riguarda i miracoli riminesi di santʼAntonio da Padova tutto è molto vago, anche lʼanno in cui sarebbero stati operati: il 1222 per il Garampi, il Giovanardi e alcuni studiosi francescani, il 1225 per il Villani, il 1227 per il Tonini. Va rilevato che nellʼautorevole Vita prima di santʼAntonio, la più antica, non se ne trova cenno, e che altri documenti sono incerti. Naturalmente sono incerti anche i luoghi in cui i miracoli sarebbero avvenuti; anche per essi è necessario ricorrere a tradizioni non si sa quanto fondate, e comunque rese ufÞciali e concrete solo nel XVI e XVII secolo con la costruzione – evidentemente troppo tarda per avere un qualche reale valore di testimonianza dei fatti – di due tempietti: uno in piazza per ricordare il “miracolo della mula” e uno al porto (distrutto dalla guerra) per ricordare il “miracolo dei pesci”. Il “miracolo della mula”, fra i due, è il più dubbio; se avvenuto su una piazza riminese sarebbe più logico riferirlo a quella della Fontana, che nel XIII secolo era la principale, piuttosto che a quella maggiore, dove invece lo colloca la tradizione; e dove, anche a non voler essere ipercritici, mette in sospetto un certo artiÞcioso parallelismo con il “petrone” di Giulio Cesare al centro del foro. Infatti anche il miracolo di santʼAntonio è segnalato proprio da un “petrone”, che

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ancor oggi esiste sotto lʼaltare dellʼattuale tempietto. Non è impossibile che i Riminesi abbiano voluto commemorare insieme i due meravigliosi eventi, quello civile e pagano attribuito a Cesare, quello religioso e cattolico attribuito a santʼAntonio. Di tale parallelismo era già cosciente, del resto, anche lo storico Cesare Clementini; e già al suo tempo (1616) i dati della tradizione su questo secondo ‘petroneʼ erano discordanti, perché qualcuno lo confondeva con quello di Cesare e qualcun altro lo identiÞcava con un altare su cui, secoli prima, san Gaudenzo avrebbe compiuto un analogo miracolo eucaristico antiereticale. Il “petrone” di Cesare è andato perduto con la guerra e ora rimane solo il pilastro su cui era stato posto nella sistemazione cinquecentesca; la tradizione che lo riguardava era antica, come dimostra il ricordo di un illustrissimo personaggio, Francesco Petrarca: «Lapis, me puero, ostendebatur fori medio, ubi Caesar concionatus ferebatur». Invece il ”petrone” di santʼAntonio cʼè ancora, per quanto non sia mai stato preso in seria considerazione, ed è costituito da un interessante capitello sostenuto dal tronco di una antica colonna. Su una faccia del capitello, pur malamente distinguibili per la rozza tecnica esecutiva oltre che per la consunzione e le fratture, sono scolpiti un quadrupede e un pesce. Va notato che capitello e colonna non hanno niente a che fare lʼuno con lʼaltra, e che il vero “petrone”, cioè il rialzo su cui sarebbe salito il santo per mostrare il Santissimo alla mula e alla folla, potrebbe essere il tronco di colonna, certo “antico”, ma non databile. Invece una datazione del capitello al XIII secolo è assolutamente sostenibile dal punto di vista stilistico; perciò, se fosse stato eseguito appositamente per commemorare i due miracoli antoniani dei pesci e della mula, saremmo di fronte ad una testimonianza molto convincente, anche se di tipologia del tutto inconsueta.

69. Il petrone di Sant’Antonio con il suo capitello duecentesco, sotto all’altare del Tempietto di Sant’Antonio da Padova, a Rimini. 70. Rimini, Capitello duecentesco del palazzo dell’Arengo.

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È probabile che il ritrovamento e la disponibilità di un vecchio capitello erratico decorato con lʼincerta rafÞgurazione di un quadrupede e di un pesce (dovuta al gusto tutto medioevale per i “bestiari”, quindi ad un semplice caso o ghiribizzo; per rimanere a Rimini si vedano per esempio i capitelli dellʼArengo) abbia fatto scattare il collegamento fra i due miracoli antoniani antiereticali tramandati dalla tradizione francescana, inducendo a riunire idealmente a quello dei pesci, già localizzato a Rimini, quello della mula; e fondando così una tradizione locale che potrebbe aver trovato Þsica collocazione nella

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PASSEGGIATE INCOERENTI 71. Rimini, Il tempietto di Sant’Antonio, 1678, in Piazza Tre Martiri.

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piazza grande, accanto alla preesistente memoria di Cesare, come ‘per analogiaʼ. Ma è difÞcile ipotizzare il momento in cui ciò potrebbe essere avvenuto. Sul capitello duecentesco è inÞsso un robusto perno di ferro, probabilmente per tenere agganciata una mensa dʼaltare in pietra. La “memoria” che era stata costituita unendo il frammento di unʼantica colonna a un vecchio capitello assumeva con la mensa dʼaltare un carattere inequivocabilmente sacro, e si differenziava così da quella semplicemente ‘storicaʼ che lʼafÞancava, eretta a ricordo dellʼallocuzione di Cesare. Ma un altare allʼaperto in una piazza pubblica è inconcepibile: quindi alla messa in opera dellʼaltare dovrebbe aver corrisposto, subito o abbastanza presto, la costruzione di un riparo o di un tempietto. Sulla data di fondazione del tempietto ci sono opinioni divergenti che la pongo-

no fra il 1370 e il 1518. Dico opinioni, perché i documenti una volta tanto sono chiari e riguardano gli anni fra il 1518 e il 1532. Li ha già illustrati Carlo Tonini nellʼultimo volume della Storia di Rimini (II tomo, pp. 578-579) e si possono facilmente riassumere così: 13 giugno 1518, cerimonia di fondazione della cappella da parte dei Francescani; 1524 e 1528, lasciti per la sua costruzione (che si trascinò per molti anni e fu completata poco prima del 1532). Allʼatto della fondazione era “sindico” dei Francescani Pietro Ricciardelli; ed i Ricciardelli sembrano essere stati in un certo senso i promotori, i protettori e forse anche i proprietari (almeno in parte) di quella costruzione, come del resto erano i proprietari della casa prospiciente ad essa (che verrà indicata come la casa dellʼeresiarca Bonvillo). Ma prima del 1518 e della fondazione del tempietto ci sarà stato qualcosa, sulla piazza, a indicare il luogo del miracolo? Le fonti consigliano di dare una risposta negativa perché, mentre hanno riferimenti al non lontano “petrone” di Giulio Cesare, sono mute per quanto riguarda il “petrone”, o qualunque altra memoria analoga, attinente a santʼAntonio, almeno per tutto il Trecento e Quattrocento. Il 1370 chiamato in causa da molti scrittori riminesi deriva da unʼerrata identiÞcazione (responsabile Pietro Belmonti, 1671) del citato messer Pietro Ricciardelli, “sindico” del convento di San Francesco nel 1518, con Pietro I Ricciardelli delle Caminate che nel 1370 aveva contrassegnato con stemmi ed iscrizioni la casa davanti alla quale venne poi eretto il monumento. Mentre si può precisare la data di fondazione del tempietto non si possono indicare i motivi e lʼoccasione della sua costruzione. Di certo è impossibile chiamare in causa una ininterrotta tradizione devota per quel luogo che prima non è mai ricordato come importante per la religiosità cittadina. Solo dopo lʼinizio della

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sua costruzione comincerà a prendere vigore come riminese la leggenda della sÞda fra santʼAntonio e Bonvillo, una specie di “giudizio di Dio” degno di altri tempi; leggenda che probabilmente nasce dal confuso ricordo di lontani contrasti cittadini, religiosi, politici e sociali, e da moderne preoccupazioni antiereticali. Non è un caso che proprio a Rimini il 26 maggio del 1511 Giulio II, di ritorno dalla sua seconda spedizione armata in Romagna, trovasse afÞsso alla porta di San Francesco il manifesto di convocazione del Concilio di Pisa; con esso un consistente numero di cardinali si proponeva di «riformare la Chiesa nel capo e nelle membra»: in sostanza di destituirlo. Era il progetto di un nuovo scisma. Quellʼepisodio, pur sostanzialmente estraneo alla vita locale, dimostra che a Rimini gli “scontenti” avevano accoglienza e forse ascolto, perché la città viveva in un clima di grande disagio spirituale e morale. Nel presente della città, nel 1518, cʼerano preoccupazioni politiche e sociali che avevano più di una analogia con i lontani tempi della predicazione antoniana e la rendevano attuale: la popolazione veniva dimezzata dalle malattie e dalle carestie, mentre le fazioni cittadine e le lotte intestine si acutizzavano, alimentate dai Malatesti che minacciavano di riprendersi la città (e ci riuscirono infatti varie volte, fra il 1521 e il 1528). In questo clima forse i Francescani, magari ‘ispiratiʼ dal ritrovamento di un vecchio capitello con le consunte Þgurazioni di un quadrupede e di un pesce, instaurarono a Rimini il culto di santʼAntonio da Padova, prima quasi inesistente; e si costruì nella piazza grande il tempietto in suo onore, vicino allʼantica memoria di Giulio Cesare. Alla sua erezione contribuirono tutti, dai Francescani ai nobili Ricciardelli, ai popolani; nel 1524 anche la vedova di un gentiluomo francese, forse un cortigiano degli ultimi Malatesti, Margherita di Bartolomeo da Cittadella

72. La prima rafÞgurazione riminese (1667) del miracolo della mula, nel frontespizio di una piccola monograÞa di mons. Giacomo Villani intesa a rivendicare a Rimini i miracoli antoniani. Incisione di Giovanni Boltamino.

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(Pandolfo IV Malatesta era stato appunto signore di Cittadella), fece un lascito: le origini padovane spiegano facilmente la sua devozione per il santo. La costruzione cinquecentesca, ottagonale, doveva essere modesta, tutta di mattoni. Fu restaurata e abbellita nel 1569, nel quadro dei grandi lavori architettonici e urbanistici che coinvolsero tutta la piazza e che avevano già visto la costruzione della torre civica (1547) e il restauro del “petrone” di Giulio Cesare (1555). Gravemente danneggiata dal terremoto del 1672, fu immediatamente restaurata dal cardinal legato Giacomo Rospigliosi; pochi anni dopo però la si dovette ricostruire quasi interamente, e il lavoro fu compiuto su direttive di un vecchio pittore ben noto in città, Giovan Francesco Nagli detto il Centino, che nel 1675 Þrmava la perizia relativa come “professore dʼarchitettura”. Ma solo nel 1678 ebbe il parziale rivestimento in marmo dʼIstria che le conferì lʼattuale aspetto barocco. A questo punto non è neppure il caso di precisare che non ha ragion dʼessere lʼattribuzione al Bramante (1444-1514) del progetto architettonico, corrente Þno a poco tempo fa, anche se lʼattuale costruzione conserva, nellʼimpianto generale, un lontano ricordo del Rinascimento.13 77

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PASSEGGIATE INCOERENTI 73. Benedetto Coda (not. 1492-1535), Sant’Antonio da Padova, circa 1530, già nel parapetto del pulpito della chiesa di San Francesco (Tempio malatestiano). Rimini, Musei Comunali.

3. Culto e immagini riminesi di santʼAntonio Nonostante i trionfali accenni degli agiograÞ di santʼAntonio a conversioni in massa dei Riminesi, né il poetico e improvvisato miracolo “dei pesci”, né quello “della mula”, clamoroso e preparato come uno spettacolo, ricondussero alla vera fede lʼeresiarca Bonvillo e i patarini riminesi. Per convertire il primo sembra che santʼAntonio abbia dovuto operare altri due miracoli (sulla stessa piazza, che sarebbe una vera e propria “piazza dei miracoli”!); per i secondi il miracolo dovette compierlo pochi anni dopo (nel 1254) papa Innocenzo IV con una terribile bolla di scomunica, in seguito alla quale tutti i patarini furono esiliati e dispersi, i loro beni conÞscati, le loro case bruciate, la zona da essi abitata maledetta “in perpetuo”. Cʼè voluto il positivismo tardo ottocentesco per esorcizzare lʼanatema papale e decidere la costruzione del “quartiere anÞteatro” (lʼesorcismo è riuscito solo in parte, tuttavia, considerata lʼattuale desolazione del mercato coperto e di piazza CastelÞdardo, ora Gramsci). Ma ritorniamo a santʼAntonio: ci si aspetterebbe, dal vivo ricordo dei suoi molti miracoli riminesi, una grande devozione da parte della cittadinanza; se non immediata, almeno a partire dallʼanno della sua morte (1231) o da quello della sua canonizzazione (1232). Invece per quasi tre secoli non cʼè traccia del suo culto pubblico nella storia riminese e di una sua immagine nellʼarte locale. Bisogna giungere al Cinquecento – come abbiamo visto – per trovarlo onorato col tempietto sulla piazza grande e con una cappelletta sul porto; e addirittura al 1599 per vederlo annoverato fra i santi patroni della città. Solo nel 1613, Þnalmente, gli fu dedicata una chiesa (che era quella dei Teatini, distrutta dalla guerra). Dopo questa data si hanno statue e altari in abbondanza, e tele Þrmate anche da maestri prestigiosi come il Guercino.

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Insomma a Rimini, per affermarsi compiutamente, il culto pubblico di santʼAntonio da Padova ha dovuto attendere che la Controriforma riportasse alla ribalta il problema della lotta allʼeresia, cioè ha impiegato almeno quattro secoli, più che sufÞcienti per cancellare il ricordo delle antiche ribellioni antimagnatizie in cui si era inserita la predicazione paciÞcatrice del santo, e più che sufÞcienti per creare le ‘leggendeʼ di cui si sono fatti ingenui divulgatori, proprio in quegli anni, tutti gli storici riminesi, sempre a caccia di occasioni per gloriÞcare la loro città. Eppure, si obietterà, proprio nellʼabside di una delle chiese maggiori della città, quella dedicata a san Francesco, allʼaprirsi del Trecento i Francescani avrebbero fatto dipingere da Giotto un ciclo di affreschi che illustrava i celebri miracoli riminesi del santo portoghese-patavino. Anche in questo caso siamo di fronte ad una notizia molto tarda, tramandata da scrittori riminesi come Claudio Paci e Cesare Clementini. Lʼattività di Giotto per i Francescani riminesi è certa, ma nulla sappiamo del soggetto di eventuali suoi affreschi. Si tenga presente che il

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Paci e il Clementini scrivevano nel Seicento, quando lʼabside duecentesca era stata completamente distrutta da più di due secoli. Dunque esprimevano un loro pensiero, una loro ipotesi, abbastanza logica considerando che in quegli anni la leggenda dei due miracoli come riminesi si era già ampiamente diffusa e radicata localmente. Ed è signiÞcativo il fatto che il Vasari, un secolo prima, pur ricordando i distrutti affreschi giotteschi dellʼabside di San Francesco, non ne citi il soggetto. Se non sbaglio, nemmeno nel vasto repertorio iconograÞco dei celebri e proliÞci pittori riminesi del Trecento si scopre un qualche santʼAntonio da Padova. Una delle prime immagini riminesi di questo santo si trovava nel refettorio dei Francescani, e sembra unʼimmagine votiva del tardo Quattrocento, dovuta ad una iniziativa privata, e inoltre collocata in un luogo non pubblico. Nella chiesa dei Francescani riminesi forse la prima immagine “ufÞciale” di santʼAntonio da Padova (ma senza mula, né pesci) è comparsa solo verso il secondo o terzo decennio del XVI secolo sulla balaustra del pulpito, dove Benedetto e Bartolomeo Coda avevano dipinto tutta una serie di santi. Ad una data così inoltrata come potevano i frati continuare a dimenticare il loro celebre taumaturgo, tanto più che da parte dei laici cʼera richiesta di immagini e di altari a lui dedicati? Comunque ci volle proprio unʼiniziativa privata

per introdurre nella loro chiesa una pala dʼaltare in cui spiccava, fra altri santi, santʼAntonio da Padova: il 7 febbraio del 1530 lʼopera veniva afÞdata, per un compenso di 40 ducati, al pittore Benedetto Coda. Purtroppo è stata distrutta, o se ne sono smarrite le tracce. Come si vede siamo in anni molto vicini a quelli della costruzione del tempietto sulla piazza. Più pronti erano stati, a quanto pare, i Domenicani riminesi, che già da qualche anno avevano fatto dipingere lʼimmagine del santo francescano nella cantoria (anchʼessa perduta) della loro chiesa, San Cataldo. In quanto al “miracolo della mula”, la rafÞgurazione più antica di tutta la nostra zona credo sia quella scoperta e restaurata pochi anni fa nella chiesa agostiniana di Pennabilli. Si tratta di un affresco della metà del Cinquecento, ed appartiene a un ciclo di esaltazione eucaristica. Naturalmente la scena ha perso ogni riferimento francescano e riminese, e non deriva certo da una tradizione di devozione locale, ma da un nuovo impulso dato al culto eucaristico dalla Chiesa attraverso la predicazione e la fondazione o il potenziamento di confraternite laicali; dʼaltra parte lʼiconograÞa del nostro affresco sembra tributaria dellʼarea veneta, dove la scena era stata più volte rafÞgurata da artisti di altissimo livello (a partire da Donatello, nellʼaltar maggiore della Basilica del Santo, a Padova).14

74. Elio Morri (19131992), Il miracolo della mula (1964), paliotto in bronzo dell’altar maggiore della chiesa dei Paolotti, a Rimini.

