Percorsi biblici nell’ultimo Luzi: una via, un metodo, un senso del vivere

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UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE Sede di Milano

Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea Magistrale in Filologia Moderna

Percorsi biblici nell’ultimo Luzi: una via, un metodo, un senso del vivere

Relatore: chiar.mo prof. Enrico Elli Tesi di Laurea di: Lucia BATTISTEL Matricola n. 4810027

Anno Accademico 2019/2020


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Indice

1. Proponimenti___________________________________________________________ p. 4

2. Introduzione____________________________________________________________ p. 7 2.1. La Bibbia come luogo dell’incontro e del senso_____________________________ p. 7 2.2. Luzi e la Bibbia: un approdo tardivo______________________________________ p. 11 2.3. All’ombra del maestro Teilhard_________________________________________ p. 18

3. Precisazioni metodologiche: la scala a chiocciola_______________________________ p. 24 3.1. Previsione di un umile profeta__________________________________________ p. 26 3.2. Osservazione del libro naturale__________________________________________ p. 43 3.3. Deflagrazione dell’Evento nel tutto______________________________________ p. 71 3.4. Dolore universale, necessario, sapienziale_________________________________ p. 93 3.5. Il chaos che si fa cosmos______________________________________________ p. 108 3.6. Rinascita da un ventre nuovo__________________________________________ p. 133

4. Considerazioni conclusive________________________________________________ p. 144

5. Bibliografia___________________________________________________________ p. 146

6. Sitografia_____________________________________________________________ p.148

7. Ringraziamenti________________________________________________________ p. 149


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Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore e ammirare il suo santuario

[Salmi 27, 4]


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1. Proponimenti

In un primo momento, archè della ricerca fu ravvisare e segnalare la presenza del testo biblico nell’ultima produzione del grande – eppure spesso trascurato – poeta contemporaneo Mario Luzi (Firenze 1914-2005). Tuttavia, come spesso capita nelle indagini – siano queste scientifiche, letterarie o di qualsiasi altra natura –, il movente si è arricchito e ha mutato forma strada facendo, e da un originario interrogativo ne sono fioriti molti altri. Così l’archè stessa, che già la fine sapienza greca definiva al tempo stesso “principio e fine ultimo delle cose”, ha aperto altri scenari di senso i quali, consideratane la portata, non si può certo dire di aver analizzato in modo esauriente e definitivo in questa sede. Tra questi si distingue la domanda sul senso, sul valore, sul significato dell’esistenza; in sostanza, quale fine ha la nostra vita? Quale senso si può e si deve dare al dolore, all’amore, e ad ogni altra umana esperienza? Infine – dal momento che qualsiasi considerazione deve avere un suo esito pratico perché possa dirsi valida – quale metodo adottare, quale via percorrere per vivere al meglio in questo mondo? Tramite il confronto dell’ultima trilogia luziana con il testo biblico si ha così avuto modo di ravvisare tematiche e figure comuni (la profezia, la natura, l’illuminazione, il dolore, l’amore, l’infanzia), ma la comparazione si è presto rivelata medium di qualcosa di più grande: il parallelo biblico-luziano non si è fatto più solo fine, bensì mezzo dell’intera ricerca. O meglio, si potrebbe dire in termini più tecnici, si è reso tappa hegelianamente necessaria alla realizzazione di un Percorso più ampio. In conclusione, si può senza dubbio definire lo scopo finale, l’archè definitiva e risolutrice dell’indagine in questi termini: offrire a chi legge, attraverso l’exemplum poetico luziano e il suo riappellarsi al Testo, un’indicazione concreta – che non sia dunque mera elucubrazione – su come accostarsi al mondo, come orientarvisi, in parole povere come viverci.

Dovendo per economia di tempo e spazio concentrarsi su un’esigua parte della considerevole produzione dell’autore, si è scelto di soffermarsi sulle tre ultime opere (Sotto specie umana, 1999; Dottrina dell’estremo principiante, 2004; e il postumo Lasciami non trattenermi, 2009)1. La decisione trova una sua giustificazione nelle parole del poeta stesso, il quale ammise di aver compreso la figura di Paolo nella sua interezza – e con essa la pienezza del Verbo – solo all’approssimarsi del suo congedo dalla vita; la cognizione di Dio, che si erge in tempi caotici a dare un senso al tutto, trova

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Per le quali si cita da M. LUZI, Poesie ultime e ritrovate, a cura di S. VERDINO, Milano 2014.


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dunque la sua espressione più autentica e sinceramente sentita solo nelle ultime opere, come conquista dell’età matura:

Se penso alla mia prima e poi la successiva sempre imperfetta approssimazione cristiana non incontro tanto presto né tanto spesso san Paolo. La lettura attenta di Corinzi e di Romani e delle altre testimonianze paoline è stata piuttosto un acquisto dell’età matura e di un certo passaggio della vicenda personale e storica quando tutto pareva rimesso in causa. Allora questa enorme figura che emerge dal caos dell’errore e della inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza si propose in tutta la sua imponenza. Uomo venuto da una crisi planetaria riacquista la sua statura conveniente nello svolgimento che arrecano appunto crisi planetarie, alla fine e all’origine ancora indistinte delle epoche. Il sentimento e la coscienza di attraversare un tempo similmente caotico erano (e restano in questi nostri anni) all’altezza di Paolo, rendevano (e rendono) non eccessiva la sua voce. La dismisura era sulla potenza della passione, ma non sulla causalità del pathos. Il senso dell’«agonia» in cui si sviluppano l’azione e la parola paoline si ripresentò quasi al nudo in quel crollo di valori e istituti esteriori e interiori, in quel discrimine malcerto tra sopravvivenze inservibili e perfino nefaste e novità ancora indecifrabili in mezzo ai quali ha brancolato a lungo – e più nevroticamente nei nostri decenni – il nostro secolo, e continua a farlo nei nostri giorni per quanto sembri placato dalla sua stessa stanchezza. A questo punto quel rigore e quel freddo che alonavano il santo nella versione che primamente ne avevo ricevuto cedettero alla energia e alla radiosità esplosive di quella che mi si animava di fronte. (…) Su questo sfondo la figura di Paolo, misuratasi con gli eventi e con le genti di un tempo procelloso e decisivo per la storia umana, sembra ripresentarsi vigorosa come portata del proprio elemento. La sua parola di fede sfida ancora le inerzie e le ignavie per cui l’uomo si adegua e si rassegna all’errore e all’iniquità2

Nonostante sia doveroso ricordare l’insistente fermezza di Luzi nel definire le proprie ricerche, pur estreme, come mere approssimazioni alla Verità e non un appropriarsi della stessa, non c’è dubbio che nei suoi ultimi scritti egli sia giunto ad un livello di consapevolezza di sé e dell’Altro maggiore rispetto a quando, ventunenne, componeva La barca. Vi è un generale accordo tra gli studiosi nel considerare la produzione del poeta piuttosto coerente, coesa, per lo meno da un punto di vista tematico: geometricamente parlando, la si potrebbe assimilare così ad un cerchio che, non conoscendo stonature, si evolve in se stesso trovando nel suo punto di partenza anche la sua fine. Tuttavia, ritengo che pensare alla produzione luziana come ad un armonico cerchio, pur sottolineandone la lodevole coerenza, mancherebbe di riconoscere il sottile ma sempre degno di menzione scarto delle ultime opere dalle precedenti. Nulla togliendo alla lodevole compattezza e congruenza di quanto venne prima, si vuole riconoscere una naturale e fisiologica inflessione – che è senz’altro un’ascensione – 2

Luzi (1997), pp. 162-164.


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nel tempo della vecchiaia. Alla figura geometrica del cerchio si preferisce così quella più domestica – e più umilmente imperfetta, e forse per questo più vicina al gusto di Luzi – della scala a chiocciola: pur volgendosi su se stessa, a ricordo della necessità di rifarsi a quanto precede, non manca di salire e di portare così, scalino dopo scalino, a piani più alti di realizzazione poetica, di consapevolezza. Ma qual è la destinazione finale? Dove porta la scala, una volta salita? Ad un porto sicuro, ad una dottrina la cui Verità si accoglie e si riconosce tuttavia con l’umiltà di chi, anche se estremo – e dunque forte della fisiologica saggezza della vecchiaia – si riconosce da sempre e per sempre un principiante: qualcuno che, pur prossimo alla fine, sa bene di essere solo all’inizio.


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2. Introduzione 2.1. La Bibbia come luogo dell’incontro e del senso

In virtù della sua ineguagliabile capillarità, la Bibbia è unanimemente ritenuta uno dei libri più influenti mai esistiti. Nessun’altra opera ha segnato infatti tanto profondamente la cultura letteraria ed artistica occidentale: “dal momento che la Bibbia è scritta in un linguaggio poetico, dovrebbe anche essere possibile considerarla come una sorta di microcosmo o di epitome dell’intera esperienza letteraria dei paesi occidentali3”. Bacino di estensione magistrale – vera e propria “piccola biblioteca4” – da cui attingere immagini (il giardino, il deserto, l’ultima cena…) e temi (la tentazione, il tradimento, l’amore filiale, la fine del mondo…), il Libro per antonomasia è stato oggetto di studio e ispirazione di autori e artisti d’ogni tempo. Né l’influenza del Testo si limita, per così dire, ai “piani alti” della cultura: echi biblici si nascondono dietro innumerevoli proverbi, modi di dire, metafore d’uso comune5. Allo stesso modo in cui si staglia nel panorama delle manifestazioni culturali più pretenziose, parimenti essa permea in modo occulto – e forse per questo più decisivo – nel quotidiano del nostro parlare, nella consuetudine del nostro vivere: “la tradizione dell'Occidente in ogni sua manifestazione, dalla pittura alla poesia, dall'etica alla politica, ha trovato ragione e ispirazione e forma nei libri dell'Antico e del Nuovo Testamento. La parola della Scrittura ha fondato la cultura dell'Europa cristiana. Per gli strati più bassi e incolti della popolazione la chiesa, coi suoi messaggi orali e figurali, ha costituito per secoli il luogo dove si trasmettevano e custodivano i significati di ogni discorso sul mondo6”. Per quanto riguarda la specificità dell’ambito letterario, si può a gran voce affermare che nessun autore degno di questo nome può permettersi di dimenticarne le immagini e le narrazioni, negandone l’indiscussa rilevanza poetica: tutti coloro che si sono impegnati nella stesura di un’opera hanno dovuto in qualche modo fare i conti con l’incombenza del Testo. In questo senso, esso può essere a buon diritto definito “grande codice7” nella sua doppia valenza di “libro” e di “insieme di segni” che permette, come una chiave definitiva e risolutiva, di penetrare l’intero mistero letterario. Tralasciando infatti la pur primaria e fondamentale natura teologica che la concepisce come solo e unico locus salutis et veritatis, la Bibbia rimane indubbiamente una raffinatissima opera letteraria: un

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Frye (2014), pp. 10-11. Frye (2018), p. 4. 5 Si consulti Beccaria (1999). 6 Beccaria (1999), p. 159. 7 La definizione è vichiana, poi ripresa da Frye (2018). 4


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ininterrotto discorso poetico per e sull’uomo di ieri, di oggi e di domani. La si pensi dunque come una vera e propria realtà poliedrica; considerarne solo una faccia risulterebbe piuttosto riduttivo, se non superficiale: “fin troppo scontata l’idea che si sa tutto o quasi della Bibbia, in ambienti religiosi, ecclesiastici o comunque culturali…Se val bene la concezione secondo cui la Bibbia equivale a una lunga lettera di Dio all’uomo, da leggere e da ascoltare con umiltà e fede, tuttavia tale lettera ha un variegato ventaglio di caratteristiche storiche, letterarie, ambientali che, per un cristiano (o no) amante della cultura biblica, è necessario aprirsi a varie suggestioni come a stimoli che aiutano a comprendere meglio tutta la Parola di Dio. (…) Pensavo alla Bibbia come un Grande Contenitore di poesia che, nell’arco dei suoi 72 libri, riporta il lettore a rivedere tutti gli aspetti della storia e della vita come uno specchio che mette a nudo se stessi8”. Volente o nolente la letteratura successiva al Testo ha dovuto così confrontarvisi, in nome anzitutto della natura genuinamente autoreferenziale della letteratura stessa: essa si cita e si autocita, si conferma e si nega. In altre parole, non c’è autore che, anche scegliesse di scartarlo, non consideri ciò che lo precede; il discorso letterario è un campo di battaglia nel quale gli scrittori si schierano a favore o contro quanto è déjà-écrit, passando a fil di spada chi si oppone. Dante combatté per il Testo, così chi combatte per Dante difende, che lo sappia o meno, anche il Testo stesso. Foss’anche stato il sommo poeta un anti-biblico, ad imitarlo si sarebbe fatto ugualmente il gioco del Liber Aeternus: con rimandi, pur se negativi, si sarebbe ancora una volta dimostrata la rilevanza del Testo. Che si neghino o si confermino le immagini e le tematiche bibliche, infatti, poco importa: la crucialità della Bibbia risulta parimenti avvalorata. Se proprio ci si rifiuta di appellarvisi in modo diretto, coerentemente e conformemente alla dilagante anti-religiosità dei nostri tempi, non si possono tuttavia scansare i riferimenti indiretti. Noi tutti infatti conosciamo, proseguendo con il classico esempio, le pagine dantesche: si può dunque dire che tutti, pur con il medium del sommo, siamo in parte familiari con il Testo. I letterati del passato che la conobbero e studiarono – la Bibbia rimase un passaggio obbligato almeno fino al secolo XVIII –, la consegnarono così ai posteri che a loro volta l’accolsero, più o meno consapevoli.

Si sorvolerà sui nomi dei singoli autori e del loro approccio al Testo, e si rimanda per questo alla recente e nobile impresa del Dizionario Biblico della Letteratura Italiana la quale, curata da un’équipe di oltre 150 studiosi d’eccezione, supplisce alla sentita mancanza di “un’opera che si

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Arnone (2015), pp. 8-9.


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proponga di offrire un quadro sistematico e il più possibile completo del legame che le opere e gli autori della nostra tradizione letteraria hanno intrattenuto con il grande codice9”. Nostro interesse, prima di addentrarci nel folto del percorso biblico-luziano, è infatti mettere a fuoco la peculiarità del Testo, comprendere ciò che lo ha reso materia poetica per sempre attuale, consona e confacente alle umane esigenze. Si tenterà di rispondere in questo modo: la Bibbia offre all’uomo un luogo dove sostare e poter riflettere sul senso. Con il suo parlare metaforico ed allusivo, essa rappresenta infatti la trascendenza, la verticalità, l’oltranza10: ciò che, guardando oltre la lettera e il momento, lo valorizza, lo riempie di un significato ultimo. Per quanto l’uomo possa dirsene libero, egli necessita infatti per sua intrinseca natura di una prospettiva con cui e da cui guardare alle cose. Come disse già Vico, poi Auerbach, poi ancora Frye, il Libro parla al genere umano con quel suo linguaggio autentico, primigenio, che fa autorità e la pretende in quanto generato da una coralità – eppure unità – di autori dai labili contorni nell’aurea aetas della parola, quand’ancora essa alludeva e non definiva, pretendeva di cambiare l’uomo e non lo voleva mero fruitore di un testo scritto e morto11. La Bibbia è Testo e – si perdoni il gioco di parole – fa testo perché fatta da parole ancora vive che da sempre e per sempre invitano l’uomo a guardare alla propria origine per interpretarvi il presente o vedervi il futuro. Non si tratta di un’opera magistrale ed autorevole solo in quanto luogo dell’incontro con Dio e deposito privilegiato della sua Parola, ma anche e soprattutto alla luce e in virtù del suo appellarsi alla natura umana e alla sua volontà di rifletterci nei modi più eterogenei: essa è il Repertorio. E non vi mancano le contraddizioni ma vigono, ciò nonostante, coerenza e coesione: un principio sottile ma persistente unisce in una sintesi gli elementi antitetici del vissuto umano, facendo del Testo non una semplice raccolta, bensì un Progetto. Tale chiave, che la si chiami Dio o con un altro nome, poco importa: essa è, perifrasticamente, la risposta alla ricerca di un senso, ed è ciò che in prima istanza e più di ogni altra cosa muove a sfogliarne le pagine. L’eterna quête dell’uomo, per sua natura inquieto, troverebbe in questo senso una valvola di sfogo, un possibile porto sicuro. Tale tensione al significato si lega a quella trascendente del giusto e del vero, come segnala il Dizionario: “il continuo abbeverarsi, immediato o mediato (…) al testo biblico consente il recupero anche del vero; categoria con la quale il rapporto non è stato sempre consentaneo né pacifico,

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DBLI, p. 5. Un ulteriore francesismo del medesimo campo semantico, “oltraggio”, è non a caso utilizzato da Dante in Paradiso XXXIII, v. 57 per rievocare il ricordo di Dio. I termini indicano entrambi qualcosa che sfugge, che eccede ai tentativi di “cattura” da parte della mente umana. 11 Si rimanda in primis alle riflessioni di Auerbach in Mimesis. Cfr. anche Frye (2014): “La Bibbia richiede il genere di risposta attiva e creativa che l’immaginazione dà alla letteratura e alla mitologia” (p. 169). 10


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specialmente a partire dall’età moderna12”. E non a caso, a tal riguardo, la letteratura novecentesca ha sentito più vicine a sé figure bibliche complesse e a loro modo “problematiche” e “scandalose” quali Giobbe o Paolo, per la stessa ragione per cui un lettore di oggi, affrontando i Promessi Sposi, simpatizza con più facilità con la cangiante figura dell’Innominato piuttosto che con la più rigida e meno “comunemente umana” Lucia. Giobbe rappresenta infatti il dubbio, il tormento, il mistero irrisolto del dolore umano: mai nessun altro nel Testo mette a nudo la propria incertezza, il suo lacerante oscillare tra pensieri contrari. Paolo invece è il convertito, e l’intera sua vicenda è da leggere alla luce di tale rivoluzione ontologica: egli è colui che da persecutore diviene il perseguitato. Ammettendo così in sé la prospettiva dell’errore e dell’errare, due dimensioni di forte rilevanza novecentesca, piega la supposta rigidità del testo biblico e lo rende più umano, più vicino al sentire dell’uomo. “Nell’Ottocento e nel Novecento la Bibbia è (…) primum espressivo che precede ogni distinzione e reca in se stesso anche il razionalismo che tende a scioglierlo: ha dunque la formidabile vitalità di ciò che è processo, significato nel suo farsi, immagine al bivio tra univocità e ambiguità13”: Paolo e Giobbe sono la riprova e conferma della coesione del testo biblico, pur nella sua saltuaria contraddizione. Non è forse questo, ovvero il senso delle contraddizioni, a cui l’uomo anela più di ogni altra cosa? È nella Bibbia che l’uomo può riparare ogni qual volta abbia bisogno di trovare una motivazione e un senso al proprio vivere, perché essa “raggiunge il cuore (…) nella sua inquietudine personale, nei suoi intimi drammi o nella appagata mistica, per arrivare alla società, alla comunità, all’eterno conflitto profezia-istituzione, alla purezza della fede e alla sua ‘corruzione’, alla teologia e alla ateologia, ai mille interrogativi che riguardano l’uomo, la storia, il destino, il dolore e la morte14”. Se non sempre, si può concludere, l’esito è pacifico, ci si consoli pensando che finché ci sarà la ricerca di un incontro, sia anche questo uno scontro, ci sarà sempre un’apertura, un dialogo: l’“elefante nella stanza” non può e mai potrà essere ignorato, la Parola continuerà a parlare per chi saprà tendervi l’orecchio.

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DBLI, p. 7. Gentili (2016), pp. 11-12. 14 Arnone (2015), p. 269. 13


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2.2. Luzi e la Bibbia: un approdo tardivo

Si rievochi ora lo stereotipo dell’uomo novecentesco: l’inetto15, l’indifferente16, lo storpio17, qualcuno che non ha qualità18. In altre parole, un vinto che, a differenza di quelli che pur sconfitti la corrente lasciava dignitosi sulla riva19, non ha avuto occasione – o forse non l’ha voluta? – di imbracciare le armi. Di fronte agli scenari senza precedenti di morte e violenza del “secolo breve20”, egli è perso e spaesato: non si riconosce più nell’immagine superomistica ottocentesca21. Gioca così l’ultima carta della speranza, confidando nell’arrivo dei Tartari22 – che pure sa essere impossibile –, o nella parousia di Godot23. In perenne attesa di un confronto con un altro, se non l’Altro che gli dia voglia e ragione di vivere, l’uomo non riesce a mostrare e dimostrare la sua statura eroica, ormai solo presunta. Non solo: non si riconosce neanche più padrone in casa propria24. Come se non bastasse, temendo che il fantasma del totalitarismo torni quale un vecchio Amleto a tormentare suo figlio25, egli è ora restio ad accettare qualsivoglia auctoritas pur avendone, paradossalmente, un disperato bisogno26. Ebbene, la figura di Luzi avanza coraggiosa in questo scenario di secolarizzazione diffusa e speranze tradite; cosa sarebbe successo, sembra azzardare tra le righe il poeta, se l’esercito letterario di inetti novecenteschi avesse abbracciato la propria insufficienza per farne anzi un punto di forza? La risposta è cercata e trovata nel luogo biblico, dove Luzi ripara, riflette, si riconosce. E non si parli di mera evasione: la fuga teologico-letteraria nelle pagine bibliche non è il fine, bensì il mezzo necessario alla riabilitazione del reale e alla riappacificazione con esso. Tale operazione si qualifica dunque, per dirla

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Figura letteraria sveviana per eccellenza; egli è l’inadatto alla vita. Cfr. Gli indifferenti di Moravia, coloro il cui tempo è appiattito, livellato: una grigia distesa vacua di stimoli in cui nulla fa la differenza o si distingue dal resto. 17 Il secolo vede svilupparsi quasi un’“estetica del brutto”; gli storpi, i deformi, i deturpati fanno il loro ingresso nella scena letteraria (cfr. Pirandello, Il fu Mattia Pascal; Tozzi, Con gli occhi chiusi…). Si rimanda anche a Debenedetti (1970). 18 Cfr. L’uomo senza qualità di Musil. 19 Il riferimento è a una nota immagine offerta da Verga nella prefazione al “ciclo dei vinti” in apertura de I Malavoglia. 20 Cfr. Hobsbawm (2006). 21 Secondo in primis gli ideali di Nietzsche e d’Annunzio. 22 Cfr. Il deserto dei Tartari di Buzzati. 23 Cfr. Aspettando Godot di Beckett. 24 Celeberrima e taglientissima conclusione freudiana. 25 Luzi stesso cita Amleto, forse “macchietta” dell’uomo moderno, in Lasciami, non trattenermi, p. 551. 26 Il discorso potrebbe essere approfondito e trovare una sua corrispondenza anche e soprattutto in ambito psicanalitico: il meccanismo di fuga è talvolta azionato da una necessità di riappacificazione con l’oggetto da cui si vuole prendere le distanze. Spesso e volentieri, infatti, l’uomo fugge ciò di cui avrebbe più bisogno, nega e reprime il desiderium, lo seppellisce sotto tumuli di apparenze. 16


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alla latina, come un recolligere: ci si raccoglie per riaversi e riprendersi e in ultima – e più importante – istanza, per mettere insieme il resto, trovare un senso e un ordine alla realtà che ci circonda.

Luzi non approdò subito al porto biblico. Come ricordato nel DBLI, infatti, “la Bibbia per Luzi non è stata un’acquisizione immediata: in un primo tempo della sua poesia è piuttosto evidente una misura devozionale e mariana, derivata dalla religiosità della propria madre, oppure la meditazione speculativa delle Confessiones agostiniane. Una netta e sempre più crescente presenza si ha dagli anni Cinquanta, sbilanciata in direzione neotestamentaria, giacché la sua fede è centrata sul Cristo27”. Se Luzi nacque e crebbe cristiano, un avvicinamento più consistente e letterariamente testimoniato si ebbe solo nella seconda metà e alla fine della sua lunga vita, come conclusione di una lenta e graduale maturazione: non si tratta tuttavia di un percorso meramente poetico-letterario né solamente filosofico-religioso, ma un viaggio che trova un suo movente e una sua destinazione in un intreccio coeso e armonico di intenti ed interessi. Da grande studioso conobbe senz’altro buona parte della Bibbia latina e la versione italiana nella sua interezza; a riguardo, sappiamo che fu uno dei revisori – insieme a Petrocchi, Devoto e Migliorini, per citarne alcuni – dell’editio princeps della CEI 1971 (poi editio minor 197428) e scrisse l’introduzione a Giobbe, a Giovanni, alle lettere paoline e all’Apocalisse. Ulteriore conferma dell’interesse di Luzi per il Testo e, più in generale, per la liturgia sono state le parole del suo grande amico Nino Petreni, ad oggi direttore del Centro Studi “La barca”, che ho avuto modo di incontrare di persona nel novembre scorso durante una mia visita a Pienza, per il poeta luogo d’eccezione e d’elezione. Di Bibbia e fede il Nostro parlava spesso, sempre a detta di Petreni, con Don Flori (1915-1996), sacerdote, insegnante, grande studioso, carissimo amico e guida spirituale del poeta29, durante le loro “nuotate30”.

Preme evidenziare poi quanto Luzi giunga alla Bibbia e, più propriamente, alla verità del Verbo incarnato attraverso il medium materno: è il principio femminile, il ricordo della madre alla quale era estremamente legato a trasmettergli il senso della caritas, dell’amore disinteressato che si dà senza

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DBLI, p. 531. Alla quale si è scelto di far riferimento, nell’ambito di questa trattazione, per i passi biblici presi in esame. 29 Cfr. un articolo di Petreni sull’amicizia tra Don Flori e Luzi, un legame indubbiamente importante: http://www.centrostudipientini.it/wordpress/?p=501. Sull’argomento, cfr. anche https://centroluzilabarca.it/il-centro/unamico/. Da notare, poi, che la sezione V di Dottrina dell’estremo principiante, “Floriana” è dedicata proprio a Don Flori. 30 Petreni: “Così chiamavano le loro lunghe passeggiate per il borgo di Pienza”. 28


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nulla aspettarsi o pretendere in cambio, e dell’abnegazione del sé che è in realtà sua elevazione31. L’amore per la madre è linfa della fede luziana ed è ciò che tiene le radici dell’albero ben profonde nella terra del suo mondo: il femminile ricorda infatti la genesi, la fecondità del con-crescere. Si spiega così l’inclinazione del poeta ad una spiritualità più – sulla scorta del maestro Teilhard – panenteistica32 e meno mistica. Se infatti l’astrazione è necessaria all’uomo per l’intuizione di Dio, tuttavia per raggiungerlo è altresì fondamentale l’attaccamento al concreto, a ciò che ben si vede, si sente, si tocca su questa terra: “negli anni anche la sua poesia ha sempre più perseguito una ‘animazione intensa’, alimentata da un incrocio di letture formative tra Teilhard de Chardin, Plotino e Lucrezio, con un progressivo sentimento creaturale33”. Trova così una sua spiegazione anche la familiarità e simpatia del poeta nei confronti del Nuovo Testamento, senz’altro maggiore rispetto a quella nutrita per l’Antico: se le pagine precedenti all’avvento di Cristo possono a tratti sembrare rigide, lontane, quasi inarrivabili al sentire umano, chiuse quali sono nel loro intatto universo di sapienza – pur con le dovute eccezioni: si veda infatti Giobbe, Qoèlet e certi fragmenta dai profeti –, la vicenda di Gesù implode invece nel reale offrendosi all’uomo in tutta la sua scottante e scandalosa realtà. È nel solo Nuovo Testamento che all’uomo è permesso toccare con mano la rivoluzione del Verbo nel vivo della sua carne, esperire la sun-patheia del creato con il suo Creatore. La fede neotestamentaria appare più “semplice” – etimologicamente, “con una sola piega” – perché testimoniata dal figlio di un umile falegname, un bimbo nato in una mangiatoia, ma non per questo è priva di contraddizione. Quest’ultima è infatti ciò che dà profondità, movimento, vita: da essa prende origine il mistero cristiano, lo scandalo del Dio fatto uomo. Le pieghe della fede sono infinitamente diverse così come lo sono le creature che abitano il mondo, eppure in esse è già contenuto un principio di sintesi, di risoluzione: è con la forza di tale consapevolezza che Luzi chiude talvolta le proprie poesie con formule bibliche che testimoniano accettazione e celebrazione34. Va da sé, dunque, che il fuoco dell’attenzione luziana è Gesù in tutta la sua vitale contraddizione di uomo e Dio: è solo riappellandosi alla dimensione prettamente carnale e terrena di Cristo che lo si riconoscerà vicino, e lo si potrà accogliere come vero. “Luzi ha scritto meditazioni e saggi sulla voce diretta di Gesù, come testimoniata dai sinottici, su Paolo, su Giovanni (Vangelo e Apocalisse)35”, e 31

DBLI: “Varie volte [tale principio femminile, n.d.e.] si incarna nella Chiesa e in Maria, con una significativa volontà di condensazione, per cui non è facile – né forse utile – tentare specifiche distinzioni” (p. 532). 32 Se ne tratterà nel capitolo successivo. 33 DBLI, p. 532. 34 Cfr. la poesia introduttiva di Sotto specie umana, p. 29, o anche p. 33 (pur mediante una perifrasi e tempo imperfetto, “così pareva, così era”). In Dottrina dell’estremo principiante, p. 343 sorge invece una scongiura, antitesi logica alla formula di accettazione, “non sia, non avvenga”, ma anche in questo frangente, nonostante le momentanee ritrosie ed incertezze del poeta, “il (…) disaccordo si concilia”. 35 DBLI, p. 531.


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“in Gesù e la Parola (1953) (…) mette in rilievo l’importanza di ciò che è omesso nei Vangeli, cioè la formazione umana di Cristo e il suo anonimato nella vita del borgo36”. Tra gli echi più esplicitamente neotestamentari si annoverano anzitutto in Sotto specie umana l’episodio di Emmaus (pp. 37-38, cfr. Luca 24, 13-31); l’intera sezione III, intitolata “Resurrexit”, l’immagine del “primo verbo” (p. 159, cfr. Giovanni) e la menzione di Giovanni stesso (p. 170). In seconda istanza, in Dottrina dell’estremo principiante: il nome di Luca (p. 339, all’interno di un frammento tratto da Apostolando, “una serie incompiuta dedicata a un pover’uomo dei nostri giorni in cui immaginai sopravvivesse e vivesse un apostolo”, p. 438); l’immagine della vigna (p. 410, cfr. già Isaia ma anche Matteo 20, 1-6 e 21, 28-42; Marco 12, 1-12); l’invocazione alla venuta del regno di Cristo (p. 422, cfr. Matteo 6, 10; Luca 11, 2). Da ultimo, in Lasciami, non trattenermi: Marta come laboriosità domestica per antonomasia (p. 462, cfr. Luca 10, 38-42; Giovanni 11, 1-46 e 12, 1-9); l’immagine delle montagne smosse dalla fede (p. 478, cfr. Marco 11, 22-24); ancora una volta la vigna simbolo del popolo (p. 479); l’augurio che vi sia “pace agli uomini di buona volontà” (p. 572, cfr. Luca 2, 14).

