PHRONEIN supplemento ad Atelier Poesia nr. 92

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PHRONEIN Comune a tutti è il pensare

Rivista filosofica semestrale

Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche Numero 22

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Trimestrale di poesia, critica e letteratura Supplemento del n. 92 (dicembre 2018) Direttore: Giuliano Ladolfi (direttore responsabile) Direttore editoriale: Matteo Fantuzzi Direttrici Atelier online: Clery Celeste ed Eleonora Rimolo Direttore supplementi internazionali: Francesca Benocci Coordinatore redazionale: Chiara Bernini Direttore marketing: Giulio Greco Direttore Editoriale di Phronein: Mario Guarna

Redazione: Francesco Iannitti, Stefania Lombardi, Riccardo Roni, Giuseppe Scarciglia Copertina realizzata da Daniele Rizzuti Direzione e amministrazione C.so Roma, 168 - 28021 Borgomanero (NO) - tel. e fax 0322835681 Sito web: http://www.atelierpoesia.it indirizzo e-mail: redazione@atelierpoesia.it Autorizzazione del tribunale di Novara n. 8 del 23/03/1996.

Associazione Culturale “Atelier”

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INDICE

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L’esperienza intuitiva della quiddità Mario Guarna

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Dove abita il bello? Riccardo Mainardi

15 Il doppio movimento della vita morale e la temporalizzazione della vita interiore Giancarlo Pillitu

25 Il naufragio e le «situazioni-limite». l’ascolto del silenzio nella «terra di nessuno» Andrea Gentile

61 Gli autori

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MARIO GUARNA L’ESPERIENZA INTUITIVA DELLA QUIDDITÀ

La razionalità viene trasmessa, l’intuizione avviene spontaneamente. Mario Guarna

Così scriveva Giorgio De Chirico in Memorie della mia vita: In un limpido pomeriggio autunnale ero seduto su una panca al centro della Piazza Santa Croce a Firenze. Naturalmente non era la prima volta che vedevo quella piazza: ero uscito da una lunga e dolorosa malattia intestinale ed ero quasi in uno stato di morbida sensibilità. Tutto il mondo mi circondava, finanche il marmo degli edifici e delle fontane, mi sembrava convalescente. Al centro della piazza si erge una statua di Dante, vestita di una lunga tunica, il quale tiene strette le sue opere strette al proprio corpo ed il capo coronato dall’alloro pensosamente reclinato… Il sole autunnale, caldo e forte, rischiarava la statua e la chiesa. Allora ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta, e la composizione del dipinto si rivelò all’occhio della mia mente. Ora, ogni volta che guardo questo quadro, rivedo ancora quel momento. Nondimeno il momento è un enigma per me, in quanto esso è inesplicabile. Mi piace anche chiamare enigma l’opera da esso derivata1.

De Chirico descrive quel momento come qualcosa che si rivela in modo ambiguo ed incomprensibile; anche se la piazza, la statua di Dante e il marmo degli edifici sono da sempre presenti, il modo in cui incontra come fosse la prima volta, queste “cose”, in quel “limpido pomeriggio autunnale”, dipende dalla sua consapevolezza 5


aperta. Solitamente, il modo in cui facciamo esperienza delle “cose” che vediamo, è determinato dalla natura del luogo nella quale l’incontro accade e dalla rete di significati interrelati che pervade il mondo. Nel caso di Piazza Santa Croce, a Firenze, la piazza è circondata da infinita disponibilità e dotata di un’infinta profondità. Così, le “cose” incontrate sono esperite da De Chirico come fossero anch’esse estremamente intime. Non è cercare di trovare qualcosa, ma si tratta più che altro di rendersi disponibile: è l’abilità di osservare con la mente in uno stato di accoglienza, fattore che rende possibile osservare l’enigma delle “cose”. Non si cerca di fissare delle forme, si osserva e basta. Si dispone la mente in uno stato di consapevolezza vuota. È una consapevolezza disponibile ad accogliere qualsiasi immagine visibile ed invisibile. Questo stato mentale assapora tutto ciò che si presenta alla coscienza; non è uno stato dove esiste un pensiero discriminante, nel quale avviene l’esclusione di qualcosa e l’accettazione di un’altra. La mente intuitiva è come uno specchio perché riflette tutte le immagini, riverbera tutto, dà un senso di profondità che si esercita in rapporto alle immagini grazie alla quale, le immagini, possono assolvere il loro effetto completo. L’enigma del paesaggio non è nella mente del pittore, ma l’intuizione è in grado di recepirlo e di comprendere la quiddità. In esso il momento presente può finalmente svilupparsi e piena attenzione viene rivolta alle “cose” “cosi come sono”. È un’esperienza diretta: non si tratta del riflettere “circa” una determinata cosa, né di definirla con un nome e relegarla, con ciò stesso, a un ambito di “seconda mano”. Il pittore e il paesaggio sono stati di questo mondo dualistico e relativo. L’esperienza intuitiva li trascende, si tratta di un “abbandono”, dell’abbandono di ogni nozione preconcetta, di ogni credenza e associazione di pensiero e dei processi mentali prestabiliti. Si tratta dell’abban6


dono di ogni sforzo e dunque della liberazione delle tensioni, del lasciar andare le cose secondo il loro corso naturale, di osservarle spassionatamente. Se De Chirico avesse pensato: «ecco io sto vedendo proprio quello che cercavo», in quel momento si sarebbe trovato fuori dall’esperienza immediata; nel suo stato di completo assorbimento, invece, non si sofferma mai a riflettere su quella data funzione o sul suo esito. Se avesse esclamato: «Quanto mi pare bella questa piazza!», con ciò stesso si sarebbe allontanato da essa; per contro assorbito nella sua enigmaticità, egli non possedendo nemmeno coscienza di sé stesso, come entità distinta, è tutt’uno con la piazza, e quell’io non esiste più. “La piazza si rivela così come rivela”, si parla certo di fenomeni architettonici, ma il messaggio autentico sta nel “così come”, che riguarda immediatamente anche l’io che lo sta osservando. Nel suo “così come”, l’osservazione coglie insieme: l’osservatore nella sua indistinzione, e quindi non a partire dall’io, esperisce la piazza cosi come essa rivela da sé stessa, con ciò viene inteso quindi qualcosa di totalmente diverso dalla teoria della rappresentazione prodotta in campo gnoseologico. L’osservazione riferisce che, se nell’indistinzione dell’osservatore la piazza rivela cosi come rivela da se stessa, anche l’osservatore sta nella sua autenticità. Sul fondamento dell’essenza di sé dell’osservatore c’è un legame del tutto peculiare tra l’esistenza del soggetto e l’oggettività della cosa. Nel suo svelare così, vuol dire insieme lo svelare della presenza (è così!) e l’intuitivo cogliere la presenza (è così). Si tratta quindi di un concetto originario di intuizione, che precede la distinzione tra l’intuizione dell’essere e intuizione conoscitiva. Dov’è l’osservatore in questa esperienza? Non è forse colui che osserva? 7


L’osservatore è diventato indistinto e ciò è determinante. Ma non nel senso che semplicemente non ci sia più. Egli ora c’è davvero di nuovo, mentre osserva: “La piazza che rivela così come rivela”. Egli è l’osservazione stessa. Non che egli sia il soggetto dell’osservare, bensì è l’atto dell’osservare come tale. Tutto questo non è una sorta di invito alla passività, propone piuttosto una costante attenzione al mondo circostante onde evitare interferenze con il suo inesauribile intrecciarsi di rapporti. Un’attenzione che esige la massima lucidità mentale, senza regole fisse e categorie immodificabili, stabilite secondo canoni esclusivamente umani, che ostacolino il fluire spontaneo degli eventi spontanei. Accettazione del “cosi come” della quiddità, diviene dunque una forma di attività che richiede di essere ricettivi e attenti in ogni situazione. “Accettare adattandosi allo stato delle cose”, quindi formulare opinioni relative a seconda delle mutevoli condizioni. Basare le proprie azioni sulle situazioni che cambiano, senza ricorrere a dei fissi principi. L’esperienza intuitiva è caratterizzata sia dalla spontaneità che dalla simultaneità, è la reazione “semplice” al mondo che ci circonda, allo stato delle cose in ogni loro manifestazione. La sua “massima attenzione in ogni circostanza” offre una risposta silenziosa a ogni condizione, pur non rimanendo legata a nessuna di esse.

NOTA 1

Giorgio De Chirico, Memorie della mia vita, Milano, Bompiani 2008.

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RICCARDO MAINARDI DOVE ABITA IL BELLO?

Il bello abita tra le pagine di un libro, nell’armonia di un’opera d’arte o fra le strofe di una poesia.

Platone affermava che la bellezza è armonia, modello estetico tratto dai Pitagorici e fondato su un giusto mix di limite e illimitato. L’artista è colui che trascende il ristretto limite della sua opera (il capitolo di un libro, la cornice di un quadro, uno spartito musicale) e mostra l’illimitato. È colui che attraverso il visibile riesce a mostrare l’invisibile. Galimberti sintetizza magistralmente questo concetto affermando che l’opera d’arte è “una metafora universale dell’umano”. Ma il bello alberga anche fra le pieghe di una vecchia fotografia o di una lettera ingiallita che, attraverso il ricordo, ci mostra l’invisibile e dà vita a ciò che credevamo aver perduto e che, invece, ci apparterrà per sempre.

Il bello sta nella meraviglia per la vita Non scorderò mai le parole di mio nonno, che era un contadino. Mi raccontava che sin dalla fanciullezza era rimasto avvinto dalla magia della terra e dai suoi impenetrabili misteri. Cresciuto nell’allegria quieta e povera della natura agreste, la sua era stata un’infanzia senza divertimenti, fatta soprattutto di sacrifici e povertà, ma ricca di odori, di nidi d’ape e di miele, di mani incallite, di ataviche rughe e di zuppe frugali consumate al lume delle candele. Ma ciò che più mi colpì dei suoi racconti fu quando, in tarda età, 9


ancora estasiato, descriveva la stagione dei raccolti che premiava con lo stupore ancor prima che con i suoi frutti le aspettative di quel nonno-bambino ogni volta meravigliato dal miracolo della pioggia, l’anima che feconda di vita ogni coltura. O di quando, in primavera, osservava il risveglio della natura da un grembo primordiale di cui la terra è madre. Quel che avveniva lontano dai confini del suo casolare lo apprendeva molto più tardi, quando si recava in città con suo padre. Come se il mondo esterno non bussasse mai alla porta di quella cascina dentro cui il tempo pareva essersi fermato. Credo che non esista cosa più bella della meraviglia per la vita.

Il bello abita nel sonno che lo espone senza difese e inganni La bellezza necessita del sacrificio della razionalità e nel sonno la ragione dorme. Il sonno è il teatro dell’irrazionalità e della follia: siamo al contempo spettatori e attori, adulti e bambini, senza più spazio né tempo. Sì, perché il sonno purifica la bellezza dal sensibile e ne fa perdere i confini dilatandola a dismisura sino a renderla immortale.

Il bello non va cercato lontano. Talvolta ci abita accanto, ma non ce ne accorgiamo. C’è chi per trovarlo fa viaggi lunghissimi con il miraggio di paesi chimerici per poi scoprire che la meta era dentro la propria casa! Il bello sta nel non desiderare un altrove, bensì nell’essere capaci di vivere proprio in quel luogo, in quel tempo, accanto a quella persona. E nel non lasciar scorrere i minuti senza prima averne assaporato tutta l’essenza.

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Il bello risiede nella profondità del mare e nei suoi tesori nascosti. Sin da bambino ho sempre amato il mare e tutt’oggi mi immergo spesso nelle acque del Tigullio che considero lo specchio della mia anima. Amo la sua profondità, i suoi tesori, i suoi misteri. Dostoevskij superò le tre dimensioni euclidee (larghezza, lunghezza, altezza) introducendo una quarta dimensione propria dello spirito, la profondità. Concetto dirompente che infrange la razionalità e la ragione. Il mare mi ha sempre ricondotto a questa dimensione metafisica che interrompe lo scorrere del tempo. E ho percepito la sua profondità come simbolo dell’illimitato. Ogniqualvolta ho nuotato in mare aperto mi è parso di rinascere. La sua carezza trascende i confini corporei e fa abbandonare la coscienza oltre i limiti dell’Io. Se il mare è metafisico, profondo, illimitato, ed esprime libertà, irrazionalità, follia, in esso abita il bello. Il bello sta nel trarre dai limiti della conoscenza il senso del rispetto per ciò che ci circonda. Ho appena affermato che amo il mare, però non so comprenderlo. Così come non saprei comprendere un fiume, un albero o un animale. Fanno tutti parte dell’universo e solo da una conoscenza universale potrebbero essere compresi. Ma Kant mi ha insegnato che gli infiniti limiti della conoscenza possono trasformarsi in opportunità. Quali opportunità? Se non posso comprendere il mare, un fiume, un albero, un animale, colui che mi sta accanto e che professa un altro credo o un’altra filosofia, posso comunque rispettarli. E se, a maggior ragione, non posso sapere con certezza se ci sarà un’altra vita oltre la morte, posso rendere accettabile questa vita vivendo nel rispetto degli altri. 11


Il bello abita nella follia. È trasgressivo, richiede violazioni, sacrificio della ragione, e la follia è il suo humus. Jaspers giunge addirittura ad affermare che, così come la perla è la malattia della conchiglia, un’opera d’arte esige il sacrificio mentale dell’artista. Similmente Galimberti afferma che la bellezza appartiene allo scenario della follia che ci abita. L’artista ci mostra l’immagine insospettata delle cose. Come ho affermato poc’anzi ci mostra l’invisibile. Persino la bellezza dell’amore che, come affermava Platone, fra tutte le follie è la più eccelsa, richiede rottura delle barriere, rivoluzione e, soprattutto, delirio: per amore si impazzisce, si perde la testa. Freud identifica l’amore con il delirio. Forse il più piacevole delirio in cui il tempo si dilata, non se ne percepisce più lo scorrere perché ci si sente immortali.