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75. Guercino (15911666), Sant’Antonio da Padova (1659). Rimini, Museo della Città, dalla chiesa dei Paolotti.

4. SantʼAntonio “da Rimini” e san Bernardino da Siena La mancanza di testimonianze di culto (almeno di un culto pubblico, ufÞciale) Þno al Quattrocento avanzato o addirittura Þno ai primi decenni del Cinquecento è la dimostrazione migliore che tutta o buona parte della leggenda riminese di santʼAntonio da Padova è una vera leggenda, e abbastanza tarda: con buona pace dei nostri vecchi storici. Uno dei quali, il Clementini, così concludeva nel 1616 il capitolo antoniano del suo Raccolto istorico: «onde con tutto che questo santo per esser morto nella città di Padova da essa venga

chiamato, non forse disconverrebbe dʼesser da Rimini detto». È da notare che mentre si voleva far diventare ‘rimineseʼ il santʼAntonio da Lisbona e da Padova, ci si dimenticava completamente di un vero Antonio da Rimini beatiÞcato alla Þne del Quattrocento: era un francescano osservante della provincia dellʼUmbria, grande predicatore come san Bernardino da Siena (di cui era discepolo), morto nel convento di Monteluco, vicino a Spoleto. Nel Martirologio francescano è commemorato il 21 settembre. Se ho guardato bene nemmeno il Tonini si è ricordato di lui. Forse la “colpa” di questa dimenticanza è dovuta alle lotte interne allʼOrdine Francescano, che a Rimini si conclusero allʼinizio del Cinquecento con lʼadesione del convento di città ai Conventuali e di quello delle Grazie agli Osservanti. Comunque i Francescani riminesi sembrano essere stati sempre un bel poʼ distratti per quanto riguarda la diffusione del culto dei loro santi. Tra lʼaltro si noti che già nel 1569 si erano fatti portar via la “custodia” del tempietto del “miracolo della mula”, afÞdato alla compagnia dei Linaroli prima e ai Minimi di San Francesco di Paola poi. Questi ultimi soprattutto si sono incaricati di tenere viva a Rimini la leggenda antoniana: e nel 1659 accolsero sul loro altar maggiore una grande pala rafÞgurante santʼAntonio da Padova, appositamente eseguita dal celebre Guercino da Cento su commissione del mercante (non riminese) Francesco Manganoni; inoltre Þno ad oggi hanno sempre voluto nella loro chiesa le rafÞgurazioni dei due famosi miracoli dei pesci e della mula. Incantati o distratti i Francescani riminesi sono stati anche per quanto riguarda il culto di un altro loro grande e famosissimo santo: san Bernardino da Siena. È vero che questo non sembra vantare miracoli riminesi, anche se a Rimini è passato e probabilmente ha predicato (fra il 1437 e il 1438, durante uno dei suoi numerosi

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viaggi); ma è vero anche che il suo culto si era radicato prestissimo e spontaneamente in città. È ad un privato, certo messer Guglielmo Cagnazzi, che spetta lʼiniziativa della costruzione di una chiesetta da dedicargli (si tratta dellʼattuale chiesa di San Bernardino, ampliata e rifatta in seguito più volte, ofÞciata dai Minori Osservanti delle Grazie, e oggi assegnata alla Clarisse), per la quale nel 1485 aveva lasciato tutte le sue sostanze. Gli stemmi di san Bernardino dovevano essere numerosi sui muri della città; qualcuno se ne trova ancora in giro, tanto

in città che nei dintorni. Ma il più bello e il più grande, e forse il più antico, Þno a poco fa sconosciuto, probabilmente scolpito ancora vivente il Santo, è visibile nel Museo della Città. Si tratta di una grande pietra quasi quadrata (cm 74 x 63) la cui superÞcie è interamente occupata dal caratteristico disco raggiante con il trigramma del nome di Gesù. Nel bordo rotondo che racchiude la raggiera è scolpito il versetto di un noto inno paolino (ai Filippesi, 2,10): “In Nomine Hiesu omne genu ßectatur celestium terestrium et infernorum”. Le lettere sono gotiche e rilevate; con la stessa tecnica erano eseguite altre due iscrizioni in cui pare comparisse anche una data, nel bordo superiore e inferiore della pietra, ora in gran parte illeggibili. Qualche traccia di colore fa capire che tutto il rilievo era dipinto: dʼoro il disco raggiante, dʼazzurro lo sfondo. Altri colori mettevano in risalto le scritte e la delicata decorazione Þtomorfa dei triangoli angolari. Al di là del suo valore storico e documentario, lʼopera si presenta come uno splendido e da noi raro esemplare di scultura decorativa di gusto gotico, databile verso il 144050: si tenga presente che san Bernardino è morto nel 1444, ed è stato canonizzato da Nicolò V nel 1450. Questa scultura non è in buone condizioni, perché è stata eseguita in una pietra abbastanza tenera, forse di San Marino, e perché per secoli è stata allʼaperto. Si trovava nel cortile di Palazzo Ferri, sul Corso dʼAugusto; venne acquistata dalla Cassa di Risparmio di Rimini per farne dono al Museo civico nel 1938, ma non poté essere esposta perché nel 1940 la guerra costrinse il Museo a chiudere e a sfollare. Per la cura con cui è stata eseguita, e per lʼequilibrio e la felicità decorativa del rilievo, ora costituisce uno dei pezzi più interessanti e preziosi del Quattrocento conservati nel nuovo Museo della Città.15

76. Trigramma bernardiniano con il nome di Gesù, o “Stemma” di San Bernardino (XV secolo). Vergiano, chiesa parrocchiale. 77. “Stemma” di San Bernardino (XV secolo). Rimini, Museo della Città.

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VI. PER LA MADONNA

1. La sottana della Madonna Nellʼestate del 1963 don Domenico Calandrini ottenne dalla direzione degli Istituti Ospitalieri di Rimini il permesso di compiere un sopralluogo nella ex chiesa dellʼospedale, Santa Maria ad Nives. Lʼoperazione si rivelò più impegnativa e più avventurosa del previsto, perchè lʼambiente era totalmente ingombro di vario materiale di scarto e veramente “infestato” dai piccioni, ma portò al ritrovamento di un magniÞco CrociÞsso ligneo quattrocentesco (ora nel Museo della Città). A visita ormai conclusa don Domenico fece appoggiare una scala a pioli, traballante e abbondantemente ricoperta di guano, sotto ad una modesta nicchia chiusa da una tendina ormai senza tirante, e mi pregò (in quanto il più giovane del gruppo) di andare a vedere se conteneva qualcosa. Cʼera una Madonna “vestita”. «Alzale la sottana», ingiunse il reverendo allʼesitante scalatore, esitante per la posizione precaria, ma anche perplesso e imbarazzato perché non capiva il motivo della richiesta, che venne subito speciÞcato: voleva sapere se si trattava della “solita bambola” di stoppa o di una scultura. Fu così possibile stabilire che si trattava di una normale statua lignea policroma. In seguito fu recuperata e fotografata e ora è depositata nel Museo della Città, dove tuttavia è giunta molti anni dopo, oltre che senza la veste, senza il Bambino. Si tratta di una Madonna sei-settecentesca assai modesta dal punto di vista formale, che nella chiesa del-

lʼospedale veniva invocata con il titolo, appropriatissimo, di Salus inÞrmorum. La veste di seta bianca era unʼaggiunta del tardo Ottocento, come attesta una scritta sul rovescio della statua: «Ristaurata nel 1885». Il restauro in questione purtroppo era consistito in varie mutilazioni operate in maniera assolutamente grossolana, si direbbe con una accetta, per rendere la statua adatta a indossare il vestito: in pratica le era stato asportato il panneggio del manto che le avvolgeva i Þanchi e ricadeva sul ventre, e le era stata assottigliata la vita. Unʼimmaginetta del primo Ottocento ci dà unʼidea approssimativa delle sue forme originarie e ci informa che teneva in mano un Þore. Da allora sono sempre stato “sensibile” alle sottane delle Madonne, e in seguito ne ho alzate altre, ma non tantissime, perché di Madonne “vestite” dalle nostre parti se ne sono conservate ben poche. Una delle più belle che, con pochi altri, ho avuto la ventura di vedere senza abito è quella che si trova nella chiesa dei Servi di Rimini, allʼaltare maggiore, proveniente dallʼoratorio del Rosario dei Domenicani. Si presenta come una delle solite Madonne-bambole dellʼOttocento (ma lʼattuale abito – vistoso e grossolano rispetto allʼoriginale – le è stato rifatto una ventina dʼanni fa ricavandolo in parte da un vecchio paramento liturgico); invece si tratta di una bella statua a tutto tondo di cartapesta, databile alla Þne del XVI secolo. La semplicità dellʼalta, elegante

78. Madonna del Rosario, XVII-XVIII secolo. Valliano di Montescudo, Santa Maria del Soccorso.

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79-80. La Beata Vergine della Salute, o Salus inÞrmorum, con e senza l’abito ottocentesco. Rimini, già in Santa Maria ad Nives, chiesa dell’ospedale (1970). 81. La Beata Vergine della Salute in un’immaginetta xilograÞca di metà Ottocento. Rimini, raccolta privata.

Þgura e la sobrietà del suo abbigliamento fanno pensare che sia nata già con lʼintenzione di ricoprirla con un abito di stoffa. Nel 1616 Raffaele Adimari la citava con ammirazione come «una bellissima Signora di rilievo grande, che alle volte si porta in Processione». Di statue analoghe, cioè “vestite”, dovevano essercene ovunque. Il fatto che venissero abbigliate e ornate in vario modo non sorprende; si tratta di un uso diffuso in tutto il mondo, e risale al gusto antico e moderno, pagano e cristiano, di ornare idoli, feticci e simulacri per onorarli e per sentirli più “vicini”. Credo che fra le statue di questo genere una delle più note e singolari sia quella della Beata Vergine di Loreto. Lʼantica immagine lignea (purtroppo in copia, perchè lʼoriginale è andato bruciato nel 1921) è perfettamente conformata e normalmente panneggiata; ma il suo corpo (con quello del Bambino) è completamente nascosto e annullato da una veste ricamata – ora si tratta di una stilizzata “dalmatica” ottocentesca, quasi surreale nella sua architettonica semplicità in contrasto con la rutilante decorazione ricamata – che lo serra come una corazza, cioè lo difende e lo adorna, ma nello stesso

tempo lo nega e lo disumanizza, rendendolo astratto, come la “riza” (la coperta in argento sbalzato) delle icone orientali. 2. Le Madonne impagliate Spesso, però, sotto alle sottane delle Madonne vestite non cʼè niente; o meglio cʼè un semplice palo di sostegno e un poʼ di crine; al palo sono Þssate una breve traversa per le braccia, una modesta imbottitura di crine (o di stoppa, o addirittura di paglia) per dare forma al busto e ai Þanchi della Þgura, e la testa di stucco o di cartapesta. Di stucco o di cartapesta sono immancabilmente anche le mani, i piedi e, quando cʼè, il Bambin Gesù, che è sempre rimovibile, cioè collegato alla mano che lo sorregge con un incastro, un piolo, talvolta un semplice chiodo. Un tempo quasi tutte le chiese – e non solo quelle povere di campagna – avevano statue “impagliate”, cioè di questo genere, soprattutto per merito delle confraternite della Madonna; erano di gran lunga preferite alle statue di terracotta o di stucco o di marmo non solo perché erano più economiche, ma perché erano leggere e quindi potevano essere portate con facilità in processione, e

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perché risultavano più realistiche o verosimili delle altre. Infatti oltre che di abiti veri e di veri accessori di abbigliamento (cintura, nastri, pizzi e merletti vari, collane, orecchini e braccialetti, corona ecc.) erano spesso dotate di occhi di vetro, di parrucche di veri capelli, di monili veri: si trattava dunque di opere “polimateriche”, come sono state recentemente deÞnite, cui la devozione poteva apportare facilmente varianti e aggiornamenti, secondo il gusto, la moda, le possibilità economiche dei devoti. La cura di questi simulacri in genere era afÞdata ai fedeli, anzi alle consorelle delle confraternite laicali. Infatti la manutenzione degli abiti, cioè la loro pulizia e la loro custodia, erano compiti squisitamente femminili; e naturalmente toccava alle donne confezionarli, spesso ricavandoli dagli abiti da sposa che venivano donati insieme con i monili dalle giovani ricche, mentre alle giovani povere si dovevano i capelli delle parrucche, anchʼesse da rinnovare di tanto in tanto; e toccava alle donne, naturalmente a porte chiuse, svestire e rivestire le Madonne, i cui abiti dovevano essere sostituiti a seconda delle necessità, delle funzioni e dei tempi liturgici (talvolta anche delle stagioni). Attorno alle Madonne “vestite”, insomma, gravitava tutto un piccolo mondo di devote che non si limitavano a presenziare alle funzioni liturgiche e a partecipare alla preghiera, ma che intervenivano sui simulacri con i gesti consueti alle cure parentali; gesti che, spesso ripetuti, Þnivano per assumere forme rituali afÞdate a regole ora completamente dimenticate (ma di cui si può ricuperare il senso tenendo presenti le pratiche e le devozioni popolari che, almeno in parte, ancora sopravvivono nellʼItalia centrale e meridionale e nei paesi iberici). Non so a quando risalga da noi lʼuso di simulacri della Vergine fabbricati in maniera così sommaria, anzi essenziale, espressamente e unicamente per essere

82. La Beata Vergine della Salute, o Salus inÞrmorum dopo il restauro (2004). Rimini, Museo della Città.

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PASSEGGIATE INCOERENTI 83-84. Madonna del Rosario, XVI secolo, senza abito. Rimini, chiesa dei Servi (Santa Maria in corte).

vestiti. Credo allʼinizio del Seicento, e comunque non mi è capitato di trovarne notizie anteriori. A Rimini uno dei più antichi doveva essere quello della Beata Vergine Incoronata della veneranda confraternita omonima fondata nel 1606, che si trovava in una cappella dellʼantica cattedrale di Santa Colomba; nel 1616 viene descritta come una «bellissima Immagine di N.S. con Corona Regia, e con dodeci Stelle dʼoro, e riccamente vestita, e ornata, tutto di elemosine de Fedeli della Città nostra di Rimino, e con solennità e Processione [nel 1606] … fu collocata sopra lʼAltar Maggiore con una bellissima lampada dʼArgento» (Adimari).

Seicentesca era anche la Madonna dei Carmelitani, nella chiesa di San Giovanni Battista. Mentre la statua dellʼIncoronata non è sopravvissuta, e ben presto ha fatto perdere le sue tracce, quella della Beata Vergine del Carmine è ancora in gran venerazione, ma ora è interamente di gesso (anche le vesti, cioè, sono di gesso) e della statua originaria conserva solo la testa, le mani e il Bambino. È stata “ingessata”, mi si dice, nel dopoguerra, in ottemperanza a una direttiva superiore che, a scoraggiare pratiche superstiziose o ad evitare scandali e profanazioni, avrebbe imposto o almeno consigliato di eliminare tutte le statue “impagliate e vestite”.

