Mario Luzi "Dal dicibile" Versi e pensieri del Poeta

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Dal dicibile... versi e pensieri



MARIO LUZI

Dal dicibile... versi e pensieri a cura di Stefano Verdino e Paolo Andrea Mettel

Metteliana


In prima di copertina: Mario Luzi nel suo studiolo a Pienza, 2003. (Foto P. A. Mettel)

In quarta di copertina: Pietro Paolo Tarasco, Il pellegrino, (Il Giubileo del 2000 di Giovanni Paolo II ), acquerello, 2000

Š 2018

Paolo Andrea Mettel


Premessa



Dal dicibile... versi e pensieri

“Mai il dicibile / sia stato tutto detto, mai”, auspica uno dei versi che si leggono in questa corona di testi diversi di Mario Luzi, che Paolo Mettel ha pensato di allestire in occasione dell’anniversario. Sono parole che meritano attenzione e che ci ricordano nel suo acme il senso della parola poetica di Luzi, in ascolto verso quel “mondo” perennemente parlante nelle sue diverse forme animali, vegetali, minerali, tra nascita e devastazione, ed inesauribile nella sua voce, solo captata ad intermittenza dall’uomo, segno sia di mancanza che di desiderio e mistero. La parola di Luzi, sia in versi che in prosa, ha sempre cercato di dire tutto questo, connettendo identità e alterità, ascolto e preghiera, forza e grazia della parola, ma senso anche della sua ombra e della sua lacuna. Ce ne offre un campionario questo libro, in cui coabitano testi antichi e recenti, versi e prose, testi già di canone e primizie, prove di gioventù e frutti dell’estrema vecchiaia, segno delle diverse occasioni della prima stampa, ma che nella varietà del loro collage bene in fondo attestano le varie gamme e i diversi timbri che ha avuto la parola per Mario Luzi. Ritroviamo qui, in sequenza cronologica, le varie plaquettes metteliane, che hanno sempre scandito per un decennio gli anniversari luziani, donando sempre un qualcosa di prezioso, e costituendo una serie di scrigni ai singoli testi, per l’eleganza della confezione, dalla resa tipografica alle connessioni d’artista. Alla ripresa dei testi, si aggiunge una breve prosa dispersa sugli affreschi di Assisi, che ben attesta – in questo caso – la capacità di ‘visione’ della parola del nostro autore. Stefano Verdino

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Nino Lupica,Ritratto RitrattodidiMario Mario Luzi, Luzi, San Nino Lupica, San Gimignano Gimignano,1998. 1998.


Appunto per Assisi



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Nella basilica di Assisi si dà convegno per un prodigioso appuntamento la pittura nascente d’Italia. Nascente, lo so, è parola impropria: non si trova mai il punto originario nella storia delle arti. Tuttavia non c’è altro modo per rendere la castità sacrale che circola più che mai tra le mura della chiesa francescana inferiore e superiore e avvolge ogni tipo di figurazione. Alcuni dei grandi artisti che hanno affrescato o abbellito con dipinti l’edificio hanno risposto al richiamo quando già erano al colmo della loro carriera e bravura; e tuttavia qui tutto è nuovo e incipiente, emerge da una nascita o da una rinascita: e questa, lo si respira, è insieme spirituale e artistica, talora genera talora rigenera le forme della ideazione devota nella pietà e nella letizia del Santo. Proprio la pietà e la letizia che erano in lui hanno reso amabili le creature nell’immaginazione degli artisti che evocavano le sue storie su quelle pareti. Amabili anche nel loro corpo, siano o non siano esemplari di piacevolezza esteriore. Anche il corpo è un dono, il soma è un’offerta nella leggenda giottesca. C’è una levità luminosa nei volti delle donne e pensosa in quella degli uomini ed è sostenuta dal calore affettuoso della chiara spesso dolce massa corporea. La creazione per opera di quella carità ardente si reintegra, santificata tutta. Si avvera in Giotto questo prodigio che la presenza umana mentre è dipinta è anche meditata. Meditata la materia, meditata la carne dei lattanti: e l’effetto su chi guarda è che essa sia nuova, visitata, mondata eppure umilmente ancora materia e carne, goffa e celeste insieme, la stessa sempre tribolata dagli affanni e dalla necessità del giorno. La bellezza e la luce emergono in questo caso dalla verità del sentire e non da ideali o regole. Anche la alta, araldica cifra della pittura senese si sostanzia qui di quella sublime umiltà corporale. Mario Luzi 11