Il bello alberga nel cuore di quel bimbo che sarà il promotore di un nuovo corso. Perché un bambino è gioco. O, come diceva Nietzsche è “una girandola che gira”. È un primo moto verso il mondo e un santo dire sì a tutto ciò che si apre al nuovo. Ogni bambino è una metafora di speranza, una scommessa in un mondo assai diverso da quello che conosciamo. È la possibilità di riscatto sempre latente nella condizione umana. È l’auspicio di un nuovo corso e di una nuova genesi.

Il bello sta nell’osservare il mondo con gli occhi dell’anima. L’anima sostituisce la voce stridente dell’irragionevole ragione con i suoi silenzi. L’anima sa compiere il “colpo di stato” delle nostre coscienze. 12


Sa generare in noi quella forza creatrice capace di nuove plasmazioni. Sa accantonare violenza, egoismo, sete di potere, ristabilendo quelle relazioni ancestrali esistite all’alba della creazione. Chi osserva il mondo con gli occhi dell’anima segue quelle leggi mai scritte neppure sulle antiche tavole di pietra, perché promanano dal cuore. Quelle leggi che ricompongono l’ordine universale verso quell’unico fine da cui tutto ha avuto inizio e verso cui tutto si muove.

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GIANCARLO PILLITU IL DOPPIO MOVIMENTO DELLA VITA MORALE E LA TEMPORALIZZAZIONE DELLA VITA INTERIORE

La presente riflessione prende le mosse da due interrogativi: Esiste una vita morale? Perché è importante rispondere a tale domanda? I presupposti metodologici della ricerca di una risposta al primo quesito sono i seguenti: se sono possibili delle descrizioni della vita morale, tali descrizioni costituiscono delle prove della sua esistenza; è possibile rintracciare descrizioni significative della vita morale in alcuni scritti letterari e filosofici. Le descrizioni che si intende analizzare in questa sede sono opera di due autori apparentemente lontani, perché distanti nel tempo e nello spazio: il romanziere Herman Melville (New York, 18191891) e il filosofo Emmanuel Lévinas (Kaunas, 1905/6-Parigi, 1995). Nel brano di Melville, appartenente al celebre incipit del suo capolavoro narrativo, Moby Dick (1851), viene descritto un singolare percorso morale: Ogni qualvolta m’accorgo che mi si va formando intorno alla bocca una piega arcigna; quando sulla mia anima scende un umido, piovigginoso novembre; quando mi sorprendo a sostare involontariamente davanti ai negozi di casse da morto e a seguire ogni funerale che incontro; e specialmente quando l’ipocondria prende il sopravvento su di me a un punto tale da far sì che debba ricorrere a un forte principio morale per impedirmi di scendere deliberata15


mente in strada a far saltar via il cappello dalla testa della gente… allora giudico che sia giunto il momento di andar per mare il più presto possibile. È il mio surrogato della pistola e della pallottola1.

Nei brani di Lévinas, tratti da un brevissimo scritto dal titolo Senza Nome, che chiude una raccolta di testi antiteticamente intitolata Nomi propri (1976)2, vengono enunciate tre verità emerse nei campi di concentramento3. La prima verità: «Per vivere in maniera umana, gli uomini hanno bisogno di molto, ma molto meno, rispetto a ciò che offrono le magnifiche civiltà in cui vivono […]. Si può fare a meno di pasti e di riposo, di sorrisi e di effetti personali, di decenza e del diritto di girare la chiave della propria camera, di quadri e di amici, di paesaggi e di congedi per malattia, d’introspezione e di confessioni quotidiane»4. Ciò di cui gli uomini hanno bisogno per “vivere una vita umana” è lo “spazio-ricettacolo” della coscienza, ovvero la “vita interiore” che resta dopo una lunga storia, come quella vissuta dal popolo ebraico, che è proceduta per sottrazione: dal deserto al ghetto, sino al campo di concentramento e infine alla Shoah. La seconda verità: «tutta la dignità umana consiste nel credere al loro ritorno [dei “valori di pace”]. Il supremo dovere, quando ‘tutto è permesso’, consiste nel sentirsi già responsabili nei confronti di quei valori di pace»5. La terza verità, ovvero il dovere di testimoniare la “Resistenza”, che costituisce l’essenza della vita interiore che sopravvive nella coscienza: «insegnare alle generazioni nuove la forza necessaria per essere forti nell’isolamento e tutto ciò che una fragile coscienza è in quel caso chiamata a contenere […], che significa insegnare a “comportarsi in pieno caos come se il mondo non si fosse disintegrato»6.

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È possibile individuare tre elementi che caratterizzano le due descrizioni citate: una TOPICA; una DINAMICA; una TELEOLOGIA. La topica, sul modello delle due topiche freudiane, si riferisce agli spazi in cui si esprime la vita morale, che sono fondamentalmente due: la coscienza (lo “spazio-ricettacolo” di cui parla Lévinas) e il mondo (lo spazio esterno e aperto, che in Melville è simboleggiato dal mare). La dinamica è quella del nomadismo, caratterizzata dal doppio movimento della resistenza, descritta da Lévinas nella sua testimonianza-riflessione sui campi di concentramento, e del viaggio, raccontato da Melville nel suo romanzo d’avventura. Infine, la teleologia, che spiega i primi due elementi, s’incentra nella salvezza. L’oggetto della salvezza è dato dal senso della vita umana, ossia dalla dignità umana, compromessa dall’ “ipocondria”, nel caso di Melville, o dalla disintegrazione del mondo, nel caso di Lévinas. In Melville, la vita morale si salva, evita l’autodistruzione, attraverso l’esteriorizzazione, che si attua nel viaggio per mare, che dallo spazio-ricettacolo della coscienza conduce allo spazio aperto del mondo. In Lévinas, invece, la vita morale si salva attraverso il movimento contrario, ossia il rifugio e la resistenza nello spazio angusto, ma sufficiente a contenere una vita umana, della coscienza. Ma in che cosa consiste la dignità umana? La risposta è esplicita nel filosofo Lévinas, implicita nel romanziere Melville. La dignità umana consiste nella “responsabilità per altri”7, ovvero nella responsabilità per l’altro uomo, e nei confronti dei “valori di pace” che possono trovarsi in pericolo nel mondo (Lévinas) o nella coscienza (Melville). 17


Si è giunti, quindi, alla seconda domanda: perché è importante l’esistenza della vita morale? La risposta è semplice: dall’esistenza della vita morale discende l’autonomia e l’incondizionatezza della vita interiore (Kant), nonché il primato dell’etica8, non solo sulla metafisica intesa come ontologia (Lévinas), ma anche sulla politica scissa dalla morale. L’autonomia e il primato della vita morale sono condizioni fondamentali per affrontare le emergenze del nostro tempo, come la gestione dei flussi migratori (compito politico) e l’accoglienza dei migranti (compito etico). Ci si deve, infatti, chiedere se la costruzione di muri o la chiusura dei porti siano misure eticamente fondate, soprattutto se si considera il fatto che la vita morale può essere descritta e interpretata come nomadismo, ovvero migrazione. Ripartire dalla vita interiore, nonostante si abbia «quasi vergogna a pronunciare, davanti a tanti realismi e oggettivismi, quest’espressione insignificante»9, una volta attestate la sua autosufficienza e la sua resistenza (come testimonia Lévinas), significa recuperare il privilegio tutto umano della libertà, tanto celebrato dagli intellettuali dell’Umanesimo e del Rinascimento, e in modo particolare da Giovanni Pico della Mirandola nella sua celebre orazione De hominis dignitate (1486): Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose in18


feriori; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine10.

A questo punto dell’analisi, si potrebbe pensare che la vita morale coincida con la vita interiore. Ma le cose stanno diversamente. Infatti, come si è cercato di dimostrare, la vita morale deriva dalla spazializzazione della vita interiore, e si caratterizza per il nomadismo tra le due polarità (spazialità) della coscienza e del mondo. Tale nomadismo è finalizzato alla salvezza, ovvero alla protezione dell’integrità della dignità umana (responsabilità-per-altri = valori di pace). Al contrario, la vita interiore è soggetta alla temporalizzazione, incentrata com’è sullo scorrimento lungo l’asse passato-presentefuturo in vista della ricerca del senso della soggettività. Una descrizione del fenomeno della vita interiore così intesa la si può ritrovare nell’opera dello scrittore francese Patrick Modiano (Boulogne - Billancourt, 1945), vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 2014. In particolare, può essere utile analizzare in questa sede il breve romanzo intitolato L’erba delle notti11, nel quale la scrittura diventa una vera e propria macchina del tempo che ha lo scopo di ritrovare - in un passato confusamente rammemorato, perché a suo tempo confusamente vissuto - luoghi, persone e, soprattutto, se stessi, nonostante il lavoro di cancellazione operato dal tempo: «Era davvero possibile che un mio doppio abbandonato lì continuasse a ripetere ogni mio gesto passato, continuasse a seguire i miei vecchi itinerari, per l’eternità? No, non restava più nulla di noi qui in giro. Il tempo aveva fatto tabula rasa»12. La reminiscenza diventa la chiave per acquisire una consapevolezza a posteriori: «Oggi ho l’impressione che stessi vivendo un’altra vita dentro la mia vita quotidiana. O più precisamente, che l’altra vita fosse collegata a quella piuttosto scialba di tutti i giorni e le conferisse una luminescenza e un mistero che in realtà non aveva»13. 19


La vita interiore, a differenza della vita morale che è regolata da principi atemporali, è soggetta all’irreversibilità del tempo: « in quel periodo ero sensibile come oggi alle persone e alle cose che sono sul punto di sparire»14. Tuttavia la ricerca del senso della soggettività non ricorre soltanto alle risorse della reminiscenza, che segue l’asse temporale presente-passato, ma evidenzia anche un’esigenza ermeneutica, che segna l’asse temporale passato-futuro e ricorre alla registrazione dei fatti, in un passato rievocato nel presente, in vista di una futura interpretazione: «Sì, era come se avessi voluto lasciare, nero su bianco, indizi che in un futuro lontano mi avrebbero permesso di chiarire ciò che avevo vissuto sul momento senza capirlo del tutto. Segnali morse trasmessi alla cieca, nel caos più completo. E sarebbe stato necessario aspettare anni e anni prima di riuscire a decifrarli»15. Nella vita interiore, che sembra pulsare veramente solo nel passato rievocato, anche lo spazio viene temporalizzato e ha come contraltare la mono-spazializzazione (priva di movimento) del presente, che si rivela statico, atemporale e totalmente asservito alla rievocazione del passato: «Ieri sera ho seguito con l’indice, sulla carta, il tragitto da Parigi a Feuilleuse. Risalivo il corso del tempo. Il presente non aveva più alcuna importanza, con i suoi giorni tutti identici nella luce tetra, una luce che dev’essere quella della vecchiaia e in cui hai l’impressione di sopravvivere a te stesso»16. La vita interiore che non si converte in vita morale o non si temporalizza lungo l’asse passato-presente-futuro, corre uno dei due seguenti rischi: o l’implosione nella coscienza o l’esplosione nel mondo. Il primo caso viene descritto da Melville nel memorabile racconto Bartleby (1853)17, l’enigmatico scrivano imprigionato (o forse finalmente libero) nella sua unica, immobile e immutabile certezza, che ricorda la verità dell’essere parmenideo: «Avrei preferenza di no». 20


La voce narrante ricostruisce la causa di una morte interiore che precede la morte fisica del povero copista: «Pensate ad un uomo che, per natura e per sventura, sia propenso al pallido pensiero dell’irreparabile; potrebbe un’altra occupazione esser più adatta ad acuire quel pensiero, più del maneggiare queste lettere smarrite, e accatastarle per darle alle fiamme? Giacché, ogni anno, cataste se ne bruciano, di simili lettere. Dalle pieghe d’un foglio a volte il pallido impiegato estrae un anello, e il dito cui era destinato forse già imputridisce nella tomba; estrae una banconota inviata con la più sollecita carità, e chi avrebbe dovuto soccorrere più non mangia né soffre; un perdono per chi morì disperando; una speranza per chi morì senza speme; buone nuove per chi fu annientato da perpetue sventure. Inviate per le occorrenze della vita, queste lettere urgono alla morte»18. Il secondo caso lo racconta Modiano a proposito di una ragazza messa all’angolo della vita dalle circostanze e deprivata della prospettiva temporale del cambiamento (tempo lineare e dinamico), condannata com’è alla ripetizione (tempo ciclico e statico): «Ho caricato la pistola. In ogni caso, sarebbero stati sempre gli stessi gesti. Le stesse stagioni. Gli stessi laghi. Le stesse corriere la domenica sera. Lunedì. Martedì. Venerdì. Gennaio. Febbraio. Marzo. Maggio. Settembre. Gli stessi giorni. Le stesse persone. Alle stesse ore. Sempre cinque dita, come diceva mio padre»19. Vale la pena rinunciare ad una vita sempre uguale a se stessa, e dunque già finita, pur di evitare una gratuita violenza, commessa per puro divertimento e noia da parte di chi si illude di poter in tal modo rimettere in moto una vita ormai spenta.