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In verità la decadenza e lʼeliminazione di questo tipo di simulacri deve essere cominciata assai prima, almeno allʼinizio del Novecento, con la scomparsa di chi se ne curava, cioè delle confraternite laicali. Comunque nel dopoguerra ne furono eliminati molti, in genere bruciati o relegati in qualche magazzino o cantina dove lʼumidità, col tempo, ha provveduto a “disfarli”. Dʼaltra parte, diminuita o cessata la devozione, la mancata manutenzione degli abiti li condannava inevitabilmente a scomparire: infatti mentre nel caso delle statue normali tolto lʼabito rimane la statua, nel caso delle Madonne “impagliate” tolto lʼabito non rimane nulla, o meglio una specie di spaventapasseri davvero inutilizzabile (in questo caso si può proprio dire che è lʼabito che fa la Madonna!). Quindi, una volta in disuso, niente consigliava la conservazione di questi simulacri, né la materia di cui erano fatti, considerata efÞmera e vile, né lʼanonimato dei loro autori. Per questo si è salvata appena qualche testa di cartapesta, presto dispersa, come sanno i frequentatori dei mercatini dʼantiquariato. Purtroppo anche opere che erano state create con la collaborazione di buoni

artisti sono andate perdute: ricordo, ma è solo un esempio, che a Sarna, nel faentino, è stata bruciata nel dopoguerra una Madonna del Rosario modellata nel 1773 da Carlo Sarti, lʼautore che nel Settecento ha ornato di statue di stucco e cartapesta le maggiori chiese della Romagna. La ancora veneratissima Madonna del Carmine riminese per salvarsi ha dovuto cambiare natura, cioè “materia”, e rinunciare alle sue vesti più o meno preziose che tuttavia il parroco lodevolmente conserva ancora (così mi ha assicurato) nellʼarmadio del “corredo della Madonna”, pieno di abiti ora inutilizzabili per la devozione, ma certo molto importanti per la storia. Comunque si tratta di una eccezione; direi che nella nostra diocesi tutte le statue di quel genere sono sparite, con i relativi corredi. E purtroppo di alcune ci rimane appena qualche vecchio santino o qualche vecchia fotograÞa, come per esempio di quella bellissima del Carmine di Cattolica, “andata a fuoco”, ma in realtà intenzionalmente bruciata negli anni quaranta per essere sostituita nella sua nicchia da una Madonna in legno acquistata ad Ortisei.

85-86. La Madonna del Rosario nel 1970 e oggi. Rimini, chiesa dei Servi.

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PASSEGGIATE INCOERENTI 87. Antica e prodigiosa immagine della B. V. del Carmine venerata in S. Giovanni Battista di Rimini. TipograÞa S. Lega Eucaristica, Milano. Stampa devozionale dell’inizio del XX secolo. Rimini, raccolta privata. 88. L’altare della B. V. del Carmine, Rimini, chiesa di San Giovanni Battista.

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Le poche Madonne “impagliate” che si sono salvate sono in campagna. Ricordo quella della chiesa di Santa Maria del Soccorso di Valliano, già dei Domenicani, di fattura sei-settecentesca, ma con candidi abiti recenti e veli che possono essere alternativamente bianchi o azzurri; forse è la meglio conservata e la più venerata della diocesi. Unʼaltra ancora in venerazione è nellʼoratorio del Suffragio di Sogliano al Rubicone, mentre una Immacolata ottocentesca di paglia e canne, con il basamento in cartapesta, di provenienza ignota ed in cattivo stato, è da molti decenni in un magazzino della chiesa riminese di San Giuliano. Mal ridotta e non più in venerazione come questa è una settecentesca Addolorata nella chiesa parrocchiale di San Clemente, che ha ceduto il suo altare e la sua nicchia ad una più moderna Madonna di Lourdes. In uno stato ancora peggiore è una Madonna recentemente rinvenuta in un vecchio armadio nel magazzino della chiesa parrocchiale di San Biagio di Saludecio, che merita una speciale segnalazione (e meriterà uno speciale restauro) perché sembra costituita, eccezionalmente, da un vero manichino di legno, con le braccia e una gamba (una sola) snodabili, e perché è vestita di tutto punto: cioè con una veste, una camicia, una sottoveste e mutandoni regolamentari con regolamentari merletti. Ha perso la parrucca, un occhio, un piede e il Bambino; ha abiti di foggia sette-ottocentesca, confezionati con tessuti e pizzi non preziosi e in più scoloriti e laceri, ma degni di essere recuperati. Non sappiamo in quali condizioni e a quale grado di Þnitura sia il manichino (se di manichino veramente si tratta) su cui sono appuntati gli abiti: per esaminarlo bisognerebbe svestirlo, operazione delicata a causa delle pessime condizioni delle stoffe, e per la quale occorrono cautele e accorgimenti specialistici che solo un laboratorio di restauro può fornire. In origine era seduta in trono, quindi probabilmente si trattava

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PER LA MADONNA 89-90. Madonna del Carmine, XVII secolo, insieme e particolare. Saludecio, chiesa di San Biagio. 91-92. Madonna del Rosario, XVIII secolo, prima e dopo il restauro (2005). Saludecio, Museo di Saludecio e del beato Amato.

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PASSEGGIATE INCOERENTI 93. Madonna del Rosario (1857, ma con abito moderno), Rimini, chiesa di San Lorenzo a Monte.

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di una Madonna del Carmine: infatti al di là degli accessori simbolici (gli scapolari) che permettono di distinguerla da quella del Rosario, e che quasi sempre sono andati perduti (o sostituiti), le Madonne del Carmine di solito vengono rafÞgurate sedute in trono, contrariamente alle altre, che stanno generalmente in piedi. È quasi certo che provenga dalla chiesa dei Girolamini di Saludecio, dove c‘è ancora un bellissimo altare ligneo della Madonna del Carmine, intagliato nel 1723 da Felice Teobaldelli di SantʼAngelo in Vado: ma privo della sua statua (“con cui si fa pubblica Processione il giorno della sua Festa”, testimoniava G.M. GarufÞ nel 1693), sostituita da un dipinto moderno. A Saludecio esiste anche unʼaltra Madonna vestita del Settecento. Si pensava

fosse anchʼessa “impagliata” perché era molto leggera e aveva tra i piedi il consueto palo di sostegno: ma sotto al vestito rosa di cotone ordinario, con la gonna a pieghe di una certa eleganza, del tutto scolorito e molto fragile, durante il restauro è apparsa una normale statua “Þnita”, cioè con un abito “Þsso” di tela gessata. È stata restaurata nel 2005, fatta oggetto di studio e collocata senza lʼabito di stoffa (forse ottocentesco) nel locale “Museo di Saludecio e del beato Amato”. Proviene da un magazzino della chiesa e nessuno la ricorda in venerazione; quando la incontrai per la prima volta, allʼinizio degli anni sessanta, le scendeva dalla testa un lacero velo blu, ora scomparso. Sempre in quella data in un sottoscala della stessa chiesa vidi dei piccoli frammenti di teste in cera: era quanto restava delle statue “impagliate e vestite” che per quasi un secolo, dal 1819 al 1915, vennero portate in processione il Venerdì santo “con apparato coreograÞco reso ormai grottesco e irriverente”, secondo il parroco don Domenico Renzi, che nel 1915 riuscì a sopprimere la cerimonia (che era tuttavia popolarissima). Una statua “impagliata” di Madonna ancora in buono stato e ancora in venerazione è nella chiesa di San Lorenzo a Monte presso Rimini. Si tratta di una Madonna del Rosario esattamente databile al 1857; di essa conosciamo anche la provenienza e il fabbricante, lʼillustre Giovanni Collina, continuatore della celebre bottega faentina dei Ballanti Graziani, grazie allʼinedita “ricevuta” di pagamento (conservata nellʼarchivio parrocchiale di San Lorenzo a Monte) rimessa al guardiano dei Cappuccini riminesi, frate Leonardo da Rimini, che senza dubbio era stato il tramite della commissione: «Faenza 30 ottobre 1857 Per le mani del molto reverendo padre vicario deʼ Cappuccini di Faenza ho ricevuto dallʼIllmo e reverendissimo sig. D. Giovanni Bianchini arciprete di San

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dellʼOttocento avevano Þnito per costituire una sorta di divisa dʼordinanza comune a questo genere di statue: un abito tutto bianco, con il corpetto accollato e la vita piuttosto alta segnata o no da una cintura, con una gonna liscia e larga, maniche larghe, un velo bianco spesso foderato dʼazzurro o tutto azzurro. La parte anteriore della sottana e del corpetto era in genere decorata con motivi ricamati in Þlo dʼoro a larghe volute rigorosamente simmetriche, in cui erano inseriti motivi ßoreali policromi. Un buon esempio ci viene tramandato da unʼimmagine dellʼinizio del Novecento dovuta al fotografo cesenate Augusto Casalboni, rafÞgurante una Madonna non identiÞcata e che non sappiamo se ancora esistente, quasi certamente cesenate, dallʼabito e dal manto Þnemente e riccamente ricamati.

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Lorenzo a Monte scudi quaranta per avergli fatto una statua della B.V. del Rosario, cioè testa, mani e piedi sì della Vergine, come del Bambino, tutti di stucco col loro fusto di capecchio coperto di tela, con piedistallo, diadema e cappe. Cioè per la statua s. 28 Piedistallo 08 Cassa per trasporto 02,20 Diadema 0,80 Trasporto da Faenza a Rimini 01,00,1 In fede dico in tutto 40,00,1 Giovanni Collina detto Graziani affermo». Come si vede nel prezzo della statua erano comprese le “cappe”, che potrebbero essere le sottovesti, ma non le vesti. Purtroppo le vesti attuali di questa Madonna risalgono a pochi decenni fa, e non assomigliano a quelle che dalla metà

94. Una sconosciuta Madonna del Carmine (?) fotografata all’inizio del XX secolo da Augusto Casalboni. Cesena, Biblioteca Malatestiana. 95. Testa superstite di una Madonna “impagliata” del XVIII secolo, in cartapesta, uguale a quella della Madonna del Rosario di Saludecio. Roncofreddo, Museo parrocchiale.

3. Sotto le sottane Fra Romagna e Marche non si ha notizia dellʼesistenza di Madonne vestite con manichini conformati come Þgure nude, che invece sono presenti altrove e specialmente in area umbro-toscana sicuramente dal Cinquecento. Si veda in proposito il bel catalogo della mostra curata nel 2005 a Umbertide da Cristina Galassi, intitolata Sculture “da vestire”, che illustra lʼattività della bottega di Nero Alberti da Sansepolcro (+1568), da cui uscirono splendidi manichini e inoltre busti muliebri, da ornare e da vestire anchʼessi. Non sembra che questa bottega abbia avuto clienti dalle nostre parti. Ma nel Museo di Stato della Repubblica di San Marino si può vedere un busto muliebre cinquecentesco del tutto analogo a quelli fabbricati nella bottega dellʼAlberti (anzi degli Alberti, perché si trattava

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PASSEGGIATE INCOERENTI 96. Busto di sant’Agata, XVI secolo. Repubblica di San Marino, Museo di Stato.

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97. Gesù Bambino benedicente, legno intagliato e laccato, XVIII secolo. Rimini, chiesa dei Santi Bartolomeo e Marino (Santa Rita)

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di una famiglia di scultori con più laboratori) tanto per le proporzioni e per la conformazione, cioè per lo stile, quanto per lʼelaborata acconciatura dei capelli. La presenza di questo busto fra Marche e Romagna potrebbe far ipotizzare una clientela estesa anche al nostro territorio, dove è possibile, dunque, che fossero presenti anche manichini di Madonne da vestire correttamente conformati dal punto di vista anatomico, ora perduti per incuria o per censura. Il busto sammarinese ha il segno (solo dipinto) di una ferita sul seno destro, e viene detto di santʼAgata, tarda protettrice della Repubblica (dal 1740). È stato trovato solo qualche anno fa in un ripostiglio del Palazzo del Governo, e non ne conosciamo la provenienza, lʼintitolazione e lʼuso originari. Occorrerà compiere analisi tecniche sul manufatto per controllare se la tecnica con cui è stato eseguito è compatibile con quella (abbastanza particolare) delle botteghe degli Alberti, e se la policromia è in parte o in tutto originale: ma intanto valga la segnalazione di questa splendida opera cinquecentesca, dal modellato nitido e fermo e dal dise-

gno purissimo, che potrebbe aprire nuove piste di ricerca. Nella nostra zona si trovano anche altre tipologie di statue “vestite” offerte alla devozione pubblica come le Madonne di cui ci siamo Þn qui occupati: per esempio statue di Madonne bambine che mostrano solo il visino generalmente di cera (forse qualcuno le ricorderà, miniaturizzate per la devozione privata, come altre statuine di santi pure “vestiti”, sotto campane di vetro sui comò delle nonne o delle bisnonne); o di alcune sante (per esempio una santa Filomena dallʼabbigliamento vivace è a Santarcangelo); o di Bambini Gesù benedicenti (uno bellissimo, ligneo, che ha perso gli abiti ad eccezione di un recente mantelletto rosso, è nella sagrestia della chiesa riminese dei Santi Bartolomeo e Marino). O inÞne di CrociÞssi, con parrucche di capelli veri o di stoppa, con corone di vere spine e con perizomi trasformati in gonnellini ricamati più o meno lunghi (quasi tutti eliminati negli ultimi decenni). Ma senza dubbio nessuna di queste statue è interessante quanto le Madonne vestite, “impagliate” o modellate o scolpite, e di dimensioni vicine a quelle di persone reali (la loro altezza varia fra i 140 e i 160 cm.), in quanto offrono larghi indizi sul gusto, sulla moda, sullʼartigianato, sulle arti femminili, oltre che su una religiosità pubblica partecipata e popolare. A proposito di vesti della Madonna forse non sarà inutile aggiungere in chiusura che anche le Madonne dipinte possono aver subito dei “cambi dʼabito”, e che perciò anche le sottane dipinte possono riserbare delle sorprese. Si prenda ad esempio la trecentesca Madonna con il Bambino che campeggia al centro dellʼabside della chiesa riminese di San Giovanni Evangelista, detta di SantʼAgostino. Ad appena poco più di un secolo dalla sua creazione (c. 1310) il suo nobile abito blu Þlettato dʼoro deve essere sembrato troppo semplice e dimesso per la Regina dei Cieli, e fu

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PER LA MADONNA 98. Giuliano da Rimini?, Madonna con il Bambino, affresco del Trecento con ridipinture quattrocentesche Rimini. Rimini, chiesa di San Giovanni Evangelista (Sant’Agostino). 99. Giuliano da Rimini?, Madonna con il Bambino, dopo il restauro del 1954, Rimini, chiesa di San Giovanni Evangelista (Sant’Agostino).