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File archiviato come “Assisi 25-07-98”; appare in una stesura lievemente ampliata e con il titolo Sublime umiltà corporale nel volume collettivo I mondi di Francesco : affreschi letterari del ciclo giottesco di Assisi, a cura di Baldissera Di Mauro, Roma, Castelvecchi, 1998, alle pp. 23-24. Il volume fu un corale di testimonianze intellettuali dopo la devastazione della Basilica assisiate a seguito del terremoto del 1997. Il testo non è mai stato ripreso da Luzi e si ripropone qui la prima stesura, restaurando le originali spaziature. Stefano Verdino

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La strada tortuosa


Plaquette stampata il 28 febbraio 2008, per ricordare il terzo anniversario della scomparsa del Poeta.


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La strada tortuosa che da Siena conduce all’Orcia traverso il mare mosso di crete dilavate che mettono di marzo una peluria verde è una strada fuori del tempo, una strada aperta e punta con le sue giravolte al cuore dell’enigma. Reale o irreale, solare o notturna – assorti ne seguivano il lungo saliscendi di padre in figlio i miei vecchi con un presagio di tormento. Reale o irreale, solare o notturna – interroga negli anni la mente – e l’idea di vita le si screzia d’un volto doppio imprendibile – interroga il pianeta duro della landa, i poggi bruciati, le sparse rocche. E il vento, non so se dal tempo o dallo spazio, che frusta il sangue. Pensieri tirati sulla corda d’un’interrogazione senza fine non lasciano vivere, non hanno risposta. Lo intende bene lei passata da quelle dune.

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Floriana


Plaquette stampata il 28 febbraio 2009, per ricordare il quarto anniversario della scomparsa del Poeta.


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I DALLA FINESTRA DI F. FLORI

Tutto lì s’era compiuto il tempo della prova e quello dell’attesa, lì era stata la celeste cova.

Non è un gioco del desiderio,

è vero

oro

di frumento

là nel celeste territorio; o sogno

non è solo memoria

è vivo senso

quel barbaglio

di fiamma e di cobalto lì presso

e più in lontananza,

purgatorio

forse della plaga,

per noi vaga

prefigurazione del promesso regno…

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Ha un luogo suo,

Porfirio, ciascuna storia umana, un tempo, un nido

da cui levarsi a volo, se no precipitare.

al chiaro fuoco

Aveva lui però

d’armonia e pensiero

il tutto e il nulla angelicamente parificato.

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Chi sa, forse c’è un luogo

con un Omaggio di Adonis all’Amico Poeta


Plaquette stampata il 28 febbraio 2010, per ricordare il quinto anniversario della scomparsa del Poeta.


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Chi sa, forse c’è un luogo, nel mare una nascosta cala, un canto del cielo non stellato, un muto avvallamento perso in mezzo all’Appennino da cui, mondo, mi hai parlato e non ti ho udito o non ho inteso bene la tua voce. E lì stava il tuo segreto, forse la più riposta confidenza affidata al tuo valore. Ripetilo, ti prego, il tuo dettame, se possibile, non considerarlo estinto il colloquio e neppure il battibecco fra noi due. Mai il dicibile sia stato tutto detto, mai.

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ADONIS da IL LIBRO (Al Kitab) vol. I 1995 traduzione dall’arabo di Fawzi Al Delmi

I Nelle acque dell’Eufrate – acque che la tristezza ricopre, narciso appassito, rive che la rugiada vaporosa avvolge – ecco un paese che sospira dolendosi di sé. Che cosa dire? A chi rivolgermi, a chi domandare? L’orizzonte è chiuso. II A volte giunge il vento, scuote, scrolla – le mie carte non si muovono a volte il vento non soffia ma le mie carte cadono. Dite al vento: il mio impeto è cessato, il mio laccio sciolto, la mia casa è mistero la mia porta pioggia e le nubi loggia. III Le parole sono passi nel candore, anelito della mia libertà ore tempestose 25


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e calme ore invisibili. Le parole sono passi nella nerezza: a volte passione spesso voragini. In loro la mia notte è mattino e la mia ode elegia. Quindi, interpretatemi: non citate le mie parole riferite la mia essenza.