Postilla metodologica Qual è il grado di realtà delle figure (vita morale, coscienza, mondo, nomadismo, resistenza, viaggio, salvezza; vita interiore, 21


temporalizzazione, ricerca, senso della soggettività) emerse dall’analisi delle descrizioni della vita morale (Melville e Lévinas) e della vita interiore (Melville e Modiano)? La “disputa sugli universali” è in un certo senso sempre attuale. Occorre pensare ad un terzo livello della vita interiore (dopo la vita interiore nel suo significato generale e la vita morale), che si potrebbe denominare vita ontologica. La vita ontologica si costituisce attorno all’esigenza di individuare degli oggetti ideali nel flusso della vita interiore. Si tratta di figure come quelle scaturite dall’analisi condotta nella presente ricerca, ossia di “ipostasi concettuali” che possono favorire l’interpretazione del divenire interiore. Il grado di realtà di tali oggetti interiori (figure o ipostasi concettuali) corrisponde alla capacità di orientamento che gli stessi dimostrano di possedere (funzione gnoseologica). Tuttavia, è bene precisare che tali concetti non costituiscono delle realtà a priori, ma delle realtà a posteriori che scaturiscono dall’analisi delle descrizioni dei fenomeni della vita interiore. In conclusione, qual è il fine dell’analisi proposta? La risposta è la seguente: tentare di comprendere qualcosa sulla natura del senso. Appare evidente che il senso si presenta come una costruzione umana (le figure emerse dall’analisi, per esempio). Occorre, tuttavia, capire se ciò che può denominarsi senso sia un costrutto libero e soggettivo o il riflesso di processi necessari e oggettivi. Forse, si tratta di entrambe le cose. Infatti, il senso sembra articolarsi in due momenti: a) la Necessità di dare una forma e un significato ai vissuti interiori; b) la Libertà di costruire dei concetti personali, suscettibili tutavia di impiego (applicazione) intersoggettivo, mediante i quali poter pensare i fenomeni descritti, pur con tutta la provvisorietà che caratterizza la traduzione mentale dell’esistente. La riflessione sulla vita morale, che dà forma a figure concettuali 22


che svolgono una funzione di orientamento, è una modalità di resistenza al flusso incessante della vita interiore, enormemente suggestiva ed emozionante, ma anche estremamente pericolosa, perché rischia costantemente di trascinarci nell’indistinzione e quindi tendenzialmente nel nulla. Ancora una volta, si tratterebbe di compiere una mossa parmenidea, che privilegi l’essere al non-essere, alla ricerca della salvezza.

NOTE 1 HERMAN MELVILLE, Moby Dick ovvero la Balena, Roma, Newton Compton, 1995, p. 34. 2 EMMANUEL LÉVINAS, Nomi propri, Casale Monferrato, Marietti, 1984, pp. 155-159 3 È il caso di ricordare che Lévinas conobbe il campo di prigionia per ebrei ad Hannover (Germania) dal 1940 al 1945. 4 Cfr. Ibidem, p. 156. 5 Cfr. Ibidem, p. 157. 6 Ibidem. 7 «La responsabilità per altri non può aver avuto origine nel mio impegno, nella mia decisione. […] La responsabilità per altri è il luogo in cui si pone il non-luogo della soggettività e dove si perde il privilegio della questione: dove?» (EMMANUEL LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974), Milano, Jaka Book, 1983, pp. 14-15. Da tale descrizione della “responsabilità per altri” emergono due aspetti che la definiscono: a) il suo carattere originario e pre-intenzionale, in quanto la “responsabilità per altri” precede la nascita di ogni “coscienza di qualche cosa”; b) il fatto che l’essenza della soggettività si configuri come un “non-luogo” che ha tuttavia bisogno di uno spazio, la coscienza o il mondo, per potersi esprimere, ovvero per poter vivere (o, in casi estremi, sopravvivere) e dispiegarsi, operare. 8 EMMANUEL LÉVINAS – ADRIAAN PEPERZAK, L’etica come filosofia prima, Milano, Guerini e Associati, 1990. 9 EMMANUEL LÉVINAS, Nomi propri, Casale Monferrato, Marietti, 1984, p. 157. 10 Citato in NICOLA ABBAGNANO, Storia della filosofia, II, Filosofia del Rinascimento. Filosofia moderna dei secoli XVII e XVIII, Torino, UTET, 1979, p.72. 11 PATRICK MODIANO, L’erba delle notti , Torino, Einaudi, 2014. 12 Cfr. Ibidem, p. 4. 13 Cfr. Ibidem, p. 14. 14 Cfr. Ibidem, pp. 65-66. 23


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Cfr. Ibidem, p. 29. Cfr. Ibidem p. 32. 17 HERMAN MELVILLE, Bartleby lo scrivano, Milano, Feltrinelli, 1991. 18 Cfr. Ibidem, pp. 47-48. 19 PATRICK MODIANO, Sconosciute , Torino, Einaudi, 2000, pp. 82-83. 16

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ANDREA GENTILE IL NAUFRAGIO E LE «SITUAZIONI-LIMITE». L’ASCOLTO DEL SILENZIO NELLA «TERRA DI NESSUNO»

Non vi è praticamente nessuno che in un modo o nell’altro non sia costretto a rendersi conto di essere seguito da un’ombra oscura. È il destino dell’uomo. [… ] L’ombra è un problema morale che mette alla prova l’intera personalità dell’io. […] Se gli uomini vengono educati ad ascoltare il lato in ombra della loro natura più autentica, è sperabile che possano comprendere meglio anche i loro simili e cominciare ad amarli. [… ]. Mettere una persona davanti alla propria ombra equivale a mostrarle anche ciò che in essa è luce. Carl Gustav Jung Quasi tutti gli uomini vivono, fisicamente, intellettualmente o moralmente, entro il cerchio di una parte assai ristretta del loro essere potenziale. Situazioni-limite e crisi ci dimostrano che possediamo risorse vitali e potenzialità creative assai superiori a quanto in realtà supponiamo e crediamo. William James Un pilota di un auto da corsa non sa esprimere in dettaglio tutto ciò che conosce a livello teorico; può solo dimostrarlo guidando l’auto in alcune situazioni estreme o in alcune situazioni-limite. Lo stesso vale per la nostra vita e la nostra conoscenza. Paul K. Feyerabend

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Situazioni come quella di dover essere sempre in una situazione, di non poter vivere senza lotta e dolore, di dover assumere inevitabilmente la propria colpa, di dover morire: queste situazioni sono situazioni-limite. Karl Jaspers

1. Creatività ed empatia: ascoltare la «forma» nel silenzio Secondo Wassily Kandinsky, «la forma, in ogni sua specie, naturale ed artificiale, è la manifestazione significante di una realtà, è tensione di forze, e solo in rapporto al suo sottofondo invisibile può essere compresa»1. Abbandonando irrimediabilmente il recinto dell’estetica, si entra in un orizzonte diverso, dove ogni forma diventa un essere vivente. Con la sua inquietante sensibilità “eidetica”, Kandinsky rintraccia e traduce continuamente l’uno nell’altro, segni sonori, grafici, cromatici e ci insegna ad “ascoltare” la “for ma” nel silenzio interiore. Il suo insegnamento, ci mette in un nuovo rapporto con la realtà, ci apre una possibilità di «esplorazione creativa» che – come scrive Kandinsky – «è la possibilità di entrare empaticamente», diventare attivi in essa e vivere il suo “pulsare” con tutta la nostra capacità intuitiva e creativa. In questo orizzonte, secondo Kandinsky, assume un significato particolarmente significativo analizzare il concetto di “punto”, “linea” e “superficie”. «Il punto geometrico è un’entità invisibile. Deve quindi essere definito come un’entità immateriale. Pensato materialmente, il punto equivale a uno zero. Ma in questo zero si nascondono diverse proprietà che sono umane. Noi ci rappresentiamo questo zero (il punto geometrico) come associato con la massima concisione, cioè con un estremo riserbo, che però ha un suo significato. In questo modo, nella nostra rappresentazione, il punto geometrico è assolutamente l’unico legame tra silenzio e parola. Il punto geometrico ha trovato la sua forma materiale, in primo 26


luogo, nella scrittura: esso appartiene al linguaggio e significa silenzio»2. Se il punto geometrico è il più autentico legame tra il silenzio e la parola3, «la linea è la massima antitesi dell’elemento originario : il punto»4. La linea geometrica è «un’entità invisibile: è la traccia del punto in movimento, dunque un suo prodotto. Nasce dal movimento, e precisamente dalla distruzione del punto, della sua quiete estrema, in sé racchiusa. Qui si compie il salto dallo statico al dinamico. Le forze esterne, che trasformano il punto in linea, possono essere molto diverse. La diversità delle linee dipende dal numero di queste forze e dalla loro combinazione. In definitiva, tutte le forme lineari possono essere di due casi: a) azione alternata delle due forze, una o più volte; b) azione simultanea delle due forze. Se una forza esterna muove il punto in una qualsiasi direzione, abbiamo il primo tipo di linea, in cui la direzione presa rimane invariata e la linea ha l’inclinazione a correre dritta all’infinito. Questa è la retta che, nella sua tensione, rappresenta la forma più concisa dell’infinita possibilità di movimento»5. Secondo Kandinsky, al concetto di “movimento”, inteso nel suo significato corrente, è necessario sostituire il concetto di “tensione”. «Il concetto corrente di movimento non è preciso e porta perciò su vie sbagliate, che conducono, a loro volta, ad ulteriori equivoci terminologici. La tensione è la forza viva connaturata nella realtà, che esprime solo una parte del movimento creatore. La seconda parte è la direzione, che viene anch’essa determinata dal movimento. Gli elementi della realtà sono risultati reali del movimen to, e precisamente nella forma della tensione e della direzione. Questa separazione crea inoltre una base per la distin zione delle diverse specie di elementi, come, per esempio il punto e la linea. Il punto porta in sé solo una tensione e non può avere nessuna direzione; la linea necessariamente partecipa sia della tensione, sia della direzione»6. 27


2. L’istante nell’intuizione creativa tra limiti, genialità e follia Sullo sfondo della correlazione tra creatività ed empatia, nel volume Genio e follia, Lombroso ha osservato che le caratteristiche degli uomini di genio vanno ricercate nella loro anormalità psichica; quest’opera è stata considerata un classico della scienza positivistica ed ha avuto grande fortuna. L’autore ha cercato di dimostrare una relazione tra genio, creatività e follia, paragonando diversi poeti, artisti, scrittori, tra i quali Cellini, Tasso, Goethe e Rousseau, solo per citarne alcuni, che erano accomunati dall’aver avuto attacchi di pazzia, concludendo che la genialità era espressione di una psicosi “degenerativa”. Karl Jaspers, che ha esaminato la stessa relazione su altri soggetti, ha osservato che «lo spirito creativo dell’artista, pur condizionato dall’evolversi di una malattia, è al di là dell’opposizione tra normale e anormale, può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dal difetto della conchiglia: come si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale di un’opera, non pensiamo alla schizofrenia, che forse era la condizione della sua nascita»7. Carl Gustav Jung, rifutando l’accostamento freudiano «creatività-nevrosi», ha osservato che «per dare all’opera ciò che le è dovuto, è necessario che la psicologia analitica escluda completamente ogni pregiudizio di carattere medico, perché l’opera d’arte non è una malattia e quindi richiede un orientamento del tutto diverso da quello medico. La vera opera d’arte trae il suo significato particolare dal fatto che è riuscita a liberarsi dai confini della ragione, e da tutto ciò che ostacola la libera espressione dell’essere se stessi, lasciando lontano da sé ogni elemento caduco della pura personalità»8. Secondo Jung, allora, è «creativo colui che nel prodotto riesce a emanciparsi dalla propria individualità, per divenire interprete di motivi universali dell’umanità che in lui inconsciamente si attivano»9. Jerome Seymour Bruner interpreta la creatività come «qualsiasi atto soggettivo che produca una sorpresa produttiva, cioè una mo28


dificazione concreta e inaspettata delle diverse attività in cui l’uomo si trova coinvolto. Tutte le forme di sorpresa produttiva hanno la loro origine in una particolare forma di attività combinatoria, in un disporre i dati in prospettive nuove e originali. Qualsiasi atto creativo si avvale pertanto del procedimento euristico che ha come momento essenziale l’atto della scoperta: un’operazione di riordinamento e di trasformazione di fatti evidenti, che permette di procedere al di là di quei fatti verso una nuova intuizione creativa»10.

3. L’«ombra» e le potenzialità creative connaturate nella soggettività Nel corso della nostra vita, spesso non riusciamo a prendere coscienza delle nostre potenzialità, perché non conosciamo noi stessi, ci allontaniamo dall’essere se stessi, dalla vita autentica, per mancanza di motivazione, che non permette al nostro io di esprimere adeguatamente le potenzialità creative connaturate nella propria soggettività. Esistono certamente ragioni individuali, familiari, culturali, sociali, ambientali e molteplici ragioni di contesto che determinano lo stato di “demotivazione”, ma in particolare ci sono alla base profonde ragioni psicologiche che innescano dinamiche oscure che spingono la persona verso una direzione piuttosto che un’altra. A tal proposito, Carl Gustav Jung ha formulato una teoria nella quale sostiene che ognuno porta dentro di sé un’ombra che tende ad oscurare le proprie potenzialità creative. La nozione di “ombra” è evocata per definire il lato oscuro, l’inconscio, il potenziale, compresi i talenti non sviluppati della propria personalità. Quando Jung parla di ombra si riferisce ai seguenti significati: - Ombra come parte della personalità; - Ombra come archetipo; - Ombra come immagine archetipica. Nel primo caso si intende per “ombra” il lato non accettato della 29


personalità, quello che comunemente viene definito il lato oscuro di un individuo: la somma delle tendenze, le caratteristiche, gli atteggiamenti, i desideri inaccettabili da parte dell’Io, nonché le funzioni non sviluppate o scarsamente differenziate dei contenuti dell’inconscio personale. È giusto ricordare che Jung non mette in discussione il concetto freudiano di inconscio come prodotto del “rimosso”, almeno come esso è definito nella cosiddetta prima “topica” freudiana: inconscio, preconscio, coscienza, riconoscendo che la nozione di “rimosso” è correlata sia al concetto di “rimozione primaria”, cioè che tiene un contenuto perennemente sotto la “soglia della coscienza”, sia a quello di rimozione secondaria: ciò che respinge dalla coscienza un contenuto negativo e inaccettabile. Jung parte, invece, da una concezione più vasta e policentrica dell’inconscio personale, inteso come sede di innumerevoli concrezioni a tonalità affettiva o complessi, dei quali uno avrà, nell’evoluzione dell’individuo, un destino particolare: il complesso dell’Io. La coscienza è il risultato del graduale riferimento di contenuti psichici all’Io. La nozione junghiana dell’ombra deve essere, quindi, inquadrata nel generale schema di riferimento delle ipotesi fondamentali sulla natura della psiche, tenendo conto che Jung evita di proposito ogni descrizione topografica dell’apparato psichico, così che alla nozione di ombra non possiamo dare nessuna collocazione precisa nella struttura della psiche; al contrario, essa descrive un rapporto funzionale, e perciò costantemente variabile tra i contenuti della psiche. Considerando, allora, il primo significato di ombra si può riportare una definizione che Jung propone nel suo scritto Psicologia dell’inconscio: «Con ombra intendo la parte “negativa” della personalità, la somma cioè delle qualità svantaggiose che sono tenute possibilmente nascoste e anche la somma delle funzioni difettosamente sviluppate e dei contenuti dell’inconscio personale» 11. Da questo punto di vista, si possono distinguere nell’ombra, intesa come lato oscuro della personalità, due aspetti: l’ombra conscia 30