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deciso di cambiarglielo facendolo ridipingere. A metà Quattrocento ne ebbe dunque uno nuovo, alla moda, di damasco Þorato, lussuoso e bellissimo, veramente degno di una regina, tagliato in una stoffa simile a quella delle Þnte tappezzerie che ancora si intravedono nelle lunette e in alcune pareti delle cappelle della chiesa di San Francesco (il Tempio Malatestiano). Allʼinizio del Seicento quella Madonna scomparve, occultata da una grande tela di Giovanni Arrigoni; ma ricomparve dopo il terremoto del 1916, destando lʼammirazione dei fedeli e degli studiosi, e fu correttamente restaurata rispettandone lʼabito quattrocentesco. Fu durante i nuovi restauri del 1954 che si pensò di toglierglielo, come una aggiunta incongrua. Ricomparve così lʼabito antico, e lʼimmagine perse

la piattezza e lʼiconica Þssità che il ricco abbigliamento le conferiva per riacquistare la semplice, dolce umanità originaria. Lʼoperazione – voluta da Cesare Gnudi e realizzata da Arturo Raffaldini – fu senza dubbio coraggiosa (e fortunata); oggi non sarebbe concepibile, in quanto distruttiva di un pregevole elemento quattrocentesco e di una preziosa testimonianza di fede, di costume e dʼarte. 4. La Madonna “pompiera” Solo alla Þne degli anni ottanta ho conosciuto la chiesa di San Girolamo di Frontino: una semplice ma bella architettura del primo Cinquecento che è diventata di proprietà comunale qualche anno dopo (1991). Si tratta di una chiesa 93

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PASSEGGIATE INCOERENTI

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100. Affreschi all’altare della Madonna delle Grazie (XVII-XVIII secolo), negli anni ottanta del Novecento. Frontino, chiesa di San Girolamo.

degli ormai dimenticati Girolomini del beato Pietro Gambacorta da Pisa, molto diffusi fra Marche e Romagna nel XVI e XVII secolo. La chiesa, come i resti dellʼattiguo convento, era in stato di abbandono; ma conservava ancora vari dipinti cinquecenteschi su tavola, su tela e su muro, gli ultimi in buona parte imbiancati a calce in epoca moderna o ridipinti nel Seicento e nellʼ Ottocento. Nel secondo altare di destra Þgurava una strana rappresentazione affrescata del Seicento, con i santi Pietro e Paolo e quattro committenti di Þanco ad una nicchia rettangolare in pietra sormontata dal Padre Eterno, contenente una più tarda e popolaresca immagine della Madonna con il Bambino e anime purganti (di un pittore di carri agricoli, veniva da pensare): si trattava della Madonna delle Grazie, come chiariva lʼiscrizione sullʼarchitrave della nicchia (MATER GRATIAE ORA PRO NOBIS). In terra, di Þanco allʼaltare, si poteva facilmente inciampare in una teletta ormai senza Þssa dimora e senza cornice (ma contornata da radi Þori Þnti), della stessa misura della nicchia e con la stessa rafÞgurazione,

chiaramente ridipinta ma originariamente di buona, anzi di straordinaria qualità. È su questa che è il caso di soffermarci, tanto per la sua iconograÞa quanto per la sua fattura. LʼiconograÞa (puntualmente ripresa nella copia ottocentesca sul muro della nicchia) è curiosa, perché la Madonna è rafÞgurata in piedi mentre, aiutata dal Figlio benedicente, spruzza dalle mammelle scoperte il suo latte sulle Þamme ardenti in cui si trovano alcune Þgurette imploranti; è chiaro che si tratta di anime purganti, ed è chiaro il signiÞcato della rafÞgurazione: Maria, con il pieno assenso e anzi con lʼaiuto del Figlio, spegne con il suo latte le Þamme del Purgatorio. In questo caso, dunque, ha la funzione di “Madonna pompiera”. Come è noto le prime rafÞgurazione della Madonna che allatta sono antichissime (forse la più antica è quella delle catacombe di Priscilla a Roma, del II secolo), e abbastanza antico è il culto per il latte della Madonna, di cui nel Medio Evo esistevano anche molte pseudo reliquie (e Franco Sacchetti già alla Þne del XIV secolo, nella LX delle sue Trecentonovelle, osservava che, «si mostra tanto latte [della Madonna] per lo mondo, che, fosse stata una fonte chʼavesse più dì rampollato, quello [non] si basterebbe») e al quale si attribuivano straordinari poteri, in quanto era stato in grado di nutrire il Figlio di Dio. A questo culto si unì ben presto la convinzione che la Madonna per i suoi meriti di Madre di Dio e per la sua sollecitudine di Madre dei Cristiani ha il potere di liberare le anime del purgatorio. Dal Cinquecento e particolarmente in area iberica si è sviluppata su questa base unʼiconograÞa particolare legata appunto al tema della Madonna che spegne le Þamme del Purgatorio con il suo latte. Uno dei dipinti più noti e più belli con questa rafÞgurazione è dovuto a Pedro Machuca (c. 1490-1550) e si trova al Prado di Madrid. È lʼiconograÞa classica della “Madonna delle Grazie”, non

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rara da noi soprattutto nellʼItalia centrale e meridionale (si vedano per esempio i dipinti di Cola dellʼAmatrice a Chieti e di Andrea Sabatini a Salerno). Di tali rafÞgurazioni non ci sono più tracce consistenti nei dipinti pubblici posteriori al Concilio tridentino, quando la Chiesa era divenuta particolarmente vigile, prudente ed esigente per quanto riguardava il “decoro” delle immagini sacre. È vero tuttavia che le immagini più venerate, anche se in certa misura “sconvenienti”, scamparono alla censura e allʼeliminazione perché protette dalla devozione popolare. La “Madonna pompiera” di Frontino era certamente una di queste. Del resto era Lei la titolare della chiesa, che nei primi documenti viene detta di Santa Maria delle Grazie, e non di San Girolamo; e ancora nel Settecento veniva festeggiata, ornata e portata in processione lʼ8 settembre, come attesta lo storico dei Gerolomini, Giovan Battista Sajanelli (1762). Forse proprio perché lʼaltare non rimanesse vuoto durante le processioni si pensò di farla copiare diligentemente sul muro della nicchia da un pittore paesano che, forse nella stessa occasione, ebbe anche lʼincarico di ritoccare lʼoriginale per renderlo più vivace. Il volgare ritocco ha danneggiato lʼimmagine, ma lʼha anche “salvata”: infatti i ladri che negli anni sessanta hanno visitato la chiesa non hanno rubato il “brutto” dipinto, ma solo la sua modesta cornice. Il dipinto in realtà è di buona qualità, come dimostrano ancora le parti non ridipinte: il volto pieno e assorto della Madonna, le sue mani sensibili, lʼanatomia idealizzata delle anime purganti. Il colore è a tempera, disteso con cura in velature leggere su una tela sottile, quasi priva di preparazione, e lascia intravedere qua e là il disegno preparatorio: questa tecnica è tipica degli stendardini processionali, ed è stata abbandonata nel corso del Cinquecento. Della delicatezza dellʼopera si era perfettamente coscienti nel Settecento;

101. La Madonna delle Grazie, XVI secolo. Frontino, Residenza comunale, dalla chiesa di San Girolamo.

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infatti, avvertendo che essa era stata “ristorata” il 29 settembre 1750, il guardiano (?) fra Filippo R. annotava: “Si pregano a non volere attaccare voti, nastri, et altri ornamenti sopra lʼimmagine per non rovinarla col farvi deʼ buchi, ne tampoco nessuno ardisca di lavarla con acqua et altra robba, ne meno ardisca alcun pittore di ritoccarla con pennelli perché si troveranno ingannati et la guasteranno per essere una maniera non conosciuta et un lavoro totalmente contrario alla comune regola dei professori di pittura esercitata di presente” (Frontino, arch. Conv. S. Girolamo). Il dipinto potrebbe essere uscito da una bottega marchigiana di tutto rispetto, come per esempio quella di Timoteo Viti, a cui sembrano rimandare tanto lʼimpostazione quanto la dolcezza cromatica e chiaroscurale; per quanto riguarda la datazione, va senzʼaltro Þssata allʼinizio del Cinquecento, cioè negli anni della fondazione del complesso monastico e della chiesa di San Girolamo (1503). Un buon restauro forse potrebbe sbarazzare il dipinto dalla maggior parte delle ridipin95

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PASSEGGIATE INCOERENTI 102. La Madonna delle Grazie, XVI secolo, particolare. Frontino, Residenza comunale.

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PER LA MADONNA 103. La Madonna delle Grazie, XVI secolo, particolare. Frontino, Residenza comunale. 104. Giambologna (1529-1608), Naiade, particolare della fontana del Nettuno (1563-66), a Bologna.

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ture e restituirgli una migliore leggibilità, e quindi permettere di accertarne lʼautore con miglior approssimazione di quanto non sia possibile fare ora. Dopo il concilio di Trento, come si diceva, lʼiconograÞa della “Madonna pompiera” praticamente sparisce. Ne rimane il gesto, peraltro antico, ma ora imputato solo a Þgure profane, a signiÞcare generosa abbondanza (e un buon esempio vicino e ben noto è costituito dalle quattro sirene o naiadi della fontana del Nettuno a Bologna). Non sparisce invece, anche se risulta abbastanza rara, unʼaltra iconograÞa mariana parimenti sconveniente, riguardante la lactatio di San Bernardo, che qui viene richiamata più che per analogia perché anche da noi se ne trovava un esemplare. LʼiconograÞa di San Bernardo di Chiaravalle, almeno in Italia e almeno dal Trecento, è quasi monopolizzata da una apparizione della Vergine al santo monaco intento alla scrittura; la Vergine sembra suggerirgli concetti e parole, oppure incoraggiarlo nel suo lavoro, o inÞne lodarlo per quanto ha scritto e va scrivendo di Lei. Dallʼinizio del Cinquecento si

trova anche unʼaltra iconograÞa: il santo viene rafÞgurato in preghiera davanti alla Vergine che sprizza dal seno un getto di latte in direzione della sua bocca: infatti, secondo una tarda leggenda, al momento di pronunciare durante la preghiera le parole monstra te esse matrem, la Madonna sarebbe apparsa al santo e lo avrebbe “allattato”, proprio come una madre fa con il Þglio. Una delle più antiche rafÞgurazioni di questo episodio (inizio XVI secolo) è

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del dipinto ereditato dal nostro troppo scrupoloso fotografo?16

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105. Maciano di Pennabilli, Chiesa di Santa Maria dell’Oliva (in restauro, 2006).

conservata in Romagna, nella pinacoteca di Faenza. Questa scena era rafÞgurata in un bel dipinto seicentesco di proprietà del noto fotografo riminese Davide Minghini (1915-1987), dipinto che non so dove sia Þnito. Il proprietario non lo teneva in bella vista, anzi quasi nascosto in camera da letto, e potei vederlo solo di sfuggita parecchi anni fa, quando mi fu richiesto un parere su un altro quadro antico; nonostante le mie insistenze non potei mai averne una fotograÞa. Minghini (o sua moglie?) infatti riteneva unica quella scena, che considerava una stranezza blasfema. Il dipinto, di modeste ma non piccole dimensioni, rivestiva un certo interesse per diversi motivi; soprattutto perché secondo la tradizione familiare proveniva dalla distrutta chiesa riminese di San Gaudenzo (che era dei Benedettini), e perché era dovuto – almeno così mi parve allora – ad un pittore toscano, e le opere toscane del Seicento nel Riminese erano rarissime (e sono scomparse con la guerra). Secondo la testimonianza di Marcello Oretti nel 1777 a Rimini esisteva, ma non dice dove, proprio un “S. Bernardo in atto dʼorare avanti la B. Vergine, di Astasio Fontebuoni Þorentino”: che si trattasse

5. Santa Maria dellʼOliva a Maciano di Pennabilli La chiesa di Santa Maria dellʼOliva si trova nella Valle del Marecchia, sulla strada che dal Marecchia sale Þno a Pennabilli e alla “Cantoniera”, poco dopo Maciano, in un posto bellissimo verde e pianeggiante, ma che quasi allʼimprovviso precipita verso il Þume, la cui valle fa da sfondo alla chiesa e tiene lontani colline e monti e paesi: una quinta frastagliata, ora pallida e opalescente, ora cupa e grigia a seconda delle ore e delle stagioni. La chiesa sorge al limite di quello spazio pianeggiante, ed è bella nella sua semplicità, e di linee solide e sobrie tipiche di un Rinascimento sereno e rustico, un poʼ fuori dal tempo. E accogliente, per il gran portico che la circonda e che invita ad una sosta alla sua ombra, rinforzata da quella dei cipressi del vicino, piccolo cimitero. Chiesa di frati non si direbbe, a prima vista, perché la macchia dei cipressi nasconde la gran fabbrica del convento e perché ha una nobiltà e una grazia più signorili che fratesche. E invece è stata chiesa francescana Þno al 1955, eretta sul “suolo lateranense”, come correttamente avvisa uno stemma di pietra bianca nel timpano dellʼarco centrale. I frati, si sa, avevano Þuto nello scegliere i posti ‘miglioriʼ. Però il merito della collocazione dellʼediÞcio in questo caso non va a loro, ma alla Madonna in persona che, scortata da SantʼUbaldo, nel 1523 sarebbe apparsa a una certa Giovanna di San Leo, ed avrebbe richiesto una chiesa proprio lì. Questa povera Ioanna a Sancto Leone non doveva godere di una gran reputazione, se fu giudicata mezzo scema dal notaio vescovile (mulier semifatua, ha scritto) che ne ha raccolto la deposizione; anche padre Antonio Talamonti, una cinquantina dʼanni fa, deÞnendola

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“devotella”, evidentemente le dava poco credito. Eppure, nonostante, come dire, la sua semplicità, e nonostante i leontini siano sempre stati guardati con un poʼ di sospetto da queste parti, la Giovanna riuscì a convincere un sacco di gente dellʼautenticità della sua visione, tanto che la stessa comunità di Maciano si prese a cuore la faccenda: con molto coraggio e molti sacriÞci, bisogna sottolineare. Infatti non si era ancora ripresa dai saccheggi consumati dalle truppe toscane nel 1517 e nel 1522, durante le guerre che videro contrapposto Lorenzo deʼ Medici a Francesco Maria della Rovere. Durante quelle guerre la Madonna era apparsa per ben due volte accorrendo in aiuto ai Pennesi che, appena passata la bufera e rientrati stabilmente nel ‘ducatoʼ dʼUrbino, si erano subito messi al lavoro per ingrandirne il santuario.

Decenni davvero brutti, di grandi rivolgimenti e di guerre, quelli del primo Cinquecento; e, naturalmente, tempi di “apparizioni” frequenti. Illusorie? Chissà. Comunque la comunità di Maciano, forse anche perché un poʼ presa da invidia e da spirito di rivalsa nei confronti dei Pennesi e della loro Madonna delle lacrime, nonostante la difÞdenza del tribunale vescovile credette alla ‘visioneʼ della Giovanna e riuscì a costruire un suo santuario mariano ‘indipendenteʼ da quello già celebre del vicino capoluogo. Nel giro di appena cinque anni, dal 1524 al 1529, la chiesa fu cominciata e Þnita, e dedicata a “Santa Maria della Palma o dellʼOlivo” (la Giovanna avrà detto di aver visto la Madonna su un olivo, appunto). Sul portale è scolpito a chiare lettere: TEMPLUM DIVAE MARIE DE OLIVA MDXXIX.

106. Maciano di Pennabilli, chiostro del convento francescano di Santa Maria dell’Oliva (XVII secolo).

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107. Giovanni Bistolli, Un miracolo di san Francesco (1656-59) in una lunetta del chiostro. Marciano di Pennabilli, Convento francescano di Santa Maria dell’Oliva.