Nonostante il senso sia cercato e riscontrato anzitutto nell’umanità del Verbo Neotestamentario, non mancano tuttavia, come già accennato, riferimenti all’Antico. In Sotto specie umana: l’immagine del libro a p. 33 (cfr. Salmi 139, 16); la figura di Adamo a p. 67 (cfr. Genesi); l’invocazione per la liberazione dalla “morsa” a p. 72 (cfr. Salmi 66, 11); Eva alle pp. 116-117 (cfr. Genesi); la caducità umana a p. 154 (cfr. Qoèlet); l’espressione “in immagine e in sostanza” di p. 178 (cfr. Genesi 1, 2627). In Dottrina dell’estremo principiante: la labilità della storia umana a p. 355 (cfr. Qoèlet); nuovamente l’immagine della vigna come popolo (cfr. Isaia 5); la vita che “tutto ciò che dà tutto si riprende” a p. 435 (cfr. Giobbe 1, 21). Infine, in Lasciami, non trattenermi: la menzione di una “penitenziale geremiade” a p. 466 (cfr. Geremia); il “desiderium collium aeternorum” a p. 476 (cfr. Genesi 49, 26); ancora l’immagine della vigna a p. 479 (cfr. Isaia 5); la menzione dell’occhio che tutto vede a p. 481 (cfr. Giobbe 10, 4; Proverbi 15, 3; Zaccaria 9, 1; Salmi 11, 4); la figura della “mano attenta e caritatevole” a p. 486 (cfr. Giobbe 5, 18 e 10, 8; Qoèlet 9,1; Salmi 89, 22 e 104, 2728; Deuteronomio 33, 3; Sapienza 3,1…); i patriarchi a p. 514 (cfr. Genesi 5); il deserto che rifiorisce a p. 555 (cfr. Isaia 35, 1-2). Permane in entrambi i Testamenti, ed è ciò che muove in prima istanza l’interrogazione del Testo da parte del poeta, la ricerca del comune sentire, che permette e realizza l’incontro di umano e divino: 36

Ibidem. Paradigmatica è poi la Via Crucis al Colosseo, stesa da Luzi in occasione del Venerdì Santo del 1999, nella quale il poeta insiste molto sulla rappresentazione della “plenitudine umana del Cristo” (DBLI, p. 536).


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“anche la più sporadica attenzione verso l’Antico Testamento, come nel caso di Giobbe, ha tale misura37”. Altra figura biblica particolarmente cara a Luzi è Paolo, “cruciale (…) a partire dagli anni Settanta: cfr. Glossolalia e profezia38”. La vicenda paolina è decisiva in quanto testimonianza dello scandalo, della salvifica irruenza del Verbo nella vita dell’uomo: è in lui che, tramite il suo “spirito agonico39”, rivelazione e occultamento trovano una loro sintesi, dolore e salvezza una loro risoluzione. L’insistere sull’altalenare di presenza-assenza, esplicito-implicito del Verbo nel reale è tra l’altro evidente nella ripresa dell’episodio biblico veterotestamentario del “roveto ardente (Esodo 3, 1-6) (…), emblema (…) del tragitto di epifania e occultamento del divino nella storia40”. Gli episodi più citati si concentrano così, come deducibile, intorno alla vita di Cristo: Incarnazione41, Crocefissione42 e Resurrezione43 sono termini ricorrenti, sia nell’ambito di una ripresa diretta dell’evento cristiano, sia per mezzo di trasposizioni in un contesto moderno: “nella sua tarda poesia Luzi usa più volte la testimonianza sinottica, che scava e approfondisce l’evento sacro44”.

Ed effettivamente nell’ambito dell’ultima trilogia abbondano le citazioni e i rimandi evangelici, quali il già menzionato passo di Emmaus tratto da Luca 24, 13-31 e riproposto in due componimenti contigui di Sotto specie umana, del cui primo si propone qui la lettura:

Ci segue, ci sopravanza, si accompagna con noi, per lunghi tratti ci respira al fianco, seminascosto dalla tarda luce, occultato dalla sua presenza l’uomo soprapensiero e taciturno eppure innaturalmente attento.

37

DBLI, p. 531. Ibidem. 39 Luzi (2010), p. 135. 40 DBLI, p. 533. 41 Cfr. Sotto specie umana, p. 45; Dottrina dell’estremo principiante, p. 321. 42 Cfr. Sotto specie umana, p. 92; Dottrina dell’estremo principiante, p. 324. 43 Cfr. La terza sezione di Sotto specie umana; Dottrina dell’estremo principiante, p. 326. 44 DBLI, p. 533. 38


16 A che? ci scorta forse sulla strada dolorosa della rotta e del rientro qui tra i monti o ci chiede protezione lui stesso pel viaggio che l’attende? lo sogguarda il mio compagno, io pure senza parere non tralascio di scrutarlo. Ancora non sappiamo niente quando a notte quasi fatta entriamo tutti insieme nella semioscurità della taverna. Quel pane, quelle mani che lo frangono, lo sguardo, il troppo lesto addio. Sarebbe stata poi – lo sapevamo noi di Emmaus – questa la materia del racconto. Vennero e se ne andarono al primo far del giorno45

Gesù non è un uomo che cammina da solo: procede come gli altri verso Emmaus. Inarrivabile eppure così vicino, egli reca con sé l’onere del dolore e dell’incertezza come un qualunque altro uomo sulla via della vita. Precede e al tempo stesso segue i suoi compagni, e sembra assorto: nel folto dei suoi pensieri nasconde un gran mistero, qualcosa di ben più grande del quale gli altri non possono che intuirne vagamente le forme, afferrarne la fuggevole eppure evidente esistenza. Egli è una guida, eppure necessita di un sostegno, una scorta: offre protezione o la richiede? Il dubbio si scioglie nella semioscurità di una taverna, al frangersi del pane: Gesù si manifesta in tutta la sua umana divinità, compiendo il più familiare, quotidiano e scandalosamente banale di tutti i gesti. La vera grandezza risiede nell’umiltà, l’amore in una ferita sanguinante per la salvezza altrui: questa è la materia del racconto. Questo, in sostanza, il lascito biblico e luziano, l’oggetto e il soggetto della vita.

45

Sotto specie umana, p. 37.


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Ed è dunque solo sul far della sua vita che la Vita si fa: Luzi si ripiega sull’evento cristiano e lo comprende, lo abbraccia in tutta la sua pienezza: “quando sembra che ci sia la fase calante, mentre in effetti è lì a sognare, a progettare, a costruire i suoi piani ideali e affettivi…quell’ispirazione, quel momento in cui il poeta ha coscienza che la poesia sta per nascere, prende forma e plasticità nell’uomo piagato dal dolore, dalla croce, nel Cristo vicino e immerso nella sua passione (…). Luzi si trova di fronte a Gesù condannato, flagellato e coronato di spine che intesse un dialogo col Padre, una invocazione in cui è già presente la certezza della risurrezione, ma anche l’amarezza del calice da bere. (…) Non gioca di fantasia, ma si sente molto legato al testo evangelico, che è quel che basta, quel che parla da sé, quel che dice già tutto46”. E se Cristo è la chiave che apre la porta del mondo e la Bibbia lo scrigno ove questa è riposta, che il poeta possa aiutare chi si è perso nel cercarla: che sia per gli altri bussola che suggerisca in quale misura, e verso quale direzione muovere i propri passi alla ricerca del senso.

46

Arnone (2015), p. 176-177.


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2.3. All’ombra del maestro Teilhard

Nel vagliare l’influenza del Testo sulla poetica di Luzi, sarebbe inopportuno tralasciare l’illuminante quanto controverso medium di Pierre Teilhard de Chardin (Sacernat 1881- New York 1955), oggetto d’indubbia ammirazione e ispirazione per il Nostro nella sua ricerca di cristiano, di poeta, di uomo. Scrittore prolifico affamato di vita e sapere, Teilhard manifestò nella concretezza dei suoi molti impegni (di gesuita, di paleontologo, di portaferiti…) un profondo amore per il mondo in ogni sua manifestazione, sia questa astratta o concreta. Nella dedizione a vari ambiti dell’umana esistenza, qualcosa resta costante: è un intento conciliatore, un’aspirazione a scoprire quel principio di sintesi, di logica interna di pace e coesione che riesca a giustificare e validare una connessione tra elementi apparentemente conflittuali – in primis il binomio scienza-fede – e ne sciolga così le contraddizioni. Nella visione comprensiva ed inclusiva teilhardiana ogni possibile evasione è negata, ogni comoda scorciatoia vietata: anche il “difficile” del mondo, ciò che mina la serenità del pensiero, la logica di un Percorso o l’ortodossia del Verbo non viene bistrattato, occultato, dimenticato. Al contrario, esso viene analizzato con una precisione che vuol essere scientifica – da paleontologo, si potrebbe dire – perché possa essere compreso, accolto, e affinché vi si possa riscontrare una legge: quella Legge che, monito della comune appartenenza, fugge il divisionismo e svilisce la categorizzazione, tendenza semplicistica ben comune tra gli uomini. Ciò non implica, tuttavia, il rifiuto della distinzione, bensì un invito a riconsiderarla in funzione di un progetto più ampio che esuli la mera episodicità del conflitto di cui la distinzione stessa è spesso foriera: “la polarità non è negata, anzi la visione del mondo presentata da Teilhard è costruita su di esse ma sviluppata in un divenire che ne scioglie la tensione nel compimento futuro47”. Nella diversità creaturale, infatti, ciò che perdura come elemento chiave unificatore e solutore è Cristo, compagine del cosmo: è Lui che garantisce una congrua e coesa connessione tra i vari elementi, una convergenza precisa verso un fine, e assicura la resistenza a qualsiasi minaccia di rottura. Per comprendere tale verità occorre consapevolezza, un elemento necessario al cammino dell’uomo e al suo avanzare nel sapere che si compra pagando il necessario scotto del dolore. E progredire, sempre crescere e farsi altro, è d’altronde l’imperativo umano più urgente: se nel creato, nel quale non si concepisce alcuna casualità, permane un fine, un télos preciso, il punto Omega è il traguardo a cui il movimento cosmico perennemente anela. Può sorgere però un dubbio: se è identificabile un punto preciso, una destinazione ultima del divenire, come fa il cammino a dirsi 47

Palese (2016), p. 104.


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perenne? Questa contraddizione si rivela apparente quando si considera la natura stessa di tale punto: esso è l’Evento, è ciò che dà senso – e dunque una continuità, una trascendenza, un andar oltre il singolo momento – a tutto il resto. Paradossalmente, il divenire trova così nel punto d’arrivo un suo avvaloramento: quest’ultimo, infatti, non fa che suggerire ancora una volta quanto sia necessario continuare a procedere, e mai fermarsi. Tradotto: l’uomo non sarà mai Dio, e dunque non potrà che camminare perennemente nell’impossibile tentativo di raggiungerlo; il punto Omega è la nascita e resurrezione di Gesù: un momento rivelatore, certo, che non segna tuttavia la fine del percorso, bensì il suo vero inizio. Per utilizzare un’immagine più familiare, si pensi al cammino di un uomo il cui unico imperativo è quello di continuare a muoversi: egli attenderà un segno, qualcosa che possa dargli indicazioni sul senso del suo percorso. Finalmente, ecco che appare ai suoi occhi il tanto anelato annuncio: un cartello gli intima di procedere ancora. Il momentum ha segnato l’arrivo di ciò per cui ci si è messi in cammino – la marcia muove sempre dalla ricerca di un senso –, ma una volta giunti a tale indicazione si è compreso che il percorso non è ancora concluso: anzi, sembra suggerire il cartello, non si è che all’inizio. Il senso della vita umana è dunque il perenne divenire senza contemplazione di sosta, e il progresso è l’unica prospettiva possibile: “non è una scelta, non è prerogativa di un sottogruppo umano – i cosiddetti ‘progressisti’ –, ma una condizione originaria del vivere umano, progredire è vivere48”. Con un’altra immagine, l’uomo è viator, umile pellegrino sempre in cammino: la vita è eternamente in statu viae, e trova un suo riferimento ultimo solo nella figura risolutiva, sintetica, di Gesù. Non si tratta dunque di un avanzare fine a se stesso, un’inclinazione al nuovo sotto cui si possa celare un’insoddisfazione delle circostanze presenti, bensì un profondo attaccamento ad una novità che, pur non togliendo valore a ciò che sorpassa, porta con sé una vera trasmutazione. Se un avvicinamento a qualcosa implica necessariamente un allontanamento da qualcos’altro, ciò da cui si prende le distanze non va, nella visione teilhardiana, interpretato come scarto di cui sdegnosamente liberarsi, ma come valido e necessario punto di partenza; in altre parole, la prospettiva ascensionale del percorso umano non prevede una degradazione di quanto viene prima, bensì sposta il baricentro dell’interesse alla sua strumentalità di gradino, di momento necessario al successivo49. Tale valutazione nobilitante del creato, del momento circostante, della vita terrena è giustificata dalla visione di Dio in quanto al tempo stesso trascendente e immanente nel mondo di cui facciamo esperienza; d’altronde anche l’uomo stesso “rivela qualcosa del mondo, è segno di una dimensione della realtà non misurabile ma reale, constatabile, indizio della presenza divina nel cosmo intero50”.

48

Palese (2016), p. 94. Come nell’immagine della scala a chiocciola, qui adottata per l’esposizione dei percorsi tematici biblico-luziani. 50 Palese (2016), p. 81. 49


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Dio non è dunque interamente soprasensibile ma neanche totalmente fenomenico: presente nel mondo ma da esso distinto, Egli è colto per illuminazioni ed intuizioni. Questa la sostanza del paradosso: Egli è qui ma è anche altrove, in una dimensione ulteriore, perché non tutto è Dio (pan-theos), bensì tutto è in Dio (pan-en-theos). Ecco perché, sostenuti anche da ciò che Paolo afferma in Corinzi 15, 28, si preferisce parlare di prospettiva panenteistica piuttosto che panteista, difendendo quest’ultima una visione eccessivamente omologante del mondo che rigetta l’idea di creazione. In altri termini ancora, non si può andare a caccia di Dio e aspettarci di poterlo catturare come una lucciola in un barattolo51: Egli lascia ovunque segni di sé ma sfugge a qualsiasi tentativo di cattura, di limitante costrizione nel qui ed ora. Il Signore non è infatti circoscrivibile in un unico elemento mondano, non è inscrivibile nel registro del nostro spazio e del nostro tempo, pur restando ogni coordinata spazio-temporale una sua necessaria manifestazione, un indizio, un’ombra. L’immensità di Dio esiste e permane in ogni singolo istante e al tempo stesso lo trascende, coerentemente con quanto annunciato ancora una volta da Paolo con il potente termine parousia52, che vale sia “presenza sensibile” che “ritorno”: Egli, attraverso la figura tangibile di suo Figlio, fu carne ed ossa nel mondo senza perdere il suo statuto ontologico di essere superiore, trascendente. Presenza e mancanza, immanenza e trascendenza sono le coppie oppositive che trovano nel suo nome un’unica soluzione: “il seno di Dio è immenso, «multae mansiones». Eppure, in questa immensità, esiste per ognuno di noi in ogni istante, una sola posizione possibile, quella in cui si stabilisce la fedeltà continuata ai doveri naturali e soprannaturali della vita. (…) Per il Pagano, la realtà universale esiste solo in quanto proiettata sul piano del tangibile; è immediata e multipla. Il Cristiano assume esattamente gli stessi elementi: ma li prolunga secondo il loro asse comune che li ricollega con Dio e, di conseguenza, l’Universo per lui si unifica pur essendo raggiungibile solo nel centro finale del suo compimento53”. All’uomo sono offerte così le chiavi cosmiche: Cristo è morto per lui e a lui ha lasciato un messaggio di salvezza che non aspetta altro che essere colto, compreso, fatto proprio. Nonostante, però, l’uomo raggiunga livelli di coscienza di sé indubbiamente superiori alle altre creature – e qui Luzi dissentirebbe –, egli deve ricordare di non avere la coscienza di Dio, pur avendo di lui coscienza: l’uomo non potrà mai assolvere alla funzione di Dio, perché egli non sarà mai Dio. Eppure, riuscirà in qualche modo a intuirne la presenza, a riscontrarne la rilevanza nel reale per brevi accenni, sottili ma sostanziali indizi. Si tratta, in questo modo, di ridimensionare la grandezza dell’uomo in funzione

51

Caproni, l’eterno “cacciatore di Dio” (cfr. Il franco cacciatore, Il conte di Kevenhüller, Res amissa…), potrebbe forse dissentire. Tuttavia, l’insuccesso delle sue battute non fa che avvalorare la nostra tesi. 52 1Tessalonicesi 4, 13-18. 53 Teilhard de Chardin (1968), p. 90-91.


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di qualcosa di cui egli pure è manifestazione, ma della quale non potrà mai dirsi vero proprietario. In breve, l’uomo non è Dio e Dio non è di lui, ma Egli è per lui. Alla luce di questo breve excursus sul pensiero teilhardiano – che non ha alcuna pretesa di esaustività – le pagine di Luzi si fanno forti di un compagno, un maestro, un alleato teologico e a suo modo poetico. Cosa condividono, nel concreto, i due pensatori? Senz’altro la visione inclusiva e comprensiva del creato, senza approdare tuttavia alla facile conclusione di una solidarietà ottimistica tra tutti gli elementi: differenze e distinzioni persistono e queste sono spesso foriere di scontri. Ciò che viene a mancare però, in nome e alla luce dell’elemento risolutore, ovvero la chiave di volta cristica, è la divisione, il conflitto nichilistico: la contraddizione cioè che è fine a se stessa, lo scontro che annulla per non creare nulla di buono. L’urto è così concorde, la collisione armonica, e il contrasto conciliato. Nel creato viene riconosciuto nel bene e nel male un comune sentire, una comunione d’affetti o, per dirla con Foscolo, una “corrispondenza di sensi54”: uniti tutti nella gioia e nel dolore nel nome di Cristo, ogni elemento vive la propria vita e al tempo stesso quella degli altri, in una sorta di matrimonio creaturale. In seconda istanza, il mondo è concepito in perenne movimento: la crescita è l’unica prospettiva possibile. Non si tratta però di un avanzamento lineare che legge la progressione come mero allontanamento da un punto A e un avvicinamento ad un punto B dal primo lontano per qualità ed importanza, bensì di un movimento circolare che nella sua fine – il signum di cui abbiamo parlato, che in Luzi prende il più preciso nome di evento deflagrante – trova un invito a continuare. Nell’omega, in sostanza, si trova l’alpha, nella vita la morte, e così via: giunti a quella che si pensava essere la fine, si scopre di essere solo all’inizio. Nel mondo, tale verità non può che mostrarsi per accenni: si parla, apertamente in Teilhard e sotto la maschera poetica in Luzi, di un Dio che più che epifanico appare diafanico. Egli è infatti presenza pervasiva, irradiata, diffusa temporalmente e spazialmente nei fenomeni. In nome della sua onnipresenza, non lo si può racchiudere in un solo frangente: pur dando segno tangibile di sé in momenti che possono definirsi epifanici – in primis lo stesso avvento di Gesù – Egli rimane perennemente effuso nel mondo da lui creato, trasparente e invisibile, per l’uomo vicino ed inafferrabile al tempo stesso:

Ci sei intensamente,

54

Dei sepolcri, v. 30.


22 ci sei fino a tal punto da parere che tu manchi, occultato nell’istante, inabissato nel presente55

In questo senso, anche per Luzi come già per Teilhard Dio è immanente e trascendente al tempo stesso: Egli rende l’eccezionalità comune senza sminuirla, e la banalità eccezionale senza sovrastimarla.

Chi è, non è nessuno ma c’è, onnipresente, colui che raccoglie questo dialogo e passa tra gli effimeri che passano nel vento inesauribile del mondo...56

È doveroso, ora che si sono elencati i principali punti di tangenza, menzionare una questione che forse troverebbe i due pensatori in disaccordo: si tratta dello spinoso problema della consapevolezza, per Teilhard prerogativa del solo uomo. Nelle poesie ultime di Luzi, la presa di coscienza di sé coinvolge invece tutti gli elementi del creato, animali compresi57: si potrebbe dire, in questo senso, che la lettura luziana del mondo prevede un allargamento, un potenziamento di quella già panenteistica di Teilhard. Le due opinioni trovano, con buona pace di entrambi, una parvenza di risoluzione se si considera la frequente antropomorfizzazione degli animali nelle pagine di Luzi: la coscienza dell’uomo è infatti così abile e potente nel farsi “altra” da riuscire a riconoscersi in tutte creature e non accoglierle come mere compagne dell’avventura esistenziale, ma come vera e propria altra parte di sé. Volendo concludere con un segno di pace, ultimo elemento comune ai due fu l’indubbio impegno nel sociale, nella convinzione che le considerazioni teologiche assumano un valore solo quando e se

55

Sotto specie umana, p. 93. Sotto specie umana, p. 119. 57 In Dottrina dell’estremo principiante addirittura un’intera sezione è dedicata agli “animalia” e al loro modo di vivere il mondo. 56


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trovano una loro corrispondenza pratica, una traduzione nel concreto del vivere. Le riflessioni non rimangono così sterili elucubrazioni iperuraniche, o come dir si voglia “voli pindarici” da intellettualoidi, bensì osano raggiungere con i loro raggi il mondo in cui si vive, “si riflettono” per davvero nel reale: solo in questo modo lo nobilitano, ricevendone al tempo stesso una validazione, una concreta pienezza. “Teilhard si assume l’impegno di mostrare come l’osservazione del mondo porti alle soglie della fede e di come la fede potenzi l’osservazione del mondo58”, scrive Palese. Un impegno che anche Luzi si caricò sulle spalle e al quale, possiamo senz’altro aggiungere noi, non fu da meno nel corrispondere.

58

Palese (2016), p. 30.


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3. Precisazioni metodologiche: la scala a chiocciola

Prima di procedere, occorrono un paio di precisazioni metodologiche. I componimenti di Luzi sono enigmatici, a loro modo sempre ermetici; pur emergendo da una situazione contingente sembrano distaccarsene, astrarsi e dire altro oltre alla mera lettera, oltre l’occasione che le ha originate. Come si è detto, non si tratta di snobilitare il reale, ma tutt’altro: l’operazione del poeta è una vera e propria conferma del creato in quanto realizzazione ultima e sensata di un Progetto. Alla luce di questa sostanziale lente interpretativa, ci si è concessi di prelevare ogni componimento dalla sua accidentalità e leggerlo in qualità di indizio di qualcosa di più vasto. In sostanza, la lettura delle poesie ha mosso così da un superamento della mera prospettiva episodica. Complice il loro ermetismo, i componimenti si aprono paradossalmente ad un ventaglio interpretativo ben più ampio, risultando adeguati a più circostanze: si tratta della potenza dell’alludere, infinita rispetto a quella del dichiarare. Non dandosi una chiave che possa offrire una lettura chiara del cogente, un componimento apre così il campo ad un’interpretazione più libera, aperta, svincolata dalle catene del momento spaziotemporale in cui è nata e da cui ha preso ispirazione. Poco importa dunque, nel percorso che si compirà, rilevare le particolari circostanze della poesia, chiedersi con precisione chi siano quella donna o quell’uomo di cui si parla. Pur avendo origine, come d’altronde ogni creazione artistica, da una precisa ispirazione del reale, le poesie hanno il prezioso dono della coralità: con la loro indefinibilità, reticenza, enigmaticità, la donna e l’uomo diventano ogni donna e ogni uomo.

In secondo luogo, per procedere in modo ordinato e coerente nella trattazione dei percorsi tematici che accostano topoi luziani a quelli biblici, si farà riferimento, come già si diceva, alla comodità domestica dell’immagine della scala a chiocciola. Ogni piano della metaforica scala rappresenterà uno stadio superiore verso la consapevolezza del sé: 1) Profezia: la previsione 2) Natura: l’osservazione 3) Illuminazione: la deflagrazione 4) Dolore: la morte 5) Amore: la riconciliazione 6) Infanzia: la rinascita Nel suo avventurarsi umano e poetico, Luzi si è fatto profeta come Isaia o Geremia: intuitore di verità superiori nascoste sotto richiami del mondo naturale. Dopo un iniziale momento di previsione sul


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mondo manifesto, ha avuto riscontro di ciò che aveva pre-visto con un’effettiva osservazione della natura. Teso e proteso ai fatti, attento ed intento ad osservare le circostanze per come gli si presentavano, è stato stordito dall’eccezionalità di un accadimento particolare, quell’Evento con la E maiuscola che spezza la monotona catena quotidiana e segna un prima e un dopo, quale l’illuminazione damascena. Ma a quale costo! Che fatica abbandonare le iniziali supposizioni, le proprie convinzioni e punti fissi, abbandonare il precedente sé e aprirsi a una nuova verità! Si è così interrogato sul dolore, riconosciuto comune a tutto il creato, e si è domandato perché all’emergere della verità segua un forte dolore. Si è risposto ripensando alla croce, dove la vita e la morte diventano una cosa sola, trovano una loro definitiva risoluzione. Risolta l’antitesi ultima, non può che esserci conciliazione, armonia. La deflagrazione è infatti chiarificatrice, ed è in funzione dell’illuminazione e del dolore che ne consegue che si ha la possibilità di riconoscere l’unione del tutto. Il creato allora, anche se soffre, è visto danzare e cantare: è riconosciuto corpo comune reso vivo da una matematica celeste, in accordo con quanto suggeriva Paolo. La rivoluzione è grande, quasi una rinascita: ci riconosciamo tutti bambini, allevati da una nuova madre comune. Paradossalmente, lo scenario d’incontro con l’essere più grande, il Dio creatore, è la semplice carnalità di un grembo. Ed è da qui che inizia il viaggio.


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3.1. Previsione di un umile profeta

Il punto di partenza di questa investigazione della realtà biblica e della poesia luziana è la previsione profetica. Pre-vedendo al di là delle cose e pre-dicendo oltre il presente, i profeti annunciano una verità che ancora non appartiene loro del tutto ma di cui, in quanto eletti, sono stati informati personalmente da Dio. Profetare è infatti l’onere-onore destinato all’uomo illuminato che, graziato da una conoscenza intuitiva del mondo, vi si protende annunciandovi un ordine invisibile ai più. Su iniziativa e volere di Dio, il profeta è da lui chiamato ad essere ricettivo ed ubbidiente: la sua vocazione è quella di porsi nella condizione di chi ascolta ed interpreta, e non piuttosto di chi indovina. Ben diversa è infatti la figura del profeta da quella dei maghi; l’affidabilità delle intuizioni degli indovini è nulla, mentre la fonte dell’ispirazione profetica – se di un vero profeta si tratta – è indiscutibilmente certa. Avverte a riguardo Geremia:

[8] Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: «Non vi traggano in errore i profeti che sono in mezzo a voi e i vostri indovini; non date retta ai sogni, che essi sognano. [9] Poiché con inganno parlano come profeti a voi in mio nome; io non li ho inviati». Oracolo del Signore59

La figura del profeta si discosta, pur con meno evidenza, anche da quella del sapiente: mentre quest’ultimo ha provato ed esperito la verità di cui si fa ora portavoce, il primo parla di un qualcosa che ha conosciuto in nuce, affidandosi senza riserve ad un’autorità e fonte di sapere a lui esterna. Sulla complementarietà di sapienza e profezia, si legga Frye: “La sapienza, con il suo senso di continuità, ripetizione, tradizione e prudenza è la manifestazione più alta del livello di funzionamento normale di una società. (…) Se la sapienza è, infatti, l’individualizzazione della legge, la profezia è l’individualizzazione dell’impulso rivoluzionario ed è innestata nel futuro come la sapienza lo è nel passato60”. Si potrebbe dire che la profezia guardi al futuro mentre la sapienza tiene le proprie radici nel passato; tuttavia, è solo la prima a detenere il potere di legare insieme tutte e tre le dimensioni del tempo umano: “i profeti sono uomini del loro presente, all’interno del quale trovano l’eterno. È per questo che essi sono contemporaneamente datati e attuali61”.

59

Geremia 29, 8-9. Frye (2018), p. 154. 61 Ravasi (1992), p. 13. 60


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Non a caso, il profeta è etimologicamente “colui che dice prima”: parla nel presente di qualcosa che, in un passato presumibilmente prossimo, gli è già stato annunciato e sarà valido nel tempo che verrà. Egli è in sostanza colui che ieri ha già nozione del domani: il suo è un continuum temporale che non conosce se non labili confini. Il suo meccanismo di scoperta della realtà è più intuitivo che deduttivo: egli è capace di guardare dentro le cose62 prima di averle toccate con mano, utilizzando gli occhi della mente più che quelli fisici. Egli non ha nozione dell’esperienza quale ne avrebbe un sapiente: la sua conoscenza deriva da un’intuizione tutta rivolta al futuro e che proviene da Qualcuno di anteriore, che gli sta innanzi.

Nell’ultima trilogia il termine compare più volte; per il poeta il profeta è colui che emerge

dalle viscere della sua ancora non guarita storia a risvegliare gli eventi, a renderli presenti63

Non incarna l’Evento in sé, ma è colui che contribuisce a risvegliare l’impatto dell’Evento stesso nella realtà, fungendo da cerniera temporale tra l’avvenuto e l’avvenire: la sua testimonianza è fondamentale, ma rimane pur sempre una funzione la cui natura meramente strumentale, per non peccare di superbia e perdere il favore di Dio, egli deve tenere bene a mente. A questo riguardo, non si dimentichi che una seconda lettura etimologica del termine propone “colui che parla in voce di, in qualità di”: il confine logico tra parlare per Dio e parlare da Dio può apparire labile, eppure è di importanza vitale fare attenzione a non oltrepassarlo. Secondo un’altra pittoresca immagine fornita dal poeta si può leggere il profeta come un insonne, un uomo precocemente sveglio che attende “i primi passi all’alba, sul selciato della via64”. La descrizione è coerente con l’investitura profetica di Ezechiele:

62

Cfr. in + tueor, da cui deriva la parola “intuito”. Luzi (2014), p. 38. 64 Luzi (2014), p. 277. 63


28 [7] «O figlio dell'uomo, io ti ho costituito sentinella per gli Israeliti; ascolterai una parola dalla mia bocca e tu li avvertirai da parte mia»65

Sentinella al servizio del popolo che risponde in prima persona all’autorità di Dio, egli è colui che con il suo occhio aperto e attento scorge, coglie ed assimila la Verità prima degli altri, e veglia sul loro destino.