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Suda questa calura


Plaquette stampata il 28 febbraio 2010, per ricordare il quinto anniversario della scomparsa del Poeta.


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Suda questa calura, trasuda antichi fiati e fortori di campagna le diroccate mura il rudere della primitiva pieve e del suo povero rure ricuoce lo stantio afrore delle sue folte domeniche nella soffocante afa. Siamo in mezzo al tempo, in un pieno mezzogiorno. Molto è stato. Come sé e come seme di ciò che oscuramente è preparato. Bruciano l’avvenire e l’avvenuto sotto il sole, nelle stesse pietre.

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Fu lento


Plaquette stampata il 28 febbraio 2011, per ricordare il sesto anniversario della scomparsa del Poeta.


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Fu lento, estenuante il farsi giorno della torpida nottata, si portò dietro le angosce del sonno e dell’insonnia l’albeggiare titubante. Era vero o invece era illusorio il salire alla luce del nero, della materia? E l’essere in cui siamo è stanza veritiera o a sorpresa l’inciampo di un pensiero transitorio? Vibrava della sua dualità il dilemma, rodeva ogni certezza di sostanza e d’idea, ardeva. Era lui che unicamente era. O punctum mirabile tu sei...

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La poesia occupa le carte UV e WX della rubrica nell’agenda 2003 del Banco di Sicilia, ed è compresa nella serie di poesie autografe sostanzialmente in pulito (o con poche varianti), ricopiate dall’autore in sequenza, di cui alcune – quelle approvate con un ‹si› – sono già state edite in Lasciami, non trattenermi (Garzanti, 2009). Il presente testo, penultimo della serie, presenta solo questa correzione al v. 7: «Era vero o ‹invece (oppure)› era illusorio», e si è presunto che l’«oppure» tra parentesi fosse proposta – analogamente ad altri casi – come variante seconda. Al v. 16 si è posto in maiuscolo l’incipit di verso (nell’autografo minuscolo, come frequentemente nell’autografia luziana), a seguito del punto fermo (linea bassa in autografo) del verso precedente.

Stefano Verdino

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Si stese


Plaquette stampata il 28 febbraio 2012, per ricordare il settimo anniversario della scomparsa del Poeta.


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Si stese nel paese una muta domenica di neve. Disparve ogni visibile segnale di creature in quell’unico biancore. Si spense la molteplicità, si sfece il variopinto del mondo, della scena. L’essere si riprese ogni apparenza, fu solo con sé, con la sua essenza. Che cosa restò fuori dall’incontaminato albore? I casi della storia o i segni della nostra vanagloria? La vita però era prima e dopo di sé. Era.

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(muta)


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La poesia si legge in autografo in pulito nella Agenda Banco di Sicilia 2003, in cui sono compresi gli inediti approvati e successivamente editi postumi in Lasciami, non trattenermi (Milano, Garzanti, 2009); si trova nella pagina 27-28-29 ottobre, a fronte di Qui, nell’essere (30-31 ottobre1-2 novembre). La poesia è posta sotto un segno ‘x’, ma senza esplicita approvazione (diversamente da quella a fronte, siglata da un ‘sì’ sottolineato).

Questa poesia non è stata licenziata dall’autore, ma è stata tuttavia da lui ricopiata – con ogni probabilità – in una serie di testi in pulito, senza pentimenti. Questo un poco ci consente di renderla pubblica – come altre analoghe stampate precedentemente in plaquette da Paolo Mettel con l’autorizzazione di Gianni Luzi in occasioni di anniversari – e rubricarla tra gli ultimi e sempre suggestivi appuntamenti del poeta con la magia del suo linguaggio.

Stefano Verdino

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Ed ecco torna a lui


Plaquette stampata il 28 febbraio 2013, per ricordare l’ottavo anniversario della scomparsa del Poeta.


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Ed ecco torna a lui, serio lo stringe in un fraterno abbraccio il suo ricordo perduto dei ricordi degli avi, degli anziani, dei patriarchi – in esso dal suo fondo mormora la progenie il suo bene, i suoi nefasti – stillicidio di memorie tra i macigni della dimenticanza – Ahi, diventa fratricida la stretta dell’abbraccio, ritorna un’aria esterrefatta come dopo un assassinio – è là, giace al suolo nella pozza del suo sangue l’altro, simile a sé, germano. È quel misfatto

anch’esso nella gloria d’essere stato, ed è nella sua onta. Oh splendore, oh terribilità dell’essere.