e l’ombra inconscia. È chiaro tuttavia che questa distinzione ha un valore prettamente funzionale, che varia continuamente nello sviluppo della personalità, per cui si può dire che i contenuti dell’ombra inconscia sono i prodotti della rimozione, mentre i contenuti dell’ombra conscia sono occasionalmente soggetti a repressione. Ma le cose non sono così semplici poiché l’ombra non si identifica con il rimosso, anche se quest’ultimo può considerarsi un aspetto cospicuo. Per definire in maniera descrittiva l’ombra, Jung, con il suo atteggiamento empiristico, che lo tiene legato al dato osservabile e lo costringe a rifiutare qualsiasi ipotesi teorica a priori, non parte dal concetto di rimozione, ma dall’empiria quotidiana dell’inevitabile connotazione negativa di una gran parte dei contenuti psichici. Il contenuto stesso della psiche umana rimanda immediatamente ad una polarizzazione tra positivo e negativo, tra accettato e rifiutato, tra potenziale e reale. Pertanto, la configurazione dell’ombra nella psiche si offre all’osservazione esterna, come compresenza di aspetti polarmente opposti: l’Io e il non-Io, il conscio e l’inconscio, il positivo e il negativo, il lato luminoso e il lato in “ombra” della personalità. Quindi, il significato di “ombra” come parte della personalità corrisponde a quello che considera l’ombra come parte inferiore della personalità, dunque una parte della totalità della psiche. Secondo il significato di “ombra” come “archetipo”, si definisce l’ombra come un’istanza psichica strettamente correlativa all’incontro-scontro tra inconscio e coscienza: nella sua accezione di archetipo essa non può significare altro che una struttura trascendentale del rapporto tra la coscienza continuamente emergente e la matrice inconscia. Il significato particolare dell’ombra in quanto archetipo sarà allora quello di struttura categoriale del rapporto tra la coscienza e la parte inaccettabile della psiche e, del rapporto tra coscienza e negatività etica. Ma l’ombra è tale solo se rapportata alla “luce”: intanto è negativa in quanto c’è una positività con la quale 31


viene messa a confronto. L’insieme di queste modalità costituisce l’archetipo dell’ombra, il quale viene attivato in ogni momento in cui nell’individuo storico si produce il confronto tra elementi accettabili della psiche e il fondo inaccettabile di pulsioni istintive, aspetti arcaici e indifferenziati, tendenze contrarie al canone culturale storico. Il terzo significato di “ombra” si riferisce al concetto di “ombra” come immagine “archetipica”. Si può considerare l’immagine “archetipica” come il prodotto dell’attività dell’archetipo nella sua incessante elaborazione del contenuto dell’immaginazione: la formazione dell’immagine è l’insieme dei contenuti rimossi dell’inconscio personale e l’insieme dei contenuti repressi, nonché tutto ciò che nel vasto repertorio dell’immaginazione può simboleggiare tali contenuti. Le tre accezioni del termine “ombra” che sono state esaminate permettono di cogliere il problema centrale connesso all’esperienza del “negativo” nella persona, ossia si avverte il “negativo” in sé come una realtà unitaria, anche se nella riflessione è necessario scinderlo nei suoi costituenti: aspetti moralmente riprovevoli, funzioni non sviluppate, elementi infantili, aspetti irrazionali e distruttivi della personalità. In questo orizzonte, un aspetto particolarmente significativo connesso al concetto di ombra è la «proiezione dell’ombra». Vale a dire, le qualità non accettate, le pulsioni ostacolate, tutti gli aspetti non coscientemente vissuti della psiche vengono proiettati con facilità su individui che per loro natura possono costellare tali proiezioni. Ad esempio, le profonde antipatie ingiustificate, le fughe di fronte ad un possibile incontro umano sono quasi sempre il frutto della proiezione dell’ombra. Per chi fa una proiezione dell’ombra il problema consiste nel riconoscere che le qualità inaccettabili attribuite al suo prossimo, in realtà appartengono alla propria personalità. Dal punto di vista invece del soggetto che riceve una proiezione d’ombra, può verificarsi una vera e propria distorsione della perso32


nalità che può produrre un profondo disagio psichico. Si pensi al nascosto ma gravissimo “stato di violenza” che la psichiatria sociale individua nella struttura familiare o in più vasti organismi coma la scuola e l’ambiente sociale, genericamente inteso come la realtà umana più prossima ad un individuo. Si pensi alle difficoltà incontrate da talune personalità più deboli, a stabilire una valida difesa contro la nascosta pressione esercitata da personalità più forti. Nella società ci sono individui particolarmente deboli la cui “persona” si struttura esattamente in conformità dell’ambiente sociale che li circonda: in questi casi l’Io e le altre istanze psichiche subiscono inevitabilmente una distorsione che non può non comportare un arresto del processo di maturazione che oscura la libera e autentica espressione delle potenzialità creative connaturate nella soggettività.

4. Ognuno ha una sua ombra L’ombra indica tutto ciò che non riusciamo ad accettare di noi stessi, tutto ciò che non ci piace o che rifiutiamo di vedere. Mentre tendiamo a caratterizzare il nostro lato “oscuro” con qualche forza imprevedibile che ha il potere di farci fare cose terribili, l’ombra è più accuratamente descritta come il deposito di tutto il materiale personale non “riconosciuto”, compresi i talenti non sviluppati. Possiamo aver accantonato alcune qualità perché all’inizio della nostra vita abbiamo accettato i giudizi negativi che gli altri hanno dato di noi. È anche probabile che abbiamo negato il valore di questi talenti perché ci apparivano poco concreti rispetto alle esigenze pratiche del mondo di tutti i giorni. Queste buone qualità abbandonate vengono chiamate l’“ombra luminosa”. L’ombra si crea perché l’io, nel suo continuo sforzo di controllare il nostro mondo, fa cadere la sua scelta su elementi che non si adattano al quadro che abbiamo costruito per sopravvivere ed essere accettati. 33


«Ognuno di noi è seguito da un’ombra. Meno questa è incorporata nella vita conscia dell’individuo tanto più è nera e densa»12. Così Carl Gustav Jung descrive il lato oscuro della vita cosciente dell’uomo. Questo mondo, che sta sotto e dietro la maschera della persona e dell’agire sociale, Jung lo ha chiamato, con un’espressione che ricorda Dostoevskij, «sotterranei dell’anima». È la notte della coscienza, ma anche fertile limo terrestre, sottosuolo da cui si risorge. Dunque, l’ombra non cela solo il male. È piuttosto qualcosa di primitivo, autentico, originario, infantile e goffo, che renderebbe l’esistenza umana più vivace e bella, se non urtasse contro l’apparenza e le regole imposte dalla società e la consapevolezza dell’io. In quanto tale l’ombra va guardata in faccia, va conosciuta anche nei suoi tratti penosi e conturbanti, dobbiamo accoglierla come la nostra parte notturna e darle voce. Solo così non agirà inconsapevolmente e pericolosamente, come appare nel popolare racconto di Stevenson: lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, in cui il protagonista, rispettabile uomo di scienza, vive la propria dimensione d’ombra come fosse un’altra persona sfuggita al controllo dell’io. Talvolta l’ombra viene proiettata sugli altri, per evitare l’incontro penoso e duro con noi stessi, con il proprio doppio. «Talvolta � afferma Jung � si deve essere indegni, per riuscire a vivere pienamente»13. Dunque, secondo Jung, la nostra psiche nasconde un mondo misterioso, oscuro, complicato e vasto, con cui difficilmente entriamo in contatto. Questa esplorazione dell’inconscio pone inevitabilmente numerosi interrogativi e in questo orizzonte lascia aperte nuove prospettive di ricerca. «I contenuti dell’inconscio personale � osserva Jung � sono acquisizioni della vita individuale; quelli dell’inconscio collettivo sono invece gli archetipi, presenti sempre e a priori. La figura più facilmente accessibile all’esperienza è l’ombra, poiché la sua natura può essere largamente desunta dai contenuti dell’inconscio perso nale. Fanno eccezione alla regola soltanto i casi 34


più rari, in cui ad essere rimosse sono le qualità positive della personalità e l’Io, di conseguenza, ha un ruolo essenzialmente negativo, cioè sfavorevole»14. L’oscurità che avvolge ogni personalità è la porta d’accesso all’inconscio, dalla quale le figure crepuscolari, l’ombra e l’anima, prendono possesso dell’Io cosciente. Un uomo posseduto dalla sua ombra fa male a se stesso e cade nelle insidie che lui stesso si è tese. Secondo Jung, «l’ombra è un problema morale che mette alla prova l’intera personalità dell’Io; nessuno, infatti, può prendere coscienza dell’ombra senza una notevole applicazione di risolutezza morale. Ciò significa riconoscere come realmente presenti gli aspetti oscuri della personalità: atto che costituisce la base indispensabile di qualsiasi forma di conoscenza di sé, e incontra perciò di solito una notevole resistenza. Da un attento studio dei tratti oscuri del carattere o delle qualità inferiori che costituiscono l’ombra, risulta che essi possiedono una natura emotiva, una certa autonomia, e di conseguenza sono di tipo ossessivo, o meglio possessivo»15. L’emozione non è un’attività, ma un accadimento che investe e coinvolge profondamente la nostra soggettività. «L’esperienza dimostra che mentre facendo uso di intuizione e di buona volontà è possibile inserire in qualche modo l’ombra nella personalità cosciente, esistono tratti che oppongono al controllo morale un’ostinata resistenza, dimostrandosi praticamente non influenzabili. Di solito queste resistenze sono collegate con proiezioni non riconosciute come tali e il cui riconoscimento comporta uno sforzo morale superiore alla norma. Mentre i tratti particolari dell’ombra possono essere senza eccessiva fatica riconosciuti come caratteristici della personalità, in caso di proiezione dell’ombra vengono meno tanto l’intuito quanto la volontà, perché la causa dell’emozione sembra, al di là di ogni dubbio, trovarsi nell’altro» 16 . Secondo Jung, una conse guenza delle proiezioni dell’ombra è un “isolamento” del soggetto dal mondo circostante, per cui, in35


vece di un rapporto reale con il mondo, c’è un rapporto illusorio. Le proiezioni prestano al mondo esterno il proprio volto, che è però sconosciuto. Esse portano quindi, in ultima analisi, ad uno stato nel quale si sogna un mondo la cui realtà rimane irraggiungibile. Il sentiment d’incomplétude che ne deriva è motivato dalla «proiezione come malevolenza dell’ambiente»17 e questo circolo vizioso rafforza l’isolamento e la solitudine. Il concetto di ombra «nasce dall’esperienza concreta, vissuta della realtà e può essere ulteriormente chiarito soltanto per mezzo dell’esperienza. La critica filosofica troverà motivo di confutarlo radicalmente, se non si renderà prima conto che si tratta di “fatti”, e che il cosiddetto concetto, in questo caso, non significa altro che una descrizione o definizione sintetica dei fatti stessi»18. Secondo Jung, gli eventi psichici si comportano come una “scala” lungo la quale la coscienza “oscilla”. «Ora la coscienza si trova in prossimità dei processi istintuali e allora cade sotto il loro influsso; ora si accosta all’altra estremità in cui prevale lo spirito e assimila perfino i processi istintuali a lei opposti. Queste posizioni antitetiche, generatrici di illusioni, non sono affatto fenomeni abnormi, bensì formano le unilateralità psichiche tipiche dell’uomo normale di oggi. Queste unilateralità si manifestano ovviamente non solo nell’ambito del contrasto spirito-istinto, ma anche in molte altre forme»19 . Questa coscienza “oscillante” è una caratteristica dell’uomo d’oggi. L’unilateralità che ne consegue può essere eliminata da ciò che Jung definisce con il termine di “realizzazione” dell’ombra. «Tra questi problemi rientra la realizzazione dell’ombra, la percezione della parte inferiore della personalità, che non può essere falsata in un fenomeno intellettua listico perché rappresenta un’esperienza e una sofferenza che coinvolge tutto quanto l’uomo»20. Il linguaggio poetico «ha espresso in modo così calzante e così 36


plastico nel termine di “ombra” la natura di ciò che deve essere compreso e assimilato, che sarebbe quasi presuntuoso voler sopprimere l’uso di questo vocabolo così pregnante. Già l’espressione “parte inferiore della personalità” è inadatta e fuorviante, mentre invece il termine “ombra” non presume niente che lo possa definire quanto al contenuto. L’uomo senz’ombra è il tipo di uomo statisticamente più frequente, che vaneggia d’essere soltanto ciò che preferisce sapere di sé. Purtroppo, né l’uomo cosiddetto religioso, né l’uomo dall’atteggiamento decisamente scientifico fanno eccezione alla regola. Il confronto con l’archetipo o con l’istinto rappresenta un problema etico di prim’ordine, la cui urgenza tuttavia è intuita soltanto da chi si vede posto nella necessità di decidersi a proposito dell’assimilazione dell’inconscio e dell’integrazione della sua personalità»21. L’ombra coincide con l’inconscio personale (corrispondente al concetto freudiano di inconscio). «Come l’anima, anche l’ombra è stata spesso descritta dai poeti. La figura dell’ombra personifica tutto ciò che il soggetto non riconosce e che tuttavia, in maniera diretta o indiretta, instancabilmente lo perseguita: per esempio tratti del carattere poco apprezzabili o altre tendenze incompatibili»22. Chi guarda nello specchio dell’acqua vede per prima cosa la propria immagine. Chi va verso sé stesso rischia l’incontro con sé stesso. Lo specchio non lusinga; mostra fedelmente ciò che in esso si riflette, e cioè il volto che non esponiamo mai al mondo perché lo veliamo per mezzo della nostra soggettività, la maschera dell’attore. «Ma dietro la maschera c’è lo specchio da cui il vero volto traspare. È questa la prima prova di coraggio da affrontare nella via interiore, una prova che basta a far desistere la maggior parte degli uomini. L’incontro con sé stessi è infatti una delle esperienze più sgradevoli alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è negativo sul mondo che ci circonda. Chi è in condizione di vedere la propria ombra e di sopportarne la conoscenza ha già assolto 37