Tale compito, tuttavia, ha indubbiamente un gran costo. Il profeta ha infatti tutte le caratteristiche di chi non passa inosservato; si parla di frequente di lui, nel bene o nel male. È spesso la voce fuori dal coro, l’egregius per definizione in quanto “fuori dal gregge66”: non pecora bensì pastore visibile del popolo del Dio pastore invisibile:

[12] «Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. [13] Le ritirerò dai popoli e le radunerò da tutte le regioni. Le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare sui monti d'Israele, nelle valli e in tutte le praterie della regione. [14] Le condurrò in ottime pasture e il loro ovile sarà sui monti alti d'Israele; là riposeranno in un buon ovile e avranno rigogliosi pascoli sui monti d'Israele. [15] Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare». Oracolo del Signore Dio. [16] «Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia»67

Alla luce della sua eccezionalità qualcuno lo deride, altri invece lo venerano, riconoscendo in lui un indizio di Dio. La sua statura ontologica – vera o presunta che sia – non gli concede certo una vita nelle retrovie: sotto i riflettori, il profeta può scegliere di ripararsi gli occhi dalla luce che lo acceca riconoscendosi semplice messaggero di una Verità che lo riguarda senza appartenergli o, sul fronte opposto, fingersi origine della Verità stessa ed eleggersi nuovo dio. In entrambi i casi, lo aspetterà una sofferenza non indifferente:

65

Ezechiele 33, 7. Cfr. ex + grege. 67 Ezechiele 34, 12-16. 66


29

Quello schianto, il suo travalicare, n’ero testimone io, ego, credevo e ne pativo ma intanto n’ero parte, andavo io pure da me a me, oltre di me pregavo pregavo, utinam ultra me68

Luzi inciampa per un attimo su quell’“io”, che ripete un’altra volta con la forma latina ego e si fa fantasma, preludio ad una forma di protagonismo che non è propria dei veri profeti della Parola, ma di chi vuole sostituirsi a Dio. Avvertendo il pericolo che ciò implica, vi scampa trascendendo se stesso e riconoscendosi altro, ma non manca di patirne: la sofferenza è d’altronde una componente essenziale, necessaria, imprescindibile nella vita dei profeti d’ogni tempo. E tale dolore prende origine da una mancata integrazione e accettazione dell’uomo e della scomoda verità testimoniata, in quanto “il profeta che annuncia il messaggio autentico è un uomo che si fa portatore di un messaggio impopolare69”. Si consideri la figura di Geremia: egli non dà la Notizia dall’alto di un palcoscenico, ma in mezzo ad una folla che lo percuote, lo perseguita, lo incarcera. Sopporta così il peso della profezia, e ne lascia testimonianza scritta nel libro delle Lamentazioni70: si tratta di una viva rappresentazione del dramma personale di chi, fedele al messaggio che vuole comunicare e carico di una responsabilità religiosa non indifferente, si sacrifica per questa compromettendo se stesso. Dopotutto, Dio l’aveva avvisato:

68

Luzi (2014), pp. 285-286. Frye (2018), p. 155. 70 Se se ne ammette l’autorialità. 69


30 [27] Tu dirai loro tutte queste cose, ma essi non ti ascolteranno; li chiamerai, ma non ti risponderanno. [28] Allora dirai loro: «Questo è il popolo che non ascolta la voce del Signore suo Dio né accetta la correzione. La fedeltà è sparita, è stata bandita dalla loro bocca»71

Sulla scorta del tradimento dei fratelli nei confronti di Giuseppe narrata in Genesi 37, 12-17, i sovrani, avvertita la potenza del messaggio di Geremia, cercano di contenerla gettando il profeta prima in una prigione, e poi in una cisterna:

[15] I capi erano sdegnati contro Geremia, lo percossero e lo gettarono in prigione nella casa di Giònata lo scriba, che avevano trasformato in un carcere. [16] Geremia entrò in una cisterna sotterranea a volta e rimase là molti giorni72 [4] I capi allora dissero al re: «Si metta a morte questo uomo, appunto perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia tutto il popolo dicendo loro simili parole, poiché questo uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male». [5] Il re Sedecìa rispose: «Ecco, egli è nelle vostre mani; il re infatti non ha poteri contro di voi». [6] Essi allora presero Geremia e lo gettarono nella cisterna di Malchia, principe regale, la quale si trovava nell'atrio della prigione. Calarono Geremia con corde. Nella cisterna non c'era acqua ma fango, e così Geremia affondò nel fango73

Paradossalmente, colui al quale vengono comunicate le verità più grandi, è anche colui che viene immerso nel fango. Ma non sono proprio le cisterne, specie in una terra spesso provata dalla siccità quale quella d’Israele, il luogo in cui si conserva l’acqua e si rigenera, dunque, la vita74?

Scrive ancora Luzi:

Il detto non è molto, è poco, quasi non ha peso

71

Geremia 7, 27-28. Geremia 37, 15-16. 73 Geremia 38, 4-6. 74 È una suggestione di particolare interesse per il nostro percorso: una volta toccato il punto più basso, si fa paradossalmente conoscenza del suo estremo più alto (cfr. cap. 3.4). Non è questa un’immagine che suggerisce il bene del dolore, la sua – pur estremamente difficile da accettare – costruttività? Riguardo la simbologia della cisterna (e la differenza tra acqua che disseta e acqua che prosciuga) si faccia riferimento anche a Geremia 2, 13 e Giovanni 4, 13-14. 72


31 però grava sul fiato e la lena dell’impresa75

Le verità annunciate ai profeti sono sempre sibilline: Dio parla poco, e la nostra semplicità umana ci spinge a pensare che parlar tanto significhi dire molto. In realtà il Signore sceglie le proprie parole con cura – da demiurgo, da chirurgo –, parlando il necessario. E questo, concentrato in poche lettere, può apparire ad alcuni insufficiente, insensato: le orecchie degli stolti fanno fatica a dedurre il molto da poco. Nel cuore dei profeti, invece, quel poco si sedimenta e cresce come seme in un terreno fertile, e diventa peso palpabile, che quasi toglie il fiato. L’impresa sta così nell’accogliere un messaggio che si riconosce più grande di sé, e accertarsi di averlo compreso correttamente e poi, in un secondo e necessario momento, nel renderne partecipi anche gli altri, pur se impreparati a riceverlo in pace. Tuttavia, se è facile fraintendersi durante le nostre umane conversazioni, si immagini quanto possa essere difficile rendere effettiva ed efficace la comunicazione – intesa come vero e proprio scambio di munera, doni che implicano responsabilità – con Dio. Lo registra ancora una volta il nostro poeta:

…decifro male il progetto, ma c’è, è scritto con parole che ancora non intendo76

Un progetto c’è, lo si intuisce: non si tratta di lettere casuali come pensano gli ingenui. Tuttavia, non si possiede ancora la chiave per aprire la porta, la legenda per decifrare le lettere le quali ad un orecchio umano suonano così straniere da sembrare ricordi d’una “preghiera arcana77”. Ancora si legge in Amos:

75

Luzi (2014), pp. 352-353. Luzi (2014), p. 222. 77 Luzi (2014), p. 250. 76


32 [7] In verità, il Signore non fa cosa alcuna senza aver rivelato il suo consiglio ai suoi servitori, i profeti. [8] Ruggisce il leone: chi mai non trema? Il Signore Dio ha parlato: chi può non profetare?78

Il Dio dell’Antico Testamento è come leone che ruggisce: benché sia così evidente la sua volontà di comunicarci qualcosa, il fatto che parli attraverso la bocca di un animale rende necessaria l’interpretazione di un orecchio fine quale quello di un profeta. Una volta recepito il messaggio, sorge un’illuminazione:

Chi apre nei vocaboli il fiore del significato, chi apre il fiore aperto nel brivido del prato? non sapevi di saperlo, eppure, eppure n’eri certo. Potresti ora forse, sei esperto, nominarlo se non che spira già oltre, esce dal suo nome79

Il profeta ha conosciuto la primavera, ha compreso davvero Chi apre i fiori ad inverno concluso: in lui risiedeva già questa certezza, annidata nel suo cuore, eppure ancora non ne era consapevole. Finalmente esperto, può ora urlarlo a tutti, chiamarlo col Suo nome. È d’altronde proprio dell’uomo cercare di denominare Dio, porsi domande sulla sua essenza più vera, come sottolinea Mazzanti: “Di fatto ogni uomo si porta dentro quella ricerca di Dio ma anche l’incessante sforzo di determinarne la natura più vera, il suo nucleo essenziale. Ed è questa la grandezza di tutta la religione cosmica e di

78 79

Amos 3, 7-8. Luzi (2014), p. 251.


33

tutte le espressioni religiose. Ma il parlare, il disquisire dell’uomo su Dio resta sempre un balbettio e la mente umana non sa dire se Dio è amore o ragione; essa oscilla sempre tra questi due poli80”. Gli sforzi dell’uomo restano pallidi tentativi: Dio sfugge ad ogni etichetta, e non appena al profeta pare di averlo raggiunto, Egli, quale un’Angelica ariostesca, fugge via per farsi cercare altrove: è questo il “travaglio del e per il ‘verbo’ (…), l’ardua fatica di dare luce-parola a quanto è nascosto, a quanto giace sotto il tempo e il fenomenico, la fatica di scoprire cioè il senso del destino umano (…)81”. E come i profeti, “anche Luzi cerca la perfetta aderenza tra la cosa e il suo nome, anela come ogni autentico poeta di pervenire al linguaggio originario (…). Il suo sogno-anelito è di risalire all’imprincipiato principio82”.

Se da un lato non si deve sottovalutare il fondamentale ruolo che il profeta ricopre, bisogna parimenti trattenersi dal considerarlo al pari di Dio e tenersi lontano da quelli che si identificano come tali. Egli è il cannocchiale che gli uomini, persi nell’alto mare della vita, sono invitati ad utilizzare per scorgere quell’isola di salvezza lontana all’orizzonte. È necessario per scorgere quel lembo di terra cui approdare, ma rimane pur sempre un mero strumento: un mezzo, non un fine. Nel momento in cui confonde il suo ruolo di intermediario, egli fallisce il suo compito, perde la sua aura: Dio gli sfugge di mano. Ancora una volta è testimone di un evento, non è l’Evento in sé, e in ragione di questo la sua logica esistenziale è dipendente dall’Evento stesso più di quanto lo possa essere quella degli altri uomini. È allora chiara la ragione per cui Dio scelga di punire Giona, profeta ribelle che non ammette che la città di Ninive venga perdonata, mettendo in discussione l’operato dell’Altissimo83: con il suo disappunto mostra di confidare più nella propria autorità e nel proprio senso di giustizia che in quelli divini.

Era il tormento questo assai lamentoso dei profeti, li umiliava – inguaribile ferita – la perduta divinità

80

Mazzanti (1993), p. 79. Mazzanti (1993), p. 20. 82 Ibidem. 83 Giona 4, 1-11. 81


34 a taluno restituita – a chi? a ogni creatura, però non lo intendevano, essi84

Una volta adempiuto al proprio compito, il profeta deve riconoscersi uguale agli altri uomini, e ricordarsi che Dio non ha corsie preferenziali nell’amore per le proprie creature: egli è stato una mera eccezione85 strumentale. La tentazione della superbia è minaccia costante che richiede grande impegno, e l’arma per debellarla è la sola umiltà: essa è infatti l’unica chiave effettivamente indispensabile per dirsi cristiani. Quando si pensa al fatto che Dio abbia mandato suo figlio a soffrire in croce per l’umanità nelle vesti non di un potente, di un re, di un imperatore, ma di un bimbo nato in una mangiatoia, questo pare straordinariamente evidente:

«Non sia, non avvenga» sorge su da mie profondità quasi da perse anteriori e superanteriori sepolture, si stacca da un antico silenzioso giacimento lei, voce che nasce implorante o intimatrice di supplice o supremo pantocrator. «Non sia, non accada»

84

Luzi (2014), pp. 170-171. Da excipere latino, che vale “escludere” ma anche “limitare”, il che fa riflettere intorno alla possibilità di concepire il profeta, contro superbe pretese, come “limitato” nel proprio ruolo, “costretto” a ricoprire un compito gravoso. La verità, dunque, libera o limita? In realtà, si potrebbe dire – e si pensa che Luzi si troverebbe d’accordo –, essa limita per liberare: niente come il limes, infatti, nobilita la circostanza, eleva il reale ad un nuovo livello esistenziale. 85


35 scongiura nell’incerto mattino quella voce e in lei quel doppio accento di umiltà e di onnipotenza. E il suo disaccordo si concilia nel dolore che unico la esprime, nella pena mortale che la traversa. Male che incombi, il dio e il più tapino dei viventi sua infima creatura vibrano unitamente nell’orrore di te, nella paura e questo tu profondi rilucentemente86

Il Dio percepito da Luzi ha una voce che conserva un doppio accento di umiltà e onnipotenza: è il Creatore del mondo, ma anche un bimbo di umili origini. Mai come nel credo cristiano grandezza ed umiltà si completano a vicenda, appaiono straordinariamente complementari e necessarie l’una all’altra: veramente grande è chi riesce ad essere umile, chi mostra di conoscere e rispettare il limes. Ogni altro tipo di grandezza è nulla, quando manca di modestia. Se da una parte, tuttavia, è complesso non avere una considerazione eccessiva di sé nel momento in cui si è investiti di un preciso compito provvidenziale, lo è anche assumersi tale responsabilità consci di quanto essa comporti. La fuga di Giona a Tarsis di fronte alla vocazione del Signore, se non giustificata, è quanto meno comprensibile: egli è un uomo e come tale non pensa di essere pronto per un simile compito. Eppure, le vie di Dio sono già tracciate e il profeta non potrà sfuggire alla sua

86

Luzi (2014), pp. 343-344.


36

chiamata; dopo tre giorni e tre notti nella bocca del pesce egli ritrova la sua strada, ed è pronto a prendere il suo posto nel mondo:

[1] Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: [2] «Alzati, và a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me». [3] Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto, s'imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore; [12] Egli disse loro: «Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia»; [15] Presero Giona e lo gettarono in mare e il mare placò la sua furia87

[1] Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona; Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti. [2] Dal ventre del pesce Giona pregò il Signore suo Dio [3] e disse: «Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. [4] Mi hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare e le correnti mi hanno circondato; tutti i tuoi flutti e le tue onde sono passati sopra di me. [5] Io dicevo: Sono scacciato lontano dai tuoi occhi; eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio. [6] Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l'abisso mi ha avvolto, l'alga si è avvinta al mio capo. [7] Sono sceso alle radici dei monti, la terra ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre. Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita, Signore mio Dio. [8] Quando in me sentivo venir meno la vita, ho ricordato il Signore.

87

Giona 1, 1-3; 12; 15.


37 La mia preghiera è giunta fino a te, fino alla tua santa dimora. [9] Quelli che onorano vane nullità abbandonano il loro amore. [10] Ma io con voce di lode offrirò a te un sacrificio e adempirò il voto che ho fatto; la salvezza viene dal Signore». [11] E il Signore comandò al pesce ed esso rigettò Giona sull'asciutto88

Non è raro, d’altronde, che i profeti manifestino paura ed incertezza di fronte alla propria elezione:

[6] Ahimè, Signore Dio, io non so parlare, perché sono giovane89

[4] Vibravano gli stipiti delle porte alla voce di colui che gridava, mentre il tempio si riempiva di fumo. [5] E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti»90

Geremia si pensa troppo giovane, e per questo incapace di parlare91: ancora deve comprendere che il compito del profeta è piuttosto quello di ascoltare92. Isaia, invece, si riconosce perduto, perché non riesce a guardare oltre la sua natura essenzialmente umana di peccatore93. Al tempo stesso, quell’“eppure” – presente nel suo libro come anche nella preghiera disperata di Giona94 – segna un’apertura a qualcosa di più grande che trascende tale semplicità: i suoi occhi hanno visto Dio, proprio quando quelli degli altri sono rimasti chiusi. In risposta agli iniziali dubbi dei profeti si potrebbero leggere questi versi di Luzi:

L’ascesa non s’arresta.

88

Giona 2, 1-11. Geremia 1, 6. 90 Isaia 6, 4-5. 91 Pensa a se stesso come ad un, letteralmente, in-fante. 92 Imperativo sul quale Luzi insiste in modo particolare, specie in conclusione della sua lunga vita. 93 Lo scioglimento del suo dubbio è poi segnalato dalla dirompenza di quell’“Eccomi, manda me” in Isaia 6, 8. 94 Giona 2, 5. 89


38 Altitudini alla mente e al presagio dell’uomo irraggiungibili. A quelle si apre la sua anima e di quelle non si sazia, ancora più profonde ne desidera in lei una antica ansia. Non ha termine, ha solo trasparenza e trasparenza della trasparenza il gorgo celestiale che lo assume e lo trascina in imum dentro l’alito, dentro l’essenza. L’uomo? non è con sé, si attarda, non lo accompagna. Chi è che mette quella distanza e accresce la differenza, l’uomo o sé? Si tace la risposta, reprime la sua sentenza. Devo non interrompermi, però, salire ancora, in un punto, è scritto, lo ritroverò95

95

Luzi (2014), pp. 517-518.


39

Come il profeta, il poeta riconosce ed accetta l’esistenza di vette per l’uomo irraggiungibili delle quali, mossi da un arcano desiderio di sapere, solo si può intuire l’altitudine. Entrambi sono “gusci vuoti” lasciati a testimoniare qualcosa più grande di loro96: un’immagine che Luzi fornisce sulla scorta di quella ben nota di S. Paolo, vas electionis di Dio in Atti 9, 15. Il compito fondamentale ed universale dei profeti, che essi devono assumere con umiltà, è dunque quello di farsi marturoi, testimoni del Verbo.

Tralasciando ora i profeti veterotestamentari, il lettore potrebbe domandarsi quale utilità pratica, quale attualità possa avere una digressione di questo tipo. Chi sono i profeti moderni? Esiste ancora uno spazio per la profezia, al giorno d’oggi? Direi che, se ancora qualcuno può svolgere tale ruolo, esso tocca senz’altro ai poeti. Quest’ultimi hanno infatti in comune coi profeti il dono della parola, la quale è per entrambi croce e delizia: “se la parola è il perno attorno al quale ruota la lingua ed è la materia prima con la quale lavora il poeta, saper poetare non rappresenta per Luzi solo un privilegio ma anche un cruciatus97”. Entrambi sono in grado di interpretarla ed utilizzarla in modo unico e sconvolgente, veicolando verità ulteriori. E, si badi, non si intende qui far riferimento a certe pretese superomistiche dannunziane molto amate nei secoli scorsi, ma nemmeno ci si vuole rassegnare al fatto che ai poeti non possa essere chiesta, secondo il noto verso montaliano, la “formula” che mondi possa aprire98. Si crede infatti che tra la tracotanza ottocentesca dell’homo faber e l’eccessiva dimissione dell’uomo novecentesco si possa trovare una pacifica via mediana, e Luzi possa esserne degno portavoce. I suoi scritti conservano infatti l’aura misteriosa che avvolge i profeti, e nascono “da questa drammatica lotta contro il nulla, contro il nichilismo di tanta cultura novecentesca, da questo salto da brivido oltre ogni nulla e oltre ogni pretesa99”, senza macchiarsi tuttavia della prepotente superiorità di ottocentesca memoria. “Non che egli non abbia subito la tentazione e non abbia avvertito la segreta ebbrezza del potere demiurgico, della creazione totale100”, chiarisce Mazzanti, ma è riuscito, ciò nonostante, a “trasformare la pretesa demiurgica in incessante servizio di esprimere l’inesprimibile101”,

96

Luzi (2014), p. 410. Vitale (2015), p. 23. 98 Non chiederci la parola, v. 9. 99 Mazzanti (1993), p. 24. 100 Mazzanti (1993), p. 22. 101 Ibidem. 97


40

avvertendosi come “servo e interprete del Libro-Mondo, il quale è insieme storia e cosmo102”. Così, egli presta la sua opera e la sua penna per la scrittura del Progetto; la poesia, pur non creando nuovi mondi ulteriori (già esistenti e di pertinenza di Dio solo), può aiutare ad indicare la porta che vi ci faccia accedere. È ancora d’accordo Mazzanti: “Come affermava J. G. Hamann, «La vera poesia è una forma naturale di profezia». E quella di Luzi è vera poesia. In fondo Luzi ha sempre scritto da profeta. Egli stesso aveva collegato, sulla traccia della prima lettera di san Paolo (1 Corinti 14, 1-40), ‘glossolalia’ e ‘profezia’ ed aveva affermato che «Del resto a un certo livello, verosimilmente il più alto, la parola della poesia tradisce la stessa origine e scaturigine della parola profetica»103”. Forte di questa sua capacità di farsi artigiano della parola, non si è mai rinchiuso nel suo studiolo rendendo tale dono sterile: “Luzi non ha mai voluto divenire lo ‘scriba’ chiuso nella propria stanza ermetica, nella propria officina solitaria a tentare la sua opera, la sua sperimentazione artistica. (…) Luzi è il poeta-veggente dell’umana avventura, aperto e attento agli altri uomini104”. Libero dell’egoismo e dell’avarizia di chi, scoperto un tesoro, vuole tenerlo per sé, e forte invece della generosità di chi vuole farne partecipi anche gli altri, rende “il suo poetare, estremamente solitario (non separato), (…) profondamente corale105”. La parola è dunque ciò che unisce profeti e poeti nel loro ruolo, come sottolinea ancora Verdino: “Un poeta, parafrasando Heidegger, non può che essere un «pastore di parole» ed è naturalmente costitutivo per lui interrogarsi sul senso e la portata del linguaggio e del suo linguaggio106”. Chi fa poesia sorpassa la superficie e giunge al cuore delle parole per comprenderle a pieno: ne coglie il senso profondo, e lo illustra a chi non sa guardarvi oltre:

La parola che il poeta usa è una parola che in genere è richiamata alla sua integrità e alla sua pienezza di significato: è potenziata al punto da esplicare quella creatività e provocarla in altri. Quanto è difficile preservare alla parola questa potenza creatrice, potenza che è in rapporto, dicevo, con il versetto giovanneo: ‘in principio era il Verbo’. La potenza che è stata messa nell’uomo deriva direttamente dal divino: quanto è difficile preservare quella energia, quella forza della parola che la racchiude, quando è appunto al più alto

102

Mazzanti (1993), p. 23. Mazzanti (1993), p. 15. 104 Mazzanti (1993), pp. 16-17. 105 Ibidem. 106 Luzi (1997), p. 62. 103


41 grado di purezza e innocenza. Tutto nella pratica della vita, nella storia, tende a corromperla la parola, a destituirla di senso, a renderla convenzionale, non più spirito ma lettera107

Il legame tra poeti e profeti è ancora una volta rafforzato dal potere che entrambi hanno di ristorare il senso autentico, originario, primigenio della parola, rendendola spirito nel senso giovanneo; la forza creatrice di Dio si è manifestata anzitutto attraverso la parola, il logos vivificatore, il Verbo108. Aggiunge Frye: “I termini biblici di solito resi con ‘parola’, incluso il logos del Vangelo di Giovanni, sono solidamente radicati nella fase metaforica del linguaggio, dove la parola era un elemento di potenza creativa. Secondo la Genesi (1, 3), «Dio disse ‘Sia la luce’, e la luce fu». La parola fu cioè l’agente creatore che diede esistenza alla cosa109”. Di fronte a un mondo che deprime la parola preferendo la quantità alla qualità, la superficie al profondo, il compito di profeti e poeti è quello di restaurarne la potenza: scegliere con cura quello che si vuole dire senza eccesso, parlare il giusto ed il necessario perché avvenga la vera e propria comunicazione con il prossimo. Gesù stesso sceglieva con accuratezza cosa dire ai propri discepoli, evitando la vuota colloquialità:

Nei Vangeli non c’è posto per il conversare interlocutorio. Non che non possiamo supporre, non possiamo immaginare che un parlottare ci sia intorno a Gesù, ma solo in disparte, solo discosti da lui i discepoli sembra che si confidino le loro cose, che si intrattengano sulle loro preoccupazioni familiari, domestiche. Tutto questo si può percepire forse dai testi della Vulgata, ma i casi e i particolari non figurano, non sono scritti. Il discorso di Gesù cala a picco sui discepoli dal suo silenzio, ed è un discorso essenziale, mirato, abitato dalla profezia. La Parola è richiamata al suo compito primario, che è quello di dire, di proferire non di divagare o di intrattenere. Ha questa energia e questa verità. Il linguaggio di Gesù è assoluto come quello che contiene la verità e non deve cercarla. (…) Tra coloro che l’ascoltano e se stesso e anche tra i discepoli e se stesso, non solo quindi tra le turbe, le moltitudini, ma anche tra i discepoli e se stesso, Gesù mette spesso il silenzio. Questo silenzio è come una sintassi che lega nel racconto i tempi della cronaca e lega nel linguaggio le varie parti, le varie componenti. Anche il silenzio richiama la parola alla sua fonte, alla sua scaturigine perché la parola viene dal silenzio e torna al silenzio, dopo avere però espresso, detto, detto veramente il suo messaggio110

107

Ibidem. Giovanni 1, 1-3. 109 Frye (2018), p. 36. 110 Luzi (1997), p. 149. 108


42

Sorge qui una nuova concezione del silenzio, non vissuto come mera assenza di parola, bensì come sua manifestazione più solenne e paradossalmente eloquente, in quanto “gremito di parole taciute o tacitate o represse o obliterate111”. Parola e silenzio, due diversi gradi di manifestazione ed espressione della realtà – uno più esplicito, l’altro più implicito112 –, “non sono fondamentalmente contrapposti: talora si presentano come linguaggi alterni. Uno, la voce, si stacca dall’altro, il silenzio, ma aspira a ritornarvi; aspira anche a compenetrarsene, a farlo entrare nella vocalità come componente profonda113”.

Il silenzio esalta la parola; infatti quello che oggi mortifica la parola è la mancanza di silenzio. (…) Noi sappiamo che questa è la malattia del nostro tempo: tutti gli strumenti che noi stessi ci siamo creati ci invitano a rifiutare la dimensione così profonda del silenzio, che è il rapporto essenziale con la parola, come il deserto è un termine essenziale di rapporto con la società, la sociabilità; per cui abbiamo il ritiro nel deserto, l’esperienza del deserto, il raccoglimento nel silenzio: sono parti essenziali dell’esperienza religiosa, delle origini e del periodo del primo cristianesimo, del grande cristianesimo iniziale oltre che esempio tratto dalla vita di Cristo e da Cristo stesso. (…) Questo è splendido, questa potenza del silenzio che vuole quasi garantirci che c’è un ineffabile, qualcosa che non può essere pattuito con l’economia delle parole umane, ma che ha il suo eloquio ugualmente come scansione, come tempo interno delle parole che invece si possono dire. (…) Il silenzio interminabile è il continuo della predicazione, del magistero; è educativo al massimo perché accumula profondità; è come la differenza che distingue Gesù dagli uomini114

Se Dio ha smesso di parlare con chiare note come può aver fatto in passato per Geremia, per Isaia o per Giona, lo si deve andare a cercare nel silenzio: lui ci aspetterà lì. Il tempo della profezia non è ancora esaurito, e finché esisteranno orecchie e occhi abbastanza attenti da cogliere ciò che il mondo ha da dirci, la Verità non finirà mai di manifestarsi. I profeti moderni, i poeti che non si considerano alter Deus né pensano che Dio sia morto e con esso ogni ordine, sanno ancora ascoltare il silenzio e svelare, con poche ma buone parole, l’armonia del tutto.

111

Luzi (1984), p. 29. Da un punto di vista grafico, si potrebbe aprire una breve parentesi sulla disposizione delle parole nelle poesie di Luzi. Se da un lato la dispersione visiva dei versi sottolinea la dilatazione dell’Evento nel reale (cfr. cap. 3.3), da un altro offre al vuoto e al silenzio un suo spazio d’espressione: anche il vacuo, deposito di parole “diversamente espresse”, è gravido di significato, pregnante di vita. 112 Secondo un’intuizione già leopardiana, cfr. Vitale (2015), p. 26. 113 Luzi (1984), p. 13. 114 Luzi (1997), pp. 149-150.


43

3.2. Osservazione del libro naturale

Una volta accolta l’intuizione profetica, se ne riscontra ora la veridicità mediante una diretta osservazione della natura: il metodo intuitivo-profetico, complementarmente a quello scientificosperimentale, muove anzitutto da una dinamica di cieco affidamento per poi approdare solo in un secondo momento alla sperimentazione del reale. Mai come nella poesia luziana, infatti, – che abbiamo già definito “profetica” – si assiste ad una rivalutazione della realtà fisico-naturale, a una sua convalida, a una sua riabilitazione115; nell’ambito in particolare della triade conclusiva, la natura si fa così protagonista del vissuto poetico e, una volta liberata da fuorvianti estetismi e dal ricordo leopardiano di “crudele matrigna”116, essa è ora degna compagna dell’umana esperienza, della quale e con la quale condivide gioie e dolori.

Nelle sue manifestazioni animali come in quelle vegetali, la natura vive parlandoci di Dio. È infatti di Lui attiva testimonianza, oggetto e soggetto del Suo piano provvidenziale: “ciascuno degli abitanti del pianeta, dalle stelle ai molluschi, dai semi ai campanili, dalle antilopi ai mosconi, dalle cose inanimate ai minimi soffi di vita sono convocati in un autentico, esuberante, teilhardiano Offertorium del Mondo117”. Il compito del poeta-profeta è ora quello di “contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi118” e, in virtù della sua maestria della parola, tessere elogi in e per un mondo che, a lui che lo osserva con occhi attenti, si manifesta – in modo talvolta sibillino – sotto forma di armonia, di “matematica celeste119”, di ordine al quale ognuno risponde:

[20] Dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità120

115

Natale (2014), p. 167. L’idea luziana di natura riprende infatti ma supera, per Baccarini (2015), l’“eresia romantica” (p. 46). 117 Munaretto (2014), pp. 185-186. 118 Salmi 27, 13. Il salmo compare anche a p. 3, come portale dell’intera trattazione: si pensa che esso indichi, in nuce, il movente e desiderio ultimo della ricerca poetica ed esistenziale di Luzi. 119 Sotto specie umana, p. 180. Cfr. cap. 3.5. 120 Romani 1, 20. 116


44

Grande è infatti il nome di Dio su tutta la terra121 – inteso come potenza, logos vivificatore in senso giovanneo – e la Parola si diffonde fino ai confini del mondo122: non v’è punto del globo a non farne esperienza e, pur se inconsapevolmente, testimonianza. Ancora, il Signore è

[13] colui che forma i monti e crea i venti, che manifesta all'uomo qual è il suo pensiero, che fa l'alba e le tenebre e cammina sulle alture della terra, Signore, Dio degli eserciti è il suo nome123

Anche il Nostro ricorda più volte quanto il mondo rechi del Signore una traccia eterna: talvolta è un ricordo, impalpabile quanto perenne:

Non è smemorato l’universo in cui tutti ci aggiriamo angeli ciascuno del suo male, da esso affranti o certi che ne saremo liberati124

Altre volte, invece, Egli è trovato nella confusione del temporale, quando i profumi di un giardino si esasperano e rimescolano:

Eccola la tempesta,

121

Cfr. Salmi 8, 2-10. Cfr. Salmi 19, 5. 123 Amos 4, 13. 124 Dottrina dell’estremo principiante, p. 400. 122


45 è già nell’aranceto tra i suoi pomi, le sue rame. Furente il gelsomino, a sprazzi, in quella raffica acuisce il suo profumo, esacerba il suo richiamo. È tutto in agonia il giardino che lui dal padiglione sfiora appena con i suoi occhi sultani adusati alle stagioni, ai loro inganni, consci dei molti rimescolamenti dell’unico principio. Ibi ipse est125

È inafferrabile, eppure così evidente ai sensi che ne vengono accarezzati, toccati, travolti: Egli è il

vento, aerea onnipresenza che dà la vita.