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Il testo si legge in autografo sulla Agenda Banco di Sicilia 2003 in due pagine a fronte; l’incipit è sulla pagina di destra (27-28-29-30 novembre) che contiene i primi 15 versi; la conclusione – con gli ultimi quattro versi – è sulla pagina di sinistra (24-25-26 novembre). L’autografo è in pulito (tranne una parziale 46


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riscrittura di “assassinio”) ed è ripreso da un precedente abbozzo, indicato in forma autografa sopra le date dell’agenda sulla pagina di destra (“da pag. 29 settembre”). Per la punteggiatura si è rispettata l’alternanza di lineetta e punto fermo. Si è introdotto il punto fermo all’ultimo verso, come di consuetudine nei testi luziani. Stefano Verdino 47



L’amore


Plaquette stampata il 28 febbraio 2014, per ricordare il nono anniversario della scomparsa del Poeta.


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Tutte le sofferenze traspaiono da un volto

solo e in quello è dolce la forza che ci spenge e pur nell’aria educa il fiore della luna,

il vento profondo dove avviene la primavera. Cade la giovinezza, la vita intera s’aduna e giace sul cuore

come il mare sull’ultimo dolore del navigante che l’ha amato.

Le fanciulle dal dolce nome invocato

ripercorron le strade e i verdi torrenti, bianche nella prima stanza d’amore con le voci calme placano i volti morenti.

Ne’ giardini con gli occhi dolenti invano attendono i bimbi

già vivi in cuore con aerei nimbi sulle guancie rosa

come un’aurora sugli alberi ondosa a chi muor di fatica nei campi.

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Foglio ds. e aut., nella serie delle carte autografe e dattiloscritte delle poesie giovanili dei primi anni Trenta, conservate al Centro studi La barca di Pienza, che ringraziamo per aver consentito la riproduzione. La poesia è l’unica che Luzi non riprese nell’edizione di quei testi in Poesie ritrovate (Garzanti, 2003). La prima strofe è dattiloscritta (vv. 1-8), mentre cancellate sono una seconda (vv. 9-16) e terza (vv. 17-20) dattiloscritte – con correzioni autografe (qui segnate + + ai v. 10, v. 11 e v. 12) – che riporto: “Le fanciulle riposano il viso inappagato, / le dolci bramosie delle veglie <all’> +nell’+ onda / di quel fiume che le trascorre in pace. + Stanchi+ / <Stanchi> 52


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i suicidi giungono innanzi a Dio con gli occhi pieni / d’un nome, quella mano impietosita / li chiude, coglie il dolore, / le spoglie affaticate dell’amore / che solo a lei ci avvicina. // Le vecchie nel dolce tempo di prima / fuggono il gelo che le stringe / e in dispenti sogni riavvinte / trovano ancora la vita”. Seguono autografi i nuovi versi 9-18, con una correzione al v. 13: “<Nella mente> + Ne’ giardini + con gli occhi dolenti”. Della stessa poesia, nelle medesime carte, si conserva in autografo la stesura dei 20 versi dattiloscritti. Si pubblica con il consenso di Gianni Luzi. (s.v.) Stefano Verdino 53



Il pianto di Maria

î “

con Donna de Paradiso lauda di Jacopone da Todi


Plaquette stampata il 28 febbraio 2015, per ricordare il decimo anniversario della scomparsa del Poeta.