una piccola parte del compito: ha perlomeno fatto affiorare l’inconscio personale» 23 . «Ma l’ombra � osserva Jung � è parte viva della personalità e con questa vuol vivere sotto qualche forma. Non si può confutarne l’esistenza con argomenti, né con argomenti la si può rendere innocua. Si tratta di un problema estremamente difficile che non soltanto mette in causa l’uomo intero, ma gli ricorda al tempo stesso la sua impotenza e incapacità. Le nature forti � o dovremmo piuttosto dire deboli � non amano sentirsi porre questo problema […] e tagliano il nodo gordiano anziché scioglierlo. Ma presto o tardi il conto deve essere saldato, e siamo costretti a confessare a noi stessi che esistono problemi assolutamente insolubili con i nostri mezzi. Una simile am missione, che ha il vantaggio di essere onesta, sincera e reale, permette di porre la base per una reazione compensatoria da parte dell’inconscio collettivo: ecco che adesso ci sentiamo inclini a prestare orecchio a un’idea utile o a percepire pensieri cui prima non permettevamo di formularsi. E magari facciamo attenzione ai sogni che si verificano in quel momento o riflettiamo a certi eventi che si producono in noi proprio allora. Se assumiamo un simile atteggiamento, le forze soccorritrici sopite nei più profondi recessi della natura umana si destano, e intervengono, poiché i limiti e la debolezza dell’uomo sono l’eterno problema dell’umanità»24 Al fine di un buon equilibrio psico-affettivo è importante che la persona possa poter esprimere le proprie potenzialità interiori, che possa portare a compimento il proprio disegno, il proprio progetto di vita. Il primo dovere di ognuno è nei confronti di sé stesso, nei confronti della propria coscienza, del proprio tempo interiore: essere se stessi nel rispetto della vita autentica. Ritenendo che vi sia una tendenza interiore che indirizzi l’uomo su questa direzione, che cos’è allora che spinge l’uomo ad alienarsi da se stesso. Che cos’è quel processo di “individuazione” di cui parla Jung? Molte persone 38


impiegano una vita intera nell’intento di trovare la propria strada e molte altre ancora la evitano, perché? Perché molte persone rimangono costantemente nell’ombra nell’intero arco della loro vita e della loro esistenza? Spesso dietro questo “essere nell’ombra” o questo rimanere “costantemente” nell’ombra si nasconde la paura del farsi carico della propria responsabilità, delle proprie scelte, della propria vita, del proprio tempo interiore. Nell’istante in cui agiamo, ci prodighiamo affinché possiamo esprimere il nostro essere, affinché diventi artefice del nostro destino, diventi il creatore della nostra vita autentica. Ma sappiamo che ogni tesoro non è accessibile facilmente e che per raggiungerlo dobbiamo attraversare strade impervie e dovremo avere il coraggio di intraprendere percorsi nuovi ed ignoti che spesso ci portano a vivere dei fenomenisoglia, ci portano a sperimentare il fascino e il mistero del “punto-limite”, ci portano sulla soglia: la “terra di nessuno”.

5. Le «situazioni-limite» alle soglie dell’originario Il fluire inesorabile del tempo nella nostra vita e nella nostra esistenza ci porta a vivere dei “conflitti interiori”25 e spesso ci porta a sperimentare delle “situazioni-limite” e a fare esperienza del “limite”. Che cos’è una “situazione-limite”26? Il concetto di “situazione-limite” e di esperienza del “limite” possono essere chiariti, enucleati e analizzati a partire da un esempio di situazione-limite tratto dalla nostra vita e dalla nostra esperienza. Tutti noi, nel corso della nostra vita, abbiamo sofferto in alcune occasioni per aver subito un’ingiustizia o per essere stati coinvolti in una serie di fatti, episodi, circostanze che hanno coinvolto ingiustamente e profondamente la nostra soggettività. Ora, questa sofferenza interiore, per una ingiustizia patita, può aver provocato e determinato una profonda trasformazione interiore nella nostra soggettività, portandoci “al limite”, fino a sperimentare a livello interiore una “situazione-limite”. 39


La sofferenza interiore, nel provocare una profonda trasformazione interiore nella nostra soggettività, ci porta fino “al limite”, fino ad un “punto-limite”. Ognuno ha il suo “punto-limite”, poiché ogni persona è un universo irripetibile, profondamente diverso sia a livello emotivo-affettivo-motivazionale, sia a livello cognitivo-razionale e metacognitivo. Nello sperimentare il proprio “punto-limite”, la nostra soggettività è “al limite” ed entra in quella zona di confine, che abbiamo definito la soglia. «Essere sulla soglia» significa transitare in uno stato soggettivo che potremmo definire la «terra di nessuno». È proprio qui, sulla soglia, transitando sulla terra di nessuno, che si giocano dei momenti profondi, inevitabili, autentici e, forse, determinanti e irripetibili per la nostra vita e la nostra esistenza. Nell’essere sulla soglia la nostra soggettività entra nel territorio delle «situazioni-limite» e sperimenta il valore profondo e irripetibile del “punto-limite” che si caratterizza nella sua istantaneità, immediatezza, puntualità e simultaneità: qui l’uomo riesce ad avvertire, sentire, intuire e a riscoprire alcuni valori profondi e alcuni aspetti della realtà che prima erano sconosciuti, che prima erano costantemente nell’ombra. Il paradosso è che solo passando attraverso una situazione-limite, e sperimentando l’autenticità irripetibile del “punto-limite”, l’uomo può ritrovare l’autenticità della vita, solo passando attraverso un punto-limite e una situazione-limite l’uomo può ritrovare se stesso, riscoprire se stesso ed essere se stesso. Nella Psicologia delle Visioni del Mondo, Karl Jaspers definisce “situazioni-limite” quelle situazioni sentite, sperimentate e pensate sempre “al limite” o “ai limiti” della nostra esistenza. Le situazionilimite «hanno questo in comune: che non offrono – sempre nell’ambito del mondo scisso in soggetto e oggetto, del mondo oggettivo concreto – un punto fermo, un elemento assoluto indubitabile, un sostegno che dia fermezza e stabilità ad ogni esperienza e ad ogni pensiero. Tutto scorre, è preso nel moto irrequieto dell’essere posto 40


in forse, tutto è relativo, finito, limitato, scisso in contrari; non è mai il tutto, l’assoluto, l’essenziale»27. Paul Feyerabend definisce le “situazioni-limite” come “situazione estreme” che scandiscono e coinvolgono la nostra vita e la nostra conoscenza nel fluire inesorabile del tempo: «Un pilota di un auto da corsa non sa esprimere in dettaglio tutto ciò che conosce a livello teorico; può solo dimostrarlo guidando l’auto in alcune situazioni estreme o in alcune situazioni-limite. Lo stesso vale per la nostra vita e la nostra conoscenza»28. Jaspers aggiunge che le situazioni-limite, in quanto tali, sono per l’uomo assolutamente “intollerabili”. Si possono concepire e affrontare solo a partire da un punto d’appoggio. Le situazioni-limite sono cioè – in qualche modo – “invalicabili”. Il mondo è quindi principalmente divenire, lo scaturire illogico e senza alcun senso apparente di ogni cosa dal fondo oscuro dell’essere che trascende ogni possibilità di comprensione definitiva. In questo senso, il mondo intero (il mondo dei fenomeni) è un “naufragio”, ovvero non un navigare certo nell’immutabile che da sempre è per la filosofia una consolazione, ma un continuo essere in “balia” delle “onde” della trascendenza, imprevedibili e non determinabili.

6. Il naufragio Il “naufragio” è la figura filosofica che Jaspers usa per definire il senso ultimo dell’esistenza umana: l’esistenza è il divenire che nel fluire del tempo ci porta “al limite” e ci porta a sperimentare delle situazioni-limite: ovvero il naufragio (il tentativo fallito) di concepire qualcosa di immutabile, mentre tutto è mutevole e “diveniente”29. Il tentativo di concepire l’immutabile è certamente quel sentimento di riparo, quel rimedio, che ogni uomo cerca di instaurare per sentirsi salvo dal naufragio ultimo e supremo della morte. Al naufragio non si può sfuggire: anche se l’uomo si libera di quegli 41


stessi apparati intellettuali che gli permettono di concepire il naufragio, ovvero si libera, nell’affermazione della sua libertà, della conoscenza scientifica e filosofico-metafisica, anche in questa condizione, il naufragio si ripresenta al suo culmine, al suo limite estremo, al suo “punto-limite” poiché la negazione di ogni apparato scientifico e filosofico porta necessariamente a concepire la vita come divenire supremo, come mancanza certa di senso e immutabilità. Il naufragio è quindi «naufragio nel tempo, annientamento di tutte le cose e di tutte le certezze, di ogni stabilità e immutabilità»30. Proprio per questo la condizione della vita dell’uomo è “scacco”, ovvero impossibilità di andare “oltre” il suo annientamento. L’uomo non può diventare assolutamente padrone di sé e della realtà, proprio perché vi è quella trascendenza che sfugge a qualsiasi oggettivazione e ad ogni logica dalla quale scaturiscono tutti gli enti, e lo stesso uomo è un ente, non è l’essere (ovvero la trascendenza): l’uomo è un “esserci”. L’esserci è la situazione propria dell’uomo e di ogni cosa di essere “situati” entro una determinata realtà, «situazioni come quella di dover essere sempre in una situazione, di non poter vivere senza lotta e dolore, di dover assumere inevitabilmente la propria colpa, di dover morire». Secondo Jaspers, queste situazioni sono “situazioni-limite”, ovvero un muro contro cui l’uomo ed ogni cosa urtano inevitabilmente senza possibilità di attuare un superamento: il “muro” della realtà è “invalicabile”. Nell’interpretazione di Jaspers, la verità dell’essere risiede nella stessa condizione del “naufragio infinito”, ovvero è proprio il naufragare certo di ogni verità e di ogni immutabilità a garantire quella libertà creativa31 del divenire che è la condizione stessa di ogni cosa, ovvero la verità che rende possibile il mutamento e l’annientamento di ogni cosa, come si mostra evidente nella realtà dell’uomo e del mondo. Il naufragio non conduce al “sì” alla vita di cui parla Nietzsche: naufragare è una condizione inevitabile e inalterabile che non 42


si può evitare in alcun modo. Anche nel “sì” alla vita o nel “sì” all’annientamento (che siano pronunciati da Nietzsche o da quelle forme di nichilismo che intendono affermare la nullificazione di tutto come principio rilevante) vi è una sorta di “perversione”, ovvero la volontà di voltare le spalle alla trascendenza come possibilità aperta che “grava” sull’uomo necessariamente. Diversamente dall’interpretazione di Nietzsche, Romano Guardini definisce una “situazione-limite” come uno «stato soggettivo in cui l’uomo nella sua vita è intimo a se stesso. L’intimità o l’interiorità appartengono all’essenza della vita»32. L’esistenza, per dispiegarsi in forma armonica e feconda, deve avere un “centro”, un punto “focale”, “autentico” in cui essa avverte di auto-sussistere. L’esperienza di questa realtà, questa percezione fondamentale è una vera e propria condizione per uno sviluppo autentico del vivente. E tuttavia «questo stare in se stessi, questo orientamento verso l’interno può condurre la vita alla paralisi»33. Se la vita «si volge troppo verso l’interno, essa precipita in se stessa, non trova più la via verso l’esterno. Diventa muta, bloccata, come inghiottita verso l’abisso»34. Un’autentica “immanenza” è effettuale solo là dove è possibile un varco verso l’aperto, una trascendenza. Ora «la vita possiede l’enigmatica potenza di stare fuori di sé. Se siamo vivi, abbiamo la memoria e la previsione. Se stessimo chiusi in noi stessi, ci sarebbe soltanto il presente in noi. Ma neppure il presente; perché l’essenza del presente consiste nello stare sopra un sottile confine tra il nonpiù e il non-ancora»35. La vita, nel suo attimo presente, è il ponte che collega passato e futuro. Ciò che è stato ritualizzato nella memoria, incide, è presente nell’oggi, così come, parimenti, ciò che non è ancora sentito come già appartenente all’oggi. Esso viene “verso” il mio presente, è “a-venire”, è la meta che attira il mio essere qui ed ora. L’esempio del tempo dimostra che «c’è qualcosa nella vita che sorpassa sempre i limiti del prima e del poi; essa è se stessa e, allo stesso tempo, al di sopra di sé: è immanenza e trascendenza»36. 43


A differenza della “situazione” – di quella condizione esistenziale costitutiva dell’umano – che consente il proprio trascendimento (l’oltrepassamento del limite) a partire dalla condizione che la determina, le «situazioni-limite» sfuggono alla nostra comprensione logico-razionale, così come sfugge ciò che sta al di là di esse. Esistono alcune persone che vivono tutta la loro vita – in ogni singolo momento – come se fossero sempre in una situazione-limite; come se ogni atto, ogni pensiero dovessero costantemente essere valutati con estrema attenzione, perché la posta in gioco è ogni volta smisurata, trattandosi sempre di questioni che hanno a che fare con la vita e la morte psichica. Queste persone trascorrono tutta la loro esistenza in un continuo “stato d’eccezione”37, in una condizione, cioè, nella quale il gesto più innocente o la più piccola dimenticanza possono determinare le conseguenze più estreme. Come ha osservato Kierkegaard, la nostra esistenza, nella sua concretezza, irripetibilità e singolarità, non può essere oggetto di teorie o discorsi universali. È sempre un’esistenza particolare, singola, irripetibile ed inconfondibile. L’esistenza è “inoggettivabile” nella sua autenticità, non è un dato di fatto, ma è una questione personale. Da ciò scaturisce che anche l’uomo non è un dato di fatto: egli può essere. La sua scelta sta solo nel riconoscimento e nell’accettazione di quell’unica possibilità che è la “situazione” particolare in cui si trova. L’uomo non può essere se non ciò che è, e non può divenire se non quello che è nella sua autenticità, nel suo essere se stesso. L’esistenza rimanda necessariamente alla trascendenza. L’esistenza giunge a vera maturità soltanto quando prende coscienza dell’irraggiungibilità dell’Essere, ossia della sua trascendenza. Quest’ultima si rivela soprattutto nelle “situazioni-limite”. Nella loro natura le “situazioni-limite” sono sempre “in” situazione nel fluire inesorabile del tempo; non possiamo vivere senza lotta e dolore; siamo inevitabilmente e necessariamente destinati alla morte. Queste «situazioni-limite» sono immutabili e definitive. 44


L’impossibilità per l’individuo di comprendere in un orizzonte logico-razionale l’origine ed il senso di queste «situazioni-limite» e di affrontarle sul piano pratico fa capire che in esse sussiste la presenza misteriosa dell’Essere, ossia della trascendenza.