Fu consacrata un secolo dopo, a cura dei Francescani a cui era stata afÞdata nel 1552 con la benedizione del ponteÞce Giulio III e a dispetto del curato di Maciano, che non gradiva la concorrenza. I Francescani (si trattava dei Minori Osservanti) a partire dal 1553 le costruirono a Þanco un grande convento, ricco di sale, di celle, di magazzini, e con una bella biblioteca (che sulla porta recava la data 1635); gli ultimi libri furono venduti meno di centʼanni fa da un frate ingenuo che si prese poche lire e molte umiliazioni, con denunce e processi. Invece furono venduti impunemente, dopo la partenza dei frati, tutti gli stupendi armadi di noce della sagrestia, datati 1723, da chi aveva in custodia il convento, una comunità che poi è svanita nel nulla. Ci sono voluti anni di pratiche complicate, che si sono concluse solo nel 1994, perché la curia di Pennabilli potesse entrare in possesso dellʼediÞcio: che intanto ha cominciato a crollare. Ma ora la rideÞnizione della pro-

prietà riempie di speranza sulla sua sorte. Si tratta infatti di un monumento di straordinario interesse da molti punti di vista; per quanto riguarda quello artistico si lega ad una bella serie di architetture che manifestano la diffusione in tutto il Montefeltro delle armoniose forme del rinascimento urbinate. Ad Antico, a Pennabilli, a Piandimeleto, a Frontino e altrove se ne trovano di simili; e tutte denunciano le loro radici nel palazzo ducale di Urbino, per via degli ornati pilastri e capitelli di pietra, dei cassettoni Þoriti, delle proporzioni armoniose. Nella chiesa di Maciano quelle radici hanno alimentato per secoli unʼattività che si manifesta in aggiunte architettoniche e in affreschi del XVI secolo, in tele del XVII, in policromi paliotti Þoriti del XVIII e addirittura ancora in pitture fratesche degli anni Venti del Novecento; unʼattività evidentemente sostenuta da una ininterrotta continuità di devozione in cui, poco a poco, almeno dalla metà del Seicento furono coinvolti

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tutti i paesi della zona, anche per merito della vita esemplare e delle iniziative dei Francescani; che amarono molto questa chiesa e questo loro convento, tanto da volerlo riacquistare per ben due volte dopo le soppressioni del 1810 e del 1861. Della loro operosa e devota presenza ci parla ancora, e con efÞcace eloquenza, soprattutto il grande e silenzioso convento, che ha purtroppo subito un degrado pauroso in questi ultimi decenni. Si sviluppa, come dʼobbligo, attorno ad un luminoso chiostro dai grandi archi. Le sue colonne sarebbero state donate ai frati da una contessa Oliva, e proverrebbero dalle rovine di un suo palazzo che sorgeva ad Antico: ma si tratta di una ‘leggendaʼ recente, forse nata per giustiÞcare il titolo de oliva dato alla Madonna, e le forme architettoniche della chiesa, simili a quelle della chiesa di Antico. Nelle lunette del chiostro, ora disastrato e in più punti pericolante, sono dipinti ad affresco la vita e i miracoli di san Francesco; purtroppo solo poche lunette sono ancora leggibili, ma doveva trattarsi di un insieme imponente. Quel che rimane è tuttavia prezioso, se non altro perché testimonia il coinvolgimento nellʼopera di tutte le comunità della zona, Þnalmente unite nel desiderio di onorare il poverello dʼAssisi: ogni affresco, infatti, reca (o recava) il nome dellʼofferente, e ancora si possono leggere quelli delle comunità di Penna, di Maciano e di Soanne. E perché fa un poʼ di luce su un misterioso pittore di Pennabilli, certo Giovanni Bistolli, che ex diversis piorum benefactorum elemosinis le ha dipinte a rate, nel 1656, 1657, 1658, 1659, come lui stesso dichiara in una iscrizione dipinta. Non era scarso, questo pittore, come dimostrano le scene ben costruite e pittoresche, con scorci e ritratti assai vivaci, mescolati ad ingenuità che sembrano dovute soprattutto a pesanti restauri ottocenteschi (del 1897). Doveva far parte di una dinastia di artisti attiva nel Montefeltro e in Romagna, esaltata dagli

storici locali ma ignota altrove; con un Marco, già morto nel 1615, un Francesco documentato nel 1631 e un Giulio nel 1658. Di questo Giovanni conosciamo solo unʼaltra opera, molto modesta però, del 1662. A Maciano le sue narrazioni portano nel silenzio del chiostro un palpito di colore e di movimento; sono chiare, efÞcaci e abbastanza disinvolte; rißettono i costumi barocchi e la vita del tempo con il suo bisogno di eventi ‘meravigliosiʼ, mescolati a sogni di poesia e di semplicità, di fede autentica, di valori non efÞmeri, suscitati dallʼefÞcace evocazione della vita del poverello dʼAssisi. Alta su un muro del chiostro una meridiana segnala da secoli il lento scorrere delle ore; a segnalare lo scorrere degli anni, invece, provvedono i segni del degrado, sempre più allarmanti. Solo in apparenza il tempo è come sospeso in questo luogo abbandonato; in realtà avanza e ne insidia inesorabilmente la vita, come, ovunque, insidia la vita degli uomini e tutte le vanità della storia. Compresi i modesti capolavori di Giovanni Bistolli, naturalmente, che anzi – se non si provvederà subito – saranno i primi a ritornare polvere: rendendo ancora più polveroso e povero questo nostro piccolo mondo.17

6. La Madonna di Cailungo a San Marino Finalmente si potevano tirare delle somme in positivo, e quindi si poteva cominciare a tirare un sospiro di sollievo, in quel 1594. La pestilenza ormai era Þnita (era stata lunga e feroce: notizie sicure davano più di sessantamila morti solo a Roma). Anche la carestia. che sempre accompagna le epidemie, stava allentando la sua stretta e ormai si faceva sentire solo nelle grandi città. Fino a due anni prima nella Repubblica «il fromento era divenuto raro al segno, che rappresentava la somma ingentissima allora di venti e ventidue scudi dʼoro la soma; e la mancanza 101

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essendo tale, che neppur le famiglie deʼ più comodi proprietarj ne avevano per la loro sottile sussistenza» (M. DelÞco); ma il raccolto del 1593 era stato abbastanza buono e il prossimo prometteva di essere ancora migliore. Per quanto riguardava la sicurezza, dai Turchi che infestavano il litorale cʼera poco o nulla da temere, mentre davano pensiero i soldati sbandati, che si nascondevano nei campi e nei boschi e si trasformavano in banditi. Però ormai anche questo fenomeno, così sensibile al passaggio in Romagna dellʼesercito pontiÞcio (più di tremila tra fanti e cavalieri) che si recava in Francia, andava diminuendo. Certo bisognava stare ancora con gli occhi ben aperti: Þnché le guerre di religione nelle Fiandre e nella Francia non fossero cessate, e gli Ottomani non avessero smesso di avanzare in Ungheria, di avventurieri – disertori affamati, reclute prepotenti, reduci scontenti – in giro ce ne sarebbero stati. A Serravalle continuava lʼallarme; intanto era stata di grande sollievo la notizia recentissima della cattura a Cesenatico di Alfonso Piccolomini, che dopo la decapitazione di Ramberto Malatesta (1587) era rimasto lʼultimo grande capo-bandito della Romagna. Dunque il santo aveva vigilato, san Rocco aveva interposto i suoi buoni ufÞci, e ancora una volta la Beata Vergine aveva dato più di unʼamorevole occhiata protettiva agli abitanti di Cailungo e ai componenti della confraternita o compagnia di san Rocco, in quel tristo e triste scorcio di secolo: sicché era proprio arrivato il momento di provvedere al quadro per la nuova cappella, promesso già da qualche anno in sostituzione della vecchia e povera statuetta lignea di san Rocco, ormai fuori misura e più adatta ad una celletta campestre che ad una vera e propria cappella. In passato i priori avevano fatto un giro a Rimini e a Pesaro e a Urbino, dai pittori migliori: ma le cifre richieste erano da capogiro, molto lontane da quanto po-

tevano permettere i bilanci della confraternita in quegli anni calamitosi. I nostri santi avranno pazienza, si sarà sospirato più volte durante le congregazioni, tuttavia con un poʼ di timore che il favore accordato venisse meno. Finché, indirizzato da un parroco dei dintorni, non arrivò un pittore pellegrino: avrebbe lavorato sul posto, nella casa di uno dei massari, sollevato dalle spese di vitto e di alloggio, per un compenso modesto comprensivo dei colori (purché non si volessero degli azzurri preziosi o delle parti in oro zecchino!). E se le donne non erano disposte a sacriÞcare nemmeno un torsello del loro corredo, poteva anche adattarsi a dipingere su una tavola alla vecchia maniera: sempre che ci fosse un falegname di Þducia della Compagnia a spianarla bene e a fare gli incastri a regola dʼarte. Il pittore aveva subito tirato fuori dalla bisaccia le sue carte con un bel campionario di santi; ai priori Petronio e Domenico fu facile individuare la Madonna e il san Rocco giusti; non trovarono invece un San Marino; ma quello, suggerirono, si poteva copiare dalla bella ancona dei Francescani di Città o dal polittico della Pieve. Nessun problema, assicurava il pittore, che già pensava di poter adattare un paese di marzapane a una Þgura di giovane diacono che di solito gli serviva indifferentemente per il san Lorenzo della graticola e per il santo Stefano della pietra. Petronio di Pasquino (o Pasquini che fosse) e Domenico di Antonio, i priori, non faticarono ad ottenere il consenso dei confratelli a intraprendere lʼopera, avviata probabilmente già prima della regolare ballottazione; e insieme al cappellano o al parroco seguirono quotidianamente, per dovere e per curiosità, il lavoro del pittore. È sempre interessante veder lavorare i pittori, che sono un poʼ maghi: infatti riescono a far comparire dal nulla le Þgure, quasi allʼimprovviso, come fantasmi nebbiosi che vengono precisandosi poi,

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PER LA MADONNA 108. Pala d’altare (1594). Cailungo di San Marino, Oratorio di San Rocco.

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a poco a poco, spesso insensibilmente; e continuano stranamente a ritoccare ogni cosa anche quando il lavoro sembra Þnito: una piccola ombra qua, uno sfregazzo là; ed ecco un mantello gonÞarsi al punto giusto, la pietra grigia diventare un prezioso marmo venato. I priori furono contentissimi del risultato, tanto da voler “Þrmare” la pala come procuratori; naturalmente il

pittore li accontentò di buon grado mettendo i loro nomi in bella evidenza su una tabella bianca, proprio ai piedi della Vergine, con lʼanno della loro carica. Al pittore pellegrino, invece, nessuno chiese di Þrmarsi, e lui non ci pensò nemmeno; soddisfatto della ricompensa, ansioso di raggiungere un altro paese per cercare unʼaltra commissione Þnché durava la 103

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buona congiuntura, sarà subito scappato in fretta. Peccato che le carte della Confraternita riguardanti quegli anni non siano state conservate; avremmo potuto conoscere il suo nome, la sua provenienza, lʼimporto della sua prestazione, le modalità precise dellʼincarico e forse le pitture già eseguite, citate come garanzia di qualità. Elementi interessanti, ma certo secondari di fronte alla sua bella pala di Cailungo, che per fortuna si è salvata attraversando indenne ben quattro secoli, e non dei meno turbolenti: vuol dire che è piaciuta, che la gente lʼha sentita sempre come sua, vicina ai suoi gusti, con Þgure sacre capaci di comprendere i suoi affanni, di accogliere i suoi desideri, di esaudire le sue preghiere. Anche le condizioni in cui ci è giunta dimostrano che la gente le ha voluto bene; infatti è stata spesso pulita e “rinfrescata”, e anche ritoccata più volte per nascondere le immancabili cadute di colore: incautamente, ma sempre con rispetto, senza lʼintenzione di cambiarla, di renderla più “moderna”, come troppo spesso è accaduto in tempi di barocco sfrenato. Senza paura di sbagliare possiamo dire che questi lavori – come dire: di manutenzione ? – sono stati fatti “in casa”, ancor più che in economia; e certo alla lunga hanno mostrato tutta la loro approssimazione, tutti i loro limiti. A furia di puliture e stroÞnamenti, qua e là il colore si è consumato Þno a lasciare scoperto il legno vivo; e a furia di “rinfrescate” dʼolio, inevitabilmente ingiallito e ossidato, la superÞcie era diventata sorda e grigiastra. Il troppo zelo ha i suoi inconvenienti e talvolta provoca più danni, come ben si sa, del disinteresse. Grazie a un recente restauro (1993) i colori sono ritornati a splendere, vivaci come in origine; le forme hanno ritrovato la loro consistenza; le espressioni la loro cordiale, pacata serenità. E così è riÞorito, più che un capolavoro dʼarte, un gesto di candida religiosità. Di fronte a opere come questa si parla, giustamente, di “arte popolare”: per-

ché la Þgurazione è semplice, ingenua. O, meglio, è priva delle malizie e delle vanità dello stile colto: che lega lʼopera alla personalità di un determinato artista e rimanda ad una congiuntura culturale precisa, ad uno speciÞco tempo. Qui il protagonista non è certo lo stile del pittore, che non ha preteso di dire né qualcosa di personale, né gran che di nuovo, ma si è limitato a dare forma alle richieste di committenti semplici senza forzare in alcun modo la loro cultura. Che era, e occorre sottolinearlo, anche la sua cultura: fatta di tradizione, di buon senso, di luoghi comuni, di una religiosità pratica che considerava con conÞdente rispetto madonne e santi e li disponeva, secondo una gerarchia immutabile, in uno spazio luminoso e antico che non è quello dellʼesperienza quotidiana. Una cultura che in un certo senso è fuori dal tempo, senza tempo. Si pensi alla data segnata nel nostro dipinto: 1594. È lʼanno della morte di Jacopo Tintoretto, lʼultimo e il più inquieto o furioso dei grandi cinquecentisti. Michelangelo, Tiziano e Veronese erano scomparsi da un pezzo, e a Bologna i Carracci da un pezzo avevano riformato lʼaccademia, e a Roma il Caravaggio aveva già avviato la sua clamorosa e coinvolgente rivoluzione pittorica. Come i confratelli, così il pittore non doveva saper niente di tutto ciò, e comunque non doveva proprio importargli. Per lui quel che cʼera da dire era stato detto già da prima, e quel che cʼera da imparare già era stato imparato. Il necessario era tutto in quei taccuini e in quei rotoli di carta che si portava dietro come campionario, con tante Þgure immobili e facilmente componibili: frutto di una selezione e di una sempliÞcazione da modelli sperimentati da più di un secolo, autorizzati dalla Chiesa (sicuro, ad evitare i pericolosi rischi di eresia indicati dal recente Concilio Tridentino) e aggiornati quanto basta per renderli più signiÞcativi, più facili, cioè più vicini alla capacità di comprensione della gente “comune”.

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Forse è inutile, almeno per ora, cercare solo nelle forme della Þgurazione il nome di questo modesto pittore senza ambizioni (che potrebbe essersi aggirato nella zona Þno al 1610, data segnata in calce ad una tela di Verucchio rafÞgurante un santʼAntonio abate fra i santi Sebastiano e Rocco, che potrebbe essere sua). Comunque era un pittore sincero, semplice e arcaizzante, ma non sprovveduto: ce lo dicono le forme, appunto, che nella cura con cui sono state dipinte mostrano una certa tradizionale sapienza e una qualche spigliata dolcezza. Non bisognerà guardare tanto alla composizione generale del dipinto, ovvia e in un certo senso addirittura banale, quanto alle singole Þgure, che discendono da modelli di un classicismo raffaellesco molto in voga tra Romagna e Marche. Lʼidealizzazione dei volti e lʼattenzione con cui sono solidamente torniti in un bellʼincarnato roseo velato di grigio, fanno pensare soprattutto alla vecchia Romagna di Innocenzo da Imola, dei Francia, dei Longhi, di Marco Palmezzano. Il san Giovannino accovacciato in terra ai piedi del trono con la sua banderuola stenta deriva dal Francia (ma si ‘senteʼ che gli manca il gradino del modello), mentre la Madonna con il Bambino benedicente dal Longhi; il san Rocco, così ben intonato sui bruni, forse dal Palmezzano, o da un ancora più antico pittore; il san Marino dal Menzocchi (cioè dal polittico della Pieve, ora al Museo di Stato di San Marino). Ma i modelli sono stati sempliÞcati senza soggezione, e senza badare troppo alle proporzioni. Più delle proporzioni importa che la Madonna abbassi lo sguardo verso i confratelli, che il Bambin Gesù Þssi negli occhi, benedicendolo con cordialità, chi entra nella piccola chiesa, che i sacri personaggi ispirino Þducia, mostrando nelle

guance rotonde e rosate quella salute che i fedeli sempre chiederanno loro. Lʼatteggiamento migliore, anzi lʼunico per guardare questʼopera, è di semplicità; sarà facile allora apprezzare il timbro severo e soprattutto sereno dellʼinsieme e la quieta immobilità delle Þgure; e sarà facile – per chi ha fede – afÞdare ad esse un pensiero, rivolgere loro una preghiera. Sarà facile anche godere sia della loro modesta e accostante bellezza, che della naturalezza delle poche erbe di campagna cresciute fra i loro piedi sul terreno brullo; e distrarsi dai pensieri troppo cupi con le vesti della Madonna (contrariamente al Bambin Gesù un poʼ freddolosa: mantello azzurro e sopravveste vinaccia, su veste arancione e camicia bianca!), o con i bottoni di san Rocco (che è “un pellegrin che vien da Roma”, come indicano le chiavi sulla mantellina, simmetriche alla canonica conchiglia); e poi sorridere senza soggezione delle aureole sottili, piccole come certi cappellucci fuori misura, o dei cordoni “inamidati” della dalmatica rossa di san Marino (che a furia di bucati fatti in casa ha perso un poʼ dei suoi elaborati ricami). Un san Marino giovane, questo, roseo e riccioluto, di pelo rosso, che regge senza sforzo la città col suo monte e le sue torri, come vuole la tradizione. Cinquantʼanni dopo qualcuno, lassù in città, deciderà che per reggere lo Stato ci vorrà un santo canuto, vecchio e sapiente; ma per ora si preferisce un giovane aitante, un adolescente dallo sguardo dolce e pulito che certo non ha un passato di cui compiacersi, e guarda pieno di speranza allʼavvenire, al futuro. Come la Confraternita di San Rocco della comunità di Cailungo in quel lontano 1594, quattro secoli fa.18