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Il pianto di Maria

«Figlio de mamma scura» queste parole erompono sulle labbra di Maria durante il «corrotto» nella lauda jacoponica. Dove è, ora, la sommessa acquiescenza, dove l’intima vertigine dell’Annunciazione? Il mistero, rimasto incomprensibile, si era allora un attimo illuminato della sua stessa irrefutabile prepotenza, e lei aveva chinato il capo. Più tardi, lo si nota seguendo il racconto evangelico che è anche un po’ (ma quanto poco!) il suo racconto, il senso del disegno per il quale era stata scelta le era rimasto ora più ora meno presente ma non l’aveva mai abbandonata del tutto al dubbio o all’angoscia. «Perché figlio ci hai fatto questo» aveva recriminato a Gerusalemme dove, separati dalla folla dei pellegrini, i genitori lo avevano perduto di vista e, incurante dell’ansia dei suoi, il fanciullo si era fermato a disputare con i dottori del Tempio. C’era un rimprovero, una protesta muliebre a pieno titolo in quelle parole. Quella pena umana lasciava adito al pensiero della divinità del loro destino? La risposta del fanciullo era stata tagliente. Ma a Canaa lei era stata misericordiosamente, sì, ma autorevolmente nella sua parte. Il primo miracolo di Gesù aveva preso avvio dalla aspettativa e dalla certezza per non dire da una dolce intimazione di Maria. Il Vangelo la lascia intravedere, qualche rara volta, mentre segue a distanza gli spostamenti di suo figlio e gli incontri e le allocuzioni alle turbe, i prodigi per tutta la Galilea; e non tace di qualche momento in cui vorrebbe abolire quella distanza, avvicinarlo e parlargli. Gli emissari che vanno ad annunciarla (lei insieme con «i fratelli» di Gesù) le portano in risposta dinieghi: lui sa che il suo tempo è contato e non può concederne a questi indugi. Non ha udienze particolari o riservate: «I miei fratelli sono tutti quelli che fanno la volontà del Padre». Come lei riceve questi messaggi non è detto ma al di là di qualche trasparente amarezza tutto lascia pensare sia adeguata alla necessità 57


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messianica che si attua nel figlio – suo, ma fino a che punto? Tenerezza e soggezione si lasciano ugualmente cogliere in quel vivo – e dunque mutevole – rapporto. Trascendente fermezza e apprensività creaturale erano mescolate, non possiamo dire se perfettamente perché ci sfugge il criterio e la misura di quella perfezione. Ma Jacopone vuole che la passione sia veramente e unicamente passione: la prescienza del sacrificio non diminuisce la sua reale e desolata gravità nel figlio, meno ancora nella madre. L’incarnazione per il poeta e teologo francescano non è stata certo simbolica: il resto discende di conseguenza. Il dramma esprime un massimo di concentrazione patetica, un buio episodio umano trova la forza di gridare la sua enormità. Questo e non altro riesco a vedere nella elementare e sintetica progressione narrativa (come rudi grani di un duro rosario) che apre la trenodia e risponde intanto alle elementari necessità drammaturgiche della lauda. Dalla cattura alla sentenza, all’esecuzione quella voce fuori campo, lancinante corale, comunica a Maria il crescendo delle violenze che si fanno a Gesù. Ciascuna è una coltellata al suo cuore materno e nello stesso tempo un’offesa alla sua mente di donna mite e saggia, a cui tali efferatezze riescono inconcepibili: per cui è in atto tra il coro e Maria implicitamente una protesta per quelle persecuzioni, per la loro spietata carica criminosa. Quelle crudeltà si operano e si consumano nella sua carne. Sì, è stata chiamata Donna de Paradiso e suo figlio è stato chiamato beato. Ma la forza di gravità del dolore sposta il centro nell’umano e solo nell’umano di questa prova. Al coro che, soverchiato dallo smarrimento e dall’ansia, sembra chiedere aiuto a lei, la più confusa, le prime risposte sono di incredulità. Non si capacita che quelle notizie si riferiscano a suo figlio («che non fece follia»): e subito il contraccolpo di tenerezza la induce, come nelle lamentazioni, a inventargli un prezioso attributo («Cristo, la spene mia»); senonché la brutalità dell’antefatto («Juda sì l’ha venduto») la convince che, sì, quella è la realtà. Il primo moto è di chiamare in aiuto Maddalena, da sola non le sembra di poter reggere a quel colpo. Seguono altri movimenti spontanei della confusione e della disperazione: 58


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O Pilato, non fare el figlio mio tormentare, ch’io te pozzo mostrare como a torto è accusato.

E poi alle grida di accanimento della folla la toccante ingenuità della supplica: Prego che me ’ntennate, nel mio dolor pensate: forsa mo vo mutate de che avete pensato.