C’è una esultazione straripante, da uno ad altro trillo di giubilo e di canto dilaga l’avvenuto evento, la resurrezione flagra in forma di alito e di vento per tutto l’orizzonte126

125 126

Sotto specie umana, p. 35. Sotto specie umana, p. 72.


46

Tra i frequentissimi passi biblici127 che accostano la natura divina a quella di vento che soffia, l’immagine riecheggia in particolare quella dello spiritus primordiale che aleggia sulle acque:

[2] Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque128

O ancora, lo Spirito che presenzia nel cenacolo nel miracolo pentecostale:

[1] Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. [2] Venne all'improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. [3] Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; [4] ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi129

Riconosciuta e accettata la pregnanza divina del reale, come accostarvisi e relazionarvisi nel modo più corretto? Nel suo vivere e descrivere il mondo naturale, il poeta non intende prenderne le distanze come un pittore che lo ritragga e fissi sull’alterità immobile di una tela; anzi, egli riconosce di farne parte, di esserne coinvolto: “il referto dell’osservazione di Luzi non potrà mai essere confuso con la fissità vitrea di un brano di natura morta, gli occhi sbarrati sull’irrealtà di una mimesi perfetta130”. Il brano che segue, commosso elogio dell’amata città pientina, è esempio eloquente della “contemplazione attiva” del poeta, vera e propria partecipazione alla cornice naturale che lo circonda e accoglie:

127

Si ricordi anzitutto che è lo spiraculum di Dio a dare la vita a Adamo, quand’Egli lo plasma con polvere del suolo e soffia nelle sue narici in Genesi 2, 7, ed è con un soffio di Gesù risorto che gli apostoli ricevono lo Spirito Santo in Giovanni 20, 22, cfr. Cocagnac (2012). Il “vento di Dio” è ciò che origina e permette la continuazione della vita stessa: se cessasse di soffiare, con questo si arresterebbe anche il respiro degli uomini, cfr. Giobbe 34, 14-15; Salmi 104, 29-30. Il ruach è, d’altronde, la terza persona della Trinità: pur invisibile, esso ispira gli uomini ed è in grado di dettarne le azioni, di trasformarne il cuore, cfr. Giudici 6, 34 e 14, 5-6; Numeri 11, 24-26; Esodo 40, 34-35; Giovanni 3, 8. 128 Genesi 1, 2. 129 Atti 2, 1-4. 130 Nicoletti (2014), p. 28.


47 Pienza, meta da tanti anni dei miei soggiorni estivi. Fra me e questo luogo c’è una simbiosi tutta immaginativa più che esistenziale. Ma questo appuntamento mi sostiene durante gli sconforti dell’anno; penso, quando sono a Firenze o altrove, che c’è questo posto in cui posso riconoscermi e ne ricevo forza. Questo spazio, questa luce variabile, questo ritmo delle colline che s’inseguono è una specie di grammatica del subcosciente che però ora viene alla luce. Tutto mi chiama qui, perché qui siamo al massimo della solitudine, ma anche dell’opportunità più autentica di colloquio. Vi soffia la brezza che la mattina corre in direzione del mare e che a sera, ritorna più calda, verso terra. Da quell’oasi che si apre accogliente al mio esodo, intuisco l’ozio dei vegliardi, ascolto l’ascesa del fragore sordo e chioccio degli uccelli verso il canto, il silenzio, il grido di felicità che colma il giorno, l’operosità della valle che rimbalza e si risponde in opere artigiane, in mugli di motori spinti al solco delle arature. E ancora. un silenzio “non silenzioso”, in quanto voce e linguaggio della natura, dell’universo. Anzi, di più: un discorso continuo, sempre in atto, che, in verità a volte noi interrompiamo con un dire frammentario e provvisorio. Così, nella mia nicchia di solitudine, mentre il giorno umano e non umano sfugge alla terra, dall’incavo dei suoi piccoli monti e si eclissa tra le pieghe dei suoi aridi dossi, l’animo elabora anche una nostalgia dei propri simili, del contatto con il mondo degli uomini: perché è nella separatezza che viene rivalutata la totalità. Il cuore, da una condizione di malinconia, deborda, allora, ad una ‘carità’ universale che nasce dal senso acuto della fragilità umana, della vita, della bellezza. E tutto ciò è attesa, promessa131

Il poeta e il borgo pientino sono legati l’uno all’altra da una necessità che può dirsi biunivoca: non è solo l’uomo a desiderare di farvi ritorno, ma è la natura medesima a richiamarlo a sé, quasi fosse un’amante impaziente. Ecco allora che la commozione di Luzi di fronte allo spettacolo delle colline che s’inseguono e il suo stringente bisogno di tornare a contemplarle si conferma essere la prova della necessità dell’amore di Dio, della dipendenza – pur liberatoria – al suo amore, che ora il poeta vive non più da semplice martys, testimone profetico, bensì protagonista:

Stanno sopra di te ariosamente gli alberi arborando, s’invoglia del suo azzurro il cielo, si sente persuasa

131

Cfr. www.centroluzilabarca.it.


48 di sé, in sé precisa, a niente remissiva ogni vita antica ed incipiente, ogni erba, ombra, volo, ogni risorgiva. Scande la somma equalità del giorno il verso del cucù. Vivi e guardi, teste non sei ma parte. Oh mondo, mondo132

L’osservazione della natura non avviene da chissà quale posizione privilegiata, dall’alto di un piedistallo: “noi non dobbiamo guardare alla natura come a uno stadio inferiore, un retaggio del passato; non ci vuole nostalgia, ma desiderio. Occorre l’agnizione di questo principio guida che noi abbiamo soffocato. C’è sempre stata la difficoltà a uscire dalla propria soggettività; semmai è capitato di vedere la natura specularmente, ma non di sentirsi dentro e farne autenticamente parte. (…) È importante il riconoscimento dei fondamenti che unificano il creato, io la chiamo agnizione: ci si rivela che la natura è legata all’incarnazione come evento continuo e concretezza continua del vivente. La natura è una realtà ma è anche un libro133”. In quanto parte senza eccezionalità di un Tutto armonicamente composto, pagina del libro naturale e non attore di prim’ordine, l’uomo non vanta particolari diritti sugli altri compagni del Creato134. Anzi, egli ha da questi ultimi molto da imparare:

[7] Ma interroga pure le bestie, perché ti

132

Lasciami, non trattenermi, p. 499. Luzi (1997), p. 33. 134 O meglio: non vanta alcun diritto o superiorità al di fuori di quella legittimamente offerta da Dio. Si legga infatti Genesi 2, 26: “[26] E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra»”; se è vero che Dio ha creato l’uomo “a sua immagine e somiglianza” e l’ha voluto fisicamente e spiritualmente più complesso delle altre creature, Egli ha tuttavia insistito sulla necessità, da parte dell’uomo stesso, di riconoscere ed accettare di essere pur sempre una singola parte di un disegno armonico ben più ampio che coinvolge, come lui, ogni altra creatura. 133


49 ammaestrino, gli uccelli del cielo, perché ti informino, [8] o i rettili della terra, perché ti istruiscano o i pesci del mare perché te lo faccian sapere. [9] Chi non sa, fra tutti questi esseri, che la mano del Signore ha fatto questo? [10] Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio d'ogni carne umana135

--

[7] Anche la cicogna nel cielo conosce i suoi tempi; la tortora, la rondinella e la gru osservano la data del loro ritorno; il mio popolo, invece, non conosce il comando del Signore136

Scrivono ancora Isaia e Osea:

[6] Il lupo dimorerà insieme con l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. [7] La vacca e l'orsa pascoleranno insieme;

135 136

Giobbe 12, 7-10. Geremia 8, 7.


50 si sdraieranno insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. [8] Il lattante si trastullerà sulla buca dell'aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi. [9] Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la saggezza del Signore riempirà il paese come le acque ricoprono il mare137

--

[20] «In quel tempo farò per loro un'alleanza con le bestie della terra e gli uccelli del cielo e con i rettili del suolo; arco e spada e guerra eliminerò dal paese; e li farò riposare tranquilli»138

I due profeti annunciano un’alleanza futura, una conciliazione creaturale; per il poeta, si potrebbe dire, quel tempo è già arrivato: il doloroso scarto tra l’uomo e gli elementi naturali è colmato e risanato e le distinzioni, pur persistenti, non sono più foriere di vero ed irrisolvibile conflitto. È l’approdo a una totale equità cosmica; l’uomo non ha controllo né dominio sulle altre creature sue compagne, che con lui e come lui vivono e soffrono nel nome di una vera e propria comunione spirituale139. Senza dubbio, il poeta aveva ben a mente il passo di Romani 8, 19-22:

137

Isaia 11, 6-9. Osea 2, 20. 139 Cfr. Baccarini (2015), p. 40. 138


51

[19] La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; [20] essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa – e nutre la speranza [21] di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. [22] Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto

Il creato non è passivo testimone, bensì vivo protagonista di tutto ciò che accade: le valli soffrono140, la formica, quasi cogliesse il senso del tempo, avanza “nella sua andatura sempiterna141” e il colombo è smarrito

a ora tarda nella già abbuiata aria all’estremo della sera142

Eppure, esso sente “nel carenato petto – una per sempre onnipresente norma143”, che guida il suo volo terreno. Altri colombi

sornuotano (…) a volo lento, ad ali quasi ferme il sentore di radiche, di muschi, di funghi fuori tempo. (…) Mortalità e promessa di principio ugualmente li pervade144

140

Cfr. Sotto specie umana, p. 196. Dottrina dell’estremo principiante, p. 270. 142 Sotto specie umana, p. 124. 143 Ibidem. 144 Sotto specie umana, p. 146. 141


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Nel loro volo, essi conoscono bene il destino di finitudine che li attende e li fa comuni all’uomo. Tuttavia, non lo fuggono, ma vincono la paura affidandosi a quella speranza trascendente che promette un Altro dopo la fine, quel principio carico d’aspettativa. Infine, altri pazienti colombi “aspettano il (…) medicamento necessario al loro male145.

L’insistente presenza del colombo146 non può essere un caso; la colomba è senz’altro un animale molto frequente nel Testo, sia come correlativo del popolo d’Israele147, che come essa migra e talora geme, sia come simbolo dell’Amore divino e dello Spirito Santo. È una colomba, infatti, simbolo di pace e riconciliazione, a volare dalle mani di Noè e farvi ritorno con un ramoscello d’ulivo nel becco quando la terra è pronta ad accogliere l’uomo:

[8] Noè poi fece uscire una colomba, per vedere se le acque si fossero ritirate dal suolo; [9] ma la colomba, non trovando dove posare la pianta del piede, tornò a lui nell'arca, perché c'era ancora l'acqua su tutta la terra. Egli stese la mano, la prese e la fece rientrare presso di sé nell'arca. [10] Attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall'arca [11] e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra. [12] Aspettò altri sette giorni, poi lasciò andare la colomba; essa non tornò più da lui148

Ancora, è con l’appellativo di “colomba” che l’amante del Cantico chiama l’amata:

[14] O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro149

145

Dottrina dell’estremo principiante, pp. 296-297. “Colombo” o “colomba” indicano, pur con forme diverse – la prima senz’altro più domestica e “cittadina”, la seconda più letteraria e “rurale” – la stessa specie. 147 Cfr. Salmi 55, 7-8; Osea 11, 11; Isaia 38, 14; 59, 11 e 60, 8; Naum 2, 8. 148 Genesi 8, 8-12. 149 Cantico dei Cantici 2, 14. 146


53

--

[2]Io dormo, ma il mio cuore veglia. Un rumore! E' il mio diletto che bussa: «Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia; perché il mio capo è bagnato di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne»150

--

[9]Ma unica è la mia colomba la mia perfetta, ella è l'unica di sua madre, la preferita della sua genitrice. L'hanno vista le giovani e l'hanno detta beata, le regine e le altre spose ne hanno intessuto le lodi151

È poi la colomba dello Spirito Santo a scendere dal cielo durante il battesimo di Cristo:

[16] Appena battezzato, Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. [17] Ed ecco una voce dal cielo che disse: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto»152

150

Cantico dei Cantici 5, 2. Cantico dei Cantici 6, 9. 152 Matteo 3, 16-17. Cfr. anche Luca 3, 22 e Giovanni 1, 32. 151


54

Infine, Gesù stesso invita i suoi discepoli ad essere “candidi come colombe153”, in riferimento alla purezza e trasparenza d’animo di cui questo animale si fa simbolo.

Procedendo nella lettura, un più anonimo passero è “torturato dal richiamo154”: egli soffre d’essere chiamato ad Altro. Anche noi, come lui, prendiamo parte allo stormo155, condividiamo con gli altri uccelli nostri compagni tutto quanto l’avventura terrena comporti, sia questo dolore o gioia: ci smarriamo e ci interroghiamo sul senso del vivere come il colombo, o rinasciamo come la rondine, nella quale

molto si allerta, molto, molto del mondo in lei si accorda e con il sovrumano si concerta156

Anche la rondine, come la colomba, è simbolo biblico e cristiano ricorrente. Essa giunge a primavera, come la Pasqua, e presso il Signore trova ospitalità, il suo posto nel mondo:

[4] Anche il passero trova la casa, la rondine il nido, dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio157

153

Matteo 10, 16. Dottrina dell’estremo principiante, p. 346. 155 Cfr. Lasciami, non trattenermi, p. 524. 156 Dottrina dell’estremo principiante, p. 361. 157 Salmi 84, 4. 154


55

Gli animali, come le piante e le infinite manifestazioni dell’Essere, dicono di noi e noi diciamo di loro; nel momento in cui si avverte e si ha il coraggio di accettare il “concerto cosmico”, allora ci si può riconoscere nelle venature del tronco di qualche albero, o nel volto pensieroso di un compagno che vola con noi nello stormo, poiché in fondo “la natura, se vista e riconosciuta, ha tutti i nostri volti, le nostre contraddizioni158”. In quanto figura intellettualmente ed emotivamente complessa, essa si interroga circa la propria esistenza e quella altrui non mostrando tuttavia la passiva docilità di quella biblica: la natura scritturale ascolta il Signore e senza riserve gli obbedisce. Ne abbiamo testimonianza in molti passi delle Scritture, ma bastino le seguenti:

[26] Ed egli disse loro: «Perché avete paura, uomini di poca fede?» Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia. [27] I presenti furono presi da stupore e dicevano: «Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?»159

--

[12] Io ho fatto la terra e su di essa ho creato l'uomo; io con le mani ho disteso i cieli e do ordini a tutte le loro schiere160

--

[26] Levate in alto i vostri occhi e guardate: chi ha creato quegli astri? Egli fa uscire in numero preciso il loro esercito e li chiama tutti per nome; per la sua onnipotenza e il vigore della sua forza

158

Luzi (1997), p. 30. Matteo 8, 26-27. 160 Isaia 45, 12. 159


56 non ne manca alcuno161

--

[8] Stillate, cieli, dall'alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza e germogli insieme la giustizia. Io, il Signore, ho creato tutto questo»162

Come s’è letto, una profonda inquietudine muove l’animo di molti animali che popolano le poesie della trilogia. Se da un lato essi percepiscono un richiamo che invita loro alla speranza, all’andar oltre, da un altro sono ancora ben radicati nel loro qui ed ora, nella loro terrenità. Di conseguenza, soffrono di questo petrarchesco disequilibrio tra la guerra e la pace dell’anima e se ne crucciano, ma le loro lamentazioni non sono che semplici mormorii:

Mormorano talora inquieti gli elementi il sole, l’aria, i venti, i molti attanti dell’essere, animali, uomini, piante. E gli angeli163

161

Isaia 40, 26. Isaia 45, 8. 163 Dottrina dell’estremo principiante, p. 381. 162


57

L’atto del mormorare è senz’altro segno di insubordinazione al volere divino, come già nella Bibbia (cfr. Numeri 14, 2; Salmi 106, 25; Atti 6, 1; 1Corinzi 10, 10). Tuttavia, esso dà l’idea di una protesta piuttosto debole, inefficace: qualcosa che solo accarezza le orecchie del Creatore, e non s’alza come grido d’effettiva minaccia.

Scendendo ora dal cielo alla terra e considerando il mondo vegetale, anche l’albero, frequente protagonista della trilogia, mostra un certo turbamento. Talvolta vi si arrocca, con pericolosa ostinazione:

Aveva, albero, disobbedito alla sua norma, aveva lui tradito o altri contrastato la sua forma, deviato dal suo fine la sua forza? E ora era deforme per errore o cattiveria di chi? Si logora, si imbroncia. «Non piangere, albero, non gemere» gli gridano le rondini


58 nei tuffi e negli affondo del loro mulinello164

S’agita la rondine nei suoi cerchi d’aria, simbolo com’è di rinascita, ma l’albero resta fermo: irremovibile nel suo logorante pensare; non scioglie la sua statica presunzione. La sua è un’anima impenetrabile – ancora per poco – alla comunione del Creato, chiusa nella sua posizione di superbo rifiuto

fino a che la scure impudica ne fa scempio, la rivolta, la profana165

Per quanto l’albero cerchi di resistere allo scempio, nascosta tra le venature del suo tronco, quale una linfa vitale, si ritrova ugualmente l’anima del mondo166. Tale arborea ambiguità di stasi – che è presunzione d’autosufficienza – e dinamica di affidamento è evidente già in Genesi 2, 9, dove si legge di due alberi tanto necessari quanto diversi: quello “della vita167” e quello “della conoscenza del bene e del male”. Il primo, “dispensatore di cibo, (…) di vita e di guarigione168”, è figura di Cristo stesso: “l’importantissima immagine dell’‘unzione’, associata con il Messia o il Cristo, sembra presupporre una identificazione metaforica del corpo di Cristo con l’albero della vita169”. Il secondo, invece, rappresenta tutto ciò che è all’uomo vietato, e funge da monito perenne di quel suo primo peccato: pensare di bastare a se stesso, d’essere estraneo a qualsivoglia regola di comunione. E pur nell’evidente sbaglio, nella (metaforica) caduta, esso non si muove da dove è crollato:

[3] Se le nubi sono piene di acqua,

164

Sotto specie umana, pp. 118-119. Lasciami, non trattenermi, p. 500. 166 Cfr. Sotto specie umana, p. 82. 167 Che si ritrova anche in Apocalisse 22, 2. 168 Frye (2018), p. 179. 169 Ibidem. 165


59 la rovesciano sopra la terra; se un albero cade a sud o a nord, là dove cade rimane170

L’albero non è in grado di ricavare una vera lezione dai propri errori; non conosce dunque cambiamento, progressione. Ed è così che il poeta, pur apprezzandone l’immagine di antica resistenza, non vi guarda con lo stesso occhio di favore che rivolge invece al fiume, figura metamorfica e dinamica per eccellenza. Non a caso, anche nella Bibbia è sottolineato più volte quanto gli alberi, per essere rigogliosi, debbano trovarsi vicino a sorgenti d’acqua, dalle quali attingono la vita (cfr. Ezechiele 31, 14; Geremia 17, 8). Per non seccarsi nella propria presunzione intellettuale e apparente autosufficienza, l’albero necessita dunque dell’acqua – veramente battesimale – che sempre scorre e sempre si migliora.

Il fiume trova nelle Scritture una valenza tendenzialmente sempre positiva. Sopravvivono poche eccezioni, tra le quali si ricordi il fiume d’acqua rimesso dalla bocca di un serpente contro una donna in Apocalisse 12, 15, il fiume irruente e distruttivo che segna l’arrivo della gloria del Signore in Oriente in Isaia 59, 19, e il fiume in piena che verrà ad investire le case di chi non ha costruito la propria su salde fondamenta in Luca 6, 49. Aldilà di qualche sporadico caso tuttavia, l’acqua fluviale indica l’eterna progressione, è simbolo di crescita (Ester 10, 3c) e di rinascita in quanto inevitabilmente collegata al sacramento battesimale celebrato per la prima volta nel Giordano dal Battista (Matteo 3)171. È un fiume poi, con le sue quattro braccia (Pison, Ghicon, Tigri ed Eufrate) ad irrigare il giardino di Eden e renderlo veramente tale; la sua presenza vivificatrice sarà presente anche al cospetto di Dio:

[5] Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio, la santa dimora dell'Altissimo172

170

Qoèlet 11, 3. Un’ulteriore suggestione proviene da Salmi 42, 2-3: “[2] Come la cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio. [3] L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?”. 172 Salmi 46, 5. 171


60

Non si dimentichi, inoltre, che le stesse iniziali di Gesù formano il nome del pesce (ichthys), e che tale animale indicava i primi cristiani che si riunivano sotto il suo credo: il fiume, come ogni specchio d’acqua, diventa per estensione un habitat puro e degno d’accogliere il Figlio di Dio. Per quanto riguarda le occorrenze del fiume nella poesia del Nostro, Nicoletti ne segnala una presenza quasi ossessiva, in particolare “nell’ultimissima silloge luziana, Dottrina dell’estremo principiante. (…) Qui, almeno sette componimenti risultano costruiti su tale motivo ed in ognuno il fiume appare presenza protettiva, rassicurante, specie nell’ottica degli esseri viventi incontrati lungo il suo percorso, dei quali il poeta si fa non di rado portavoce. Nonostante venga nascosta da un movimento ondoso all’apparenza sempre uguale a se stesso (…), una segreta proprietà di cangiamento e di inesorabile mutazione finisce per prevalere nella rappresentazione che lo riguarda, cosicché anche in questi componimenti nel fiume sembra confermata la radice archetipica della metafora del tempo trascorrente e inafferrabile, capace di restituire ora, per contrasto, un’idea di stasi, ora, viceversa, rimandando alle figure, tipicamente luziane, dell’avventura e dell’enigma173”. L’unica stasi che Luzi accoglie e concepisce per il fiume è la sua costanza nell’eterno scorrere: un’immobilità intesa dunque come persistenza. Il fiume è, paradossalmente, costante nel cambiare se stesso, ostinato nella rinascita, determinato nel suo perenne divenire e farsi altro:

Sommo discende il mutamento giù per queste valli e ti porta con sé nella sua costanza174

--

Attento, il fiume pare dorma, non è vero, non dorme,

173 174

Nicoletti (2014), pp. 29-30. Dottrina dell’estremo principiante, p. 287.


61 occulta il greve moto nell’incanto del fogliame ma scende, scende come sempre [al mare175

Sebbene a qualche sguardo appaia sterilmente stagnante, il fiume procede verso il mare, del quale è perennemente desideroso:

Trascorre tra il fogliame lui fiume molto acquoso, molto verde, voglioso di aperture, di mare176

--

Fiume lento, ma fiume… aspetta l’acqua, aspetta le sovvenga più forza e più sostanza dalla pioggia piovuta a monte poco avanti – Acqua vogliosa d’acqua, d’acqua intimamente bisognosa, deve,

175 176

Sotto specie umana, p. 100. Sotto specie umana, p. 127.


62 essa, oltre i ristagni i salti ed i ripari giungere ad altra acqua che la ingoia, l’annulla e la ricrea – oh sempiterna danza177

Unire il proprio corso, che già accoglie favorevole la pioggia, alla distesa del mare: questo è il desiderio del fiume che è intimamente bisognoso di farsi altro da sé, di ricongiungersi a qualcosa che gli è simile e dalla quale si sente compreso e generato. Le sue acque sono assetate d’altra acqua: non cadono nella pericolosa trappola dell’immobilità esistenziale, dell’autosufficienza. Il senso del sé si scopre nell’altro che è in realtà Altro: la ricerca intellettuale ed esistenziale non sta così nel chiudersi come il maestoso albero nel proprio tronco, ma nell’eterna progressione verso il mare, “punto d’arrivo dove l’esistente, per dirla con Leopardi e con Ungaretti, naufraga e si perde, consegnandosi definitivamente all’essere178”.

Avanza cautamente scortato da aironi e germani quasi in avanscoperta di se stesso il fiume nell’acquitrinosa selva-valle. (…) Incerti i primi passi, sì, lo incalza però da tergo, lo sospinge a sé, oltre di sé la sua perennità

177 178

Dottrina dell’estremo principiante, p. 409. Langella (2014), p. 80.


63 e procede movendo e rimanendo nel sempre transitorio vaso179

Il letto che accoglie il fiume, vaso transitorio – perché un giorno sarà abbandonato come il nostro corpo terreno – è la dimora dalla quale egli eternamente fugge pur servendosene nel suo fluir via e correre verso la sua stessa fonte. Questo il suo eterno paradosso: scorrere oltre per ricomprendersi, scappare da sé per ritrovarsi. E come il fiume che avanza a scoprire se stesso e “vola sopra di sé180” con “le onde impettite come anatre181”, così anche l’uomo veramente tale trascende se stesso, e in un ciclico e perenne andar oltre va alla scoperta di Colui che darà un senso nuovo e ultimo alla sua esistenza. Sarà dunque diametralmente opposto all’uomo superbo che, attaccato alle sue radici con dannosa ostinazione, non riuscirà a vedervi oltre. Non ci si inganni, tuttavia, a pensare che il fiume non incontri ostacoli nel suo fluire: come nella vita d’ogni uomo, anche ad esso tocca fare i conti con qualche scoglio. Ma di fronte a ciò che gli capita, sia questo bene o male,

il fiume non si oppone, accoglie ciò che il tempo dell’uomo e della natura gli propina182

Pur nella dura siccità, mostra gran fede:

179

Lasciami, non trattenermi, pp. 492-493. Dottrina dell’estremo principiante, p. 300. 181 Dottrina dell’estremo principiante, p. 307. 182 Sotto specie umana, p. 69. 180


64 Inaspettato affiora, ramarro sempre vivo, quell’alidore. Vive la sua aridità, lui, il fiume, la vive fluvialmente bramoso di copiosità183

Ha una specificità tale da farsi avverbio e suggerire un vero e proprio modus vivendi: così, vivere “fluvialmente” vorrà dire vivere alla maniera di chi va oltre il cogente ed il personale, e di chi si fa specchio del mondo, accettandone la mutevolezza e accogliendola in sé184. Nelle sue acque “cristallo trasparente185” si manifesta la molteplicità del reale: il suo fluire è più inclusivo che esclusivo e in quanto tale può dirsi veramente cristiano. E anche quando le circostanze sembrano impedirlo, il fiume è in grado di persistere, non ferma il suo pro-getto che è d’altronde, etimologicamente, un “lanciarsi oltre”:

Dopo la curva, finito in dirittura il trepidante giro vede il fiume con sorpresa farsi prossima la fine del suo alveo, del suo proseguimento, venirgli incontro l’aria della foce

183

Sotto specie umana, p. 87. Come scrive Tonani (2014), si tratta di un vivere dialettico che viene rappresentato sulla carta del poeta con una “disposizione tipografica che imita (…) le esitazioni del fiume sul terreno” (p. 97). 185 Sotto specie umana, p. 99. L’espressione è citazione letterale da Apocalisse 22, 1. 184


65 eppure non si perde la sua lena, respira e si ravviva d’acque reflue azzurre già marine il suo incipiente agonizzare tra i salici, le canne, il folto tappeto d’erbe di palude186

Eloquente immagine dell’anziano Luzi che si avvicina alla fine della propria vita, il fiume sa bene di aver concluso il proprio corso. Tuttavia, pur nell’agonia che inizia, non cessa ancora di respirare. Anzi, si ravviva nel suo abbandonarsi al mare il quale, “teso ai futuri eventi187”, entra “in ogni anfratto della ripida scogliera188” come la Parola di Dio nei cuori di chi sa accoglierla. Giunto alla sua fine e al suo nuovo inizio, confluisce, come l’uomo desideroso di conoscere la sua origine, nell’ampia distesa del mare:

Prendimi, mare aperto, annullami, ma restituiscimi alle origini, riportami alla roccia, alla sorgente… Questo splende nell’ambiguo alone, mi affascina, mi confonde…189

La vita, così, non è finita: lo ricorda l’acqua del mare che evapora e va a gonfiare le nuvole. E queste a loro volta, un giorno troppo gonfie di pioggia, andranno a riempire la bocca di un altro fiume, desideroso di cominciare per una volta ancora l’eterno ciclo.

186

Sotto specie umana, p. 134. Sotto specie umana, p. 104. 188 Ibidem. 189 Sotto specie umana, p. 135. 187


66

Ultima – ma non per importanza – manifestazione naturale che assume un ruolo chiave nella trilogia è la luce, sulla quale l’autore si è espresso in tali termini:

La luce mi ha occupato molto di più negli ultimi anni rispetto ai miei inizi dove la luce è associata al colore, dà sostanza ai colori. Poi mi sono reso conto che la luce è un mondo a sé, autonomo, che crea l’altro. C’è una specie di radiosità o fulgore avvertito come tale e avvertito come mistero. Nei primi libri si trattava piuttosto di una luce metaforica, mentre ora non mi sembra più una metafora: è realtà, indipendente dagli effetti che produce (…). Gli accidenti del mondo sono sempre più relegati, in questa visione, nella loro pretestualità, mentre la luce mi apre alla sostanza190

Tale concezione della luce in quanto potenza in sé che dà vita al creato trova una sua giustificazione e rilevanza solo se associata alla figura di Dio stesso; avendo il poeta scoperto il vero volto di Dio che si nasconde e si palesa in un gioco eterno dietro ogni cosa, può ora ritrovarlo nella luce, la sua manifestazione più eloquente. La luce è infatti, per come la presentano le Scritture, “cosa buona”: essa avvolge il manto celeste191 per dare agli uomini conforto e sostegno nelle tenebre:

[29] Tu, Signore, sei luce alla mia lampada; il mio Dio rischiara le mie tenebre192

--

[1] Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura?193

--

190

Luzi (1997), pp. 33-34. Salmi 104, 2. 192 Salmi 18, 29. 193 Salmi 27, 1. 191


67

[19] Il sole non sarà più la tua luce di giorno, né ti illuminerà più il chiarore della luna. Ma il Signore sarà per te luce eterna, il tuo Dio sarà il tuo splendore. [20] Il tuo sole non tramonterà più né la tua luna si dileguerà, perché il Signore sarà per te luce eterna; saranno finiti i giorni del tuo lutto194

Non manca poi d’indicare agli uomini perduti la Via, sotto forma di stella:

[1] Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: [2] «Dov'è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo» (…). [9] Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. [10] Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia195

Anche per il poeta la luce è latrice di gioia:

È lei quella, lo è stata? o l’anima le è scesa casualmente, lì, in quella icona? Si guarda meravigliata.