7. L’«onda» e l’«ombra» Abbiamo osservato come il “naufragio” sia la figura simbolica utilizzata da Jaspers per definire il senso ultimo dell’esistenza umana: l’esistenza è il divenire che nel fluire del tempo ci porta “al limite” e ci porta a sperimentare delle “situazioni-limite”. Il tema del naufragio, delle situazioni-limite e della continua inarrestabile ricerca interiore della verità viene sviluppato nei Miserabili di Victor Hugo in un passo particolarmente significativo che, forse, non è mai stato preso dalla letteratura storica e critica nella considerazione che merita: L’onda e l’ombra. Il “mare”, la “tempesta”, l’“onda”, la “notte”, le “nubi”, la “nebbia”, l’“oscurità”, l’“orizzonte”, l’“oceano”, l’infinito sono elementi basilari nell’analisi e nello studio del significato più nascosto, più oscuro, più profondo dei Miserabili. Victor Hugo descrive Jean Valjean come un uomo che lotta disperatamente nel mare, nell’oceano in tempesta: «Un uomo in mare! Che importa, la nave non si arresta. Il vento soffia. L’uomo scompare, poi riappare, si immerge e risale alla superficie, chiama, tende le braccia, ma non lo sentono, non lo ascoltano. Il suo miserabile capo non è che un punto nell’immensità delle onde. Egli si sente diventare abisso, fa parte della schiuma, beve l’amaro, l’oceano vile si accanisce ad annegarlo. Sembra che tutta quell’acqua sia odio. E tuttavia lotta. Tenta di difendersi, tenta di sostenersi, si sforza, nuota. Lui, povera forza subito esaurita, combatte l’inesauribile. Dov’è dunque la nave? Laggiù. Appena visibile nelle pallide tenebre dell’orizzonte. Le raffiche soffiano; tutte le schiume lo sommergono. Alza 45


gli occhi e assiste, agonizzante, all’immensa demenza del mare. Si sente sepolto, allo stesso tempo, da due infiniti: l’oceano e il cielo. Scende la notte, sono ore che nuota, le sue forze sono allo stremo. Attorno a lui l’oscurità, la nebbia, la solitudine, il tumulto tempestoso e incosciente, l’ondeggiare delle acque feroci. In lui l’orrore e la fatica. Venti, nuvole, turbini, risucchi, stelle inutili! Che fare? Il disperato si abbandona, chi è esausto decide di morire, si lascia andare, ed eccolo fluttuare per sempre nelle lugubri profondità che lo inghiottono. Oh, marcia implacabile delle società umane! Perdite di uomini e di anime lungo il cammino! Oceano in cui cade tutto ciò che lascia cadere la legge! Oh morte morale!»38. Il mare dell’oceano in tempesta è «l’inesorabile notte sociale» in cui la pena getta i suoi dannati. Il mare è l’immensa miseria. Nell’immensa miseria dell’oceano, in cui cade tutto ciò che lascia cadere la legge e nell’inesorabile “notte sociale” della “morte morale”, Jean Valjean lascia il suo messaggio. Dopo il carcere, proiettato in un’intensa opera di benefattore dei poveri, ha dedicato la propria vita a fare del bene, a fare giustizia, ad aiutare il prossimo. Rischia la morte per salvare la vita di Fauchelevent e per salvare Marius. Decide di lasciare e abbandonare le sue ricchezze, il proprio benessere, la carica di sindaco per salvare la vita di un innocente. Sempre, in ogni occasione, sacrifica se stesso per gli altri, rischia la morte, per un’altra vita. «Muoio felice», dice Jean Valjean accan to a Cosette e Marius, e aggiunge: «Amatevi tanto, sempre, non c’è altro che questo al mondo: amarsi»39. Tra gli innumerevoli episodi descritti nei Miserabili di Victor Hugo, segnaliamo tre momenti della vita e della storia di Jean Valjean, corrispondenti a tre fasi particolarmente significative e decisive nella sua trasformazione interiore, in rapporto alle situazioni-limite che hanno coinvolto la sua vita e il suo tempo interiore. 46


Ingiustamente condannato per un fatto non commesso, Jean Valjean è costretto a scontare diciannove anni nel carcere di Tolone. Durante i diciannove anni passati in carcere, Jean Valjean si raccoglie nella propria coscienza e nella profonda riflessione interiore. Scontata la pena è libero, ma si ritrova solo, allontanato e respinto da tutti. Il suo animo è senza speranza, invaso dalla disperazione, dalla paura e dalla totale sfiducia nella giustizia. La società umana «non gli aveva fatto che del male, egli non aveva mai visto di essa che quel volto corrucciato che essa chiama la sua giustizia. Gli uomini non lo avevano toccato che per schiacciarlo. Mai, a partire dall’infanzia, a parte la madre, a parte la sorella, mai aveva avuto una parola amica e uno sguardo benevolo. Di sofferenza in sofferenza, era giunto a poco a poco alla convinzione che la vita era una guerra e che in quella guerra egli era il vinto»40. È in questa fase che Victor Hugo si sofferma nella descrizione e nell’analisi dei diversi, molteplici e a volte contrastanti sentimenti che animano un uomo immerso nella disperazione e nel tormento interiore. Proprio quando tutto gli sembra perduto, quando è solo e totalmente in preda allo sconforto, è proprio in questo momento che ritrova se stesso: ritrova la propria coscienza. «La prima giustizia � osserva Victor Hugo � è la coscienza»41. Jean Valjean «era nelle tenebre, soffriva nelle tenebre, odiava nelle tenebre. Viveva abitualmente in quell’ombra, andando a tentoni come un cieco e come un sognatore. Soltanto ad intervalli, gli veniva d’un tratto, da se stesso e dall’esterno, una scossa di collera, un sovrappiù di sofferenza, un pallido e rapido lampo che illuminava tutta la sua anima, e faceva bruscamente apparire dovunque intorno a lui, in faccia e alle spalle, ai bagliori di una luce spaventosa, gli orribili precipizi e le cupe prospettive del suo destino. L’uomo creato buono da Dio può essere reso malvagio dall’uomo? L’anima può essere travolta dal destino e divenire malvagia se il destino è malvagio? Non esiste in ogni animo una prima scintilla, un elemento divino, incorruttibile in que47


sto mondo, immortale nell’altro, che il bene può sviluppare, attizzare, accendere e far sfavillare splendidamente, e che il male non può mai spegnere del tutto?»42. L’occhio della mente, osserva Victor Hugo, non può trovare niente di più “temibile”, di più “oscuro”, di più “misterioso” e più “infinito” che nella coscienza umana. Esiste uno spettacolo più grande del “mare”, è il “cielo”. Esiste uno spettacolo più grande del cielo, sono i “segreti della coscienza”. Nel fondo del nostro io e della nostra coscienza dormono forze ignote, oscure, misteriose. La coscienza è qualcosa di “incorruttibile”, di “infinito”, è la “scintilla” e la presenza di Dio in noi, che ci permette di distinguere ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto da ciò che è ingiusto. Il tema della coscienza apre un problema centrale per la nostra soggettività: la correlazione tra libertà, responsabilità, volontà e coscienza. In ogni istante del fluire del tempo siamo liberi di fare delle scelte e di dare un senso alla nostra vita e alla nostra esistenza. Nell’atto e nel momento in cui noi scegliamo, siamo esseri liberi e, conseguentemente, siamo responsabili delle nostre scelte: in questo orizzonte, entra in gioco il senso più profondo e autentico della scelta in rapporto al libero arbitrio e in correlazione all’atto di volontà del nostro io.

8. Volontà, coscienza e libertà L’attività volitiva è in stretto rapporto con la coscienza dell’io quale centro attivo e unificatore di tutti gli elementi della vita psichica. «L’io, che è un soggetto misterioso, il punto di riferimento di ogni esperienza psichica, a poco a poco, si afferma, man mano che riesce a distinguersi, quale centro di attività, da ognuno dei suoi elementi particolari (sentimenti, tendenze, istinti). La volontà è proprio questa attività dell’io che è unità, che si eleva al di sopra della molteplicità dei suoi contenuti, e che sostituisce la precedente 48


azione impulsiva, frammentaria e centrifuga di questi contenuti. Io e volontà sono termini correlativi; l’io esiste in quanto ha la sua propria specifica capacità di azione che è la volontà e la volontà esiste solo come attività distinta ed autonoma dell’io»43. In questo orizzonte, la «volontà viene posta al centro della personalità umana, come la funzione psicologica più aderente all’io. Inoltre, viene collegata all’esperienza del Sé, e quindi considerata come l’elemento fondamentale su cui è imperniato il metodo dell’autorealizzazione»44. La volontà costituisce il centro più intimo, più profondo, più reale dell’uomo, quello stesso centro che lo fa essere veramente uomo, cioè che lo fa «essere se stesso»: autocosciente, libero e responsabile. William James ha dato un valido contributo alla psicologia della volontà, riconoscendo pienamente la realtà e l’importanza della funzione volitiva e dell’atto volitivo. Nei Principles of Psychology, James afferma che la volontà è un centro vitale di energia interiore nella continua ricerca del proprio io e della propria personalità. Senza la volontà non si potrà mai arrivare a conoscere se stessi, ad esprimere se stessi e ad essere se stessi. In questo orizzonte, James riconosce in pieno il ruolo della “funzione volitiva” nella formazione della personalità e analizza dettagliatamente le varie fasi dell’atto del volere, sottolineando l’importanza dell’elemento “energetico” o “motore” e delle rappresentazioni o immagini mentali che lo costituiscono e lo alimentano. La libertà della volontà è un mistero, ma il punto di vista deterministico non potrà mai essere provato oggettivamente. «Io stesso parteggio – osserva James – per i sostenitori del libero arbitrio. Io andrò oltre con la mia volontà, non solo agirò con la mia volontà, ma crederò profondamente nella mia realtà individuale e nel mio potere creativo»45. James introduce e definisce un rapporto fondamentale tra la volontà, la creatività e l’essere se stessi. Ognuno di noi ha potenzialmente connaturate nel proprio essere delle enormi 49


risorse positive che vanno ricercate, scoperte, valorizzate e tradotte in atto. Molte volte, forse troppe volte nel corso della nostra vita e della nostra esistenza, queste risorse positive rimangono purtroppo solo ad uno stato latente, ad uno stato oscuro, inespresso, potenziale. James va proprio nell’orizzonte della ricerca di queste potenzialità connaturate nel nostro io, nell’affermazione dell’essere se stessi e nella valorizzazione massima della volontà e della creatività umana. In questo orizzonte la volontà assume un ruolo decisivo se si rapporta alla sfera affettiva, emotiva e motivazionale dell’individuo. Solo se siamo profondamente motivati, riusciremo a ritrovare quegli aspetti più autentici del nostro essere e daremo un senso alla nostra vita nella ricerca e nella scoperta del nostro io e nell’essere se stessi. Carl Gustav Jung considera la volontà come la somma di energia psichica a disposizione della coscienza. L’energia vitale psichica potenzialmente connaturata nella coscienza determina una correlazione dinamica continua tra volontà, energia interiore e ricerca del proprio io. Secondo Piaget, la volontà presuppone sempre un “conflitto di tendenze”, ovvero una “interazione” continua tra percezione e stimolo emotivo. Un conflitto di tendenze è un conflitto di “tensioni interiori” che condizionano continuamente la nostra vita e la nostra esistenza a livello affettivo-motivazionale, cognitivo e relazionale. Diversamente da questa interpretazione, Alfred Adler ha considerato e definito la volontà come una lotta inconscia per superare le inferiorità fisiche e psicologiche, riducendola ad una funzione compensativa. In Amore e volontà, Rollo May sottolinea che «la base ereditata della nostra capacità di volere e di decidere è stata irrevocabilmente distrutta. E ironicamente, se non tragicamente, è proprio in questa epoca portentosa, in cui il potere è cresciuto così tremendamente e le decisioni sono così necessarie e fatali, che ci troviamo sprovvisti di una nuova base per la volontà»46. Sullo sfondo di queste riflessioni, May analizza, in particolare, i 50


rapporti esistenti tra desiderio e volontà da cui emergono alcune caratteristiche essenziali della volontà. Secondo l’autore, il nucleo più autentico della volontà è quella che egli definisce “intenzionalità”. «Nell’esperienza umana l’intenzionalità è alla base della volontà e della decisione. Non solo precede la volontà e la decisione, ma le rende possibili»47. L’intenzionalità è un momento essenziale del primo stadio dell’azione volitiva: l’intenzionalità è intrinseca al fine, allo scopo e alla motivazione e implica valutazione e significato che, sono tutti aspetti del primo stadio del volere. In questa prospettiva, May pone un rapporto particolarmente significativo tra intenzionalità e identità: «È nell’intenzionalità e nella volontà che l’essere umano sperimenta la sua identità: l’“io” è l’io di “io posso”. Ciò che si verifica nell’esperienza è “io concepisco”, “io posso”, “io voglio, “io sono”. “Io posso” e “io voglio” costituiscono l’esperienza essenziale dell’identità»48. In questo orizzonte, Rollo May afferma che il compito dell’uomo è di unire e trovare un equilibrio, un’armonia interiore, una sintesi tra amore e volontà: questi due elementi fondamentali nella nostra vita non sono uniti per mezzo di una crescita biologica, ma devono far parte del nostro sviluppo cosciente interiore. Unire amore e volontà indica maturità, integrazione, equilibrio, armonia interiore, conoscenza profonda di se stessi e ricerca della vita autentica.