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VII. IL PANNO DA MORTO DI DON GAETANO VITALI

Una quindicina dʼanni fa ha girato per diverso tempo nei mercatini di libri vecchi fra Rimini e Fano un manoscritto che non riusciva a trovare acquirenti, un poʼ perché era francamente brutto dʼaspetto, un poʼ perché riguardava un argomento ritenuto poco interessante e sicuramente poco allegro, se non addirittura iettatorio. Si intitolava infatti: Legato Vitali imposto sul panno mortuario, S. Paolo, MonteÞore. Ora è (provvisoriamente) fra i miei libri, dato che mi è stato aggiunto come ‘buon pesoʼ al modestissimo acquisto di una miscellanea di manoscritti e stampe su MonteÞore Conca, effettuato nel 1994 a Bologna. Riguardandolo direi che non meritava tanto disinteresse: se non altro perché il Vitali del legato è don Gaetano Vitali, come precisa il frontespizio interno («Legato istituito dal Reverendissimo Don Vitali Arcidiacono Gaetano»), che fu un personaggio controverso, ma importante e molto in vista nei decenni fra il XVIII e il XIX secolo, nativo di MonteÞore e «arcidiacono della cattedrale di Rimini, professore emerito di logica e metaÞsica, autore di saggi teologici e ÞlosoÞci, di elegie, di epistole poetiche, di canzoni per nozze e di una informata storia del suo paese, morto a Roma nel 1844 allʼetà di 79 anni» (Matteini). La sua fama oggi è afÞdata soprattutto ad una sua opera assai rara, intitolata Memorie storiche risguardanti la terra di M. Fiore, seguite da molte notizie concernenti altri luoghi della

diocesi di Rimino nella Romagna, stampata a Rimini dagli Albertini nel 1828, preziosa sotto molti riguardi, non ultimo per le molte notizie raccolte da documenti autentici ora in gran parte scomparsi. Il Vitali nella prefazione afferma di averlo composto «nelle ore di ozio» a partire dal settembre del 1824 (p. 5); ma è lavoro impegnativo, che dimostra una lunga passione e una lunga frequentazione di archivi e biblioteche: normale, tuttavia, per un insegnante del seminario e per un amico e seguace del celebre dottor Lorenzo Drudi, e quindi ultimo ideale rampollo di quella famosa scuola di eruditi storici e scienziati che ebbe origine a Rimini da Jano Planco. La composizione delle Memorie deve aver occupato don Gaetano Vitali molto più di un quadriennio, e deve averlo costretto a molti viaggi fra Rimini e MonteÞore per poter consultare, decifrare e trascrivere documenti, spesso circondato da difÞcoltà e da insospettate difÞdenze. Nella prefazione al volume, infatti, lʼautore accenna alla scarsa collaborazione dei suoi compaesani, e muove unʼaccusa precisa ad «un maligno Indigeno, che abusando dellʼaltrui soverchia bontà, con secreti intrichi ha tolte alle mie indagini vecchie carte le più interessanti». Di chi si tratti non so: probabilmente del segretario comunale, che sarà stato un ligio burocrate papalino dalla memoria tenace (come quella di tutti i conservatori), che poteva continuare a nutrire difÞdenza e disprezzo per un personaggio un tempo

109. MonteÞore Conca, il paese.

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(cioè più di ventʼanni prima) giudicato ‘sovversivoʼ in quanto protagonista di un fatto clamoroso e scandaloso; ma non ho nessun indizio preciso e nessuna voglia di fare indagini al riguardo. Il Vitali ritorna su questo argomento descrivendo lo stato di abbandono dellʼarchivio comunale, conÞnato in un camerino contiguo alla Segreteria, con tutte le carte sparse sul pavimento e danneggiate dallʼacqua; fra esse ricorda un registro con lettere dei Malatesti, i vecchi Statuti, un catasto del Quattrocento e atti notarili; e della situazione fa carico di nuovo ai «secreti intrichi dellʼignoranza, e della perÞdia di un Indigeno, e non agli originarj MonteÞoresi». Ma a questo punto forse va ricordato il fatto scandaloso di cui il Vitali era stato protagonista alla Þne del “secolo dei lumi”, e che gli valse una postuma censura da parte degli storici locali. Il 17 Þorile dellʼanno VI repubblicano (cioè il 6 maggio 1798) lʼabate don Gaetano Vitali, allora trentatreenne e da più di nove anni professore di logica e metaÞsica nel seminario di Rimini, era salito sul palco del Circolo Costituzionale di Rimini e aveva parlato in Difesa del civico giuramento cisalpino per ciò che risguarda lʼodio al governo dei Re. Non si era trattato di dichiarazioni improvvisate, di un colpo di testa dovuto alla giovinezza; infatti un paio di mesi dopo nella stessa sede aveva tenuto un altro argomentato e applaudito discorso in Difesa del giuramento cisalpino per ciò che risguarda lʼosservanza della costituzione [repubblicana], aggravando la sua posizione con lʼesplicita dichiarazione di parlare come ministro della Chiesa e come insegnante mosso da un ingenuo sentimento del dovere, per istruire i suoi fratelli e promuovere il loro bene e il loro vantaggio. In quegli anni drammatici della prima invasione giacobina era stato uno dei pochissimi sacerdoti a proclamare in maniera esplicita il principio della libertà religiosa, con «argomentazioni di puro

sapore giansenista, singolarmente consonanti con quelle dei Padri del Concilio Vaticano II», come ha sottolineato Romolo Comandini, e ad invocare «la tolleranza, la libertà dei culti, la non violenza, caratteristica precipua della religione cristiana, la opportunità che nessuna religione sia dichiarata religione di Stato». Mal gliene incolse, naturalmente; appena un anno dopo, cacciati dagli austriaci i giacobini, fu costretto ad unʼampia, umiliante, pubblica e doppia ritrattazione: che gli fece perdere ogni credito e lo mise in cattiva luce presso i ‘patriottiʼ ben presto ritornati al potere. «Io ho difeso in queste vostre contrade sotto il defunto Governo che si potea prestare il Giuramento Civico impunemente, studiandomi a tale effetto di conciliarlo con cio che insegna la vera Religione Cattolica; e per difetto soltanto dʼintendimento, e non di buona volontà io vi ho insegnato un errore»: così comincia il suo manifesto di ritrattazione indirizzato al Popolo di Rimini, fatto afÞggere su tutti i cantoni della città, cioè negli stessi luoghi in cui Þno a pochi mesi prima erano stati messi in vendita gli opuscoli con i suoi discorsi “rivoluzionari”. In seguito, amareggiato e deluso (e naturalmente escluso dallʼinsegnamento) don Gaetano abbandonò ogni velleità politica e ÞlosoÞca e si dedicò alla letteratura e allʼerudizione, e soprattutto al ben più redditizio esercizio dellʼavvocatura. Nelle Memorie storiche risguardanti la terra di Monte Fiore, composte in epoca di restaurazione, cʼè un solo e trascurabile accenno alle pericolose amicizie giacobine di trentʼanni prima: consiste nel ricordo dellʼospitalità offerta al Commissario di Polizia della Provincia, grazie alla quale per qualche tempo era stata sventata la soppressione dei Cappuccini di MonteÞore. Nel 1828, comunque, il non più giovane don Gaetano, appena libero dallʼimpegno di seguire la stampa del suo libro, cominciò a preoccuparsi più seriamente

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IL PANNO DA MORTO DI DON GAETANO VITALI

della vita futura e, da buon cristiano e da buon patriota, ad occuparsi dei compaesani più poveri. Nellʼestate del 1828 chiedeva senza risultato lʼelenco dei poveri di MonteÞore e il 30 ottobre dello stesso anno si rivolgeva direttamente al parroco: «Nellʼindicarmi quanti sieno i poveri degni di soccorso basta che mi dica a quanti, ossia a qual numero di persone fa la carità alla settimana». Non ricevendo risposta, qualche giorno dopo (5 novembre) si permetteva di insistere, speciÞcando: «Attendo la nota deʼ poveri, ossia il numero di quelli, ai quali fa la carità settimanalmente. Attendo ugualmente la nota di quelle povere famiglie che avranno bisogno in questʼinverno… Queste notizie mi occorrono per regolare un mio divisamento di fare un fondo Þsso». Le ‘notizieʼ richieste tardarono ad arrivare e forse furono create difÞcoltà (col pretesto della privacy? anche il parroco nutriva ancora sospetti sul suo conto?), sicché la sua carità prese altre strade: «I miei sussidj erano destinati per quelli di MonteÞore, ma vedendo che il Comune non cura i miei beneÞzi, ho creduto di erogarli in altre persone più grate», conÞdava al sacerdote Carlo Cecchini, allora giovane cappellano ‘ammovibileʼ della chiesa di Santa Maria della Misericordia di MonteÞore, cioè dellʼOspedale. Ma aveva sempre presente il suo paese, e aveva già pensato a un donativo ‘sostanziosoʼ per la parrocchia in cui era stato battezzato e ‘redditizioʼ per la sua anima. Di lasciare alla Chiesa le sue poche terre o la casa natale ereditate dal padre dottor Giuseppe, non ci pensava nemmeno; erano riservate ai nipoti: lʼesperienza gli aveva insegnato che la cattiva amministrazione del clero e i sovvertimenti politici potevano vaniÞcare ogni buona intenzione dei donatori di terre e di stabili alla Chiesa. Aveva escogitato un legato quanto mai originale e ‘sicuroʼ, consistente in un bellissimo ‘panno da mortoʼ da afÞdare in esclusiva alla chiesa parrocchiale di Mon-

teÞore: il suo uso avrebbe comportato una tariffa di settanta baiocchi, da versarsi al parroco, che si impegnava (e impegnava i suoi successori) a celebrare due messe secondo lʼintenzione del donatore ogni volta che il panno veniva utilizzato. Dato che oggi lʼuso del panno da morto – sulle bare durante i funerali o sui catafalchi durante le ricorrenti celebrazioni in suffragio dei defunti – è cessato quasi ovunque, lʼidea può apparire addirittura stravagante; ma non si dimentichi che Þno a pochi decenni fa tale uso era costante in quelle circostanze e ritenuto di fondamentale importanza per il decoro delle funzioni e del defunto stesso. In Þn dei conti si trattava dellʼultimo residuo, o modesto e ‘democraticoʼ ricordo, dei catafalchi funebri barocchi e soprattutto dei drappi con cui obbligatoriamente venivano coperti i cadaveri (senza cassa) durante il trasporto. Il panno fatto confezionare dal Vitali, stimato del valore di sessanta scudi, era di velluto nero con galloni dʼoro, tutto ricamato con volute e teschi e tibie, e corredato di apposito cuscino. Non fu facile farlo confezionare alla perfezione, e non fu facile persuadere il vescovo e la curia ad autorizzare il singolare legato e a rilasciare i relativi rescritti, che vennero inviati al parroco di MonteÞore solo il 30 luglio 1830 dietro esborso di sessanta baiocchi. Il panno era giunto a destinazione già due anni prima, proprio in tempo per la festa dei morti, preceduto da questa letterina (indirizzata al parroco di MonteÞore don Domenico Rovelli): «Signor Arciprete stimatissimo, eccole Þnalmente il panno. Se ella crede di farne la mostra nel giorno dellʼanniversario dei Morti può farlo facendo spazzar bene il pavimento della chiesa, onde non si sporchi; e perché prenda minore estensione può stenderlo sopra la cassa, col cuscino sopra. Mi lusingo che sarà da Lei gradito il mio pensiero diretto a provvedere la Pieve di un mobile di cui mancava per la 109

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PASSEGGIATE INCOERENTI 110. Acquamanile in metallo argentato, dono di don Gaetano Vitali, 1829. MonteÞore Conca, chiesa di San Paolo.

decenza, e mi dichiaro di Lei devotissimo umilissimo servitore Don Gaetano Vitali. Rimino ultimo Ottobre 1828». Il nuovo panno fu subito un ornamento molto ambito, ma il suo uso si rivelò così costoso che solo le famiglie veramente ricche potevano permettersi il lusso di richiederlo, appesantendo notevolmente le già alte spese dei funerali e dei suffragi. Venne inaugurato il 27 febbraio 1829 per il funerale della signora Lucrezia Bordoni vedova Magi, e nel decennio 1829-1839 fu usato in tutto solo otto volte, per i defunti delle famiglie Magi, Foschi, Zavagli, Bernardi e Ricci, che effettivamente erano le più ricche e le più in vista del paese, e per i funerali (gratuiti) dellʼarciprete (29 febbraio 1838). Nel libriccino del Legato da cui ha preso le mosse questa nota – sempre regolarmente revisionato dal vescovo o dal suo delegato durante le visite pastorali – sono registrate con cura sia le date e le occasioni in cui veniva usato, sia le messe che

venivano celebrate in adempimento alla volontà del legatario. Questʼultimo almeno per una decina dʼanni poté sorvegliare con discrezione lʼandamento delle cose; e, trovandosi presente alla visita pastorale del 1835, ne approÞttò per premettere al libretto questa nota, stesa di proprio pugno e vistata dal segretario della Sacra Visita, in cui da bravo leguleio qual era chiariva i termini del legato e registrava il dono di altre suppellettili alla chiesa parrocchiale: «Mediante instrumento rogato dal notaro Tommaso Ricci sotto li 20 dicembre 1828 lʼillustrissimo signor cavaliere avvocato don Gaetano Vitali, ora arcidiacono della Cattedrale di Rimino donò alla Chiesa Plebale di M. Fiore sua Patria un panno da morto di veluto coi relativi ornamenti coi seguenti patti: 1, che non potesse darsi a nolo, o prestarsi detto panno fuori dalla parrocchia di Monte Fiore; 2, che chiunque, eccettuati i sacerdoti e i chierici che incedono in habitu ac tonsura,

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IL PANNO DA MORTO DI DON GAETANO VITALI

voglia essere condotto defonto alla chiesa col detto panno debba pagare allʼarciprete pro tempore bajocchi settanta; 3, che il paroco pro tempore fosse obbligato a celebrare secondo lʼintenzione del donatore due Messe ogni volta che si fosse fatto uso del panno come sopra, eccettuato lʼattuale paroco don Domenico Rovelli, il quale non dovea celebrarne che una. Il detto arciprete Rovelli accettò il dono per se e suoi successori, essendo acceduto il beneplacito dellʼOrdinario di allora, che leggesi annesso al detto instrumento. Con altro instrumento rogato dallo stesso notaro sotto li 30 maggio 1829 il medesimo signor arcidiacono Vitali donò alla detta Plebale lʼuso perpetuo di una pisside dʼargento ed una scattola dʼargento da riporre lʼOstia Sacra; ed in proprietà una Croce pel Clero dorata con intaglio, un bronzo con catino inargentato, un piatto parimenti inargentato da porre sullʼara dellʼaltare, ed uno strato di panno verde da coprire la pradella dellʼaltare, col peso al paroco, che accettò il dono, di sole sei messe per una sol volta. S. Arcid.o Vitali». Forse il Vitali sperava di poter usufruire lui stesso (il più tardi possibile, naturalmente) del suo panno prezioso, ma non fu così, perché nel 1844, quasi ottuagenario, gli capitò di morire ed essere sepolto lontano, a Roma, dove spesso lo portavano i suoi impegni legali. Del resto Þn dal 1841 lʼarciprete don Candido Sertori aveva cominciato, con apprensione, a notare nel panno qualche segno di usura e ad

auspicare che il Vitali volesse sostituire quello stravagante legato con un qualcosa di più normale e stabile. Lʼusura doveva essere divenuta notevole nel 1848, quando lo stesso arciprete non se la sentì più di chiedere per il suo uso una tariffa tanto alta e la dimezzò; naturalmente dimezzò – autorizzato – anche il suo obbligo di messe verso il donatore. Questa storia è andata avanti per quasi un secolo: don Gaetano, dunque, avendo potuto giovarsi di parecchie messe ha fatto un buon investimento. Solo nel 1919 il legato fu considerato estinto: il parroco di MonteÞore, infatti, in occasione della visita pastorale del 5 ottobre di quellʼanno metteva Þne allʼoperazione, annotando sul solito libretto: «Non si soddisfa più il legato Vitali perché il panno mortuario ridotto indecente non si adopera che per i poveri, pei quali si fa lʼufÞciatura gratuitamente. È in uso il nuovo panno mortuario acquistato da me Arciprete Giungi». Il nome e la memoria di don Gaetano Vitali, sacerdote e professore, Þlosofo e scrittore, cavaliere e avvocato, nonché arcidiacono, per qualche anno ancora furono afÞdati ai poveretti cui era destinato – gratis – lʼuso dellʼ‘indecenteʼ panno. Per fortuna il suo nome e la sua memoria erano e sono tuttora tenuti vivi presso i concittadini colti e gli studiosi dalle sue ottime Memorie storiche risguardanti la terra di Monte Fiore, che per noi costituiscono un lascito assai più importante, anche se (probabilmente) non gli hanno mai fruttato alcuna messa di suffragio.19