194 195

Isaia 60, 19-20. Matteo 1-2; 9-10.


68 «Eppure ebbi quel viso, fu mio per un istante quello sguardo, quel sorriso». C’è luce, c’è domenica nel quadro. Lei entra nel platino e nell’oro di quel fuoco mattutino. Rischiara l’alto e il basso, ha tutta quanta la caligine pervaso quella bianca radiosità196

Se essere nella luce vuol dire essere con Lui, ed essere con Lui vuol dire essere nel giusto, allora vale, per proprietà transitiva, anche l’uguaglianza luce = giusto; è infatti quando sorge il sole che gli umili divorano i superbi197. Sull’equità della luce insiste molto anche Giovanni, che Verdino segnala come una delle letture di fondamentale importanza per Luzi nell’affrontare il significato e la pregnanza della luce nei suoi testi198:

[5] Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. [6] Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. [7] Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato199

--

196

Sotto specie umana, p. 50. Ester 1, 1k. 198 Cfr. Luzi (1997), p. 34. 199 1Giovanni 1, 5-7. 197


69 [9] Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. [10] Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v'è in lui occasione di inciampo200

Non sempre, tuttavia, il creato si mostra pronto ad accogliere Dio e la sua luce nella propria vita. Talvolta ne ha paura come le api laboriose, altre immagini dell’uomo:

Distese maggio sopra noi la volta frondosa dei suoi rami. Stemmo quasi sotto una fitta ed universa pergola al riparo e nel desiderio dell’azzurro che lassù infuriava dilagando, dove? nella solarità, e noi, figlie del sole temevamo il sole201

Temendo la luce, percepita con un “brivido202” persino dal fiume increspato, ci si ripara nel “muschiato buio del bosco203”, ch’è “fitto d’inganni204”. Ma nonostante questo, arriva

nel verdenero dell’ombra vegetale la potenza

200

1Giovanni 2, 9-10. Dottrina dell’estremo principiante, p. 271. 202 Lasciami, non trattenermi, p. 507. 203 Sotto specie umana, p. 116. 204 Sotto specie umana, p. 86. 201


70 del richiamo, la forza della sua paternità205

La luce del Signore penetra nella tenebra e combattendola ne riceve al tempo stesso forza e identità, in base al principio oppositivo-distintivo di memoria eraclitea che il poeta sembra avere ben chiaro: “la luce ha il suo risalto proprio perché c’è la tenebra. Giovanni dice che l’uomo ha preferito la tenebra, ma bisogna vedere se anche la tenebra a sua volta non abbia una luce206”. Non si interpretino queste parole come un’inclinazione di Luzi verso chissà quale forma di occultismo e rivalutazione del Male, bensì come invito a rivalutare la necessità della sua presenza affinché il Bene emerga e vinca; se non ci fosse una battaglia, non vi sarebbe possibilità di vittoria. È grazie al folto degli alberi in cui riparano le api timorose – o gli uomini stessi – che il richiamo riesce a penetrare con più intensità e risvegliare, come una vera illuminazione, le loro esistenze.

205 206

Dottrina dell’estremo principiante, p. 271. Luzi (1997), p. 34.


71

3.3. Deflagrazione dell’Evento nel tutto

Manifestandosi nel reale in tutta la sua prodigiosa e rivoluzionaria potenza sotto forma di pura luce, fulmine o accecante deflagrazione, la Pasqua di Cristo – l’“Avvenimento totale e sintetico degli umani eventi207” – interrompe il flusso dell’ovvietà quotidiana e vi si impone con decisiva irruenza. La sua è un’apparizione lampante, pervasiva e eccezionale: quale un’eccezione, essa è testimonianza dell’excidere, di un’esclusione dalla realtà a cui siamo volgarmente abituati e con la quale abbiamo dimestichezza, e dell’arrivo di una res novae208 che risalta sul già visto e il già noto. Tale eventum è vero e proprio oggetto di merveille209 o epifania210: “struttura iconografica che dal fondo della coscienza si proietta nell’evidenza del presente, flash di un universo altro che talvolta rompe la barriera dell’opacità del reale, in un suggestivo intreccio tra la dimensione profetica e quella testimoniale211”. In un primo momento eloquentemente silenzioso nel mondo naturale, è ora nel tripudio di luce e vita del mezzogiorno, quando il sole è al suo zenith: evidente eppure occulto, presente eppure lontano:

Ades, sei qui nel bosco, nel silenzio, nel frastuono d’aria alto del mezzogiorno. Ci sei intensamente, ci sei fino a tal punto da parere che tu manchi, occultato nell’istante, inabissato nel presente, unito così al mondo

207

Mazzanti (1993), p. 60. Il termine indica non a caso un radicale e sconvolgente cambio di piani, e soleva ai Romani evocare una certa paura. 209 Sotto specie umana, p. 109, p. 116; Dottrina dell’estremo principiante, p. 350, p. 372. 210 Dottrina dell’estremo principiante, p. 354. 211 Luzi (2016), pp. 28-29. 208


72 che ti prende tutto, fino all’annientamento, però ti regala il dove e il quando numine il sole, quasi lucertolescamente. Oh hic, oh nunc212

Il poeta-profeta, più consapevole del reale e di sé, riconosce che la “potenza del richiamo213”, da voce lontana che nasceva dal silenzio naturale e da esso era validata e avvalorata, è ora vera e propria esplosione di evidenza. Se “richiamo”, termine ricorrente nella trilogia, suggerisce l’insistente ma debole, lontano e non coercitivo imporsi di un qualcosa alle orecchie di chi ascolta, “deflagrazione” s’impone invece nel reale con un’autorità quasi intimidatoria; è un disvelamento che riempie di “nuova meraviglia214” e al tempo stesso di “effimero spavento215”, in quanto “occultissima evidenza216” e “avvenimento oscuro217”. O ancora, è “chiara prova di un seminascosto e controverso Sì218”: potente affermazione salvifica, simbolo di un “plenario assenso219” che, pur nella sua perentoria imposizione, unisce armonicamente il creato220. Al riconoscimento dell’emergenza dell’Evento, accolto con sorpresa e stupore, segue la pacifica accettazione del nuovo ordine del reale. È d’accordo Mazzanti: “Le ultime poesie di Luzi (…) sbocciano improvvise da una folgorazione che colpisce il poeta sorpreso egli stesso di tale evento. Nascono da un autentico momento di grazia (…) che gli fa rivedere se stesso e le cose di sempre sotto una luce diversa, più profonda; tale grazia è pure un atto di perdono che rende nuova la vita e lo sguardo221”.

212

Sotto specie umana, p. 93. Dottrina dell’estremo principiante, p. 271. 214 Dottrina dell’estremo principiante, p. 372. 215 Dottrina dell’estremo principiante, p. 423. 216 Sotto specie umana, p. 223. 217 Sotto specie umana, p. 229. 218 Lasciami, non trattenermi, p. 498. 219 Sotto specie umana, p. 95. 220 Si noti, a tal proposito, il crescendo della dimensione affermativa nelle ultime poesie luziane, coerente con questa visione di comune concordia; Munaretto (2014) registra infatti un decisivo incremento dell’utilizzo di punti esclamativi nel corpo del testo, spesso in chiusura, in posizione enfatica. Da leggersi sotto questa luce anche la non rara scelta poetica di congedare i testi con “oh” di quasi “bambina” meraviglia: nel reale, ormai fattosi limpido grazie all’evento epifanico, si fanno spazio “movenze esclamative, vocative, e finalmente oranti, che costituiscono l’altra forma tipica dell’affermare luziano nell’ultima stagione” (p. 177). 221 Mazzanti (1993), pp. 9-10. 213


73

Nonostante l’“eveniente222” presenza sia tangibile nell’hic et nunc, essa resta, come per i profeti il nome di Dio, paradossalmente inarrivabile:

Pazientemente emerge detto il non dicibile tuo nome223

--

In sé e in ogni dove maturò l’evento, in cielo, in terra, nell’imo più profondo della sua profondità, storia ed essenza, fabbricò la sua sostanza, causò ipse se stesso e il suo accadere irreparabilmente il non dicibile mai detto avvenimento – niente nel mondo ne rimase esente224

222

Lasciami, non trattenermi, p. 490. Il termine, che vale “evento che perpetuamente accade”, dà il titolo ad una sezione di Dottrina dell’estremo principiante. 223 Dottrina dell’estremo principiante, p. 436. 224 Sotto specie umana, p. 172.


74

Il nome di Dio, come l’Evento di Cristo risorto, è afferrato con fatica dagli uomini: si tratta di “un accadimento che ci si presenta e (…) supera225” la dimensione umana, e per comprenderlo occorrerebbe trasumanar226. Eppure, esso È, emerge in un sempre biblico e dantesco “ecco227”, un “meraviglioso istante228”, uno “zenith229” che brilla solo “per un attimo230” o in “un tratto231” ben circoscrivibile nel tempo e nello spazio: è ciò che fa incendiare d’improvviso il “mare di materia232” dei pensieri: è l’evidentissimo e tangibile “primo vero bang233” che, deflagrando, porta la “nova lux234”.

Parlando per figure, ecco farsi spazio un’ulteriore suggestione geometrica, che s’affianca al già caro cerchio235: il punto. È il punto, infatti, ciò che s’impone come severo spartiacque tra un ante e un post, segnando inevitabilmente la fine di un qualcosa e l’inizio di un’altra: esso comporta una battuta d’arresto, una momentanea rottura – necessaria in quanto salvifica236 – nell’armonia infinita del cerchio237. Compiendo un altro passo avanti, volendo rifinire tale figura secondo il gusto e la poetica tipica del Nostro, lo si legga come punto esclamativo (“!”), il quale, ben più eloquentemente del punto semplice (“.”) indica con pregnanza grafica l’esplosione di una nuova affermazione nel corpo del testo e del reale.

Muovendo ora da un campo, per così dire, grammatico-geometrico ad uno scientifico-fisico, Luzi paragona l’Evento pasquale ad una vera e propria deflagrazione: una rapida combustione di materia che avvolge il circostante di luce tanto chiara e ardente da abbagliare chi vi assiste. Il termine,

225

Baccarini (2015), p. 195. La finezza poetica di Dante definiva in tali termini il superamento della dimensione umana, l’eccedenza dei limiti a noi imposti per tentar di attingere alla natura divina (Paradiso I, v. 70). 227 Il sintagma “ed ecco” o più semplicemente “ecco” ricorre nella Commedia dantesca come nella trilogia luziana a segnalare l’arrivo inaspettato di qualcosa di nuovo e notevole nel corpo del testo, e della vita. In entrambi gli autori si tratta a tutti gli effetti di una reminiscenza biblica. 228 Sotto specie umana, p. 109. 229 Sotto specie umana, p. 248. 230 Dottrina dell’estremo principiante, p. 359, 389; Lasciami non trattenermi, p. 477. 231 Sotto specie umana, p. 45; Dottrina dell’estremo principiante, p. 374, p. 399. 232 Sotto specie umana, p. 45. 233 Dottrina dell’estremo principiante, p. 327. 234 Ibidem. 235 Senz’altro la figura geometrica più atta a rappresentare la coerenza ideologica e compositiva del poeta; se n’è parlato al cap. 1. 236 Si chiarirà più avanti la necessità della rottura, della perdita e del dolore nel processo di consapevolezza del reale e del Sé, coerentemente con quanto emerge dalla poesie della trilogia e dal libro del Qoèlet. 237 Mazzanti (1993) segnala l’emergenza del “punto” decisivo nella poesia del Nostro già a partire da Su fondamenti invisibili (p. 25). 226


75

estremamente specifico238, declinato in vari modi e presente nel testo anche sotto forma di sinonimi, invita a considerare i componimenti in cui fa capolino come vero e proprio “materiale infiammabile” pronto ad esplodere. Lo scandaloso messaggio pasquale di morte e rinascita vi si trova qua e là disseminato, infatti, a stordire e illuminare chi lo incontri.

Pure tutto cuoce, carbonizza, flagra. Ombra a picco, avara, nuda terra crettata si sgretola, si polverizza. Vampa, bocca di fornace, non per annientare, per rigenerare vita dalla cenere. E noi dentro quel fuoco resine stillanti, oh liberazione dalle scorze239

--

L’essere sceso in sé nelle sue dimore flagra. Anima del mondo insediata nell’acero e nell’orno,

238

Si potrebbe dire, “alla Gadda”. Interessante è notare come i due autori, pur partendo da medesime premesse – la presa di coscienza della multiformità del reale, resa con un evidente plurilinguismo – approdino a conclusioni antitetiche: se Gadda guarderà sempre il mondo come un intricatissimo e irrisolvibile pasticciaccio, Luzi riconoscerà nel magma un progetto risolutore. 239 Sotto specie umana, p. 81.


76 non annientarci, preparaci alla verità, sia chiara e ardente240

--

Fugace entra quel grumo di vita nell’aperto sole, per un attimo brucia nella cruna della sua verità e scompare – nella notte del bosco? nella vampa dell’estate? che importa? è stato, è, dal non essere è salvato241

--

Granisce nel suo apice oro-brace lei maturità di fruge allo zenith dell’anno; flagra, azzurro e suoi barbagli, luglio, la gremita pigna a picco sulla voragine.

240 241

Sotto specie umana, p. 82. Sotto specie umana, p. 90.


77 (…) Forse nemmeno lo vorremmo, eppure ci informa di sé, di sé ci brucia estate la consustanziata carne, ci mette nelle arterie luce, ne espelle opacità, tossici – o nuda creatura che divampi e canti il tuo plenario assenso a non sai che – lo sa però il tuo canto, lo reca in sé242

--

Contiene, magata fissità lo sguardo appena quella radiosa incandescenza di materia che contro sé conflagra e in questo esulta, in questo sublima la sua essenza243

242 243

Sotto specie umana, p. 94. Dottrina dell’estremo principiante, p. 300.


78

La deflagrazione, l’esultare – letteralmente, un “saltar fuori” di gioia ̶ distrugge le convinzioni preesistenti; tuttavia, come per l’Evento pasquale, la demolizione è necessaria ad una nuova creazione:

Moriva d’esperienza lui, nasceva chi sa da che semenza su quelle ceneri un virgulto, lui da lui – lo intende ora però come mistero soltanto244

Non si tratta dunque di un’esplosione terroristica, annichilatrice, bensì produttiva, innovativa: alla necessaria destructio segue infatti una constructio, sua realizzazione e senso ultimo. Sulle rovine di ciò che fu, si costruisce ora qualcosa di nuovo: è alla luce e in funzione dell’essenziale deflagrazione dell’Evento che si riesce a riconoscere qualcosa di buono nel male, un cosmos nel chaos, la vita nella morte.

Va da sé che la realizzazione ultima dell’Evento non potrebbe di certo avere luogo se l’Evento fosse una realtà chiusa in se stessa, trattenuta nella caducità di un attimo; pur nella sua puntualità, esso è un signum, lascia una scia dietro di sé come la coda di una stella. Quale ogni evento veramente degno di questo nome, esso è infatti latore di non indifferenti mutamenti, conseguenze; il “!” che rompe il cerchio fissando il momentum eccezionale in uno spazio-tempo ristretto si sfalda e lascia indizi di sé ovunque, rompendo la linea curva dal quale è emerso per ricostruirne una nuova, più armoniosa. Nella sua “incontenibile flagranza245” ed “esultazione straripante246”, l’“avvenuto evento247” dilaga: pur conclusosi in quanto azione perfecta ̶ come sottolinea l’utilizzo del participio passato di “avvenuto” ̶ accade ancora, ora e per sempre248.

244

Sotto specie umana, p. 239. Sotto specie umana, p. 54. 246 Sotto specie umana, p. 72. 247 Ibidem. 248 Coerentemente, “Perpetui accadimenti” è il titolo di un’altra sezione di Dottrina dell’estremo principiante. 245


79 Mattino alto di mare a cui meravigliosamente era presente. Era e eveniva il suo essere presente all’essere e all’evento ininterrotto del mare e di se stesso presente. era e eveniva parimenti nel tempo e nell’eternamente. Oh attimo…249

Ecco che affiorano, affiancandosi alle tessere lessicali e alle espressioni relative all’eccezionalità momentanea dell’Evento, spie della sua continuità, del suo perdurare nel reale: il “monstre250” che chiude la giornata si presenta come “novissimo preludio251”, quasi un ludus di note in vista di un concerto252, sua manifestazione più alta e completa. A quel singolo punto esclamativo che s’impone nell’armonica e immutabile perenne corsa del cerchio – sembra suggerire il poeta –, ne seguiranno altri: l’Evento avrà una sua continuità nel reale, accadendo perennemente. Non è il cerchio, dopotutto, una curva fatta da tanti punti?

Ulteriore immagine, ambivalente quanto quella della deflagrazione, è la ferita, lo “squarcio improvviso253” attraverso il quale la Terra “manifesta talora meraviglie a se stessa insospettate254”: qualcosa che ancora una volta sottolinea quanto l’Evento, pur salvifico, costi dolore e sacrificio, rompa e dilani “la continuità della carne255”. La Passione di Cristo, l’Evento per antonomasia, è infatti uno “scempio256” “obbrobrioso257” in quanto testimonianza dell’uguagliarsi scandaloso di morte e 249

Dottrina dell’estremo principiante, p. 299. Sotto specie umana, p. 39. 251 Ibidem. 252 Si tenga a mente tale suggestione “musicale”; se ne riparlerà più avanti, nella considerazione del mondo creaturale in quanto coro o danza perpetua (cfr. cap. 3.5). 253 Sotto specie umana, p. 116. 254 Ibidem. 255 Cfr. “Ferire”, www.etimo.it. 256 Dottrina dell’estremo principiante, p. 326. 257 Sotto specie umana, p. 174. 250


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rinascita, della discesa infamante – per la concezione tradizionale del divino ̶ di un Dio che s’è fatto uomo. In altri termini ancora, l’Evento è un “morbo258” che divampa nelle creature; nel suo dilagare, una grande paura accompagna la convinzione che “deve tutto accadere e dissolversi nel niente del continuo cominciamento259”. Esaltazione e annientamento260, luce e nulla261, gloria e sterminio262 vengono così a coincidere, tra l’estasi e lo sgomento263, l’incanto e lo spaesamento264 del creato. Il mondo che appare ferisce l’uomo all’improvviso265; la continuità dell’accaduto infatti “sfolgora (…) nei frantumi dei nostri dilaniamenti266”, “fende a precipizio la distanza267” tra l’uomo e Dio, e lascia una non indifferente cicatrice sul corpo del creato. La percepita “separazione brucia in tutta la sua piaga268”, eppure è in virtù della ferita che “entra ciascuna entità nella sua essenza e splende269”. Permettendoci una parentesi artistica, si pensi ai tagli di Lucio Fontana (1899-1968): le ferite sulle tele sono evidenti nella loro drammaticità e limitate entro il taglio che le ha procurate, eppure aprono anch’esse “un varco verso l’involo e la liberazione270”. Non sono concluse e finite in loro stesse come porte chiuse, ma rappresentano un foro su una “pellicola millenaria271”: la tela del mondo, bucata dalla novità dell’Evento che ancora la colpisce. Parimenti la Pasqua, recuperata nel suo doppio – pur incerto e discusso, ma ritenuto qui pertinente272 – significato di “passaggio, varco” e “sofferenza, travaglio”, segna il coincidere di ferita e guarigione, morte e vita. Tramite il sacrificio del taglio, della ferita, dell’esplosione, l’uomo osa infatti guardare oltre273, e spia nel “forame dell’uscita274” ciò che lo aspetta dall’altra parte; spazio e tempo, coordinate che lo definiscono in quanto creatura mortale, rappresentano dunque solo un limes apparente. Con l’Evento cristiano, ovvero la morte di un Dio-uomo, la vita non è sconfitta dalla morte: “la celestiale

258

Sotto specie umana, p. 56. Sotto specie umana, p. 157. 260 Sotto specie umana, p. 193, p. 220. 261 Lasciami, non trattenermi, p. 572. 262 Sotto specie umana, p. 241. 263 Dottrina dell’estremo principiante, p. 360, p. 422, p. 425; Lasciami, non trattenermi, p. 546. 264 Lasciami, non trattenermi, p. 550. 265 Dottrina dell’estremo principiante, p. 349. 266 Dottrina dell’estremo principiante, p. 297. 267 Dottrina dell’estremo principiante, p. 362. 268 Dottrina dell’estremo principiante, p. 348. 269 Ibidem. 270 Sotto specie umana, p. 131. 271 Dottrina dell’estremo principiante, p. 355. 272 Si fa qui riferimento al dibattito intorno all’etimo del termine, che verte anzitutto sull’adozione o meno del verbo ebraico pāsaḥ di Esodo 12. 273 È quanto viene detto, pur con altri termini, in Sotto specie umana, p. 184. 274 Lasciami, non trattenermi, p. 478. 259


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oltremisura275” di Cristo la trascina infatti “fuori dalla sua ministoria276”, disfacendola solo per rinnovarla.

A un tratto si sbrogliò e si sfece il gomitolo d’esistenze umane e d’ogni specie. Trascese al puro mattino la terra ed il pensiero di lei in me. Rifulse, sfolgorò un istante quel profondo inessere delle cose in sé ciascuna e tutte insieme in una trasparente equalità. Poi il tempo si riprese tutto, ma non quella fulminea eternità277

Paradossalmente puntuale ed eterno, l’Evento dura e perdura, “ininterrotto278” e “perpetuo279”. La paurosa meraviglia ch’esso suscita ridesta l’uomo dal sopore esistenziale: è lo schiaffo che fa 275

Lasciami, non trattenermi, p. 581. Ibidem. 277 Dottrina dell’estremo principiante, p. 374. Verdino (2014) scrive, a sostegno di quanto si è detto sulla frammentazione dell’evento: “Tra le maglie della costante predicazione dell’essere lampeggia anche una sua destrutturazione” (p. 116). 278 Dottrina dell’estremo principiante, p. 299. 279 Sotto specie umana, p. 48. 276


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riacquisire conoscenza, la luce che offende “la veduta agli uomini280” colpendoli “in pieno petto281” con il suo abbagliante fulgore282. Si ode qui riecheggiare l’esperienza paolina: un uomo qualunque, anzi una “sempre frequente minaccia e strage contro i discepoli del Signore283”, è sorpreso e per sempre trasformato dall’eccezionalità dell’Evento quando questo si manifesta, sotto forma di luce accecante, sulla via di Damasco:

[6] Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all'improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; [7] caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?»284

Paolo si riconosce cieco, colpito com’è da inumano fulgore; alla manifestazione dell’Evento seguono giorni di metaforica morte, di sofferenza, perché è solo sgravandosi della carcassa del precedente Sé che ci si può avviare alla Vita Nuova. Il risveglio esistenziale disorienta285, la Bellezza – manifestazione dell’armonica Verità – fulmina ed incanta286; ogni certezza è compromessa, le carte sono rimesse in gioco, i ruoli stravolti: l’uomo che prima fieramente guidava, accetta ora d’essere guidato287. Non la si legga come punizione, e per di più casuale: la luce apparsa a Paolo, per quanto dolorosa, segna per lui l’inizio di un nuovo salvifico cammino che lo vede instrumentum di una missione più grande. Come spiega infatti Anania, Paolo è accecato da Dio proprio perché possa acquisire la vera vista:

[17] «Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo». [18] E improvvisamente gli caddero gli occhi come delle squame e ricuperò la vista; fu subito battezzato, [19] poi prese cibo e le forze gli tornarono288

280

Dottrina dell’estremo principiante, p. 382. Dottrina dell’estremo principiante, p. 413. 282 Dottrina dell’estremo principiante, p. 419. 283 Atti 9, 1. 284 Atti 22, 6-7. L’episodio è riportato anche in Atti 9, 3-4 e Atti 26, 13-14. 285 Sotto specie umana, p. 230. 286 Dottrina dell’estremo principiante, p. 332. 287 Atti 22, 11: “E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco”. 288 Atti 9, 17-19. 281


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Egli è ora chiamato

[18] ad aprir loro [i pagani, n.d.e.] gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati289

In un altro passo biblico si legge invece di un uomo nato cieco che riacquista la vista grazie a un miracolo di Gesù: il procedimento, pur inverso a quello paolino, sottolinea ancora una volta quanto l’Evento dia “nuovi occhi” a chi vi assiste. Si tratta della guarigione dell’uomo nato cieco, narrata in Giovanni 9, 1-41:

[1] Passando vide un uomo cieco dalla nascita [2] e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». [3] Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. [4] Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. [5] Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo». [6] Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco [7] e gli disse: «Và a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. [8] Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: «Non è egli quello che stava seduto a chiedere l'elemosina?». [9] Alcuni dicevano: «E' lui»; altri dicevano: «No, ma gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». [10] Allora gli chiesero: «Come dunque ti furono aperti gli occhi?». [11] Egli rispose: «Quell'uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: Và a Sìloe e lavati! Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista» (…) [25] Quegli [il nato cieco, n.d.e.] rispose: «Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo» (…) [39] Gesù allora disse: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi». [40] Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo forse ciechi anche noi?». [41] Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane»290

289 290

Atti 26, 18. Giovanni 9, 1-11, 25, 39-41.


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Se Verbo e luce sono indissolubilmente legati, allora chi accoglie il primo tornerà – o comincerà per la prima volta – a vedere. Con un gesto che rievoca la genesi di Adamo – l’atto di plasmare il fango – Gesù dà luce, o meglio, dà alla luce un uomo nuovo: avere fede è aprire gli occhi, guardare senza pre-concetti e pre-sunzioni la realtà291. Gesù punisce coloro che, come Paolo, si fidano unicamente del proprio lume, e premia invece gli umili e i poveri di cuore, dei quali il nato cieco è metafora vivente. Lo ricordano in più passaggi anche i profeti; s’inganna chi pensa che vista fisica e vista morale coincidano:

[9] Ascoltate pure, ma senza comprendere, osservate pure, ma senza conoscere292

[21] O popolo stolto e privo di senno, che ha occhi ma non vede, che ha orecchi ma non ode293

Coerentemente con il messaggio biblico-cristiano, anche il Nostro condivide l’immagine dell’Evento come luce accecante che porta sì stordimento, ma al tempo stesso vita e piena coscienza del Sé:

O mente che non ignora niente occhio che vede tutto questo, e noi che quell’occhio lo guardiamo abbacinati, ciecamente294

291

Non si tratta di una contraddizione con la previsione profetica: quest’ultima è infatti sostenuta dalle indicazioni del Signore. Gli occhi dei presuntuosi, al contrario, “assumono” e “considerano” (sumere) i propri pensieri “innanzi” (prae) a quelli di Dio. 292 Isaia 6, 9. 293 Geremia 5, 21. 294 Lasciami, non trattenermi, p. 481.


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Tripudio di luce è anche il fuoco che brucia in una fornace, da intendersi come l’oggetto della refurtiva prometeica: il logos che venne preso dagli dei per darne agli uomini. Non manca infatti in Luzi la definizione dell’Evento in qualità di fiamma disvelatrice e rivelatrice, che porta conoscenza e salvezza all’uomo che ne brucia295. Correlata al fuoco è poi l’immagine del fulmine o del lampo, manifestazione puramente visiva della forza dell’Evento nel creato:

Chi soffre al pensiero del niente soffre essendo, ostaggio dell’essere il vivente anche oltre di sé – una scheggia di pensiero sonnecchiante colpì al centro quel nodo, quel problema, fu un lampo… Amleto, il tuo aut-aut, ripetilo, dov’è?296

--

Ma ora quel fulmine,

295

Lasciami non trattenermi, p. 502, p. 572. Interessante anche l’esempio di Dottrina dell’estremo principiante, p. 399: il fuoco che infiamma i riccioli della ragazzina creduta “insulsa” la illumina di grazia, liberandola da commenti maligni. 296 Lasciami, non trattenermi, p. 551.


86 l’allarme per il restante itinerario… Veniva su di lui, esso, dal fondo non placato dei suoi anni di mare e d’avventurose rotte oppure era un avviso del futuro agguato degli eventi?297

--

Dove, a che termine, a che fine? – Guizzò, fuoco lucente, dentro la sua domanda un brivido, si perse la mente che la fece nelle sue parole stesse, scisse ogni compagine di senso e di pensiero, sparse notte e disordine nel cuore il soprassalto

297

Sotto specie umana, p. 103.


87 potente di quel fulmine298

--

Un attimo, che accadde? un fulmine e la sua infinità da tutto il non sapere si restrinse a un punto, quel punto lo forò una luce, lo passò da parte a parte – per questo? solo per questo? ad accendere la tenebra antistante, a suscitarne una segreta vampa più d’ogni claro lumine accecante, e prendermi – si disse – nella mia insufficienza perché la verità avesse un lampo in me, nell’universo, misteriosissimamente299

Si noti come nella poesia appena riportata si ritrovino tutti gli elementi cui si è fatto riferimento: l’implodere di un attimo circoscritto accende, con la sua forza abbagliante di fulmine o lampo300 al

298

Dottrina dell’estremo principiante, p. 342. Dottrina dell’estremo principiante, p. 364. 300 Altre emblematiche occorrenze: Lasciami, non trattenermi, p. 490, p. 569. Il termine ricorre anche nell’espressione “in un lampo”, riassuntiva al tempo stesso della puntualità dell’Evento e del suo luminoso manifestarsi in Sotto specie umana, p. 172; Lasciami non trattenermi, p. 513. 299


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tempo stesso evidente e misteriosa, lo scuro delle tenebre in quello che si potrebbe definire, sempre coerentemente con l’immagine del preludio, un “gioco di verità e di accecamento301”.

Notevole anche l’immagine del tuono o frastuono che stordisce: è l’Evento che si manifesta più alle orecchie che agli occhi. In Dottrina dell’estremo principiante, un componimento intero è dedicato all’epifania di un tuono e al “subbuglio” che comporta nel creato:

Il tuono fece truce d’un tratto il borbottio blando del mare. Schiaffi, botte, frustate, acqua contro le rive, acqua su acqua, suo da lontano vorticare con rabbuffi e schianti, suoi crosci rovinosi e tonfi – si udì questo dal chiuso della notturna stanza. Crescente fu il subbuglio, insorse un muggito dal profondo. Così nacque e si perse in se stesso il temporale – effimero, passato, forse scritto anch’esso nella memoria del creato302

301 302

Sotto specie umana, p. 154. Dottrina dell’estremo principiante, p. 406.


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In un’altra poesia ancora, trepida nel frastuono di una tempesta un sentimento d’amore riconosciuto come foce e fonte del creato:

L’amore mio ripagato in esistenza Era impaziente, trepidava in quel frastuono verso l’indivisa sorte, foce o fonte. Tu che allora arrivasti venivi da che parte? ex omni unde303

Che amore e “frastuono” possano coincidere, lo ricordano molti passi delle Scritture: la voce di Dio rimbomba spesso nel creato. Qualche esempio:

[16] Appunto al terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di tromba: tutto il popolo che era nell'accampamento fu scosso da tremore. [17] Allora Mosè fece uscire il popolo dall'accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte. [18] Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. [19] Il suono della tromba diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono304

--

[2] Udite, udite, il rumore della sua voce,

303 304

Dottrina dell’estremo principiante, p. 286. Esodo 19, 16-19.