9. La volontà e le «situazioni-limite» Nell’Educazione funzionale, Claparède riconosce che un atto per essere volontario deve implicare una scelta e una programmazione per il futuro. L’atto di volontà è sempre l’espressione di un “conflitto” o di una “lotta” interiore: la funzione della volontà è sempre quella di risolvere un “conflitto esistente”. Questa lotta interiore che caratterizza e coinvolge costantemente la nostra vita ci porta spesso a sperimentare delle situazioni-limite. Nel momento in cui 51


la nostra soggettività si trova in uno stato di disorientamento, caratterizzato da una mancanza di punti di riferimento, da un’assenza di valori e da una profonda crisi d’identità, la nostra soggettività tende a farsi travolgere da una vita senza senso. Ma è proprio in quell’istante, quando una crisi interiore e il vuoto esistenziale minacciano di paralizzarci, improvvisamente, dalle profondità misteriose del nostro essere, sale una forza insospettata che ci permette di fermarci sulla soglia, sull’orlo del precipizio. Di fronte all’atteggiamento minaccioso ad un fatto ingiusto che coinvolge la nostra esistenza, mentre ragioni personali ci indurrebbero a cedere, la volontà ci dà la forza di dire risolutamente: «No! Difenderò le mie convinzioni ad ogni costo; agirò come penso sia giusto». Nello stesso modo, quando ci assale una tentazione subdola e seducente, la volontà ci fa alzare in piedi, scrollandoci della nostra acquiescenza e liberandoci dalla trappola. Il modo più semplice e quello in cui più frequentemente scopriamo la nostra volontà è attraverso la lotta e l’azione determinata. Quando facciamo uno sforzo fisico o mentale, quando lottiamo attivamente contro un ostacolo o combattiamo delle forze opposte, sentiamo un potere specifico sorgere in noi: questa forza interiore ci dà l’esperienza delle volontà. L’esperienza interiore della volontà «può prodursi anche in altri modi. Durante periodi di silenzio e di meditazione, nell’attenta analisi delle nostre motivazioni, in momenti di assorta deliberazione e decisione, una “voce”, piccola, ma distinta, a volte si farà udire per spronarci ad agire in un certo modo, un suggerimento diverso da quello dei nostri motivi ed impulsi ordinari. Sentiamo che viene dal centro più profondo del nostro essere: un’illuminazione interiore ci rende consapevoli della realtà della volontà con una certezza travolgente che si dichiara da sola, in maniera irresistibile»49. La scoperta interiore della volontà e la consapevolezza che l’io e la volontà sono intimamente legati, «può rappresentare una vera rivelazione in grado di cambiare, a volte radicalmente, la nostra 52


auto-coscienza e tutto il nostro atteggiamento verso noi stessi, gli altri e il mondo. Percepiamo di essere un “soggetto vivente” dotato del potere di scegliere, di costruire rapporti, di operare cambiamenti nella nostra personalità, negli altri, nelle circostanze che coinvolgono la nostra vita»50. Questa acuta consapevolezza, questo risveglio e questa visione di nuove, illimitate potenzialità di espansione interiore e di azione esterna ci danno un senso di confidenza, di sicurezza, di armonia interiore. In questa prospettiva, la volontà è una facoltà dell’io che può darci quell’energia interiore di reazione per superare una situazione-limite. Sulla base di questa analisi, assume un ruolo decisivo enucleare in sintesi quattro fasi fondamentali che caratterizzano e coinvolgono la nostra soggettività: a) un conflitto interiore esistente; b) la lotta interiore; c) le situazioni-limite; d) l’atto volitivo di reazione interiore. Sullo sfondo di questa distinzione semantica, Claparède sottolinea come un atto per essere volontario deve poter implicare una scelta: una scelta autentica, profonda che coinvolge la nostra vita e il nostro essere. È importante scegliere, è importante avere il coraggio di scegliere. Quante volte ognuno di noi si è trovato di fronte ad una scelta determinate, decisiva per dare un senso alla nostra vita. Quante volte abbiamo rimandato il momento della scelta, non abbiamo avuto il coraggio di scegliere. Ma questo momento inevitabilmente poi si è ripresentato di fronte ai nostri occhi, alla nostra mente, alla nostra coscienza, alle nostre passioni, ai nostri sentimenti. Spesso ci siamo trovati come di fronte ad un bivio nel corso della nostra vita; un bivio tra due strade senza possibilità di ritorno: dover necessariamente scegliere tra due strade, senza una terza possibilità e senza poter rimanere sulla soglia. In questo caso, la scelta si identifica proprio con una situazione-limite che caratterizza e segna profondamente la nostra vita e la nostra esistenza. Dobbiamo scegliere e nell’atto e nel momento in cui noi scegliamo, siamo esseri 53


liberi e conseguentemente responsabili delle nostre scelte: in questa prospettiva, entra in gioco il senso più profondo e autentico della scelta in rapporto al libero arbitrio.

10. Il vuoto esistenziale Nel volume Motivation and Personality, Maslow ha descritto chiaramente la “gerarchia delle esigenze” in rapporto al tempo interiore, analizzando prima le esigenze psicologiche fondamentali; poi, le esigenze personali, come l’amore e il bisogno di integrazione, la stima e l’autorealizzazione, e, infine, le esigenze “transpersonali” o “trascendenti”. Gratificare i primi due gruppi di esigenze spesso genera, paradossalmente, un senso di noia, di tedio, di vuoto e di mancanza di significato. Porta a cercare più o meno alla cieca “qualcos’altro”, qualcosa di più. Lo sanno bene tutti coloro, e sono tanti, che avendo ottenuto grandi soddisfazioni e successi nella vita, diventano sempre più irrequieti, ribelli o depressi. Viktor Frankl ha trattato diffusamente questo stato, che ha chiamato il “vuoto esistenziale”: «Un numero sempre più grande di persone si lamenta di quello che essi chiamano un vuoto interiore ed è questa la ragione per cui io ho chiamato questo stato vuoto esistenziale»51. In contrapposizione alle esperienze delle vette così ben descritte da Maslow, si potrebbe parlare del travaglio del vuoto esistenziale come di esperienza dell’abisso. Ma questa condizione non deve necessariamente essere considerata patologica. Frankl arriva ad affermare che il «vuoto esistenziale non è una nevrosi, o, se lo è, è una nevrosi sociogena o addirittura iatrogena, vale a dire, una nevrosi causata dal medico che pretende di curarla. Un impressionante esempio di intenso e profondo vuoto esistenziale (coesistente con una salute fisica e mentale perfetta) si trova nelle Confessioni di Lev Tolstoj. Vale la pena di citarlo per esteso: «Così vissi; ma cinque anni fa qualcosa di molto strano cominciò 54


ad accadermi. All’inizio ebbi dei momenti di perplessità, e come se la vita si arrestasse, come se non sapessi cosa fare o come vivere, e mi sentii perduto e disperato. Ma questo passò e continuai a vivere come prima. Poi questi momenti di perplessità cominciarono a ritornare sempre più spesso, e sempre nella stessa forma. Pensavo che tutto era già noto, e che se mai avessi voluto trovare la soluzione non mi sarebbe costato troppo sforzo; al momento non avevo tempo, ma quando lo avessi voluto avrei potuto trovare la risposta. Le domande però cominciarono a ripetersi con più frequenza, e ad esigere sempre più insistentemente delle risposte; e come una goccia di inchiostro che cade sempre nello stesso posto andarono a formare una macchia nera. Così, accadde ciò che accade a chiunque soffra di un tale morbo interno. In principio appaiono dei sintomi di malattia insignificanti a cui il malato non fa attenzione; in seguito, questi sintomi si presentano sempre più spesso finché sfociano in un periodo di sofferenza ininterrotta. La sofferenza aumenta e, prima che il malato possa guardarsi intorno, quella che egli aveva preso per una semplice indisposizione è già diventata più importante per lui che qualunque altra cosa al mondo: è la morte! A me accadde proprio così. Mi resi conto che non era una indisposizione accidentale, ma qualcosa di molto profondo, e che se queste domande si ripetevano continuamente bisognava dargli una risposta. Le domande sembravano così stupide, semplici domande da bambino; ma appena le sfioravo e cercavo di risolverle immediatamente mi convincevo che non erano domande stupide e da bambino, ma le più importanti e profonde domande della vita; inoltre, per quanto provassi, non riuscivo a risolverle. Sentivo dentro di me che le basi erano crollate e che mi mancava il terreno sotto i piedi. Quello su cui avevo vissuto non esisteva più, e non rimaneva più niente. La mia vita � scrive Tolstoj � era arrivata ad un punto morto: ad un punto-limite. Ero in grado di respirare, mangiare, bere e dormire, e non potevo fare a meno di fare di queste cose, ma non c’era vita perché non c’erano 55


desideri la cui realizzazione io potessi considerare ragionevole. Se desideravo qualcosa, sapevo in anticipo che, avessi o no soddisfatto il mio desiderio, non ne sarebbe venuto fuori niente. Se una fata fosse venuta ad offrirsi di realizzare i miei desideri non avrei saputo cosa chiedere. Se in momenti di ebbrezza sentivo qualcosa che, sebbene non fosse un desiderio, era un’abitudine lasciata dai desideri di un tempo, nei momenti di lucidità sapevo che questo era un inganno e che in realtà non c’era niente da desiderare. Ero arrivato al punto che io, uomo sano, fortunato, sentivo di non poter vivere: una forza irresistibile mi spingeva a disfarmi della vita in un modo o nell’altro. Non posso dire che mi volevo uccidere. La forza che mi trascinava via dalla vita era più forte, più completa e più grande di un semplice desiderio. Era una forza simile a quella che prima mi faceva lottare per vivere, solo ora era in direzione opposta. Tutta la mia energia mi allontanava dalla vita. Il pensiero dell’auto-distruzione nasceva in me con la stessa naturalezza con cui prima pensavo a come migliorare la mia vita»52. La dichiarazione di Tolstoj è significativa perché dimostra l’importanza fondamentale del bisogno di comprendere il significato della vita. Viktor Frankl nel suo volume Man’s Search for Meaning ce ne dà un’ampia testimonianza. Prigioniero in un campo di concentramento nazista, Frankl ha osservato che coloro che vedevano un significato nella vita, o che le davano un significato, dimostravano una forza ed una resistenza sorprendenti. Trovare questo significato si rivelò di importanza decisiva per sopravvivere. La fondamentale esigenza di dare un senso alla propria vita e al proprio tempo interiore è stata enunciata concisamente ed efficacemente da Albert Einstein: «L’uomo che considera priva di significato la sua vita non è solamente infelice, ma è indegno di vivere»53. Molti sperimentano degli “stati-limite” e delle “situazioni-limite” a causa della profonda insoddisfazione provocata dalla mancanza di senso e di significato della vita, sia a livello personale che a livello 56


sociale. Obbedendo a questo impulso, possono cercare di superare i limiti della coscienza ordinaria e ottenere stati di coscienza più profondi e più autentici. Purtroppo molti, spesso con le migliori intenzioni, cercano di ottenere questi stati con mezzi dannosi e perfino distruttivi. È dunque necessario rendersi chiaramente conto che ci sono due modi diversi, ed in un certo senso opposti, di affrontare l’ansia esistenziale. Uno è il tentativo di sfuggire a quell’ansia, ritornando ad uno stato primitivo di coscienza, di essere riassorbito dalla “madre”, in uno stato prenatale, e perdersi nella vita collettiva. Questa è la via della regressione. L’altra è la via trascendente, il levarsi al di sopra della coscienza ordinaria. Maslow ha chiamato questi due stati il “nirvana inferiore” e il “nirvana superiore”. Il primo, anche se può dare un temporaneo senso di liberazione e rivelare stati di espansione di coscienza, non porta ad una soddisfazione permanente e non costituisce una soluzione reale e duratura. Non fa che rimandare la crisi, che si ripresenterà prima o poi in una forma più acuta e più profonda. Pertanto, dobbiamo cercare di esaminare i requisiti per trascendere i limiti della coscienza personale, senza perdere il centro della coscienza individuale, seguendo la voce interiore: la chiamata interiore della coscienza. Una buona descrizione della “chiamata” di un principio superiore ci viene descritta da Jung: «Ciò che, in ultima analisi. induce un uomo a scegliere la sua via ed emergere così dall’identità inconscia con le masse come si emerge da un banco di nebbia: è quella che viene chiamata “vocazione”. Chi ha la vocazione sente la voce dell’uomo interiore; è chiamato. Un caso storico è quello del “demone” di Socrate. Avere una vocazione significa nel senso originale essere chiamato da una voce. Gli esempi più chiari li abbiamo nelle Confessioni dei Profeti del Vecchio Testamento. Questo processo interiore ci viene descritto anche dalle confessioni di personaggi storici come Goethe e Napoleone che, per citare due esempi conosciuti, non hanno mai fatto mistero 57


della loro vocazione. Ora, avere una vocazione, o sentire una vocazione, non è forse la prerogativa delle grandi personalità, ma appartiene a tutti e ad ognuno»54. Seguire la propria chiamata significa «essere se stessi».

