Azione 32 del 3 agosto 2020

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 agosto 2020 • N. 32

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Cultura e Spettacoli

Filosofia, poesia e follia

Incontri A colloquio con la brava fumettista italiana Pat Carra, da sempre attenta

(con grande ironia) alle differenze e alle discriminazioni di genere

«W Veronica», al tempo in cui decise di parlare e svelò i segretucci del marito. Ho collaborato anche per «Il Corriere della Sera» con una striscia settimanale e per «la Repubblica». Da quattro anni sono la vignettista ufficiale del sindacato ANAAO dei dirigenti medici e in questo momento lavorare su questo tema, sulla medicina e sull’emergenza Covid, è davvero molto interessante.

Laura Marzi Abbiamo incontrato Pat Carra, fumettista. Vincitrice del Premio per la Satira nel 2006, ha collaborato per le maggiori testate giornalistiche italiane e ha al suo attivo diverse pubblicazioni e mostre personali, tra le quali ricordiamo quella al Teatro La Fenice nel 2015, al Complesso del Vittoriano nel 2010, al museo della Centrale Montemartini nel 2008.

Circa un anno fa in Svizzera si è svolto uno sciopero femminista che ha visto la partecipazione di mezzo milione di persone che hanno protestato contro la disparità di diritti, di salari, contro le discriminazioni subite dalle donne. Cosa ne pensi?

Se dovessi scegliere un aneddoto o un’immagine per raccontarci il tuo approdo al disegno umoristico, quale sarebbe?

L’immagine è una vignetta disegnata quando avevo nove anni e ritrovata quarant’anni dopo. Era il racconto di una burla a una sorella maggiore. Le avevo fatto uno scherzo telefonico fingendo che la casa andasse a fuoco, lei era col suo fidanzato, un uomo che già da allora avevo fotografato come violento. Volevo che tornasse a casa, che scegliesse noi sorelle e sé stessa invece di ricamare un’inutile dote, raccontandosi delle bugie. Lui fu molto minaccioso con me, ma io e le altre due sorelle ci eravamo divertite e la striscia, certo con un tratto infantile, lo racconta. Immagino che il mio lavoro di fumettista sulla violenza maschile e sulla sorellanza parta da lì.

Il primo rapporto col femminismo svizzero per me fu negli anni ’90 con Franca Cleis che mi coinvolse in un progetto per le scuole superiori del Canton Ticino, si trattava di laboratori e mostre sui rapporti familiari. Del resto, è sempre esistita una relazione forte tra il femminismo ticinese e quello lombardo. Mi è piaciuta molto l’invenzione così svizzera del movimento delle femministe durante lo sciopero: interrompere il lavoro a una certa ora, utilizzare gli orologi per significare la discriminazione. Questa è creatività! Mi sarebbe piaciuto per l’occasione disegnare grandi orologi dentro il simbolo di Venere o usare il simbolo come lancetta. Sono disponibile per il prossimo sciopero, a me piace disegnare vignette che poi circoleranno all’aperto!

Hai lavorato molto per riviste femministe, come «Aspirina» e adesso «Erbacce».

Sì, ma oltre che per le riviste del femminismo come Noi donne e oggi ingenere. it mi è piaciuto lavorare per giornali femminili popolari, perché il fumetto è un mezzo per dire cose anche forti e radicali in modo molto accessibile e semplice. Il fumetto mi tiene lontana dal rischio ideologico. Ho lavorato per quindici anni per un giornale femminile a larga diffusione e c’era chi si chiedeva se l’editore Mondadori, in epoca berlusconiana, fosse consapevole del messaggio che i miei disegni veicolavano. Si trattava, infatti, di contenuti sulla

Una tipica vignetta di Pat Carra. (Pat Carra)

libertà femminile, di satira sui rapporti tra i sessi e la mia vignetta apriva un giornale che al suo interno conteneva invece molte mediazioni e compromessi sul tema.

Nella tua carriera hai disegnato molto anche per giornali e riviste non esclusivamente femminili.