90 il fragore che esce dalla sua bocca. [3] Il lampo si diffonde sotto tutto il cielo e il suo bagliore giunge ai lembi della terra; [4] dietro di esso brontola il tuono, mugghia con il suo fragore maestoso e nulla arresta i fulmini, da quando si è udita la sua voce; [5] mirabilmente tuona Dio con la sua voce opera meraviglie che non comprendiamo!305

--

[14] Il Signore tuonò dal cielo, l’Altissimo fece udire la sua voce306

--

[3] Il Signore tuona sulle acque, il Dio della gloria scatena il tuono, il Signore, sull’immensità delle acque. [4] Il Signore tuona con forza, tuona il Signore con potenza. (…) [9] Nel suo tempio tutti dicono: «Gloria!» [10] Il Signore è assiso sulla tempesta, il Signore siede re per sempre.

305 306

Giobbe 37, 2-5. Salmi 18, 14.


91 [11] Il Signore darà forza al suo popolo, Benedirà il suo popolo con la pace307

Si legga infine, a conclusione della sezione e introduzione della prossima:

È in corso, deflagra, imperversa nella notte, nell’aria vera il nubifragio o si riaccende nelle cieche profondità del tempo e della mente un remotissimo frastuono? non sa, gli solca il sonno – questo mentre dorme sente, gli ruba le immagini, gli trita le frasi della musica, gli porta via misericordia dal sogno che ora sogna – Perché quel nume mi devasta il campo, perché turba la sua notturna fioritura e mi divide da me, da me mia parte? Amputato dai fulmini

307

Salmi 29, 3-4, 9-11.


92 il suo ego dormiente lamenta l’offesa integrità ma intanto avanza nella notte e nella conoscenza, si apre al non ancora rivelato l’anelito segreto svelandosi a sua volta, e il desiderio. Ci sono buoni angeli nel cupo brontolio, di essi uno è navarca, a lui si affida. L’alba o il risveglio lo disperde il fortunale, ne ha memoria il giorno308

In una notte più metaforica che reale, un frastuono pur “remotissimo” rompe il sonno di chi dorme, illuminandone le “cieche profondità della mente”. Si tratta di qualcosa che deflagra in un attimo, eppure è ancora “in corso”: continua ad accadere, a farsi spazio nel reale. Perché, si chiede il dormiente, quel suono improvviso vuole disturbare il suo sonno? Per quale motivo – si domandò forse anche Paolo – una luce acceca proprio lui, uomo così fermo nelle sue convinzioni, così risoluto? Perché il rumore e la luce rompono la serenità della notte o della via, minacciando la pace di chi dorme o cammina, dimezzandone la persona? L’ego soffre se colpito, piange la perdita dell’autorità su se stesso: ancora ignora che il dolore dell’illuminazione non è che un varco verso la conoscenza.

308

Dottrina dell’estremo principiante, pp. 394-395.


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3.4. Dolore universale, necessario, sapienziale

Per quanto il dolore sia una componente quotidiana – declinato in tutte le sue sfumature, dal fastidio all’agonia – della nostra vita in quanto uomini309, accettarlo senza che se ne possa trovare un senso, un’utilità, un beneficio risulta considerevolmente difficile. L’accettazione è infatti possibile solo nel momento in cui si trovi uno scenario di senso dal quale il dolore stesso ricavi una legittimazione, una sua validità d’essere310. L’interrogazione sulle forme della sofferenza ha una storia letteraria antica come il mondo, che affonda ancora una volta le sue radici nella narrazione biblica. È nel segno di una dolorosa ferita che la discendenza dell’uomo viene alla luce; i nostri progenitori corruppero la meraviglia del giardino edenico quando, appena sulla soglia delle Scritture, commisero il primo peccato. Così, Dio condannò l’uomo alla sofferenza:

[16] Alla donna disse: «Moltiplicherò I tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli». (…) [17] All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, (…) maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita»311

Le pagine dei Salmi sono poi pregne, oltre che di ringraziamenti e inni gioiosi al Creatore, di invocazioni affinché Egli liberi l’uomo dal dolore che sempre l’accompagna.

309

Non solo gli uomini; anche gli animali sono destinati a soffrire, come s’è visto in Romani 8, 22 (cfr. cap. 3.2). Interessante, a tal proposito, il preambolo di Natoli (2004). 311 Genesi 3, 16-17. 310


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Si pensi poi a Giobbe, uomo messo alla prova da Dio con atroci sofferenze312. In piena agonia, egli non vuole credere alle spiegazioni dei suoi molesti consolatori313, ma osa interpellare il Signore: dà dimostrazione della sua forza e tenacia nel momento in cui non si arrende a un piuttosto scontato e facile pensiero di un Dio malvagio, ma anzi si ostina a volerlo confutare, pur di fronte alla dolorosa evidenza della privazione. Egli tiene vivo con il Signore un dialogo, nella speranza e convinzione che questo possa risolversi nell’ennesima evidenza – che per Giobbe è in fondo certezza – della Sua perenne giustizia e bontà. Certo egli si lamenta, impreca, maledice il giorno in cui è nato, ma non convoglia l’odio per la propria condizione in un atto concreto di suicidio, o di violenza: non si toglie la vita o la toglie ad altri, bensì continua con insistenza ad interrogarla interrogando Colui che gliel’ha donata. Non si tratta di un uomo povero di spirito che fugge di fronte al dolore, ma un animo veramente integro e pienamente umano, in quanto non osa rinunciare al logos, al dialogo con Chi l’ha creato: va a bussare alla porta di Dio, esige parlarci. E Dio gli risponde, ordinandogli di accettare il mistero della sua condizione, e più in generale quello del dolore: la realtà della sofferenza costituisce dunque qualcosa a cui l’uomo deve arrendersi senza perdere fede. È anzi in tali circostanze che la capacità dell’uomo di affidarsi viene messa alla prova, e validata. Giobbe lo comprende, e può finalmente dire di aver visto – con una vista morale, vera, non meramente fisica314 – la grandezza del suo Creatore:

[2] Comprendo che puoi tutto E che nessuna cosa è impossibile per te. [3] Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento Cose troppo superiori a me, che io non comprendo. (…)

312

Illuminante la lettura del libro di Giobbe da parte di Costacurta, riportata su www.gliscritti.it. Non le si riportano, alla luce del fatto che Dio le denuncia in quanto erronee e fuorvianti (Giobbe 42, 7-9). Un’unica osservazione è ritenuta in qualche modo pertinente a quanto si dirà più avanti in relazione al Nostro, ed è quella di Elifaz il Temanita in Giobbe 5, 17-18: “[17] Felice l’uomo, che è corretto da Dio: perciò tu non sdegnare la correzione dell’Onnipotente, [18] perché egli fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana”. Il passo trova una sua corrispondenza anche in Proverbi 3, 11-12, Deuteronomio 8, 5 e 32, 39 e Osea 6, 1: a causa e in virtù di una ferita, l’uomo è oggetto delle cure salutifere di Dio. Nel dolore c’è necessità, e nella necessità giustizia e salvezza: è una verità che a tutti gli effetti avvalora il doloroso sacrificio di Cristo o, parlando per metafore luziane, dà un senso ultimo all’obbrobrioso evento che deflagra. 314 Cfr. cap. 3.3. 313


95 [5] Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono315

Ma nessun altro libro biblico, tuttavia, offre al dolore un senso ultimo coerente con la visione poetica ed esistenziale di Luzi quanto quello di Qoèlet. In questo breve ma significativo scritto sapienziale che è anzitutto interrogazione intima di un uomo intorno all’apparente frivolezza (hebel) dell’esistenza, il lettore può trovare un invito a riconsiderare la necessità del dolore: la sofferenza non è altro che l’ineludibile implicazione di una vita che vuole dirsi consapevole. Tale dolorosa ma liberatoria rivelazione permette di considerare il libro come un taglio salvifico all’interno del corpus biblico: “la presenza di Qoèlet nel cuore della Bibbia e della tradizione ebraico-cristiana è una ferita, perché l’attraversamento di Qoèlet non è generativo se non sentiamo il dolore – nostro e del mondo – mentre incontriamo le sue parole. Ma, come molte ferite feconde, questa presenza è anche un’apertura della Bibbia verso ogni uomo e ogni donna che cerca la verità, anche per chi non sente il bisogno di dare un nome religioso a questa sua ricerca. Dalla fessura di Qoèlet l’umanesimo biblico esce e arriva fino all’ultimo dubbioso essere umano amante e cercatore di verità; ma attraverso questa finestra è l’umanità tutta che è entrata e continua a entrare dentro la Bibbia, e una volta entrata l’hanno fatta più bella, più umana, più vera con la loro umanità onesta, rivestendola anche di quelle carni di chi della Bibbia non capiva Isaia o il Vangelo di Marco, ma ha capito e amato il cantore della vanitas316”. La vera sapienza si configura nelle parole dell’Ecclesiaste come la conoscenza del limite e del finito: due dimensioni peculiarmente umane con la dolorosa realtà delle quali è inevitabile e necessario scontrarsi. Così sapere è soffrire, perché conoscere e riconoscere di essere finiti non può che, quando non provocare dolore, almeno dare scandalo317: si tratta, etimologicamente, di un vero e proprio inciampo alla realizzazione ultima di sé degli uomini che aspirano a prendere il posto di Dio varcando ogni limite spaziale, temporale, cognitivo. Per coloro che sono in grado invece di sfruttare l’“inciampo” come opportunità, ecco che l’Evento doloroso si fa salutifero, e la vita diventa consapevole.

315

Giobbe 42, 2-3, 5. Bruni (2018), p. 9. 317 Il termine ricorre in diversi passi biblici, mostrando sempre la sua ambivalenza di evento orrifico e/o salvifico, a seconda delle scelte comportamentali di chi vi assiste. Gesù stesso riconosce quanto le sue parole possano essere oggetto di scandalo in Giovanni 6, 60; di fronte alla prova di fede offerta dall’ostacolo, si può procedere e innalzarsi nel cammino verso Dio o cadere, cfr. Isaia 8, 14; Romani 9, 33; 1Pietro 2, 7-9. Occorre poi fare distinzione tra gli scandali: non tutti possono offrire all’uomo occasione di rinnovamento spirituale, cfr. Matteo 18, 7 e Luca 17, 1. 316


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Al tempo stesso, soffrire è sapere in quanto è mediante l’esperienza dolorosa che si acquista e si cresce nella cognizione di sé. È dunque inevitabile e necessario che ad una presa di coscienza, ad un avanzamento nel percorso sapienziale, segua un momento di dolore. Dice infatti Qoèlet:

[18] molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore318

E ricorda più avanti che “[13] Il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è il vantaggio della luce sulle tenebre319”. Con un’immagine coerentemente luziana, la sapienza viene connessa alla luce, in quanto logos chiarificatore delle coscienze:

[1] Chi è come il saggio? Chi conosce la spiegazione delle cose? La sapienza dell’uomo ne rischiara il volto, ne cambia la durezza del viso320

Nessun altro libro biblico quanto il Qoèlet ricorda il chiarore del dolore e la bellezza del dramma intesa come coesistenza e risultanza armonica di ciò che è apparentemente opposto (sapienza e sofferenza). La visione epicurea secondo la quale il vero sapiente è un dio atarassico e aponico trova qui un suo ribaltamento logico: il saggio è colui che è in grado di riconoscere ed accettare di soffrire per l’acquisizione della conoscenza. Sapere non è ignorare, dimenticare, evitare ed astrarsi dalle dolorose incombenze che ostacolano il cammino; è anzi imparare a caricarsi queste sulle spalle, a farle proprie crescendo nel Sé.

318

Qoèlet 1, 18. Qoèlet 2, 13. 320 Qoèlet 8, 1. 319


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Il dolore ha interessato in modo particolare la poetica e l’indagine esistenziale di Luzi, che come l’Ecclesiaste si interroga su e per l’uomo, e la riflessione321 intorno alla natura della sofferenza accompagna il poeta fino agli ultimi anni. Nel momento in cui si considera l’Evento cristiano per antonomasia, ovvero la crocifissione del figlio di Dio, è impossibile ignorare quanto il dolore ne sia una componente fondamentale, se non la più significativa. Occorre dunque, in questa indagine biblica e luziana, accettare la natura del dolore per comprendere l’intera dinamica eventuale. Una volta che il poeta-profeta ha riscontrato le proprie intuizioni nel mondo naturale che lo chiamava a sé assistendo alla definitiva illuminazione, messo di fronte alla dolorosa realtà dell’Evento – la morte di un innocente – non può che soffrire: si tratta, come già detto, di assistere ad una deflagrazione di senso che acceca, che sconvolge, che urta l’uomo in quanto verità scomoda, ingombrante, scandalosa. Accade talvolta che il dolore stesso sia tanto forte da non permettere all’uomo di udire un richiamo lontano. Colui che soffrendo una forte pena permette che questa assorba e annulli il circostante soffocando ogni richiamo, attutendo ogni esplosione di vita e irruzione di senso ultimo, pecca dello stesso peccato che Paolo stesso avrebbe commesso se, accecato dalla forte luce sulla via per Damasco, si fosse limitato a lamentare la sua pena senza andare alla ricerca del senso, del buono che quella momentanea privazione recava con sé:

Viene, forse viene, da oltre te un richiamo che ora perché agonizzi non ascolti. Ma c’è, ne custodisce forza e canto la musica perpetua…ritornerà. Sii calmo322

321 322

Pur in termini impliciti, secondo una modalità tipicamente luziana. Sotto specie umana, p. 210.


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Così Luzi invita ancora una volta ad ascoltare, a tendere l’orecchio a ciò che ci circonda per ammutolire la pesantezza dell’Io e delle sue sofferenze apparentemente insensate. Il senso ultimo, la “musica perpetua323” che culla l’universo, c’è e tornerà. Il dolore in ogni sua forma si risolverà in armonia, anzi: è già in sé una forma di armonia, una parte di un tutto coerentemente disegnato. E ancora, colpita da un fulmine che squarcia l’aria,

si risente, si accorge di sé ferita nei suoi gangli la bellezza del pianeta, l’unità della sua vita. Il male è necessario, forse, il male non manca324

Il male è tanto palese, in ogni dove e in ogni quando, che sarebbe del tutto innaturale pensarlo innecessario, inutile325. In cosa si sostanzia dunque tale necessità? In quale prospettiva di senso si può inserire lo scandalo del dolore perché esso ne ricavi legittimazione, un senso d’essere? Quando ferito, il pianeta prende contezza di sé e della sua unitaria bellezza. Il mondo raggiunge così una nuova consapevolezza, compie un nuovo passo verso la conoscenza di sé. Ecco che, come aveva annunciato Qoèlet, il dolore, mettendo alla prova l’individuo, permette a chi lo sopporta di conoscere se stesso:

Dorme e sente nel suo sangue notturno transitare il tempo, le ere,

323

Sulla peculiare definizione musicale del cosmos si tornerà nel cap. 3.5. Dottrina dell’estremo principiante, pp. 275-276. 325 Mi sembra doveroso rispondere preventivamente ad un’obiezione che chi legge potrebbe non a torto avanzare: ritengo che il senso ultimo del dolore per un poeta e uomo come Luzi sia del tutto coerente con quella del pensiero biblico (e più specificatamente del Qoèlet) pur se Luzi combatté una strenua battaglia assieme ad altri luminari del tempo contro il cosiddetto “dolore non necessario”, a sostegno dell’eutanasia – lo ricorda una targa di pietra in Via del Bacio a Pienza, dove il poeta passò gli ultimi anni. A mio avviso specificare che si lotta contro un dolore definito non necessario sottolinea ancora una volta quanto per l’autore la sofferenza non sia intrinsecamente malvagia e da condannare, ma possa avere una sua valenza e necessità. Si pensa senza dubbio che sia quest’ultimo il caso della crocifissione cristiana. 324


99 facimento e sfacimento del mondo, creato ed increato, sente un dolore insensato per sé non esistente, ma ecco, d’improvviso lei è, le è fatta grazia e croce di un attimo, di sé. Per un attimo lei è, oh gloria, oh sgomento. Lei è, figlia di che sterminio di tempi, casi, eventi, genitrice di quante infinità, ha e non ha il destro a domandarlo. S’acquatta, è portata via, si perde nella sua santa nullità – lei dorme. Sa e non sa326

Un’anonima Lei sente un “dolore insensato”; ma ecco che l’irruzione di un attimo che è “grazia e croce” – ogni realizzazione costa infatti la perdita delle illusioni, l’abbandono di vecchie e senz’altro comode convinzioni – le suggerisce, anzi le dona chi è. Così ella sa, senza sapere di sapere. Ancora

326

Lasciami, non trattenermi, p. 491.


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dorme, forse troppo concentrata sul suo dolore da non ascoltare il resto, eppure avanza, inconsapevole, nella notte della conoscenza. Ancora, un uomo – che è ogni uomo – non comprende quanto sapere sia soffrire e soffrire sia sapere:

L’ansia dell’uomo non ha confini umani, appropria al suo tormento l’aria, il cielo, le messi, ignora l’uomo quanto la sapienza sa in tutti i brividi, in tutte le faville di vita dei viventi, anche nei suoi medesimi327

Secondo il panenteismo biblico ispirato a Teilhard328, il poeta parla di un’ansia, un dolore che proiettato verso un ignoto e temuto futuro è comune a tutti i viventi. Esso varca il limes umano per toccare ed appropriarsi di tutte le altre dimensioni dell’Essere che popolano la terra, alla luce del fatto che nel mondo luziano propriamente detto i confini, invisibili demarcatori di dove inizia l’altro – sia esso il mare, il cielo o chi lo abita poco importa – e dove finisce l’Io non sono che una fittizia e fuorviante costruzione mentale: noi uomini siamo nell’Essere e l’Essere è in noi come è in ogni altra cosa. La sofferenza, come la gioia o qualsivoglia emozione, sono in realtà relegate ad una dimensione più ampia che supera le colonne d’Ercole umane, e si fanno sentimento universale. Nel bene e nel

327 328

Dottrina dell’estremo principiante, p. 281. Cfr. cap. 2.3.


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male non c’è ego nella poesia di Luzi ma una coralità d’anime, se non ancora paradisiache, per lo meno purgatoriali329:

Schiodami, ti prego, dalla croce della mia identità, lasciami a ogni casuale evento, libero, neutrale, indiviso dalla vita. La prima, la seconda, la continua vita tutto ciò che dà tutto si riprende330

Una concezione individualistica diventa emblema ultimo di sofferenza, tanto che il poeta arriva a chiedere di essere tolto dalla croce della sua identità e restituito all’unità della vita331: così il fiume desiderava ricongiungersi con il mare. La singola identità, nella sua solitaria esistenza, è condizione di dolore che spinge chi la prova a ricercare la comunione, l’appartenenza. Tuttavia, si riuscirebbe a scoprire tale bene senza e mediante il dolore della solitudine? Il male provocato dall’apparente autosufficienza sprona a cercar l’altro con maggior intensità, anche di fronte a circostanze che possono definirsi eccezionali. Si pensa qui, in particolare, a quanto narrato nella poesia intimobiografica all’ingresso di Lasciami, non trattenermi: è l’Infra-Parlata affabulatoria di un fedele all’infelicità, composta dal poeta di ritorno da una straziante visita all’ex moglie Elena Monaci, colta dal dolore; la sofferenza impressa sul volto di quella che fu compagna di vita e madre di suo figlio lo chiama a un nuovo comune sentire. Il dolore, oltre ad offrire una prova per la conoscenza di sé e del mondo e farsi dunque sapienziale, insegna il valore della comunione e apre il varco al bene della fratellanza332, anche se ci si trova di fronte a due vite del tutto lontane, quasi “contrarie”:

329

Definizione che trovo coerente sia per il ricordo delle anime dantesche in Purgatorio, che procedono docili e mansuete come gregge, scevre del solipsismo tipicamente infernale, sia per la fedeltà luziana alla virtù della modestia la quale, come ha suggerito al poeta di dirsi principiante, parimenti gli chiederebbe di usare cautela nel definire il valore spirituale di altre anime, sue pari compagne nel cosmos. 330 Dottrina dell’estremo principiante, p. 435. 331 La “continua vita” non è nient’altro che Dio, colui che dà e toglie (Giobbe 1, 21). Il desiderio del poeta è quello di “essere in Lui”, in modo tale da poter essere una sola cosa con il resto del creato. 332 Rappresenta un invito e un’occasione per la vicinanza con l’altro e anche con l’Altro, secondo quanto detto anche in alcuni passi biblici: Salmi 34, 19 e Salmi 51, 19.


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Non voglio essere solo, devo per immaginazione e per misericordia un’altra sofferenza alla mia aggiungere, la sua, non l’ho purtroppo condivisa eppure c’è stata in tutti i lunghi anni, in tutti i lenti giorni che furono postumi per lei333

Tornando ora al legame intrinseco tra sapienza e dolore, l’uomo spesso non intende aprirvi gli occhi, avvenga ciò per ignoranza o comodità. Tuttavia, coerentemente con il pensiero dell’Ecclesiaste, il poeta resiste, nonostante tali ritrosie, a concepire sapienza e dolore come un necessario e a suo modo armonico intreccio, quali facce di un’unica medaglia. Secondo il percorso biblico e quello dell’autore, la sapienza si acquisisce infatti nell’ambito di un umile percorso di abnegazione del sé, di abbandono delle precedenti convinzioni in modo da far spazio alle nuove, più vere e definitive, con in cuore la consapevolezza che altro mai si sarà se non eterni principianti, pur se estremi. Con ciò non si intende strizzare l’occhio a certo nichilismo esistenziale, ma tendere verso ciò che potrebbe essere definito nei termini di un arretramento temporaneo del Sé che permetta all’uomo di far spazio a qualcosa di più grande che possa includerlo e riconfermarlo. Grandezza e umiltà come divinità e umanità, sapienza e dolore si chiamano così a vicenda, e la loro perenne concordia è tale solo in Cristo, l’uomo che fu Dio, e che pur nella sua grande sapienza – intesa qui come possedimento totale e incarnazione del logos vivificatore – soffrì umilmente in croce. La compresenza di tali concetti apparentemente inconciliabili è evidente nella frequente scelta del poeta di accostare alla parola “grazia” termini afferenti al campo della pena e della sofferenza, a suggerire quanto, anche visivamente, tali principi si accompagnino fedelmente in un percorso di vita comune334.

333 334

Lasciami, non trattenermi, p. 464. Qualche esempio: Sotto specie umana, p. 68, p. 117; Lasciami, non trattenermi, p. 491.


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Immagine riassuntiva ed emblema ultimo della concordia logica di sapienza-dolore e vita-morte è poi la croce, dove una vita si lacera per farne spazio a un’altra, a tutte le altre. Sostiene infatti Mazzanti: “L’evento fattuale della crocifissione-sepoltura del Cristo avviene in un tempo determinato, ma non termina nell’ora di un vespro della storia; esso non è un semplice segmento ma evento cosmico-universale, (…) è ‘evento’ che diviene Evento/Accadimento; è fulmine che si ripercuote nella storia e che scuote l’universo umano. (…) La crocifissione appare come l’evento che tutto e tutti unifica335”. Da strumento fisico di tortura la croce diventa così, in quanto fatta “d’astri e sangue336”, immagine sintetica dell’intero cosmo, punto d’incontro d’umano e divino che include in sé ogni hic e ogni nunc. I suoi bracci, che si potrebbero visivamente pensare tutti uguali come nella sua rappresentazione greca, raggiungono il creato con uguale intensità partendo da un punto, il centro dove le assi si incrociano, che implode nel reale:

L’evento era accaduto fino al suo annullamento. Così era perfetto, così entrava nella polpa trasparente dell’essere, all’essere argomento. Allora perché tanto tormento? O croce, o elargizione gratis d’amore e di dolore, exulta337

Amore e dolore, come già grazia e pena, sono fusi e confusi nel simbolo ultimo di sintesi, di risoluzione: “la pienezza del compimento è così promessa ed offerta ad ogni uomo e tempo. Cristo si è fatto sintesi quale tensione escatologica che, come fulmine, continua a rischiarare gli eventi e i cammini338”.

335

Mazzanti (1993), pp. 73-74. Sotto specie umana, p. 174. 337 Sotto specie umana, p. 198. 338 Mazzanti (1993), p. 75. 336


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Il poeta, illuminato profeta del reale, invita così a riconsiderare il significato del tormento in croce: esso non si esaurisce nel momento del dolore, ma diventa un dono del quale si possa gioire, un martirio per il quale si debba esultare339.

In me, nel cuore mio profondo, nel punto imo ed intestino, equo da ogni possibile distanza, ivi, nell’ombelico del tempo dal principio fu in un grido detto il verbo crucifige, me ne affliggo e me ne escrucio, l’onta non si cancella, brucia, l’abominio non ha rimedio. Se non che meravigliosamente trasalì nell’ignoto sole il grido resurrexit ed era ancora in me, nel punto cruciale del mio grembo che avveniva il bene e il male340

339 340

Sotto specie umana, p. 174. Lasciami, non trattenermi, p. 553.


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--

Salì a se stesso, arse e si distrusse l’essere per un attimo, la vita si pronunciò e si astenne, sfolgorò, dardo di fuoco infitto nel celeste e in quello si contenne per poi scoppiarci dentro anima e sangue crocifiggerci rovente ai bracci del dilemma eterno di fulgore e di mortalità. Amen341

Ancora, crocifissione e resurrezione, umanità e divinità, mortalità e fulgore coincidono in un tratto che provoca meraviglia. Ecco che si ha un dilemma: di due proposizioni contrarie, un’unica soluzione. E, pur nell’apparente inconciliabilità dei due corni, il poeta accetta il reale con un “così sia”.

Un altro filo sottile lega poi il dolore cruciale342 alla memoria:

341 342

Lasciami, non trattenermi, p. 477. Nel suo doppio senso di “fondamentale” e “della croce”.


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È vero, la memoria non circoscrive il tempo, non identifica l’evento però la crocifiggono a un assolato incanto i chiodi d’oro d’una chissà quando vissuta silvestrità, la scorre un brivido cieco e luminoso, un oltre-la-reminiscenza, un quid, una pepita di gioia antica la tortura; aghi di fuoco tra il fogliame che ci copre e oscura la trafiggono spesso a ritroso come flash? o come segni di preparazione a che?343

La memoria di noi uomini, qui personificata, non riesce a suggerire il tratto, il punto esatto in cui l’Evento ebbe luogo: essa non arriva a circoscrivere il momentum, non avendolo gli occhi registrato in prima persona. Eppure, il brivido onnipresente, cieco perché come ogni dolore porta anzitutto spaesamento, ma luminoso in quanto come ogni dolore è poi rivelatore, informa la manchevole

343

Sotto specie umana, p. 92.


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memoria umana di una gioia antica, una certezza cui ancorarsi anche se lontana nel tempo e nello spazio. Scorre dentro tale memoria un “oltre-la-reminiscenza”, qualcosa che la trascende e che ne supera la logica, come d’altronde per Luzi in ogni io scorre già un “oltre-io”. Si tratta, si chiede il poeta in chiusura, di un ricordo che suggerisce un passato fine a se stesso o un segno premonitore di qualcosa che verrà? La crocifissione fu mera esecuzione di un tempo lontano o prima scintilla di un nuovo cosmico fuoco, primordiale Big Bang che annulla e crea ciò che è? In altre parole: l’Evento cristiano è suggerito ai nostri occhi che l’ammirano e lo temono pur non avendone fatto testimonianza diretta. La memoria della resurrezione è labile in quanto non fondata su appigli sicuri, ricordi fisici, rimandi al sensibile di quel tempo che ne rinnovino e rifondino l’esistenza: non si tratta, a tutti gli effetti, di un evento vissuto sulla nostra pelle, del quale i sensi hanno registrato il passaggio. Ciò nonostante, esso trova inspiegabilmente il modo di manifestarsi nella mente degli uomini, ad eterno monito del senso del dolore e di quanto questo fu necessario nel cruciale giorno in cui ci fu offerta una seconda vita. La croce luziana e la sofferenza di cui essa è veicolo e simbolo si fa così, più che memento mori, un vero e proprio memento vivere.


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3.5. Il chaos che si fa cosmos

Tempo e spazio sono in Luzi riferimenti piuttosto trascurabili. O meglio, è qui trascurabile – se non addirittura ininfluente – il modo in cui siamo soliti farvi riferimento: il qui e ora è anche là e dopo. Non si tratta infatti di coordinate precise che segnano l’irripetibilità di un punto nella catena del vivere temporale e spaziale: una volta che l’Evento risolutore ha compiuto la sua deflagrazione nel reale in un attimo puntuale, il Tutto – Dio, fuor di metafora – è infatti per sempre in tutto: poco importa allora riferirsi ad un quando o a un dove preciso, perché Lui è in ogni spazio e tempo, senza distinzione. Lo conferma d’altronde Paolo, quando dice:

[28] E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti344

L’irruzione epifanica di Cristo nel mondo, l’Evento che ha risvegliato le coscienze con la dolorosa ma salvifica potenza di un fulmine e lampo si fa ora dunque, sulla scorta della terminologia teilhardiana – e senza dubbio anche luziana – diafanica. La puntualità e episodicità della resurrectio che lacera tempo e spazio tanto da farsi spartiacque, precisamente espressa dalla particella greca epi(“sopra”), trova ora una sua migliore definizione in dia- (“attraverso”): la sua manifestazione è sempre accesa di fervente amore e colpisce chi la coglie, ma anziché condensarsi in un solo punto spazio-temporale perdura. Diafania, con più esattezza di epifania, indica la diffusione spaziale e temporale del Messaggio che continua ad essere valido, persistente nel suo continuo accadimento. Riconoscere che Dio sia per sempre in tutto non vuol certo dire sminuirlo: la vera grandezza non può mai correre un simil rischio. Dal canto suo il creato è nobilitato, alla luce della presenza pervasiva e trasparente – letteralmente diafana – del Messaggio che in esso è per sempre effuso, attraverso ogni spazio e ogni tempo. Ne consegue, secondo la visione panteistica – o meglio, panenteista o pancristista – del maestro gesuita e del poeta, una concezione dello spazio in qualità di magma uniforme in cui non vige che differenza apparente, coeso nella e dalla presenza cosmica di Cristo, e del tempo in quanto cerchio in cui s’assiste al ritorno costante del primo principio, alla coincidenza di fine ed inizio.

344

1Corinzi 15, 28.