NOTE 1 WASSILY KANDINSKY, Punto, linea, superficie, Milano, Adelphi, 2008, p. 105. 2 Ibidem, p. 18. 3 CARLO SINI, Il silenzio e la parola. Luoghi e confini del sapere per un uomo planetario, Genova, Marietti, 1989. 4 WASSILY KANDINSKY, Punto, linea, superficie, op. cit., p. 57. 5 Ibidem, p. 58. 6 Ibidem, p. 59. 7 KARL JASPERS, Genio e follia. Analisi patografica di Strindberg, Van Gogh, Swedenborg, Hölderlin (1922), Milano, Rusconi, 1990, pp. 129-130 8 CARL GUSTAV JUNG, La psicologia analitica e arte poetica, nel testo dello stesso autore Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Torino, Einaudi, 1964, pp. 36-37. 9 Cfr. Ibidem, p. 55. 10 JEROME BRUNER, Il conoscere: saggi per la mano sinistra, Roma, Armando, 1964, p.142. 11 MARIO TREVI, Sul problema dell’ombra nella psicologia analitica, in AA. VV., Studi sull’ombra, Milano, Raffaello Cortina , 2011, p. 8. 12 CARL G.USTAVE JUNG, Psychologie und Religion, tr. it. di E. Schanzer e L. Aurigemma, in CARL G.USTAVE JUNG, Opere, volume XI, Torino, Boringhieri, 1992, p. 82. 13 Cfr. Ibidem. 14 CARL G.USTAVE JUNG, Aion. Beiträge zur Symbolik des Selbst, Walter-Verlag, Olten 1976, tr. it. di L. Baruffi, in CARL G.USTAVE JUNG Opere, volume nono, tomo secondo, Torino, Boringhieri, 1982, p. 8. 15 Cfr. Ibidem. 16 Cfr. Ibidem, p. 9. 17 Cfr. Ibidem 18 Cfr. Ibidem p. 33. 19 CARL GUSTAVE JUNG, Die Dynamik des Unbewussten, Olten, Walter-Verlag, 1967, tr. it. di S. Daniele, in CARL G.USTAVE JUNG, Opere, volume ottavo, Torino, Boringhieri, 1989, p. 225. 20 Cfr. Ibidem. 21 Cfr. Ibidem.

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CARL GUSTAVE JUNG, Die Archetypen und das kollektive Unbewusste, Olten, Walter-Verlag, 1976, tr. it. di L. Baruffi, CARL G.USTAVE JUNG, Opere, volume nono, tomo primo, Torino, Boringhieri, 1980, p. 276. 23 Cfr. Ibidem, p. 19. 24 Cfr. Ibidem. 25 WILHELM VOSSENKUHL, Die Möglichkeit des Guten. Ethik im 21. Jahrhundert, München, C. H. Beck, 2006. Il volume analizza criticamente i problemi centrali dell’etica e ne indica i percorsi e le interpretazioni fondamentali nel Ventunesimo secolo. Percorrendo l’arco complessivo del libro, assume un ruolo centrale il terzo capitolo: Freiheit und Verantwortung. In particolare, nei paragrafi: Grenzen der Möglichen; Die Freiheit von Personen e Kant und die Willensfreiheit, l’autore analizza e discute criticamente il concetto e il significato di libertà, libero arbitrio, volontà, bene ed etica, a partire dalla filosofia trascendentale di Kant. 26 Cfr. il capitolo: Ethik als Konfliktwissenschaft, in WILHELM VOSSENKUHL, Die Möglichkeit des Guten. Ethik im 21. Jahrhundert, op. cit., pp. 115-162. 27 KARL JASPERS, Psicologia delle visioni del mondo, Roma, Astrolabio, 1950, p. 267. 28 PAUL. FEYERABEND, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 41. 29 Cfr. KARL JASPERS, Metafisica, a cura di U. Galimberti, Milano, Mursia, 2003. 30 Cfr. Ibidem. 31 Sul concetto di libertà creativa, cfr. ORLANDO TODISCO, La libertà creativa, Padova, Edizioni Messaggero, 2010. 32 ROMANO GUARDINI, Der Gegensatz. Versuche zu einer Philosophie des Lebendig-Konkreten, Mainz, 1925, tr. it. di G. Sommavilla, L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, in ROMANO GUARDINI, Scritti filosofici, 2 vol., Milano, Fabbri, 1964, p. 179. 33 Cfr. Ibidem, p. 180. 34 Cfr. Ibidem. 35 Cfr. Ibidem. 36 Cfr. Ibidem. 37 GIORGIO AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995 e GIORGIO AGAMBEN Lo stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. Agamben definisce l’eccezione come «una specie dell’esclusione». Più precisamente l’eccezione rappresenta una «esclusione inclusiva» (ibidem, p. 26) inclusa nel caso normale proprio in virtù del fatto che non ne fa parte: «ciò che caratterizza propriamente l’eccezione è che ciò che è escluso non è assolutamente senza rapporto con la norma; al contrario, questa si mantiene in relazione con essa nella forma della sospensione. La norma si applica all’eccezione, ritirandosi da essa. Lo stato di eccezione non è, quindi, il caos che precede l’ordine, ma la situazione che risulta dalla sua sospensione» (ibidem, pp. 21-22). 38 VICTOR HUGO, I Miserabili, a cura di A. Gentile, Fondazione Silone, Frosinone, Ruscito, 1996, p. 72. 39 Cfr. Ibidem, p. 232. 40 Cfr. Ibidem, p. 64.

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Cfr. Ibidem, p. 118. Cfr. Ibidem, p. 65. 43 GIOVANNI CALÒ, Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, vol. XXXV, Roma 1929-1939, p. 559. 44 ROBERTO ASSAGIOLI, The Act of Will, The Viking Press, New York, 1973, tr. it. M. L. Girelli, L’atto di volontà, Editore Roma, Astrolabio, 1977, p. 14. 45 WILLIAM JAMES, The Principles of Psychology, New York, Cosimo Classics, 2007, p. 55. 46 ROLLO MAY, Love and Will, New York 1966, tr. it. L’amore e la volontà, Roma, Astrolabio, 1971, p. 182. 47 Cfr. Ibidem, 223. 48 Cfr. Ibidem, 201. 49 ROBERTO ASSAGIOLI, L’atto di volontà, op. cit., p. 15. 50 Cfr. Ibidem. 51 VIKTOR FRANKL, Man’s Search for Ultimate Meaning (A revised and extended edition of The Unconscious God, with a Foreword by Swanee Hunt, New York, Perseus Book Publishing, 1997), New York, Paperback , Perseus Book Group, 2000, p. 35. 52 LEV. TOLSTOJ, La confessione, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 55. 53 ALBERT EINSTEIN, Pensieri, idee, opinioni (1934-1950), Roma, Newton Compton, 1996, p. 41. 54 CARL G.USTAV JUNG, Opere, op. cit., p. 125. 42

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BIOGRAFIA DEGLI AUTORI

Mario Guarna si è laureato in Filosofia nel 2004 all’Università di Firenze. Nello stesso anno la sua opera inedita “Mirò è altrove”, viene premiata con il Fiorino d’oro al Premio Internazionale Firenze. Nel 2006 alla sua tesi di laurea “ Filosofia del Lontano-La teoria dell’umorismo in Pirandello”, viene assegnato il primo premio al Premio Nazionale” Totus Tuus”. A gennaio del 2007 fonda L’Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche, della quale diviene presidente, convertita, nell’agosto 2014, in Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche. Nell’ aprile 2006, istituisce e presiede il Premio Nazionale di Filosofia “Le figure del Pensiero”, giunto quest’anno alla dodicesima edizione. Nel 2010 consegue l’attestato del corso di perfezionamento post laurea in Philosophy for children/ Philosophy for community all’università di Firenze e l’attestato di teacher Philosophy for children/Philosophy for community al Centro di Ricerca sull’Indagine Filosofica di Roma. Dal 2010 organizza e presiede il convegno annuale di “Pratiche filosofiche”. Nell’ottobre 2014 viene nominato direttore scientifico della casa editrice “Sillabe di sale”, per la sezione filosofia. Dal 2017 direttore scientifico della collana filosofia nella casa editrice David and Matthaus. Dal 2018 Presidente dell’Associazione “Immagine”, dove organizza “Cinesofia”, incontri di cinema e filosofia. Dal 2018 Direttore editoriale della rivista filosofica Phronein.

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LIBRI PUBBLICATI MARIO GUARNA, Esperire indistintamente, Firenze, casa editrice Sandron, 2004 MARIO GUARNA, Mirò è altrove, Firenze, Sassoscritto Editore, 2005 MARIO GUARNA, Gli affreschi di Renoir a Capistrano, Empoli, Casa Editrice Ibiskos, 2008 MARIO GUARNA, Filosofia del Lontano, Acireale, Bonanno Editore, 2010 MARIO GUARNA (a cura di), (Antologia) Haiku, Certaldo, Federighi Editore, 2009 MARIO GUARNA (a cura di), (Antologia) Le figure del pensiero- VII Edizione, Condove, Sillabe di sale Editore, 2013 MARIO GUARNA (a cura di), (Antologia) Le figure del pensiero- VIII Edizione, Condove, Sillabe di sale Editore, 2014 MARIO GUARNA (a cura di), (Antologia) Le figure del pensiero- IX Edizione, Condove, Sillabe di sale Editore, 2015 MARIO GUARNA (a cura di), (Antologia) Le figure del pensiero- X Edizione, Condove, Sillabe di sale Editore, 2016 MARIO GUARNA (a cura di), (Antologia) Le figure del pensiero- XI Edizione, Condove,Sillabe di sale Editore, 2017 MARIO GUARNA (a cura di), (Antologia) Le figure del pensiero- XII Edizione, Condove,Sillabe di sale Editore, 2018 MARIO GUARNA, Il vivente, Acireale, Tipheret, 2019

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Riccardo Mainardi è nato a Rapallo nel 1957. Ha vissuto per alcuni anni a Milano dove si è laureato in Scienze Politiche per poi rientrare nella sua città natale dove risiede tuttora. Il suo esordio letterario risale al 2011 con il libro di racconti Le ultime lezioni dell’anno (Edizioni Gammarò) che si classificò secondo al Concorso Letterario Internazionale “Per un mondo migliore” (ex Premio Bettanin) - edizione 2011. Da allora ha vinto numerosi concorsi letterari e di filosofia nelle sezioni narrativa, poesia, saggistica e aforismi. Fra questi, nel 2014, si è aggiudicato il primo premio al concorso “Scriviamo Insieme” di Roma nella sezione Narrativa Inedita con il romanzo “Polvere nella nebbia” successivamente pubblicato dalla casa editrice Liberodiscrivere di Genova. Quest’ultimo romanzo figura altresì tra i dieci finalisti del Premio Carver 2015 e ha ricevuto altri quattro riconoscimenti. Negli ultimi anni ha vinto sei premi nazionali di filosofia: primo classificato nel 2018 – sezione Articolo filosofico, al Premio Nazionale di Filosofia “Le figure del pensiero” di Certaldo (Firenze); nello stesso anno si è classificato terzo al Premio Nazionale di Filosofia “Alla ricerca dell’anima”, edizione incentrata sul saggio filosofico “Dove abita il bello?”. Nel 2017 e nel 2015 primo classificato nella sezione Paradossi al Premio Nazionale di Filosofia “Le figure del pensiero” è giunto secondo nel 2014 nella sezione aforismi. Nel 2016 si è classificato primo al Premio Nazionale di Filosofia “Alla ricerca dell’anima” di Modena, edizione incentrata sul saggio filosofico “Anatomia del rispetto”. Nel marzo del 2018 ha ultimato la stesura del suo terzo romanzo intitolato “Il sogno di Amos”, pubblicato dalla Giovane Holden Edizioni di Viareggio.

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Giancarlo Pillitu è nato a Cagliari il 21/04/1962. Insegnante di filosofia e storia nel Liceo Scientifico “G. Brotzu” di Quartu Sant’Elena (CA). Dal 2005 collabora regolarmente con il periodico Vulcano di Decimomannu, Assemini, Decimoputzu, Uta, Villasor, Villaspeciosa, curando la rubrica “Attualità filosofica”, da lui ideata.

Andrea Gentile è laureato in Filosofia (1991, Università La Sapienza di Roma) e in Lettere (1995, Università Roma Tre), ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Scienze dell’educazione (1999, Università Roma Tre). Nel 2001 e 2002 è stato borsista post-dottorato, Research Fellow della Alexander von Humboldt Stiftung (Bonn) e Ricercatore (dal 2005 al 2009) nella Fakultät für Philosophie, Wissenschaftstheorie und Religionswissenschaft della Ludwig-Maximilians Universität München. Ha tenuto corsi universitari come Visiting Professor in Germania, Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svizzera, Austria, Francia, Olanda, Polonia, Russia e Stati Uniti. Dal 2009 al 2014 è stato Ricercatore e poi Professore Associato in Filosofia Teoretica (dal 2014 al 2018) nell’Università degli studi Guglielmo Marconi. Dal 2002 al 2005 è stato membro della Presidenza del Comitato scientifico della Fondazione Ignazio Silone. Dal 2005 è membro del Comitato scientifico editoriale di «Información Filosófica. Revista Internacional de Filosofía y Ciencias Humanas» e dal 2011 è membro del Comitato scientifico delle riviste «Qtimes Web Magazin» e «Philomath News». Dal 2013 al 2017 è stato Direttore scientifico del Master per Dirigenti Scolastici all’Università degli Studi Guglielmo Marconi. Dal 2012 è Direttore scientifico della collana Instrumenta e dal 2016 della collana Theoretical Philosophy per l’Editore IF Press. Dal 64


2013 è membro del Comitato scientifico dell’Istituto Internazionale Mounier e della International Philomates Association e dal 2016 è Direttore scientifico della rivista «Areté. International Journal of Philosophy, Human & Social Sciences». Nel 2016 e nel 2017 è stato Research Fellow della Alexander von Humboldt Stiftung (Bonn) e Visiting Professor alla Fakultät für Philosophie, Wissenschaftstheorie und Religionswissenschaft della Ludwig-Maximilians Universität München. Nel 2015 ha vinto il «Premio Nazionale Filosofia» nella sezione «Ricerca accademica». È Professore Ordinario in Filosofia Teoretica, membro del Senato Accademico e Direttore del Dipartimento di Scienze Umane all’Università degli studi Guglielmo Marconi.

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