Le mie collaborazioni sono state molte, ho attraversato decenni di giorna-

lismo, con le sue stratificazioni. Ne posso ricordare alcune su cui ho tenuto una regolarità intensa: sicuramente Cuore, soprattutto quando era dentro l’«Unità», cioè dalle origini, per svariati anni. E poi ho disegnato per «Il manifesto» dove avevo una rubrica settimanale di satira politica e sociale. Di questa collaborazione ricordo le strisce che dedicai a Veronica Lario, era il mio

Il poeta latino Lucrezio scrive di aver scelto di scrivere in versi perché la poesia era come il miele necessario a veicolare il messaggio amaro della sua filosofia. Con la satira succede qualcosa di simile. Cosa ne pensi?

A volte penso che sarei rimasta una poeta come ero da bambina se alcuni eventi della mia vita non avessero reso necessario scegliere la satira e l’umorismo. Rispetto alla citazione da Lucrezio credo che dentro l’umorismo ci sia un po’ di filosofia, di poesia e molta follia.

Le cose da ricordare

Pubblicazioni Il libro assoluto e ineccepibile di Judith Schalansky, che raccoglie insieme

racconti di stile rigoroso e un supporto di pregio Stefano Vassere «Forse è ancora da imputare solo alla mia scarsa immaginazione il fatto che il libro mi sembri ancora il migliore di tutti i mezzi di comunicazione, nonostante la carta utilizzata da alcuni secoli non sia resistente come il papiro, la pergamena, la pietra, la ceramica o il quarzo, e nemmeno il corpus degli scritti biblici, il più stampato e tradotto nel maggior numero di lingue, ci sia stato trasmesso nella sua interezza». L’oggetto libro in senso vecchio, quello con carta, cartone e rilegatura a filo, sostanzia anche con questo Inventario di alcune cose perdute un suo pregio autonomo e insostituibile. Prendendolo in mano dalla parte del bordo, si noterà che ogni sedicesimo è come fasciato da un foglio buio, che separa i singoli racconti e riporta, con gioco di neri, riproduzioni legate allo spunto di ognuna delle vicende. Ciò comporta una scelta di tipo artigianale ma anche testuale; essendo di carattere e corpo e interlinea uniforme, i singoli testi hanno anche estensione uguale, restando ognuno nelle sedici pagine del fascicolo. Se aggiungiamo, poi, la bella immagine di copertina, la trama all’interno dei risvolti che chiama quei neri e, almeno sembra, un profumo partico-

lare che emana dalla carta fin dai primi istanti in libreria, allora il capolavoro tipografico è supremamente realizzato. Le cose perdute continuano un canone al quale Judith Schalansky, scrittrice, designer e appassionata di arte tipografica, sembra essere da tempo fedele: quello dell’elenco di inusualità passate in rassegna in una sorta di repertorio sistematico. Molti ricorderanno il sofisticato Atlante delle isole remote, pubblicato qualche anno fa in edizione italiana da Bompiani. Qui cose

è termine adatto, perché nel numero rientrano palazzi, monumenti, animali estinti, persone, studiosi, individui bislacchi, copie di lungometraggi tanto mitici quanto introvabili ecc. Ognuna di queste rarità è introdotta da breve scheda e fornisce lo spunto per una narrazione che più o meno ne riprende il carattere. Tra le perdite, la tigre del Caspio, estinta da una sessantina di anni; i frammenti delle poesie di Saffo (ne sopravvivono circa il 7% dell’intera opera); la villa romana della famiglia nobile dei Sacchetti, costruita nel Seicento e demolita alla fine dell’Ottocento; la curiosa attività di Armand Schultess, una sorta di operoso e ostinato neorurale zurighese trasferitosi negli anni Cinquanta nella valle Onsernone, dove ebbe una pratica ossessiva di enciclopedizzazione del mondo affidata agli alberi. Al lettore è richiesta una sorta di ginnastica interpretativa, che consiste nel trovare nel testo le tracce dei memorabilia via via chiamati a raccolta; non sempre il legame è esplicito, e l’oggetto-spunto fa talora anche solo un timido capolino in mezzo a tutt’altra sostanza. Ora, si sa che la ricchezza di uno storytelling sta nella forma più che nella vicenda; la storia può essere anche banale ma uno stile all’altezza ne può sol-