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VIII. PENNELLI AL VENTO

Negli anni dal cinquanta al settanta del Novecento la Þne dellʼestate e la Þne dellʼinverno coincidevano con i periodi dʼalta stagione della pittura allʼaperto e con quei momenti ufÞciali della pittura allʼaperto che venivano chiamati «concorsi estemporanei». Non era quindi difÞcile la domenica imbattersi, sul litorale romagnolo o sulle colline e nei paesi dellʼentroterra, in frotte di pittori con cavalletto e cassetta e tele, alla ricerca di uno scorcio, una luce, un colore o un motivo speciali. Si trattava, in gran parte, di pittori della domenica contenti dellʼoccasione per una merenda sullʼerba (ah, le déjeuner sur lʼherbe!): una razza in via dʼestinzione già alla Þne degli anni sessanta. Proprio allora, infatti, cominciava a circolare insistente anche in provincia la voce che la pittura di paesaggio aveva fatto il suo tempo, che la pittura di impressione non era arte, che le pro-loco e le aziende di soggiorno avrebbero potuto spendere molto meglio i loro pochi soldi. E così, quasi allʼimprovviso, i luoghi che richiamavano e riunivano i pittori (tanti nella nostra zona, da Marina di Ravenna a Verucchio, da Cervia a Serravalle, da Miramare a Bellariva, da MonteÞore a Campigna) hanno chiuso con una attività che era ormai diventata tradizionale e si sono messi ad organizzare sagre paesane o corse podistiche (che, come è noto, sono ottime sÞde allʼintelligenza e al buon senso). I dipinti accumulati in anni di premi

sono stati dispersi in ufÞci e sofÞtte, o hanno trovato stabile dimora nella casa di qualche ex sindaco o assessore. Non erano tutti degli orrori, come si voleva far credere: lʼanno scorso (1985) ne sono stati esposti in buon numero alla mostra “Lʼazzurra vision di San Marino”, a San Marino appunto, e fra essi ce nʼerano di veramente interessanti. Purtroppo non si è capito in tempo che quei «premi di pittura» – il premio era in genere costituito da medagliette ‘ossidabiliʼ e da diplomi cartacei, per pochi, e da una cena per tutti – non erano performances artistiche, ma sportive. Qualcuno ricorderà infatti le lunghe camminate su e giù per i greppi e per le strade polverose e sassose a cui i partecipanti erano costretti per mettersi in postazione; e la caccia al soggetto, lʼabilità dispiegata nel registrarlo fedelmente o darne una interpretazione riconoscibile; il lavoro frenetico per Þnire il quadro in sei sette ore (tanto era il tempo assegnato) lottando con la trementina sempre scarsa e i tubetti rinsecchiti (e spesso con le mogli sempre troppo preoccupate per le macchie di colore sulla camicia). Insomma uno sport movimentato, che richiedeva velocità, prontezza di rißessi, resistenza alla fatica, esperienza e costanza. Ma che soddisfazione la consegna delle tele stillanti colore nel fresco della sera, il verdetto della giuria dopo la cena allʼaperto o allʼosteria, la cameratesca spartizione dei doni in natura (quando cʼerano). Segui-

111. Giorgio Spada (1927-1999), Paesaggio (1971), particolare. Premio acquisto al “Concorso di pittura estemporanea Castello di Serravalle”, IX edizione. Repubblica di San Marino, Museo di Stato.

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PASSEGGIATE INCOERENTI 112. Enrico Visani, Paesaggio a Misano Monte (1970), particolare. Premio acquisto al “Concorso di pittura estemporanea di Misano Adriatico”. Rimini, Cassa di Risparmio spa.

vano i commenti e le informazioni sulla gara della domenica successiva, mescolati a consigli conÞdenziali sul corniciaio a prezzi modici, sul venditore di tele e di colori, sullʼultimo modello di cavalletto con cassetta incorporata (o viceversa: cassetta con cavalletto incorporato). A proposito, esisteranno ancora quei negozietti zeppi di colori da poco, per imbianchini e per pittori, dove cʼera sempre la possibilità di incontrare qualche artista ‘di famaʼ prodigo di buoni consigli? «Guai al nero per le ombre- asseriva serio Ricciotti -, va usato solo lʼoltremare». «Il verde marcio cambia colore, poi è inutile perché con il verde smeraldo si fa tutto» brontolava serio Pazzini, mentre Valentini proclamava la necessità di abolire il perÞdo blu di Prussia e di esaltare il cobalto e il cadmio. E la scelta del pennello nuovo, di setole dure o morbide, piatto o tondo? «Bertozzi li usa piatti, Della Bartola va

a spatola, Valentini e Demos li vogliono morbidi», avvertiva discreto e neutrale il bottegaio, che in primavera faceva scorta di gialli per lʼestate e in estate di bruni per lʼautunno. Per chi praticava assiduamente questo sport le stagioni avevano tutte lo stesso profumo dʼacquaragia e lo stesso sapore dʼolio di lino, ma tanti colori. Lʼestate era appunto la stagione dei gialli, di cromo e di cadmio; lʼautunno delle terre e degli ocra, la primavera dei verdi e degli azzurri. Solo lʼinverno era senza colori, perché dʼinverno erano pochi i coraggiosi che sÞdavano il freddo e pochissimi i fortunati che potevano ispirarsi al paesaggio dalla propria Þnestra. A casa, comunque, normalmente non si dipingeva; era una regola non scritta, forse dettata da madri, mogli e suocere, rigorosamente rispettata da chi non aveva uno ‘studioʼ. Ma chi aveva uno studio?

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PENNELLI AL VENTO

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Naturalmente anche questo sport aveva i suoi tifosi che seguivano tutte le gare, che registravano i cambiamenti di stile (sempre minimi), che formulavano immaginarie e personali classiÞche (per gusti e simpatie, naturalmente) e che conoscevano i pittori, soprattutto. Strani tipi quei pittori: cʼerano i gelosi, che per dipingere indisturbati sceglievano luoghi segreti ed inaccessibili; cʼerano gli pseudo-professionisti che esploravano i luoghi per giorni e provavano nascostamente le inquadrature (non era certo il caso di deÞnirle composizioni); quelli che lavoravano in coppia o in gruppo, ed erano in genere i più socievoli e chiacchieravano volentieri con i tifosi (che talvolta si improvvisavano staffette, a scambiare colori e boccette da una postazione allʼaltra). Poi cʼerano quelli che si piazzavano alle costole di un ‘vincitoreʼ con la manifesta

intenzione di carpirgli qualche segreto; cʼerano i permalosi e i maliziosi, che avevano sempre da brontolare con la giuria; e inÞne cʼerano quelli che si portavano dietro tutta la famiglia, ed erano considerati poco seri e venivano dati perdenti in partenza (e infatti talvolta non riuscivano a consegnare in tempo le loro opere). Se è ancora facile per un vecchio tifoso (come me) ricordare gli atteggiamenti, il carattere, la Þsionomia stessa di quegli artisti, è invece difÞcile ricordarne i nomi. Non solo (con poche eccezioni) non si sono più sentiti nominare, ma con la Þne degli ex tempore sono proprio spariti nel nulla. Ora è difÞcilissimo incontrare qualcuno che stia dipingendo per le vie della città, o al porto, o in campagna: quei rarissimi pittori vaganti che capita di vedere dʼestate sono stranieri evidentemente ancora allʼoscuro del fatto che la pittura

113. Mario Valentini (1904-1980), Sole a Serravalle (1973). Premio acquisto al “Concorso di pittura estemporanea Castello di Serravalle”, XI edizione. Repubblica di San Marino, Museo di Stato.

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PASSEGGIATE INCOERENTI

dal vero è considerata unʼattività quasi indegna di un essere umano. Anche questo dunque è uno sport Þnito, come la palla al bracciale o il tamburello; ucciso dal disprezzo della cultura ufÞciale e certo dallʼequivoco di fondo che ancora riguarda lʼarte, che come si sa sarebbe morta da un pezzo nelle forme tradizionali, perchè assolutamente inutile ed inutilizzabile. Come le lingue morte, gli sport morti non si possono far risuscitare, al massimo se ne può ricostruire la storia. Quindi amen. Ma da un poʼ di tempo a questa parte viene praticata di questo sport una variante degna di considerazione, specialmente nottetempo e al chiuso, e spesso nei centri di quartiere. Si tratta dei così detti «corsi» o «scuole di pittura», che stanno al vecchio sport come lo squash sta al tennis, o il calciobalilla al football. Il Þne è sempre quello di trovarsi insieme per realizzare qualcosa di visibile, di concreto, di Þgurato, di personale da contrapporre allʼastrazione dei numeri e delle parole, allʼanonima Þsicità di attrezzi, merci, commerci, faccende. Certo si tratta di una variante passiva, statica di quel vecchio sport, perché non contempla la sana ricerca del sito, la lunga osservazione del paese, la scelta del soggetto; e con la pericolosissima presenza di un maestro, o comunque di una guida (si parla infatti di scuole), che costituisce un sicuro handicap. Ma tantʼè.

La possibilità di scarabocchiare e tingere queste scuole la danno. Forse lavorando di fantasia, o forse confrontandosi con un modello, anche se si tratterà di una bottiglia e un uccello impagliato, di un mazzo di Þori e di una brocca, anziché di monti e di nuvole, di prati e di alberi; e scambiando esperienze e ricevendo consigli, sempre illudendosi di creare qualcosa. E la settimana successiva la tela sarà già asciutta, pronta per essere conservata fra i ricordi o riutilizzata per una ‘creazioneʼ nuova; nessuno brontolerà per il puzzo dʼacquaragia, per il centrino macchiato, per il salotto apparecchiato con i pochi indispensabili strumenti. Può essere una soddisfazione enorme, una liberazione grande. Comunque vadano le cose quellʼattività è certo utile per sentirsi liberi non appena si spreme un tubetto di colore, liberi in un giuoco o uno sport economico e creativo. Non è un caso che da anni le terapie più avanzate per le malattie mentali contemplino la pittura. Siccome siamo tutti un poʼ matti (sì, gli psico-sociologhi ci hanno proprio convinto) credo che faremmo bene a iscriverci tutti alla scuola di pittura del quartiere più vicino per una bella cura. Chissà, se saremo in tanti forse potremo farci rimborsare la piccola tassa dʼiscrizione dalla mutua, e magari questʼaltrʼanno potremo fare organizzare una scuola gratuita dallʼUsl.20

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NOTE

1 Da Volando sul Marecchia, fotograÞe di Luciano Liuzzi e Venanzio Raggi, Ramberti Arti GraÞche, Rimini 2000, pp. 5-8.

12

Da “Il Ponte”, cit., a. XIV, n. 22, 11 giugno 1989.

13

Ibidem, a. XIV, nn. 23 e 24, 18 e 25 giugno 1989.

14

Ibidem, a. XIV, n. 25, 2 luglio 1989.

15

Ibidem, a. XIV, n. 26, 8 luglio 1989.

2

Da Lʼintelligenza della passione. Scritti per Andrea Emiliani, a cura di M. Scolaro e F. P. Di Teodoro, Minerva Edizioni, San Giorgio di Piano (BO) 2001, pp. 397-410.

Da “Il Ponte”, settimanale cattolico riminese, a. XIV, nn. 28 e 29, 23 e 30 luglio 1989.

3

4

Ibidem, a. XIV, n. 30, 6 agosto 1989.

5

Ibidem, a. XIV, n. 31, 27 agosto 1989.

6

Ibidem, a. XIV, n. 32, 3 settembre 1989.

7

Ibidem, a. XIV, n. 34, 24 settembre 1989.

8

Ibidem, a. XIV, n. 35, 1 ottobre 1989.

9

Ibidem, a. XIV, n. 36, 8 ottobre 1989.

10

Ibidem, a. XIV, n. 39, 5 novembre 1989.

11

Da Lʼimpresa ritrovata. Lo stemma dipinto di Alessandro Gambalunga, Rimini 2001.

16 Da Frontino, a c. di G. Allegretti, V. Verucchio 1990, pp. 139-142, con varianti. Purtroppo la Madonna delle Grazie è stata restaurata. Malamente. Qui vengono pubblicate le fotograÞe eseguite dallo scrivente nel 1988. 17 Da XXV Mostra mercato Antiquariato, Pennabilli, cat., Rimini 1995, pp. 13-16. LʼediÞcio è attualmente in restauro. 18 Da La pala di San Rocco e le antiche radici di Cailungo, a cura di S. Leardini Mularoni e I. Cenci Malpeli, Aiep Editore, Repubblica di San Marino 1994. 19

Da “Romagna arte e storia”, rivista quadrimestrale di cultura, a. XXIII, n. 67, gennaio-aprile 2003, pp. 117-123 (con dieci note qui omesse). 20

Da “Il Ponte”, cit., a. XII, 13 settembre 1987.