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Da un punto di vista prettamente spaziale la realtà prende dunque la forma di un “mare di materia345”, un “amalgama346”, un “magma347”. Quest’ultimo termine in particolare, già protagonista della raccolta luziana del 1963, indica qualcosa che occorre riconsiderare non più come mera somma delle parti, ma in qualità di ente armonico ed uniforme. Si tratta di una realtà organica e in sé completa nella quale le singole identità indietreggiano per far spazio alla più grande creazione del Tutto. La poesia si caratterizza così come sentita celebrazione di una comune rispondenza, dell’immergersi dell’Io nell’Altro, della commistione armonica di tutti nel Tutto, del fatto che anche noi stessi “on est bien au dedans348” in quanto “attanti dell’essere349”. Si legga in Mazzanti (1993): “Non contrapponendo la poesia alla realtà ma anzi immergendovela, Luzi rigenera in realtà quelle valenze conoscitive e drammatiche e quella portata avventurosa che la poesia pura di fatto vanifica, nel suo nullificante anelito a un reale poetico assoluto350”. È il coinvolgimento nel reale e in ogni sua sfaccettatura che interessa Luzi più di ogni altra cosa, perché è nella partecipazione e nella convivenza con il creato che il poeta riscopre una regola superiore sottaciuta, e festeggia la vita. Ora, non si può certo negare un ricordo dell’idealismo hegeliano, segnalato ma scartato da Mazzanti (1993): “Il processo di trasmutazione-trasformazione contemplato da Luzi non ha nulla a che fare con il sistema hegeliano, che divora e digerisce il momento, che frantuma e inghiotte il particolare ritenuto non rilevante. Nel sistema dialettico ‘tutto’ è pretesto per il Tutto e, quindi, è insignificante; è puramente funzionale a lui”. Tuttavia, la visione hegeliana non intende scartare l’individualità del momentum, del singolo; se è vero che la realtà è riconducibile ad un unico principio e la Verità è un travalicare le differenze, è vero anche che il filosofo tedesco avverte in più occasioni della necessità di conservare e salvaguardare le distinzioni, concepite come imprescindibili tappe evolutive dello Spirito. Si pensi in prima istanza alla Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito: Hegel si scaglia contro l’idealismo di Schelling definendolo “notte delle vacche nere”, ovvero una realtà nella quale ogni particolare si perde nel buio del Tutto. Il filosofo sostiene per contro che la vera conoscenza dello Spirito è quella distinta: l’unica che tiene conto delle singole parti di cui lo Spirito stesso è composto, sue concrete e necessarie espressioni. Si legga ancora, nella Prefazione: “Il vero è l'intero. Ma l'intero è soltanto l'essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell'Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente Risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste

345

Sotto specie umana, p. 45. Ibidem. 347 Tra le occorrenze, cfr. Sotto specie umana, p. 131. 348 Sotto specie umana, p. 63. 349 Dottrina dell’estremo principiante, p. 313. 350 Mazzanti (1993), p. II. 346


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la sua natura, nell'essere effettualità, soggetto, o svolgimento di se stesso351”. Parimenti, nel sistema panenteistico luziano si guarda al particolare con un certo riguardo, ma il singolo elemento resta sempre e comunque mero segno, testimonianza di qualcosa di più grande che lo comprende e lo precede logicamente. Soggetto e Oggetto della realtà è dunque per entrambi lo Spirito, il quale si manifesta in modo tangibile in ogni elemento del creato. Ulteriore punto di raccordo è l’avvaloramento del concreto: assume particolare importanza per ambedue gli studiosi il concetto del concrescere352, del co-abitare e co-esistere con gli altri elementi costitutivi dello Spirito stesso. Lo Spirito, sia questo inteso con o senza Dio, è infatti un sistema nel quale l’incontro-scontro delle sue espressioni è produttivo e sostanziale, necessario al suo svolgimento: ogni elemento gioca un ruolo fondamentale di per se stesso in quanto in coppia oppositiva-distintiva con un altro. Riporto, a sostegno di questo parallelo filosofico-letterario, la pagina introduttiva di Sotto specie umana; a parlare è un amico del fittizio Lorenzo Malagugini, alter ego del poeta:

Ambiva [Lorenzo, n.d.e.] a un discorso che fosse voce della molteplicità (e simultaneità) del vivente e fosse dalla stessa condiviso. Proponimenti e desideri così totali finiscono per esprimersi in piccolo, per accenni. È quanto i suoi amici hanno raccolto: tra cui io. La richiesta che meno andrebbe fatta in questo caso è la distinzione dei soggetti e dei temi che sono volutamente uno solo353

L’insistenza del poeta – riscontrata in numerose altre occasioni, di cui sopra – a definire i propri scritti accenni è già di per sé indicativa di quanto egli li ponga in prospettiva di qualcosa di più grande, e inviti il lettore a considerarli come mera testimonianza di una verità che inevitabilmente – e non per mancanza del poeta stesso, ma per il suo semplice essere uomo – non riesce a rappresentare a pieno, in quanto vicina ma inarrivabile, evidente ma ineffabile. La distinzione ha in sé un senso perché senz’altro ogni singolo elemento del creato ha un suo valore concordemente con la visione panenteistico-cristiana del poeta: un valore di necessaria testimonianza della Verità. Ogni singola cosa, nel poeta come nel filosofo, trova la sua ragion d’essere in funzione di e per la Verità. Hegel e Luzi si trovano d’accordo anche nell’insistere sull’importanza del movimento: la dialettica di tesi ed antitesi del primo è per definizione procedurale, fondandosi su un costante e definitivo

351

Grande Antologia Filosofica, Milano 1971, vol. XVIII, p. 498. “Concrescere” è d’altronde un verbo che Luzi adotta in Sotto specie umana, p. 117, componimento chiave della sua poetica di comunione. 353 Sotto specie umana, p. 27. 352


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avanzamento logico, e parimenti la poesia del secondo è costituzionalmente metamorfica, trasmutazionale – come ammette e sottolinea d’altronde anche lo stesso Mazzanti. Ancora, il poeta sottolinea spesso e volentieri la dialettica del reale, la sua apparentemente contradditoria varietà. Chiama così il mondo “tonico terrestre e celestiale354”, “groviglio355”, “diverbio356”, “agone357”, “pandemonio358”, identificandolo come “mirifico miscuglio359” di un tutto che è però “angelicamente parificato360”. Non si concepisce più “aut-aut361”: “nella rinuncia luziana al faustiano ‘Libro totale’, nella sua edificazione di un ‘libro servo e interprete del mondo’, troviamo il punto di partenza di una poesia che si rivelerà folgorante della pura e elementare natura dell’evento, poesia che esprime la totalità fino al punto che l’‘o’ dell’ultima poesia luziana non è più una congiunzione disgiuntiva, e, quindi, non indica più un questionare o un opporre aspetti diversi; (…) ma diviene il segno poetico della compresenza degli opposti che il poeta contempla dentro un unico Avvenimento che di quelli vive362”. Tutto, pur antitetico, è concorde e congiunto; gli spazi si accomunano e si scambiano, divenuti alla luce dell’evento chiarificatore una sola cosa. In sostanza, non siamo altro che parte d’un “gran crogiolo363”, rimescolamenti “senza differenza364” di un “unico principio365” esistente. Di fronte al reale, il poeta afferma infatti:

Mi trovo a mio agio nella mischia catastrofica del mondo, perché so che questi elementi occorrono alla trasformazione, alla sublimazione finale o comunque alla maturazione, alla umanizzazione progressiva del mondo…questa concezione conflittuale, ma dinamica, positiva, vitale, mi toglie la malinconia, l’amarezza, l’amertume dell’assurdo366

Il dramma creaturale non dà noie al Nostro, che anzi vi assiste con un certo sollievo, poiché egli è in grado di riconoscere la concordia dell’urto, l’armonia della collisione, la conciliazione del contrasto.

354

Dottrina dell’estremo principiante, p. 396. Dottrina dell’estremo principiante, p. 391. 356 Ibidem. 357 Dottrina dell’estremo principiante, p. 426. 358 Dottrina dell’estremo principiante, p. 260. 359 Dottrina dell’estremo principiante, p. 323, p. 436. 360 Dottrina dell’estremo principiante, p. 336; Lasciami, non trattenermi, p. 486. 361 Lasciami, non trattenermi, p. 551. 362 Mazzanti (1993), p. II. Si legga anche Tassoni (2016), p. 177. 363 Sotto specie umana, p. 51. 364 Sotto specie umana, p. 78. 365 Sotto specie umana, p. 35. 366 Mettel (2008), p. 37. 355


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L’atleta e la sua canoa godono così della quiete che risulta dalla lotta di luce e acqua al solcare del mare:

Sorbiscono quella calma, si cibano di quella porzione d’aria, di luce, d’esistenza l’uno e l’altra… Poi quel solco si appiana, quella traccia scompare nella chiara equidistanza tra il tutto e il nulla. Oh heur367

Una volta cessato di remare, persino i due antipodi ontologici per eccellenza – il tutto e il nulla – giungono ad un equilibrio: la parità degli spazi. Che poi, si domanda il poeta, ha davvero senso definire un luogo, l’entità di uno spazio? In realtà sembra non importare:

Noi dove stiamo? Qual è il nostro luogo o luogo non abbiamo, abbiamo solo mutamento… Oh non sia in nullità ma in vita e in creaturale perduranza usque ad…368

367 368

Sotto specie umana, p. 129. Dottrina dell’estremo principiante, p. 300.


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In uno scenario a-spaziale, ciò che perdura è dunque solo il mutamento, e l’unica certezza è che il continuo avanzare non fa che avvicinarci sempre più a qualcosa che tuttavia resta indefinibile, inarrivabile. Qualcosa che, per mancanza di vocaboli, si tenta di esprimere in latino, lingua sacra ed arcana per definizione. Ma anche qui la parola viene meno, cede alla sospensione.

Dunque, nel creato luziano come nel mondo hegeliano non si contempla stasi: tutto è in fieri, in “evoluzione estrema369”, in perenne divenire altro da sé. “Il tutto appare a Luzi come un unico seme che si apre alla luce (…). Non avverte staticamente il ‘tutto’ quasi fosse un immobile masso, ma come quel processo che ingloba ogni realtà in sé, senza evitare la dura realtà della storia e del male370”. Non sussistendo tuttavia sostanziale differenza tra gli elementi371, ecco che il farsi altro è in realtà un farsi sé, nel nome e alla luce dell’unica realtà risolutrice e sintetica: Dio. Natura e uomo, e con questi ogni elemento che popola il mondo, non sono nient’altro che testimonianza solo apparentemente diversificata di un unico principio che pur nella sua continua metamorfosi resta sempre lo stesso372. Per questo si tratta, in fin dei conti, di un mutamento solo apparente:

È illusione, lo so, il mutamento, però mi riconforta della mia continuità uniforme mi porta la delizia di un sogno di ricominciamento. Ahimè, di me tutto è fisso e varia. (…) Io contengo questa febbrilità, ne sento diffondersi il fervore

369

Sotto specie umana, p. 131. Mazzanti (1993), p. 27. 371 Sempre in ricordo di quanto espresso in 1Corinzi 15, 28. 372 Lasciami, non trattenermi, p. 542. 370


114 nelle fibre del mio perpetuo evento373

--

L’essere è se stesso fino in fondo, non si spaventa. Le tenebre nelle quali affonda s’incendiano del sole che ci abbacina – Immutabile è solo il mutamento in sé del mondo. Venga, venga il tuo regno374

Paradossalmente, ciò che non cambia mai è il solo cambiamento. La trasformazione del mondo è infatti continua ed uniforme:

Mondo che in molte guise ma sempre in te stesso ti trasformi m’hai fatto e mi disfai e nella tua continuità mi annienti – così solo mi esalti. Com’è sia375

C’è un “mutevole rispecchiamento376” tra le creature, consapevoli come sono di essere parte uguale e indistinta di un “magma in evoluzione estrema377”. Il mondo nelle sue varie eppure Unica forma è

373

Lasciami, non trattenermi, p. 557. Dottrina dell’estremo principiante, p. 422. 375 Sotto specie umana, p. 220. 376 Sotto specie umana, p. 150. 377 Sotto specie umana, p. 131. 374


115

sempre se stesso, ed è proprio questa la bellezza del creato: il valore dell’unità che solo la contraddistingue378:

Ero io il mondo ma tu anche lo eri – magati l’uno e l’altra nel bosco a rimirarci – (…) Pareva, sciocco, ti sfuggissi ed ero in immagine e in sostanza discesa nel midollo della continuità non tua, del mondo che in te stava…379

Ancora una volta si può riscontrare in questi versi luziani una reminiscenza biblica. Si pensi in particolare al passo paolino sulla diversità dei carismi e sull’immagine del corpo mistico di Cristo:

[4] Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; [5] vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; [6] vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. [7] E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune: [8] a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; [9] a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell'unico Spirito; [10] a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l'interpretazione delle lingue. [11] Ma tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole. [12] Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche 378 379

Dottrina dell’estremo principiante, p. 276. Sotto specie umana, p. 178.


116 Cristo. [13] E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito380

Pur distinti e diversi per funzione, i carismi trovano la loro vera utilità quando e solo se uniti, legati ad un progetto di vita comune. Parimenti, pur sottolineandosi l’importanza di ogni elemento del corpo, tanto vitale da compromettere l’intero sistema in caso di malfunzionamento della singola parte, ognuno di questi acquista un senso e una validità solo ed esclusivamente in funzione dell’insieme di cui è a servizio. Un operaio non sopravvive senza un medico, e quest’ultimo a sua volta sopravvive ma non vive davvero senza un filosofo, qualcuno che ne metta in dubbio l’autoreferenzialità scientifica, che ponga delle domande a dargli filo da torcere e materia per pensare. Allo stesso modo, una gamba da sola non è che mera carne, ma se collegata a un piede essa può avere un appoggio stabile a terra, e con l’ausilio di una testa a comandarla può imparare a camminare. Se tutti noi condividessimo un’unica caratteristica o inclinazione e fossimo chiamati alla stessa vocazione, allora il “tout se tient381” non si “terrebbe”. Quando la molteplicità non è concepita al servizio e in funzione dell’unità, allora cessa la sua funzione e crea mero chaos, dispersione. Lo Spirito, l’“unico principio382” di cui Luzi parla, è ciò che accomuna e dà un senso al reale permettendo che ciò non accada:

[7] Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, [8] perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore383

Nessun uomo trova un suo autentico e definitivo senso in sé e per sé, chiuso in un’infertile autonomia384: come un fedele deve imparare a ricercare la comunione con gli altri uomini e mettere il proprio sentimento religioso al servizio della comunità perché la propria fede acquisti un significato ultimo e abbia pregnanza, così ogni uomo e altro elemento del creato è inserito in un preciso disegno provvidenziale di cui è sì parte essenziale, ma solo in funzione del resto, ed è dunque suo dovere collaborare all’armonia del Tutto svolgendo qualsivoglia compito sia chiamato a fare.

380

1Corinzi 12, 4-13. Lasciami, non trattenermi, p. 565. 382 Sotto specie umana, p. 35. 383 Cfr. Romani 14, 7. 384 Letteralmente: un darsi regole da solo. 381


117

Ricercare la comunione con l’altro è dunque l’imperativo paolino; si tratta d’altronde del valore sul quale si enuclea l’intero messaggio cristiano:

[1] Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, [2] con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, [3] cercando di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. [4] Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; [5] un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. [6] Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti385

Simile auspicio si legge anche in Giovanni:

[20] Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me;[21] perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola386

Richiamarsi all’unità e farvi appello rappresenta per i poeti e per gli uomini una necessità cogente: “La poesia respira un profondo bisogno di unità laddove la vita psichica e la vita organizzata degli uomini di oggi è estremamente frammentaria387”. La Parola, che Luzi mostra di far propria nel suo pensiero e nelle sue opere, è dunque di importanza e attualità vitale: riconoscere la coincidenza degli opposti e il loro rifarsi ad un unus che li sintetizzi e riempia di significato è quanto ognuno di noi deve sforzarsi di fare nel concreto di tutti i giorni. Si noti poi quanto il pensiero paolino in particolare possa costituire, alla luce di quanto esposto, un ulteriore ponte tra la filosofia di Luzi e quella di Hegel: le parole di 1Corinzi 12, 7 potrebbero tranquillamente dirsi anche hegeliane388.

Dopo aver considerato l’unità multiforme del reale da un punto di vista spaziale, si rifletterà ora sulla ciclicità temporale, il “ritorno su se medesimo di ogni cominciamento389”.

385

Efesini 4, 1-6. Giovanni 17, 20-21. 387 Luzi (1965), p. 27. 388 Si tratta tra l’altro di un parallelo già vagliato dall’illuminante saggio della Guazzini (2013). 389 Sotto specie umana, p. 128. Cfr. anche Sotto specie umana, p. 157. 386


118 Pareva fosse dato variare a piacimento il testo; che mutevoli fossero in quel libro le pagine e le parti. Così malgrado il nero lavoro delle sorti erano nel perpetuo avvenimento davvero quelle carte. Invariabile era solo l’opera dell’aria che le sfoglia, le gira, le consuma, in altro insieme con se stessa le trasmuta. Così pareva, così era390

Recuperando l’immagine biblica del liber mundi da Salmi 139, 16, Luzi insiste ancora una volta sull’eterno mutamento che coinvolge il creato. Scegliendo il tempo imperfetto, il poeta colloca la riflessione in una sorta di presente esteso: un orizzonte che continua a essere e a farsi, che dispiega le sue ali temporali oltre la restrizione di un singolo punto. Appena una pagina più avanti, ecco che “avviene, si trasforma in avvenire l’avvenuto tempo391”: ciò che è passato si fa già presente e poi futuro in un’“infinita itineranza392” del tempo.

è un sogno il presente luglio

390

Sotto specie umana, p. 33. Sotto specie umana, p. 34. 392 Sotto specie umana, p. 72. 391


119 attorno, è colma di presente la sua reminiscenza. Così monta, così precipita nell’imo, nell’essenza, senza tempo, senza differenza. Tutto è; è tutto, equamente. Oh grazia393

Il luglio di adesso è già il sogno di domani, un ricordo remoto che è colmo di presente. Quello che era è ancora e ancora sarà; il tempo compie le sue volute tornando sempre su se stesso394. Le tre categorie di passato, presente e futuro decadono: non sono più realtà puntiformi nate e chiuse in loro stesse, ma un continuum magmatico che non conosce confini.

Lo credevi – ed era a buon diritto – ormai alle tue spalle. Senonché non è mai tutto passato il passato395

--

Bruciano l’avvenire e l’avvenuto sotto il sole, nelle stesse pietre396

393

Sotto specie umana, p. 78. Sotto specie umana, p. 252. 395 Sotto specie umana, p. 218. 396 Lasciami, non trattenermi, p. 576. 394


120

Nella piena parità dei tempi e degli spazi, ogni differenza è annullata; foce e sorgente, il fine – ch’è anche la fine – e la sua origine equivalgono397:

Ma unico e reciproco è il cammino, equivalgono la foce e la sorgente… si snoda ma ritorna su se medesimo il viaggio, non ha riva né marina quel variabile incremento di luce vorticina, ma s’approssima, s’approssima a che fine?398

In sostanza, “il tempo non ha più misura o senso399”. Non si comprende più se tutto sia compiuto o ha cominciamento400; ma d’altronde, che importa401? Occorre superare, sembra dire il poeta, la prospettiva divisionista che concepisce il reale come confusa e caotica accozzaglia d’elementi discordi, e adottarne piuttosto una distinzionista: se la divisione presuppone sempre una dissociazione, un disaccordo tra le parti contrastanti, la distinzione le separa da un punto di vista meramente ontologico, riconoscendo e validando la loro esistenza senza porle necessariamente in un’annichilente opposizione. Guardando alle diverse espressioni spazio-temporali dello Spirito da quest’ultima angolazione permetterà in questo modo di scorgere il disegno più grande che le muove, e di aprirsi così alla possibilità di un’autentica conciliazione di ciò che è solo apparentemente inconciliabile: l’inizio e la fine, il qui e là, l’alpha e l’omega, siano questi limiti spaziali o temporali.

Nell’apparente complessità del reale regna infatti un Ordine e, concordemente con quanto auspicato da Paolo, 397

Dottrina dell’estremo principiante, p. 289. Cfr. anche Lasciami, non trattenermi, p. 529. Sotto specie umana, p. 103. 399 Dottrina dell’estremo principiante, p. 319. 400 Lasciami, non trattenermi, p. 490. 401 Sotto specie umana, p. 53. 398


121

conosce da sempre ciascuno la sua parte – opera o elemento – nell’ordine universo e non c’è disobbedienza402

Tuttavia, qualche saltuario dubbio – sulla scorta di quelli di Giobbe – riguardo la regola che vige sul creato sorge anche al poeta:

«Di quanto ad abundantiam e gratis, senza riconoscenza, ho profuso in ogni tempo che n’è? è vano, è perso, oppure lo amministra, dura, la matematica celeste?»403

Domandarsi a cosa porti ciò che facciamo e sopportiamo è, come abbiamo già avuto modo di approfondire, del tutto lecito: si tratta di una prerogativa squisitamente umana, naturale articolazione di un pensare prospettico che vada oltre la mera realtà fenomenica per indagarne cause e conseguenze. Qui è il poeta stesso ad avanzare l’ipotesi dell’esistenza di un ordine superiore che regoli le vicende creaturali. Si tratta di un quesito che tuttavia resta aperto, segnalato in chiusura dal punto interrogativo. In risposta, si potrebbe leggere:

È vero, si sentiva talora il testimone

402 403

Dottrina dell’estremo principiante, p. 303. Sotto specie umana, p. 181.


122 scambiato in corsa tra possenti atleti sulla pista di quel campo – ma che n’era ora dei suoi neri patemi, dei suoi lampi di letizia? dissolti in aria, finiti in nullità – o li cifrava in conto di giustizia un libro, una imperscrutata matematica protesa all’equità…404

La seconda prospettiva qui sopra espressa, quella che contempla l’esistenza di una matematica di qualche sorta che controlli gli eventi mondani, non è ora più domanda, bensì una certezza, la cui sospensione dei tre punti avvalora ancora una volta la verità: ormai si sa bene che Luzi si approssima alla Verità da principiante, e perde l’uso della parola di fronte all’indescrivibile. Se le sue domande trovano una risposta, la risposta non può che essere un accenno.

Dunque, è certo: nel mondo si intuisce l’inderogabile presenza di una “sempiterna405” e “onnipresente406” eppure “oscura norma407”, una “mente celeste408”, un “mite universale409” e “eterno fiato410” che detta l’“ordine universo411”, la “regola del mondo412”. Si tratta di una “forza

404

Sotto specie umana, p. 34. Sotto specie umana, p. 73. 406 Sotto specie umana, p. 124. 407 Lasciami, non trattenermi, p. 516. 408 Dottrina dell’estremo principiante, p. 308. Cfr. anche Lasciami, non trattenermi, p. 570. 409 Lasciami, non trattenermi, p. 504. 410 Lasciami, non trattenermi, p. 541. 411 Dottrina dell’estremo principiante, p. 303. Cfr. anche Lasciami, non trattenermi, p. 502, p. 574. 412 Lasciami, non trattenermi, p. 480. 405


123

universante413” alla quale e con la quale si accorda tutto il vivente, una “sorte414” o “legge415” che ci accomuna, “ci ignora e ci comprende416”; vi siamo dentro, vi viviamo e lavoriamo come in una “celestiale fabbrica417”.

È impossibile segnalarne la presenza sul punto di una cartina; la matematica celeste non conosce collocazione precisa, perché essa è onnipresente:

Dov’è? – impossibile ubicarlo, non ha sede, anima però non gli vien meno – c’è sottile un lavorio nel mondo che diviene ed è418

--

Stanchezza della meta o spegnimento del miraggio nella mente che ora frana? Di che è il disincanto? Si perde lei, si annienta, ma ecco le rifonde un’alchimia la scena, la abbacina

413

Sotto specie umana, p. 200. Dottrina dell’estremo principiante, p. 259. 415 Dottrina dell’estremo principiante, p. 272. 416 Dottrina dell’estremo principiante, p. 269. 417 Sotto specie umana, p. 94. 418 Sotto specie umana, p. 68. 414


124 un istante la transustanziazione avvenuta dei cammini e delle dune – in che? in una spera di assolata luna dov’è solo onnipresenza. Essa soltanto419

Ancora, da nessun vivente può essere descritta, riassunta, riportata in tutta la sua inumana grandezza:

Face d’acqua e luce, brucia mezzogiorno dentro il fiume, ecco all’improvviso piove, abbrividisce, sface la sua luce quella torcia in mezzo alla corrente eppure non s’arrende s’apre al prossimo chiarore e sfolgorio di brace equorea

419

Sotto specie umana, p. 193.


125 l’onnipresenza senza nome che tutti i nomi nomina e in nessuno si riassume420

--

nella nostra nullità ci riassumeva in sé, nel suo eterno fiato421

Di fronte alla a-spazialità e a-temporalità della matematica celeste che ordina il creato secondo giustizia, all’uomo non resta che gioire. A chi vive è richiesto – dal poeta, e dal Messaggio – di vivere la vita come un dono senza paragoni, di celebrarlo quotidianamente unito al prossimo da un profondo e sincero sentimento di fratellanza. Solo in questo modo ci si riconoscerà “uniti in una orchestra422”, e la regola una volta oscura potrà essere pronunciata dalle bocche festanti sotto forma di “vivente423” “musica perpetua424”:

A un tratto s’incendiò in fondo ai suoi pensieri quel mare di materia luce aria, gli entrò nel labirinto e in ogni cavità del cranio quella musica, quello splendore425

420

Sotto specie umana, p. 91. Lasciami, non trattenermi, p. 541. 422 Sotto specie umana, p. 145. 423 Dottrina dell’estremo principiante, p. 314. 424 Sotto specie umana, p. 210. 425 Sotto specie umana, p. 45. 421


126

Il richiamo all’unico principio s’impone all’udito del creato non più con la violenza del fulmine, ma con la dolcezza di un ritmo. Chi lo coglie, come le rondini che attente riconoscono l’armonia “estesa e misericordiosa426” del mondo, non può che esultarne e sperare di parteciparvi: è l’aspirazione dell’umile aquila che nei suoi voli non più superbi e solitari cerca l’accordo con la musica427 o di un’altra rondine ancora, nella quale “molto del mondo (…) si accorda e con il sovrumano si concerta428”.

Talvolta, il fulgore del cielo nel cuore del giorno smussa le discordanze tra bene e male, finché la dualità non è che un ricordo, e resta solo “canto e unisono429”. Lo stupore per il giorno che nasce mette invece a tacere i pettegolezzi di una camerata, e i compagni pur diversi si accingono a festeggiare la vita come un coro:

la vita si accumula e si addensa in loro, lo sente lui, lo sente ciascun altro, che tracima in questo coro univoco e discorde alla sua necessità e tutti insieme la celebrano e ne sono celebrati. Oh dies430

426

Sotto specie umana, p. 118. Sotto specie umana, p. 159. 428 Dottrina dell’estremo principiante, p. 361. 429 Dottrina dell’estremo principiante, p. 292. 430 Sotto specie umana, p. 64. 427


127

Nella celestiale fabbrica

siamo, coro di cicale, presi noi pure in quell’ardore431

Si festeggia così la vita riconoscendosi e facendosi coro; ma il disegno celeste, il Messaggio che parla a noi e di noi, l’Evento che perdura si celebra parimenti in un “musico silenzio432”, un mélange armonico di parlato e sottinteso che non manca altresì d’essere condiviso. Dal fondo del silenzio, pozzo che appare buio e insondabile, risorge infatti “candore e canto433”; anche la quiete, ascoltata con attenzione, ci parla della creaturale condivisione:

era invece il cantico del mondo così pieno di totalità, così profondo – non bastava l’udito ad ascoltarlo, l’uomo a seguirne il ritmo434

Avere orecchie non basta: occorre sondare e indagare il silenzio con attenzione scevri da pregiudizi, lasciare che il suo pregnante messaggio passi, sfidandoli, attraverso i nostri severi filtri.

Non con il solo canto ci si accorda al disegno creaturale; anche la danza è immagine dell’armonia vivente, della concordia degli opposti:

431

Sotto specie umana, p. 94. Dottrina dell’estremo principiante, p. 427. Cfr. anche Dottrina dell’estremo principiante, p. 391. 433 Lasciami, non trattenermi, p. 573. 434 Lasciami, non trattenermi, p. 577. 432


128

Colori e luci non ne offre la tana al mio risveglio, mulinano però, lo sento, nell’aria, lampeggiano sull’acqua, scissi in virgole in lucciole e scintille nella fremebonda danza che ci assedia e ci accompagna. O fuoco equoreo, o mutazione mutua, delle multiple apparenze e dell’unica sostanza, vita pura, pura persistenza della vita oltre la sua materia nella sua incontenibile flagranza – sarò io in voi o voi sarete in me? sciocco, non conta, non fa differenza435

L’avventura esistenziale non è che un ballo perpetuo che tutti ci coinvolge; non è permesso a nessuno stare in un angolo a osservare il mondo andare avanti senza prendervi parte:

ci richiama a sé la vita

435

Sotto specie umana, p. 53.


129 che non interrotta e non morta ricomincia da sé a sé…Coinvolti noi in quella danza436

La danza è in sé dialettica, comunione degli opposti che trova una risoluzione. Affermazione e negazione pur nello scontro sono coesi, e resistono a qualsivoglia rottura:

La mischia non è spenta, il sì e il no del mondo s’incalzano e si affrontano nel gorgo della vorticosa danza437

Anche l’insetto, consapevole della precarietà del suo viaggio terrestre, sceglie di non lamentarsi per la sua condizione, ma bensì di abbracciare la brevità della sua vita, di festeggiarla come in una danza. Solo in questo modo mostra davvero d’essere connesso con il Tutto, di adeguarsi e aderire ad un progetto che lo comprende:

È breve la sua vita, breve il suo viaggio e quella brevità lo inebria, in festa e danza effimera lo incendia438

Ed ecco tornare ancora una volta il fiume, immagine carissima al poeta. Il suo fluire è movimento, è danza, è il senso stesso della sua esistenza:

Dove va il moto?

436

Sotto specie umana, p. 66. Sotto specie umana, p. 148. 438 Sotto specie umana, p. 132. 437


130 dove sta la quiete universa delle cose? (…) così risale il fiume con la forza tranquilla delle ali e delle anche, così infila le arcate dei suoi ponti verso oriente, la povertà, la sorgente. È il senso, quello, o un passo della perpetua danza?439

Infine, un’allucinazione rivelatoria di “danze e contraddanze440” rende il creato trasparente, diafanico a se stesso e a chi lo guarda: in sostanza, si riesce a comprendere il mondo e il Messaggio che lo regola solo se si guarda alle differenze, alle diverse espressioni dello Spirito in un confronto che le vede non più lottare ed opporsi, ma danzare insieme. Una riconsiderazione del creato in quanto crogiolo di istanze non divise bensì distinte, non opposte ma congiunte come in una danza, è dunque necessaria per comprendere a pieno il lascito poetico e filosofico di Luzi e del Testo.