levare i destini verso valori smisurati. Non è difficile isolare nella letteratura anche contemporanea qualche saggio di questa abilità. Un po’ a caso: fatta salva la mediazione della traduzione (che è però di Raul Montanari), l’entrata del branco di cani all’inizio di Child of God di Cormac McCarthy; taluni passi degli ultimi due romanzi di Colson Whitehead; l’incedere storico del libro di Antonio Scurati su Mussolini; alcune altre cose. In questo libro e in questa linea si iscrivono parecchie prove della nostra Judith: certamente il combattimento delle fiere nel capitolo sulla tigre del Caspio o la descrizione di Roma all’inizio delle pagine dedicate a villa Sacchetti («Come ogni sovrano, questa città ha due corpi…») e ancora, di quel testo, il finale. Insomma, Judith Schalansky riesce nella non facile operazione di confezionare un libro che è notevole in tutti i suoi aspetti: la tecnica, la forma stilistica, il vestito tipografico. Infine, l’oggetto in sé è prezioso; da non portare in spiaggia. Bibliografia

Judith Schalansky, Inventario di alcune cose perdute, Milano, Nottetempo, 2020.

Caro diario, vorrei dirti che... La lingua batte

Il diario come un’utile palestra Laila Meroni Petrantoni

Ingredienti: carta e penna, quanto basta; tempo, in dosi piuttosto consistenti, dosi da prevedere prima di eseguire la ricetta per non correre il rischio di restarne privi proprio sul più bello. E poi, costanza e tenacia, in quantità abbondanti. Infine è raccomandata una presa di sincerità, affinché la pietanza che ci si accinge a cucinare risponda ai canoni dell’arte. Perché è così: se si vuole tenere un diario è vietato dire bugie. Almeno con il nostro diario – con il nostro amico immaginario – non ci è permesso fingere di essere qualcun altro. «Caro diario». Nel classico incipit c’è sempre molto affetto, e la richiesta di custodire ogni parola che gli viene affidata e sulla quale viaggiano esperienze, pensieri, emozioni di vita. Carta, penna, tempo, costanza, sincerità: ingredienti forse un po’ démodé. Se non fosse arrivato il lockdown, vero? Ci sarà certo qualcuno che, insieme al pane, ha provato il desiderio di (re)imparare a impastare pensieri e scrittura, emozioni e parole. Formulando quella richiesta di attenzione: «caro diario». Un diario è lo scrigno di una vita, è anzitutto una forma di resistenza al tempo che passa e all’oblio. Come è accaduto a quel Giovanni Anastasia di Breno, classe 1797, che al suo diario ha affidato il compito di custodire i ricordi, ogni santo giorno per quasi mezzo secolo. Un contadino che oggi, ritrovate le oltre duemila pagine del suo memoriale, ci racconta di un passato lontano a noi così sconosciuto da parerci fantastico. In esse non sono stati annotati unicamente i compiti quotidiani, condizionati dall’imprevedibilità della natura e dalle bizze delle stagioni; ci sono anche le gioie ma soprattutto i dolori, quei lutti che rodono dentro oggi così come accadeva nel 1800. Le emozioni non cambiano e nemmeno la natura umana. Quanti diari hanno custodito i secoli: diari di grandi personalità entrate nella storia, ma pure di gente comune, le cui memorie magari sono sopravvissute anche a una lapide. Ci sono diari che ancora oggi ci parlano e sanno insegnarci qualcosa, come quello lasciato da una tredicenne costretta a confinare la sua vita in un alloggio segreto per sfuggire alle leggi razziali di Hitler, e ad affidare a un libricino ricevuto in dono per il suo compleanno tutte le emozioni di adolescente. Iniziava le sue annotazioni con «Cara Kitty», regalando al suo diario una coscienza umana, e chiudeva con «La tua Anna», i fondamentali dell’amicizia. Una delle caratteristiche naturali di un diario è il fatto di rappresentare una sorta di giardino segreto che può contenere le emozioni più recondite, magari inconfessabili, che lo scrivente desidera mantenere per sé. A ben pensarci, che fantastica palestra è un diario! Combina esercizi di lingua (e magari di calligrafia) con la pratica dell’introspezione. Va bene. Domani ci provo anch’io.


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