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INDICE DEI NOMI

Adimari R. 19, 45, 84, 86 Agata, santa 92 Agolanti famiglia 59, 62 Alberti L. 25, 26 Alberti N. 91, 92 Albini G. 27 Aldrovandi U. 54 Amato, beato 20-22, 27 Andrea da Cattolica 49 Antonio da Padova, santo 73-80 Antonio da Rimini, beato 80 Aragona (dʼ) A. 67 Arrigoni (G. Laurentini) 29, 93 Ballanti Graziani 90 Ballardini G. 54 Barocci F. 37, 38 Bassetti M.A. 35 Battagli famiglia 59 Belisario 15 Belmonti P. 76 Berengario 15 Bernadino da Siena, santo 80-81 Bernardi famiglia 111 Bernardo. santo 97 Bertozzi F. 114 Bertuzzolo di Mencio 47 Biagio mercante 55, 57 Bianchi G. (Jano Planco) 65, 67, 107 Bianchini d. G. 91 Bicci di Lorenzo 49 Bigi L. 27 Bistolli F., M., 101 Bistolli Giov. e Giulio. 37, 100, 101 Boccioni U. 27 Boltamino G. 77 Bonadies S., vescovo 64 Bonini D. 114 Bonvillo 73, 74, 77 Bordoni Magi L. 111 Boscoli A. 33 Bramante D. 77 Braschi S. 20 Broglio G. 66 Cagnacci G. 29, 36, 41 Cagnazzi G. 81 Cambrisi-Riminucci 9, 11 Caravaggio 104 Carpegna famiglia 27 Carpegna G. 35 Carracci 104 Casalboni A. 91

Cecchini d. C. 109 Centino (Nagli G.F.) 29, 39, 40, 41, 77 Cesi B. 34 Cincilla P. 34 Cinquedenti F., S. 54-56 Clemente XIV 27 Clementini C. 78-80 Cocapani B., vescovo 61, 62, 64 Cocapani C. 61 Coda Bartolomeo e Benedetto 78, 79 Cola dellʼAmatrice 95 Collina G. detto Graziani 90, 91 Comandini R. 108 Cupi A. 4, 15 Curugnani E. 14 Dante Alighieri 26 DʼOrßes G. 46 De Magistris S. 32 DelÞco M. 102 DellʼAmore, famiglia 74 Della Bartola A. 114 Della Rovere F.M. 99 Della Rovere, famiglia 15 Delucca O. 54, 66 Diotallevi, famiglia 59, 63 Domenichino (D. Zampieri) 32 Domenico di Antonio 102 Donatello 79 Drudi L. 107 Emiliani A. 29 Enrico, beato 21, 27 Fabri R. 9 Fantaguzzi G. 62 Fantoni G. B. 38-40 Filippini E. 27 Filippo (fra) R. 95 Floriano 55 Fontebuoni A. 98 Foschi famiglia 111 Francesco dʼAssisi, santo 101 Francia F. e G. 105 Galassi C. 91 Gambacorta P. da Pisa, beato 94 Gambalunga A. 67-71 Garampi G. 54 Garampi G., cardinale 74 GarufÞ G.M. 63, 90 Gaudenzo, santo 75 Gentile da Fabriano 48, 49 Gentileschi O. 31, 32, 35, 36 Gerolamo di Lorenzo 66

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PASSEGGIATE INCOERENTI Giacomo, mercante 43, 49-51 Giambologna 97 Giangi N. e F., 50, 51 Giorgetti B. 29, 30, 34-40 Giorgetti G. 36 Giotto 78 Giovanardi p. G. 74 Giovanna da San Leo 98, 99 Giovanni da Rimini 33 Girolamo di L. da Sutri 66 Giuliano da Rimini 93 Giulio Cesare 74-76 Giulio II 77 Giulio III 100 Giungi d. 112 Gnudi C. 93 Gottardi 54 Guarini (o Guerrini) B. e V. 70 GuelĂž Camaiani P. 68 Guercino (G.F. Barbieri) 78, 80 Guerrieri G.F. 29, 35, 36 Guerrieri P.A. 19, 20, 35 Innocenzo da Imola 105 Innocenzo IV 78 Inzerillo C. 36 Leonardo (f.) da Rimini 90 Liverani R. 24 Longhi L., F., B. 105 Longhi R. 32 Lucano 22 Machuca P. 95 Magi famiglia 111 Malaguzzi Valeri F. 9 Malatesta Carlo 50 Malatesta da Verucchio 73 Malatesta, famiglia 15, 17, 22, 24, 77, 108 Malatesta Pandolfo IV 55, 77 Malatesta Ramberto 102 Malatesta Roberto 59, 62, 66 Malatesta Sigismondo 54, 55, 70 Manganoni F. 80 Margherita di B. da Cittadella 77 Mariotti G. 27 Matteini N. 107 Mattioli 54 Medici L. 99 Medici, famiglia 15 Menzocchi F. 105 Michelangelo 104 Minghini D. 98 Moderati B., G., M., N., P. 54 Moderati famiglia 54 Moderati G.C. 54 Modesti famiglia 54, 73 Modesti P.F. 27 Montefeltro E. 62, 66 Montefeltro, famiglia 15, 24 Morri E. 73, 79 Mosconi C. 27 Oliva, famiglia 101 Olski 51 Oretti M. 98 Ottone il grande 15 Paci C. 78, 79 Palmezzano M. 105 PanĂžli P. 73, 74 Paolo II 66

Parcitadi, famiglia 73 Pasio 55, 57 Pazzini E. 16, 22, 114 Petrarca F. 75 Petronio di Pasquino 102 Picchi G. 29 Piccolomini A. 102 Pietro Antonio da Siena 66 Pietro da Rimini 33 Piranesi G.B. 44 Polverelli d. A. 65 Pomarancio A. 29 Pomodoro A. 27 Pronti C. 27 Raffaello 32 Raffaldini A. 93 Ravaioli G. 17 Razzani G. B. 35 Reni G. 33, 36 Renzetti E. 74 Renzi E., beata 27 Renzi d. D. 80 Renzi P. 27 Ribera P. 37, 39 Ricci C. 38 Ricci famiglia 111 Ricci T. 111 Ricciardelli P. 73, 76 Ricciotti G. 114 Rigazzi famiglia 73 Riminucci, famiglia 9 Rosa G., vescovo 67 Rosetti E. 22 Rospigliosi G., cardinale 77 Rovelli d. D. 109, 110 Ruffo, famiglia 73 Sabatini A. 95 Sacchetti F. 55, 94 Sajanelli G.B. 95 Santi di Tito 32 Sarti C. 87 Sertori d. C. 110 Sisto IV 61, 65, 66 Spada G. 113 Spadafora D., beato 27 Stanzione M. 33 Talamonti A. 98 Teobaldelli F. 90 Terenzi A. 54 Tintoretto 104 Tiziano 35, 38, 104 Tonini C. 59, 67, 76 Tonini L. 49, 50, 59, 67, 71, 74 Ubaldo, santo 98 Uguccione della Faggiola 27 Valenti L., vescovo 63, 64 Valentini M. 114, 115 Vasari G. 79 Veronese P. 104 Villa G. 27 Villani J. 74, 75, 77 Vitali G. 107-117 Viti T. 95 Vitige 15 Zanotti M.A. 67 Zavagli, famiglia 111

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INDICE DEI LUOGHI

Ancona 31, 32, 36, 37 Antico 100, 101 Appennini 14 Arezzo 14 Bellariva 113 Bologna 32, 33, 37, 65, 66, 97 Bourges 74 Cailungo 101-105 Campigna 113 Carpegna 19 Castel nuovo 25 Cattolica 20, 21, 25, 26, 87 Cernitosa di Soanne 35 Cervia 113 Cesena 91 Cesenatico 102 Chieti 95 Città del Vaticano 32, 37, 48, 49, 65 Cittadella 77 Conca, Þume 19, 21-23 Coriano 21 Corpolò 37 Faenza 91,98 Fano 70, 107 Fiandre 102 Foglia Þume 16, 24 Francia 102 Frontino 93-97, 100 Fumaiolo, monte 15 Gemmano 25 Gradara 23, 24 Lisbona 74 Londra 54 Longiano 54 Loreto 84 Maciano di Pennabilli 98-101 Madrid 95 Marche 21, 31, 38, 70, 92, 94, 105 Marecchia, Þume 13-15, 17, 18, 24 Marina di Ravenna 113 Mercatello, Castel della Pieve 32, 33, 36 Mercatino Conca 26 Miramare 113 Misano 114 Mondaino 25, 27, 38 Monte Boaggine 20 Montecerignone 23, 27 Montecopiolo 27

Montefeltro 11, 17, 32, 35, 37, 38, 41, 100 MonteÞore 21, 23, 25, 26, 41, 55, 107-111, 113 Montegridolfo 25, 27 Monteluco 80 Montemaggio 34-36, 41 Morciano di R. 21-23, 26, 27 Napoli 33, 37 New York 49 Novafeltria 17 Padova 79 Passano di Coriano 21, 27 Pennabilli 30, 32, 34, 35, 98, 100, 101 Perugia 36, 37 Pesaro 16, 37, 70, 102 Piandimeleto 35, 100 Pisa 77 Poggio dei tre Vescovi 15 Pratieghi 15 Ravenna 24, 70 Repubblica di San Marino 16, 41, 91, 92, 101 Rimini 9, 11, 13, 14, 17, 22, 25, 37, 41, 44, 45-58, 66-70, 74, 75, 80-93, 102, 107, 114 Rocca PratifÞ 32, 34, 36 Roma 70, 94, 101, 104, 105, 107, 110 Romagna 17, 38, 41, 70, 77, 87, 92, 94, 98, 102, 105 Roncofreddo 62, 91 Salerno 95 Saludecio 20, 21, 23, 25-27, 41, 55, 88, 89 San Clemente 27, 88 San Giovanni in Mar. 23, 25 San Leo 16 San Lorenzo a Monte 89-91 San Marino 38, 92, 105, 113, 115 San Martino dei Molini 39 San Martino in Riparotta 14 San Vito 39 Sansavino 59, 61 SantʼAgata Feltria 32, 41 Santarcangelo 14, 44 Sarna 87 Sarsina 41 Serravalle 102, 113 Soanne 101 Sogliano al R. 88 Spoleto 80 Tavoleto 25 Torino 15 Torriana 16

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PASSEGGIATE INCOERENTI Toscana 14 Trento 97 Umbria 80 Ungheria 102 Urbania 33 Urbino 27, 37, 99, 100, 102 Uso, Ăžume 14 Valconca 19, 21, 23, 25, 26, 38

Valliano di Montescudo 83, 88 Valmarecchia 13-17, 23, 37, 38, 98, Venezia 25, 37 Vergiano 81 Verucchio 15-17, 39, 105 Viserba 14 Zucca, monte della 15

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BIBLIOGRAFIA CITATA

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PASSEGGIATE INCOERENTI Talamonti A., Cronistoria dei Frati Minori della provincia lauretana delle Marche – MonograÞe dei Conventi, Sassoferrato 1945.

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Vasari G., Le Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Firenze 1568.

Tonini L. e C., Rimini. Guida storico-artistica, VI ed. illustrata, Rimini 1926.

Villani I., Insigne Miraculum de Sacrosancta Eucharistia, Rimini 1667.

Tonini L., Storia civile e sacra riminese, Rimini 1880-1888. Tonini, L. Del riminese Alessandro Gambalunga, della Gambalunghia-

Vitali G., Memorie storiche risguardanti la terra di M. Fiore, Rimini 1828.

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REFERENZE FOTOGRAFICHE

Le immagini del presente volume sono state gentilmente fornite da: Ancona, Pinacoteca Civica F. Podesti, 21 Bologna, Musei Civici dʼArte Antica, 65 Bologna, Pinacoteca Nazionale, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, 23 Cesena, Biblioteca Malatestiana, Archivio fotograÞco, fondo Casalboni, 94 Forlì, Foto Liverani, 15 Londra, V&A Images/Victoria and Albert Museum, 50 Repubblica di San Marino, Museo di Stato, 96, 111, 113 Rimini, Archivio dellʼAutore, 5, 6, 13, 27, 28, 32, 33, 40, 41, 51, 59, 60, 68, 72, 73, 75, 78, 79, 80, 81, 86, 87, 88, 91, 98, 99, 106, 107, 108, 109, 112 Rimini, Biblioteca Gambalunghiana, Archivio fotograÞco, 66 Rimini, Diocesi di Rimini, UfÞcio Beni Culturali, 29, 30, 31, 61, 93, 97 Rimini, Luciano Liuzzi, 9, 14, 22 Rimini, Pier Giorgio Pasini, 10, 11, 12, 16, 18, 19, 20, 22, 24, 25, 34, 35, 36, 38, 44, 48, 54, 70, 83, 84, 85, 100, 101, 102, 103, 104 Rimini, Stefano Rossini, 17, 26, 37, 39, 45, 49, 53, 55, 56, 57, 58, 62, 63, 69, 71, 74, 76, 77, 82, 89, 90, 92, 95, 105 Roma, Pinacoteca Vaticana, 43 Nel caso di materiali senza speciÞcazione utile, forniti dallʼautore, lʼeditore resta a disposizione degli eventuali aventi diritto.

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Finito di stampare nel mese di Novembre 2006 per i tipi della Tecnostampa srl, Loreto (AN)

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I libri della Valconca P.G. Pasini, Piero e i Malatesti. L’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole (1992)

Pier Giorgio

Pier Giorgio Pasini

Pasini

IL TESORO DI SIGISMONDO

E. Grassi, Giustiniano Villa poeta dialettale, 1842-1919 (1993) P.G. Pasini, Il crocifisso dell’Agina e la pittura riminese del Trecento in Valconca (1994)

e le medaglie di Matteo de’ Pasti

A. Bernucci – P.G. Pasini, Francesco Rosaspina “incisor celebre” (1995)

P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Barocco al Novecento (1997) A. Fontemaggi - O. Piolanti, Archeologia in Valconca. Tracce del popolamento tra l’Età del Ferro e la Romanità (1998) P.G. Pasini, Emilio Filippini pittore solitario 1870-1938 (1999) E. Brigliadori – A. Pasquini, Religiosità in Valconca. Vicende e figure (2000) P.G. Pasini (a cura), Arte ritrovata. Un anno di restauri in territorio riminese (2001) Loris Bagli, Natura e paesaggio nella Valle del Conca (2002) A. Sistri, Cultura tradizionale nella Valle del Conca. Materiale e appunti etnografici tra Romagna e Montefeltro (2003) Oreste Delucca, L’uomo e l’ambiente in Valconca (2004) P. Meldini, La cultura del cibo tra Romagna e Marche (2005) P.G. Pasini, Passeggiate incoerenti tra Romagna e Marche (2006) C. Fanti, Pietre e terre malatestiane (2007) P.G. Pasini, Atanasio da Coriano frate pittore (2008)

Sono in vendita nelle migliori librerie; alcuni titoli sono esauriti

IL TESORO DI SIGISMONDO

P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Medioevo al Rinascimento (1996)

BANCA POPOLARE VALCONCA

BANCA POPOLARE VALCONCA

Sigismondo Pandolfo Malatesta, uno dei più importanti signori italiani del Quattrocento, è stato capitano generale degli eserciti della Chiesa, di Firenze, di Napoli e di Venezia, guadagnandosi una grande fama di condottiero ed enormi ricchezze, che gli permisero di costituire a Rimini una importante corte letteraria e artistica. Ancora viveva, quando correva voce di un suo favoloso “tesoro” nascosto nelle mura di alcune rocche del territorio riminese: un tesoro cercato per secoli, e mai trovato. Effettivamente Sigismondo faceva nascondere qualcosa di strano nelle mura dei suoi edifici: ma non si trattava di tesori nel senso classico del termine, bensì di medaglie con la sua effigie, ritrovate, e in grande quantità, soprattutto nei restauri del dopoguerra. Medaglie in bronzo e in argento, squisite e preziose, tra le prime del Rinascimento, dovute al veronese Matteo de’ Pasti, stabilmente attivo alla corte riminese fino alla morte, che precedette di pochi mesi quella di Sigismondo (1468). Dopo aver fornito notizie sul presunto tesoro di Sigismondo, e sui vani tentativi di ritrovarlo, questo volume passa ad illustrare il vero tesoro: le medaglie di Matteo de’ Pasti, annoverate fra i capolavori della medaglistica rinascimentale; e si sofferma sul loro autore, sui loro ritrovamenti, sulla loro datazione, sul loro stile, sulla funzione loro affidata di diffondere la fama del signore presso i contemporanei e presso i posteri. L’apparato illustrativo offerto dal volume – frutto di una campagna fotografica appositamente condotta - permette di esaminare esemplari sicuramente autentici di medaglie pastiane e di approfondirne la conoscenza; e inoltre invita a riflettere su alcuni problematici risvolti dell’attività artistica del grande medaglista veronese e dell’arte alla corte di Sigismondo Malatesta, grande condottiero e grande quanto tirannico mecenate, vissuto in un momento di crisi e di trapasso tra l’autunno del Medioevo e la primavera del Rinascimento. Pier Giorgio Pasini si occupa di storia dell’arte rinascimentale fin dagli anni settanta, quando diresse la mostra “Sigismondo Pandolfo Malatesta e il suo tempo”, Rimini, Sala dell’Arengo, 1970. Già nel catalogo di tale mostra (edit. Neri Pozza, Vicenza) figurano i suoi primi studi su Matteo de’ Pasti, che poco dopo lo indussero a proporre una completa revisione della cronologia delle medaglie pastiane. Per questa si vedano i contributi portati al primo convegno internazionale di studio su “La medaglia d’arte” di Udine (10-12 ottobre 1970) e al symposium su “Italian Medals” della National Gallery of Art di Washington (29-31 marzo 1984), riproposti nel presente volume. Allo studio dell’attività di Matteo de’ Pasti l’autore si è dedicato anche in numerosi altri lavori riguardanti la civiltà umanistica fiorita alla corte malatestiana, e soprattuto nei seguenti: I Malatesti e l’arte, Silvana ed., Milano 1983; Piero e i Malatesti, L’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole, Silvana ed., Milano 1992; Piero e Urbino, Piero e le corti rinascimentali, Marsilio ed., Venezia 1992; Cortesia e Geometria. Arte malatestiana fra Pisanello e Piero della Francesca, Luisè ed., Rimini 1992; Il Tempio Malatestiano. Splendore cortese e classicismo umanistico, Skira, Milano 2000. Infine ha scritto, con altre, la “voce” Matteo de’ Pasti per il Dictionary of Art, Macmillan Publishers Ltd, London, 2004.


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