Ben presto le sue implorazioni di povera donna non hanno più destinatario possibile. La furia dell’evento si sviluppa in se stesso. Allora con sublime incoerenza si appella a suo figlio, invoca pietà da lui che è perduto. Ancora un gradino della delirante ricerca di soccorso, e ora è la croce che deve rifiutarsi di collaborare al martirio: «O croce, e che farai? / el figlio mio torrai?»; poi ripiega su una più rassegnata pretesa: «Se i tollete el vestire, / lassetelme vedire». Particolare su particolare le viene descritta (in simultanea) la crocifissione... «E io comenzo el corrotto». Sarebbe vana ogni altra parola. È lo strazio di una donna che ha subìto la più atroce ferita. Il figlio, in questo momento non può lasciarla a se stessa, al suo disperato soliloquio: si instaura un dialogo in cui lei pensa alla morte («c’una aiam sepoltura») e lui al dopo, alla vita che lascia dietro di sé. Solo l’affidamento di lei a Giovanni ha nelle parole di Gesù, pur sobrie e ferme, una vibrazione patetica: Joanni, èsto mia mate, tollela en caritate, àggine pïetate, cà ’l cor sì à furato.

Dopo il dialogo ritorna monologo, diventa anzi insieme singhiozzo e rito finché, rivolgendosi anche lei a Giovanni perché qualcuno deve pur esservi a ricevere quella piena di dolore, in quella afflitta adozione di figliolanza, dice: «Or sento el coltello / che fo profetizzato». Per un attimo la donna si ricongiunge con la Madonna, torna ad essere la creatura prescelta per la gloria e 59


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per la sofferenza. Ma è un attimo, la povera donna prende ancora il sopravvento nella cupa desolazione dell’ultima quartina: Che moga figlio e mate d’una morte afferrate, trovarse abraccecate mate e figlio impiccato.

Quanto deve a questa immedesimazione totale con l’amore e con il dolore materno, vissuti senza privilegio e riserva, la devozione a Maria? La sua mediazione, la sua intercessione per la quale è pregata dai fedeli non vengono da questa debolezza e da questa forza non manifesta? Il potente romanico del grande frate-poeta la assimila fino in fondo al destino della creatura; e solo per questa via ne fa riconoscere la celestiale elezione. Mater dolorosa, o come dice qui, «mamma scura»: ecco l’attributo che più ha richiamato su Maria la preghiera e la confidente attesa delle moltitudini. La pena solitaria e inconsolabile dall’uomo, la pubblica calamità che non vede scampo o rimedio portano ugualmente a pronunciare il suo nome.

Nota al testo Nelle carte, a suo tempo, donatemi da Mario Luzi ho ritrovato questo testo, presumibilmente inedito, di certo mai raccolto dall’autore. Ignoro l’occasione di questa lettura della celebre lauda jacoponica, né sussiste una datazione, anche se presumo si tratti di uno scritto degli anni Ottanta del ’900. L’originale (se così si può dire) consiste in cinque fogli di fotocopia, che riproducono un testo – con titolo autografo – dattiloscritto dallo stesso autore (con alcuni errori di battitura) e varie correzioni autografe, sia di refusi sia di variazioni testuali. Non è chiaro che testo della lauda Luzi usasse, in ogni caso le citazioni riproducono quelle del dattiloscritto. Stefano Verdino

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DonnadedeParadiso Paradiso Donna

«Donna Paradiso, «Donna dede Paradiso, figliolo è preso, lo lo tuotuo figliolo è preso, Iesù Cristo beato. Iesù Cristo beato. Accurre, donna, e vide Accurre, donna, e vide che gente l’allide: che la la gente l’allide: credo che s’occide, credo che lo lo s’occide, tanto l’ho flagellato». tanto l’ho flagellato». «Com’essere porria, «Com’essere porria, che non fece follia, che non fece follia, Cristo, spene mia, Cristo, la la spene mia, l’avesse pigliato?» omom l’avesse pigliato?» «Madonna, è traduto: «Madonna, ell’ell’ è traduto: Iuda l’ha venduto; Iuda sì sì l’ha venduto; trenta denar n’ha avuto, trenta denar n’ha avuto, fatto n’ha gran mercato». fatto n’ha gran mercato». «Soccurri, Maddalena! «Soccurri, Maddalena! Ionta adosso piena: Ionta m’èm’è adosso piena: Cristo figlio mena, Cristo figlio se se mena, com’ è annunzÏato». com’ è annunzÏato». «Soccurre, donna, adiuta, «Soccurre, donna, adiuta, ’l tuo figlio sputa caca ’l tuo figlio se se sputa e la gente muta; e la gente lo lo muta; hòlo dato a Pilato». hòlo dato a Pilato». Pilato, non fare «O«O Pilato, non fare figlio mio tormentare, el el figlio mio tormentare, ch’io pozzo mustrare ch’io te te pozzo mustrare como a torto è accusato». como a torto è accusato». 67