Così la Verità non solo si celebra con canto e ballo: essa è l’essenza stessa del canto e del ballo, di un’entusiastica joie de vivre:

Oh come il senso della vita cangia, come l’immagine sua danza!441

439

Sotto specie umana, p. 107. Cfr. anche Dottrina dell’estremo principiante, p. 409. Sotto specie umana, p. 213. 441 Lasciami, non trattenermi, p. 474. 440


131

A suggello di quanto fin qui scritto, si legga ancora la speranza della prima donna, Eva, immagine di tutti quelli che verranno:

Perché invece non mi chiami a te fraternamente? questo infatti siamo tu ed io, riconoscilo, fratelli geminiani da sempre concresciuti in grazia ed in dolore442

Quella di Eva è una richiesta, fatta con il cuore in mano all’uomo e a tutto al creato, di realizzarsi insieme nel nome di un’“universa fraternità443”. Il desiderio della donna è pari a quello della nuvola: anch’essa anela alla comunione444 con le altre creature, sogna d’essere compresa. Ogni nuvola sa bene tuttavia che l’incontro con le compagne è anche uno scontro, e porta la pioggia: eppure non manca di sorriderne445, come se intuisse che una regola ha stabilito tutto questo, e non mancherà di conciliare tale apparente contraddizione.

Tali aspirazioni e desideri di unirsi hanno ancora un respiro paolino, dal momento che Paolo scrive:

[10] Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. [11] Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. [12] Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, [13] solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità446

442

Sotto specie umana, p. 117. Sotto specie umana, p. 85. 444 Dottrina dell’estremo principiante, p. 294. 445 Sotto specie umana, p. 156. 446 Romani 12, 10-13. 443


132

In sostanza, l’apostolo chiede – e come lui anche Luzi – corresponsabilità: una modalità di respondere ad un compito che assume una sfumatura ancora più comunitaria, che non prescinde ma oltrepassa la dimensione della singola persona, approdando a quella ultra-umana di cui parlava Teilhard. Prosegue l’apostolo:

[8] Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. [9] Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. [10] L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore. [11] Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. [12] La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce447

La legge, ciò che garantisce equità e trasparenza nelle relazioni tra cittadini e uomini si risolve in un’unica parola: caritas, l’amore disinteressato. Se ognuno di noi lo provasse per il prossimo, auspicabilmente nessuno ne resterebbe privo: si tratta di una vera e propria indicazione pratica che suggerisce un modus operandi non solo buono per lo spirito, ma fruttuoso per la vita comunitaria, per la concretezza di ogni giorno. Luzi non trova sia così difficile tradurre questo progetto in realtà, lo si capisce bene: da qui la sua ammirevole e instancabile fiducia in un Bene che trova sempre e comunque una sua via per realizzarsi. Per armarsi di luce, danzare e cantare il bello della nostra vita, questi gli ingredienti: reciprocità448 e un colloquio aperto con il prossimo449 – che non sia però frivola chiacchiera. È questo l’essenziale e il necessario per destarsi dal sopore esistenziale, e scoprirsi davvero ricongiunti450, conciliati451, accomunati452 da un’universale e inesorabile “compresenza453”: qualcosa, in sostanza, che renda irrisoria ogni divisione ma al tempo stesso offra un simbolico “distintivo” ad ognuno di noi, rendendo congruo, necessario, irrinunciabile il nostro singolarissimo ruolo nel mondo.

447

Romani 13, 8-12. Sotto specie umana, p. 139, p. 225; Dottrina dell’estremo principiante, p. 349. 449 Dottrina dell’estremo principiante, p. 266. 450 Sotto specie umana, p. 113. 451 Sotto specie umana, p. 79. 452 Sotto specie umana, p. 178. 453 Dottrina dell’estremo principiante, p. 322. 448


133

3.6. Rinascita da un ventre nuovo

Trovare il proprio posto nel mondo è forse la necessità più stringente perché l’individuo funzioni e possa vivere in armonia, prendendo parte attiva al disegno universale; è da qui che muoveva ed è qui che infine approda questo percorso biblico-luziano. Non si tratta, tuttavia, di qualcosa di immediato né tanto meno facile. Come distinguere i falsi richiami da quelli autentici? Come farsi spazio nel magma del reale senza sentirsene sopraffatti, travolti, sommersi?

Faceva ressa, voleva essere accolto e appreso tutto quanto esso, il mondo – ne scoppiava il cuore, non aveva la capienza. E lui teneva acceso quel furente assedio i sensi e all’intelligenza di noi infanti. Suoi dardi bersagliavano infuocati il costato da ogni parte. Suoi messaggi e sussurri cercavano pertugi a penetrarci dentro il sangue. Divampava a noi creature il creato come morbo o come amorosa


134 tracotanza…454

In modo più o meno esplicito lo si è già detto: occorre farsi, o meglio riconoscersi creature elementari, bambini455. Si tratta di fatto di un’etica del vivere che ancora una volta Luzi si pensa possa aver dedotto dalle letture sacre e, in particolare, da Matteo:

[3] «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. [4] Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli456

Gesù parla chiaro: la vera grandezza sta nell’ammettersi piccoli, bambini. Non che nell’infanzia non vi sia difetto, si badi; Paolo ricorda infatti in 1Corinzi 14, 20 l’esistenza di tratti tipicamente infantili che occorre lasciarsi alle spalle nel percorso di crescita457. Si tratta piuttosto di recuperare la dimensione più sana dell’infanzia, ovvero quella a-pregiudiziale e reattiva, che implica un approccio al mondo scevro di preconcetti, in una situazione di sapienziale tabula rasa (perché ancora da scrivere!). L’uomo che si riconosce bambino è per definizione ricettivo e attento agli stimoli, accoglie i precetti del Signore e vi si affida: è colui che non dimentica mai l’importanza della disciplina, la sua perenne condizione di discente, di scolaro esistenziale458. In sostanza, la necessità è riconoscersi pueri aeterni, perenni emblemi di umiltà e grandezza ripuliti tuttavia dalla sconsideratezza e l’immaturità psichica di matrice jungiana. Come infatti Dio si è fatto bambino per toccare il cuore degli uomini459 e ha affermato la sua potenza con la bocca dei lattanti460, così anche gli uomini devono farsi, anzi riconoscersi bambini per aprirsi alla Verità. Il bambino è infatti colui che, privo di presunzione e megalomania si accosta alla realtà con stupore e meraviglia, lasciandosi colpire, toccare, plasmare da ciò che vede. Qualcuno che, in sostanza, risponde alle caratteristiche elencate nella preghiera di Salmi 131:

454

Sotto specie umana, p. 56. Ovvero, utilizzando un termine particolarmente caro a Luzi, “principianti” in senso strettamente cronologico. 456 Matteo 18, 3-4. Cfr. anche Marco 9, 35-37. 457 “[20] Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi”. 458 È anche colui che è pieno di entusiasmo, come l’uccellino appena nato che ha smania di vivere in Dottrina dell’estremo principiante, p. 279. 459 Si ricordi Luca 2, 12: “[12] Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia»”. Niente come il Natale è in grado di suggerire quanto la vera grandezza, per essere considerata e validata in quanto tale, debba avere radici umili. 460 Salmi 8, 3. 455


135 [1] Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze. [2] Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia461

L’eterna puerilità è per Luzi condizione comune ad ogni uomo, nonostante non tutti abbiano il coraggio di accettarla: “siamo, infanti, a una soglia di bottega462”, incapaci di parlare di fronte a un nuovo mondo463. O ancora

siamo inconsapevolmente tutti uomini adulti e pargoli per la vita che profonde, per la vita che la trascende e in se stessa creaturalmente la riprende. Sempre464

L’uomo ha forse paura, ammettendo la propria insufficienza e riconoscendosi principiante, di farsi più piccolo di quello che è? In realtà non vi è alcun ridimensionamento in senso negativo, ma solamente una presa di consapevolezza, un aprire gli occhi ad una realtà di fatto. Il regredire ancora

461

Salmi 131, 1-2. Sotto specie umana, p. 49. 463 Si noti bene: la scelta del luogo non è casuale, e ricade su uno spazio umile. Precisarlo è doveroso: Cristo ha manifestato la propria umana e sovrumana natura di “Dio che va a morire” ai suoi discepoli nell’ambito di un momento e luogo del tutto intimo e conviviale. 464 Dottrina dell’estremo principiante, p. 402. 462


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una volta è in funzione del progredire, ne è causa scatenante465. Si tratta di un paradosso: facendo qualche passo indietro in realtà si procede di molto. Così l’in-fante per Luzi non è un uomo mancato ed immaturo bensì un individuo pieno e realizzato a tutti gli effetti; è colui che riconosce e accetta la propria incapacità di dire del mondo e del divino. È colui che al tempo stesso ha il coraggio di ammettere la propria imperfezione, la propria inadeguatezza, la propria necessità di qualcuno che gli dia sostegno, cure, vita: la figura di una guida. Una madre, in sostanza. Il cammino dell’uomo è senza dubbio nel segno dell’emancipazione e lo porta con gli anni che passano all’acquisizione dell’indipendenza: una condizione necessaria a divenire il sé più autentico senza inibitorie influenze. Occorre tuttavia prestare attenzione a ciò che invece di rielaborare in modo sano e funzionale si tende a perdere del tutto per strada, nonostante la sua vitale importanza: il ricordo della madre, che porta con sé il ricordo della nostra creazione, della nostra auto-insufficienza, della nostra originaria dipendenza da una relazione, da un gioco dell’Io che incontra l’Altro. In seconda istanza, infatti, riconoscersi bambini è essenziale perché significa riconoscere la necessità di essere legati ad un altro, di dovere la nostra stessa vita ad un legame. Così, ricordarsi della madre è ricordarsi dell’origine, del vincolo. Nel caso del poeta ciò è reso evidente non solo dall’insistenza sul definirsi principianti, perennemente “in atto” e “in realizzazione”, ma anche e soprattutto dal richiamo costante alla figura materna e in particolare mariana. Non si può parlare infatti di infanzia senza toccare il tema della maternità: si tratta di una condizione necessaria alla sua realizzazione, la causa primaria dalla quale essa imprescindibilmente dipende. Niente e nessuno più della donna ricorda quanto l’accogliere e l’affidarsi sia di fatto un atto creativo, produttivo: ella fa spazio dentro di sé per l’altro, come già un tempo fece Maria accogliendo Gesù, il seme della salvezza. È nel suo ventre, infatti, che il Signore si è fatto uomo e che sono state gettate le basi, create le premesse per una nuova alleanza, un colloquio più intimo ed autentico tra uomo e Dio. La madre di Gesù si affaccia nella trilogia non solo in termini espliciti, ma anche nascosta sotto la maschera d’altre donne – per lo più di giovane età –, secondo una logica e poetica di sublimazione del quotidiano: “l’icona della Vergine in Luzi, pur mantenendo una sua centralità ispirativa, subisce

465

Si fa qui riferimento al discorso già affrontato intorno alla dimensione del dolore che, pur da esperienza “regressiva” e debilitante, conduce in realtà ad un avanzamento conoscitivo, ad una nuova scoperta del sé. La regressione, in questo senso, è solo momentanea, e anzi funzionale a una progressione.


137

un processo d’interiorizzazione, di simbolizzazione globale in cui convergono l’idea di donna, di madre fisiologica, di natura, di fecondità, di matrice466”. Maria viene riconosciuta dunque in ogni donna: è la madre di Luzi, colei che ha insegnato e trasmesso al figlio il valore della caritas467. È anche una loquace ragazzina nei cui riccioli infiamma la Verità468, e una “santa adolescente469” nei cui occhi v’è un lampo di grazia. Scandalosamente, si pensa di poterla riconoscere persino nella più “terrena” delle donne:

Lei per insofferenza si denuda, non tollera su sé veste: bikini o clamide ugualmente la disgusta, le forme, le sue leggiadre forme, sì le ammira, però la circoscrivono, la condannano a sé, dunque non le sopporta… non ha nome, non lo desidera, è libera, è in essenza, vibra, è vita pura, poesia futura470

Quel che parrebbe un semplice quadretto marittimo che ritrae una donna in un momento di leggerezza mentre ella si spoglia dei suoi indumenti, assume alla luce dell’onnipresenza mariana una valenza più profonda e universale; si copre e si carica così di un messaggio che trascende e oltrepassa la mera episodicità: insofferente delle sue forme, ovvero i limiti corporali e nominali che la vogliono 466

Luzi (2004), p. 29. L’insegnamento genitoriale getta le prime necessarie basi alla formazione del sé nel nome della carità: in questo senso i precetti di madre e padre sono davvero “corone sul capo” e “monili per il collo” di chi li indossa (Proverbi 1, 9). 468 Dottrina dell’estremo principiante, p. 399. 469 Lasciami, non trattenermi, p. 513. Cfr. anche Dottrina dell’estremo principiante, p. 339. 470 Dottrina dell’estremo principiante, p. 431. 467


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circoscrivere, la tengono imbrigliata in un punto preciso dello spazio e del tempo, la donna anela a sgravarsene, ricongiungendosi con il resto della creazione. Ella rappresenta dunque colei che, bramosa com’è dell’incontro con l’altro, non sopporta alcun limite ed inibizione del sé. L’immagine è volutamente provocatoria, come provocatorio l’accostamento a Maria, simbolo ultimo di muliebrità, e intende sottolineare che ogni donna, anche se colta nel momento più banalmente volgare, è un ricordo per se stessa e per gli altri della potenza dell’incontro, dell’esistenza di un luogo in cui l’Io e l’Altro formano qualcosa di nuovo, di vivo, di “poeticamente futuro”. A sostegno di questo audace parallelo si pensi al Cantico dei Cantici, pura celebrazione del desiderio. La donna che si spoglia nei versi di Luzi prende coscienza del suo corpo e ne sfuma i confini proprio come la ragazza del giardino di fronte al suo amato re; la dinamica amorosa, ch’è senz’altro in prima istanza una dinamica di incontro, prende infatti forma da un allontanamento, da un’eccedenza momentanea del e dal sé. Ma non ci si limiti a considerarla una mera apertura carnale, sensuale: lo è, ma al tempo stesso è anche molto di più. Nel desiderio dei corpi, dell’incontro con l’alterità si ravvisa infatti “l’impronta divina impressa nell’essere umano, la sua costitutiva apertura all’altro, all’altra471”, e questo “domanda narrazione, promuove ricerca472”. Nella dinamica di scontro-incontro l’io osa mettersi in discussione, e concede a se stesso la possibilità di aprirsi a nuovi mondi di comprensione e di lettura della realtà, possibilmente salvifici. Le mani di una donna sono infatti “prodighe nel comunicare vita a vita473” e salvano il naufrago dal perdersi474, mentre il suo grembo è ancora una volta luogo in cui la vita si è creata e si ricrea in aeternum, l’orizzonte in cui ci si scopre e ritrova. È lì,

nel punto cruciale del (…) grembo che avveniva il bene e il male475

L’alveo materno è dove avviene l’incontro tra principi opposti che generano qualcosa di nuovo, è il crocevia di uomo e donna, di umano e divino:

471

Maggi, Reginato (2018), p. 17. Maggi, Reginato (2018), p. 18. 473 Lasciami, non trattenermi, p. 509. 474 Seguendo le orme prima bibliche e poi dantesche, la donna di Luzi è senz’altro salutifera: è la porta dell’incontro, teatro della vita che perennemente accade. 475 Lasciami, non trattenermi, p. 553. 472


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Ingoiato dal mondo? Sì, lo era. Tutto. Compiutamente. Sceso in ogni fenditura, succhiato dalle crepe, dai cretti, dalle porosità, limato dal moto e dalla stasi, dall’aria, consumato fin nell’infimo residuo; polvere esso o gas. Non c’erano briciole, sgorature o altri rimasugli nel preciso punto. L’evento era accaduto fino al suo annullamento. Così era perfetto, così entrava nella polpa trasparente dell’essere, all’essere argomento476

“Il grembo è inizio della vita e spazio del suo sviluppo; matrice e ambiente di quanto esiste. Il grembo genera da sé l’‘altro’ entro se stesso477”. In questo senso, Maria non è solo ogni donna, ma diventa l’intera creazione: si fa così immagine e simbolo di tutto il cosmo, luogo “entro cui tutto si muove e si accresce478”. Il creato è la donna che partorisce e nel suo travaglio ci dà la vita479: è una madre alla 476

Sotto specie umana, p. 198. Mazzanti (1993), p. 49. 478 Ibidem. 479 Cfr. Romani 8, 22. 477


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quale dobbiamo essere legati per mezzo di un amore disinteressato e caritatevole, che non si cura del proprio dolore ma guarda al disegno più grande, al comune legame. Il ricordo di lei è ciò di cui necessitiamo per guidare il nostro agire nel reale in modo consapevole e comunitario, non rivolti al mero bene nostro ma anche a quello altrui.

Quando, tuttavia, viene a mancare tale riconoscimento, l’uomo fatica a ricordare la madre e con ella tutti i valori di cui si fa portavoce e il suo tentativo di ritrovarne la presenza effusa nel creato si mostra fallimentare, ecco che, non conciliato con il vivente, egli si riconosce orfano:

Attimo di universale compresenza. Ritorna l’acqua alla sorgente, il grano alla sementa, il fatto alla sua pura potenza, rimonta la prole al primo vago commovimento di materna voglia nella donna dell’amato, risale il sangue mestruale al grembo, l’opera rientra nel disegno e nella divinazione della mente. Tutto vivo, integro, dentro il suo principio, in sé. Eppure, eppure strema questo pensiero una inconsolata orfanità. Mondo che sei creato, quindi dal tuo creatore


141 infinitamente separato480

--

Oh mondo, mondo della mia venuta al mondo e al paragone del tempo con l’eternità, sii lieve, abbi indulgenza nella tua bellezza, abbila ancora nella tua ferocia per il mio nullo valore – dice lei, angelo, inferma – quante ne avesti non fu sufficiente eppure mi bastò, bastò a che il mio amore per te non vacillasse. Da ultimo ci strinse la mia orfanità me e te la tua perpetua vedovanza. Oh plenitudine, oh eterna ed universa

480

Dottrina dell’estremo principiante, p. 322.


142 incolmabile mancanza481

Ma per quanto l’orfanità sia terribilmente dolorosa, essa sottrae al figlio e all’uomo solo un termine del legame, senza riuscire ad inficiare la potenza e la natura del legame stesso; nella perdita, ciò che viene a mancare è l’altro capo del filo, non il filo in sé. Il doloroso compito degli orfani e di tutti gli uomini che, pur figli di Dio faticano a riconoscerlo, è quello di trovare la forza per coltivare da sé tale legame, in mancanza di un termine in carne ed ossa – per come siamo abituati a pensarlo – che tenga il filo teso dall’altra parte. In breve, sembra suggerire in ultima istanza il poeta, occorre che ogni uomo si ricordi dell’originaria dipendenza, del primordiale legame, e vada a scovarne la rilevanza – ancor oggi ardente – nel cuore del reale.

È buona, è mansueta, ha preso cura della notte che veniva, l’aria, è scesa nei suoi baratri, ha lustrato con correnti e refoli i suoi spessi segnali luccicanti, ha avvivato in terra e in cielo le sue braci ancor poco roventi e ora noi primi incerti albori ci aspetta

481

Dottrina dell’estremo principiante, p. 365.


143 con il fiato sospeso quasi tema per lei e per noi il nostro avvenimento… ma ecco ci lascia a poco a poco penetrare nel suo grembo, ci cova, ci nutre di rossore, diventiamo così il giorno – la incendia il giorno, la invade, ne fa tesoro e strage ma è lui che amorosamente le soggiace. Oh campo delle subordinazioni estreme e delle reciprocità armoniose che ne vibrano…aria e luce, luce e fiori, buio che rischiara e ghiro, estate e minuscolo piumato che nel suo fulgore si rintana, Dio creatore e Dio creato in uomini creati che lo pensano – come altri viventi lo ignorano e lo sanno. Così è, così cresce su di sé il mondo: e tu, minimo, ne abbondi482

482

Dottrina dell’estremo principiante, pp. 383-384.


144

4. Considerazioni conclusive

I letterati, i filosofi, si sa: è gente innamorata delle parole. Meglio ancora se quelle lunghe, complesse, inarrivabili, che fanno aprire la bocca per lo stupore o uno sbadiglio. Che poi ci si chiede: a che pro? Quale valenza può avere uno sproloquio sui massimi sistemi in un mondo che corre veloce in una direzione a dir poco opposta? Prima di avviare la stesura di questa trattazione, mi sono chiesta in che modo potessi parlare di un autore che mi sta a cuore – che insisto a definire ermetico, pur cosciente della sua resistenza a qualsivoglia etichetta poetica! – ricavandone qualcosa di buono, di interessante per i giorni d’oggi. Una cosa ho apprezzato in modo particolare: l’indubbia tendenza del poeta e la sua naturale disposizione – oserei dire profetica – ad andare oltre ciò che si vede pur riuscendo a glorificare il quotidiano, a cantare le lodi e tessere l’elogio di tutto ciò con cui abbiamo familiarità, sia questo un fiume, una bottega, uno scorcio cittadino, o una donna che si spoglia. La lettura non sempre è stata semplice: l’interpretazione è lavoro da detective, e si procede per indizi che l’autore stesso sapientemente lascia dietro di sé, nascosti tra le pagine. Tra questi, la nobilitazione del qui ed ora, del mondo con cui abbiamo diretta esperienza e di cui siamo parte attiva è un punto fisso, una costante: forse la chiave di lettura che mi ha permesso di aprire più porte in questo labirinto ermeneutico. Ma, ancora, quale validità può avere un’operazione simile? Che senso ha leggere Mario Luzi e in particolare la sua trilogia ultima ancora oggi? Perché impegnare il proprio tempo in un’impresa tutt’altro che semplice? A chi me l’ha domandato risponderei senz’altro così: per sforzarsi di riconsiderare ogni esperienza in un modo nuovo, e non chiudersi aprioristicamente allo scenario di senso in cui ognuna di queste è inserita e da cui riceve conferma, una validità. In sostanza, si tratta di accettare un invito a sperimentare il mondo e ciò che lo abita come una costellazione di rivelazioni: non piatte vicende, circostanze frutto di un mero caso, ma punti da unire per ricavarne un disegno, un progetto. Nel caotico scenario novecentesco, tanto refrattario all’accettazione di un senso definitivo, l’impresa sembra impossibile. Fino a prova contraria. Ecco allora che le due dimensioni che più ci appartengono e qualificano in quanto uomini, ovvero soffrire ed amare, che si chiamano e sostengono perennemente a vicenda, trovano un loro senso che trascende ed eccede il momento. Amore e dolore, letti con la chiave di volta biblico-luziana, aprono mondi che resterebbero chiusi all’uomo che li rifugge. Ma non occorre necessariamente l’incendio d’amore o quello dell’odio per ricavare una lezione dalla nostra umana esperienza: sono sufficienti anche fuochi di più piccola portata. Più comunemente e fuor di metafora, qualsiasi giorno è seminato di richiami a cui si deve tendere l’orecchio: messaggi


145

che, se ascoltati bene, suggeriscono cosa ci facciamo nel mondo, qual è il nostro ruolo, dove andremo a finire. In sostanza, anche il più banale dei fatti è un Evento se si ha il coraggio di interrogarlo, di penetrarne il mistero, di scrostarne la superficie per guardare oltre: la puntualità del fulmine che squarcia il cielo si è fatta momento perenne, continuità eterna e ubiqua. Quindi perché rassegnarsi alla banalità – e, per certi versi, comodità – del non-senso, del nichilismo cosmico che ci carica sulle spalle il peso del Nulla? Perché non abbandonare la certezza ormai granitica dell’assenza di senso, metterla in discussione e aprirsi invece a un modo nuovo, più trascendente e insieme più felicemente terreno di vivere la vita? Perché precludersi il porto sicuro di un significato, una destinazione ultima a cui approdare? Da qui il confronto biblico: nella sua strenua battaglia per la ricerca del valore, il poeta mi ha ricordato spesso e volentieri le pagine del Libro Eterno. Nella loro scandalosa ricchezza di senso le due opere, infatti, offrono al lettore un modo di leggere e vivere il mondo che, pur trascendendolo, lo lodi anche nella sua dimensione umile e terrena, a noi tanto cara e vicina. Andare oltre il semplice restar qui, offrendo a un episodio la possibilità di farsi storia: non è forse questa la più sincera dichiarazione d’amore per l’essere?


146

5. Bibliografia

Arnone (2015) = V. ARNONE, Bibbia e letteratura, Roma 2015. Baccarini (2015) = I. BACCARINI, Mario Luzi. Il “sistema” della natura, Roma 2015. Beccaria (1999) = G. L. BECCARIA, Sicuterat. Il latino di chi non lo sa: Bibbia e liturgia nell’italiano e nei dialetti, Milano 1999. Bruni (2018) = L. BRUNI, Una casa senza idoli. Qoèlet, il libro delle nude domande, Bologna 2018. Cocagnac (2012) = M. COCAGNAC, I simboli biblici. Percorsi spirituali, Bologna 2012. Debenedetti (1970) = G. DEBENEDETTI, Il personaggio-uomo, Milano 1970. DBLI = Dizionario Biblico della Letteratura Italiana, diretto da M. BALLARINI, Milano 2018. Frye (1994) = N. FRYE, Il potere delle parole. Nuovi studi su Bibbia e letteratura, Firenze 1994. Frye (2018) = N. FRYE, Il grande codice. Bibbia e letteratura, Milano 2018. Gentili (2016) = S. GENTILI, Novecento scritturale. La letteratura italiana e la Bibbia, Roma 2016. Guazzini (2013) = I. GUAZZINI, Il giovane Hegel e Paolo, Milano 2013. Hobsbawm (2006) = E. HOBSBAWM, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Milano 2006. Langella (2014) = Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste, a cura di P. BAIONI e D. SAVIO, Roma 2014. Luzi (2004) = Quaderni del Centro Studi Mario Luzi, V, Pienza 2004. Luzi (2016) = A. LUZI, Sulla poesia di Mario Luzi. La vicissitudine sospesa e altri saggi, Roma 2016. Luzi (1965) = M. LUZI, Tutto in questione, Firenze 1965. Luzi (1984) = M. LUZI, Il silenzio, la voce, Firenze 1984. Luzi (1997) = M. LUZI, La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, Casale Monferrato 1997. Luzi (2010) = M. LUZI, Su «La parola di Dio», a cura di P. A. METTEL, Mendrisio 2010. Luzi (2014) = M. LUZI, Poesie ultime e ritrovate a cura di S. VERDINO, Milano 2014.


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Mazzanti (1993) = G. MAZZANTI, Dalla metamorfosi alla trasmutazione. Destino umano e fede cristiana nell’ultima poesia di Mario Luzi, Roma 1993. Mettel (2008) = Quaderni del Centro Studi Mario Luzi, XI, Pienza 2008. Munaretto (2014) = Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste, a cura di P. BAIONI e D. SAVIO, Roma 2014. Natale (2014) = Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste, a cura di P. BAIONI e D. SAVIO, Roma 2014. Natoli (2004) = S. NATOLI, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano 2004. Nicoletti (2014) = G. NICOLETTI, Cinque pezzi facili per Mario Luzi, Firenze 2014. Palese (2016) = A. PALESE, Teilhard de Chardin. L’uomo sacerdote del cosmo, Milano 2016. Ravasi (1992) = G. RAVASI, Il profeta Isaia, Bologna 1992. Razzotti (2002) = B. RAZZOTTI, Teilhard de Chardin. Introduzione al suo pensiero, Verona 2002. Tassoni (2016) = Nel mondo di Mario Luzi. Guida di lettura, a cura di P. RIGO, Roma 2016. Teilhard de Chardin (1968) = P. TEILHARD DE CHARDIN, L’ambiente divino, Milano 1968. Tonani (2014) = Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste, a cura di P. BAIONI e D. SAVIO, Roma 2014. Vitale (2015) = R. VITALE, Mario Luzi. Il tessuto dei legami poetici, Firenze 2015. Verdino (2014) = Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste, a cura di P. Baioni e D. Savio, Roma 2014.

N.B. Per la citazione dei componimenti, cfr. M. LUZI, Poesie ultime e ritrovate, a cura di S. VERDINO, Milano 2014.


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6. Sitografia

www.centroluzilabarca.it www.centrostudipientini.it www.etimo.it www.filosofico.net www.gliscritti.it www.teilhard.it www.treccani.it www.vocabolariodantesco.it


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7. Ringraziamenti

Ringrazio sentitamente il prof. Elli in qualità di relatore per avermi permesso di tradurre un’intuizione nel concreto di un progetto, ed avermi seguita – nonostante le difficili circostanze – nella sua realizzazione con cura e pazienza, la correlatrice prof. ssa Rondena per la sua cortese attenzione e disponibilità, la prof. ssa Masetti per il suo sostegno e aiuto e il prof. Piccini (Università per Stranieri di Perugia) per avermi suggerito prezioso materiale bibliografico. Un ringraziamento affettuoso anche al prof. Petreni il quale, un freddo fine settimana del novembre scorso, mi ha guidata per il pittoresco borgo di Pienza alla scoperta del poeta, consegnandomene un ritratto vivo e vicinissimo. Lo ringrazio di cuore per il suo entusiasmo e la sua generosità nell’avermi regalato gran parte del materiale bibliografico per la ricerca, e di aver aperto per me il “tesoro nascosto” del Centro Studi “La Barca” del quale è ad oggi insigne direttore. Che la poesia di Luzi possa sempre riecheggiare tra le pietre di quelle strette vie e soffiare tra i cipressi sui colli. Un grazie di cuore anche alla prof. ssa Benaglia, che mi ha accolta e seguita con apprensione nell’ambito di un tirocinio presso il mio vecchio liceo Manzoni e mi ha offerto la preziosa – ed entusiasmante – opportunità di portare un po’ di Luzi in classe dai ragazzi. Spostandosi al clima ben più rigido del pur sempre cordialissimo Belgio, vorrei ringraziare il prof. Van den Bossche per aver revisionato con grande disponibilità e attenzione un mio paper sul parallelo biblico-luziano, in occasione del mio semestre di scambio presso la Katholieke Universiteit di Leuven e, più nello specifico, dell’illuminante corso del prof. Claassens, che si ringrazia altrettanto sentitamente, intorno all’influenza della Bibbia nella letteratura occidentale. Dai chiostri bramanteschi della mia affezionatissima università ai corridoi del mio caro liceo, passando per il capoluogo umbro ai colli senesi, per approdare poi alla ventosa e bellissima Lovanio, ringrazio di cuore tutti i professori sulle spalle dei quali ho intrapreso e concluso il mio percorso483. Ma forse, direbbe Luzi, non è che l’inizio.

483

Giovanni di Salisbury, Metalogicon, III, 4: “Diceva Bernardo di Chartres che siamo come nani seduti sulle spalle di giganti”.


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