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«Crucifige, crucifige! «Crucifige, crucifige! Omo che rege, Omo che se se fa fa rege, secondo nostra lege secondo nostra lege contradice senato». contradice al al senato». «Prego che ’ntennate, «Prego che meme ’ntennate, mio dolor pensate: nelnel mio dolor pensate: forsa mutate forsa momo vovo mutate che avete pensato». dede che avete pensato». «Traàm li ladruni, «Traàm forfor li ladruni, che sian suoi compagnuni: che sian suoi compagnuni: spine coroni, dede spine se se coroni, ché rege chiamato!» ché rege s’ès’è chiamato!» figlio, figlio, figlio, «O«O figlio, figlio, figlio, figlio, amoroso giglio! figlio, amoroso giglio! figlio, consiglio figlio, chichi dàdà consiglio mio angustïato? al al corcor mio angustïato? Figlio occhi iocundi, Figlio occhi iocundi, figlio, non respundi? figlio, co’co’ non respundi? Figlio, perché t’ascundi Figlio, perché t’ascundi petto o’ si’ lattato?» al al petto o’ si’ lattato?» «Madonna, ecco croce, «Madonna, ecco la la croce, che gente l’aduce, che la la gente l’aduce, vera luce oveove la la vera luce essere levato». dèidèi essere levato». croce, e che farai? «O«O croce, e che farai? figlio mio torrai? ElEl figlio mio torrai? Como ponirai, Como tu tu ponirai, non peccato?» chichi non haha enen sé sé peccato?» «Soccurri, piena doglia, «Soccurri, piena dede doglia, figlio spoglia: ca’lca’l tuotuo figlio se se spoglia: gente che voglia la la gente parpar che voglia che martirizzato!» che siasia martirizzato!» 68


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«Se i tollete el el vestire, «Se i tollete vestire, lassatelme vedere, lassatelme vedere, como el el crudel ferire como crudel ferire tutto l’ha ensanguenato!» tutto l’ha ensanguenato!» «Donna, la la man li èli presa, «Donna, man è presa, ennella croce è stesa; ennella croce è stesa; con unun bollon l’ho fesa, con bollon l’ho fesa, tanto lo lo ci ci hoho ficcato. tanto ficcato. L’altra mano se se prende, L’altra mano prende, ennella croce se se stende ennella croce stende e lo dolor s’accende, e lo dolor s’accende, ch’è piùpiù moltiplicato. ch’è moltiplicato. Donna, li pè se se prenno Donna, li pè prenno e chiavellanse al al lenno: e chiavellanse lenno: onne iontur’ aprenno, onne iontur’ aprenno, tutto l’ho sdenodato». tutto l’ho sdenodato». «E«E io io comenzo el el corrotto: comenzo corrotto: figlio, lo lo mio deporto, figlio, mio deporto, figlio, chichi meme t’ha morto, figlio, t’ha morto, figlio mio dilicato? figlio mio dilicato? Meglio averiano fatto Meglio averiano fatto che ’l cor m’avesser tratto, che ’l cor m’avesser tratto, che nene la la croce è tratto, che croce è tratto, stace descilïato!» stace descilïato!» «Mamma, oveove si’si’ venuta? «Mamma, venuta? Mortal meme dàidài feruta, Mortal feruta, caca ’l tuo planger meme stuta, ’l tuo planger stuta, che ’l veio sì sì afferrato». che ’l veio afferrato». «Figlio, che m’aio anvito, «Figlio, che m’aio anvito, figlio, pate e marito! figlio, pate e marito! Figlio, chichi t’ha ferito? Figlio, t’ha ferito? Figlio, chichi t’ha spogliato?» Figlio, t’ha spogliato?» 69


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«Mamma, perché te lagni? Voglio che tu remagni, che serve ei mei compagni, ch’al mondo aio acquistato». «Figlio, questo non dire: voglio teco morire; non me voglio partire fin che mo m’esce ’l fiato. C’una aiam sepoltura, figlio de mamma scura: trovarse en afrantura mate figlio affocato!» «Mamma col core afflitto, entro le man te metto de Ioanne, mio eletto: sia tuo figlio appellato. Ioanni, èsto mia mate: tollela en caritate, aggine pïetate, ca’l cor sì ha furato». «Figlio, l’alma t’è ’scita, figlio de la smarrita, figlio de la sparita, figlio attossecato! Figlio bianco e vermiglio, figlio senza simiglio, figlio, a chi m’apiglio? Figlio, pur m’hai lassato! Figlio bianco e biondo, figlio volto iocondo, figlio, per che t’ha ’l mondo, figlio, così sprezzato? 70


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Figlio dolze e placente, Figlio dolze e placente, figlio dede la la dolente, figlio dolente, figlio, hatte la la gente figlio, hatte gente malamente trattato! malamente trattato! Ioanni, figlio novello, Ioanni, figlio novello, mort’è lo lo tuotuo fratello: mort’è fratello: oraora sento ’l coltello sento ’l coltello che fo fo profitizzato. che profitizzato. Che moga figlio e mate Che moga figlio e mate d’una morte afferrate: d’una morte afferrate: trovarse abraccecate trovarse abraccecate mate e figlio impiccato». mate e figlio impiccato». Jacopone da da Todi Jacopone Todi

(Testo ripreso da:da: La La letteratura italiana, Poeti del del Duecento, Tomo II, II, a cura di di (Testo ripreso letteratura italiana, Poeti Duecento, Tomo a cura Gianfranco Contini, 1960, Riccardo Ricciardi Editore). Gianfranco Contini, 1960, Riccardo Ricciardi Editore).

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Il tempo umano è perenne vigilia

î “

con una nota di Gianantonio Borgonovo


Plaquette stampata il 28 febbraio 2016, per ricordare l’undicesimo anniversario della scomparsa del Poeta.


I

Dal dicibile... versi e pensieri

l tempo umano è perenne vigilia. Questa del Nuovo Millennio e del Giubileo è una vigilia più eccitata e insieme più pensosa. Vediamo – che cosa è in cima ai desideri più acuti e segreti e inconsci della vigilia? Che l’evoluzione così lenta e faticosa abbia un balzo in avanti? No, che prosegua senza troppo pesanti ricadute all’indietro dopo aver trovato il giusto cammino dall’informe lutulento alla forma povera e chiara. Dalla larva torbida e vischiosa all’insetto limpido e lucente. L’impasto sanguinoso di grandezze, di glorie, di crimini, di scempi nel quale la nostra civiltà si è sviluppata e abbrutita si alleggerirà – è lecito prevederlo? almeno auspicarlo? – di molta zavorra, si libererà di molti orgogliosi pregiudizi e superstizioni. La semplicità: ecco ciò di cui, dopo tante superfetazioni oziose e presuntuose, il ragionamento profondo sente urgente necessità. E la franchezza dopo tanta ipocrisia sia benvenuta.

Comitato centrale Giubileo 03.12.99 fu pubblicato su “Letture” Anno 55 – N. 563 – gennaio 2000, p. 8 con il titolo redazionale Benvenuta franchezza!, in una serie di testimonianze sul Giubileo del 2000 da parte di vari scrittori (tra cui Cesare Viviani ed Erri de Luca). L’impaginazione della rivista non rispetta le pause e le spaziature del testo luziano, che qui si restaura nella sua lezione originale. StefanoVerdino Verdino Stefano

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GIUBILEO: VIGILIA E PARRESIA di

Gianantonio Borgonovo

L’ebraico jovèl significa «montone». Per sineddoche è anche kèren jovèl, il «corno di montone», che con pochi ritocchi può diventare uno strumento musicale a fiato, simile alla tromba e al corno. Suonato la sera del sesto giorno, annuncia l’arrivo di shabbàt, l’«Amata sposa» – quasi un epitalamio imeneico – come nel famoso inno di rav Shelomò Halevì Alkabètz, maestro cabalistico del XVI secolo: Lekhà dodì likràt kallà Vieni, amato mio, incontro alla sposa: pnêj shabbàt nekabbelà accogliamo shabbàt.

Suonato soprattutto la sera di jòm kippùr, il «giorno dell’espiazione», annuncia il grande shabbàt che dà inizio al cinquantesimo anno: Conterai sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. Al decimo giorno del settimo mese, farai echeggiare il suono del corno; nel giorno dell’espiazione farete echeggiare il corno per tutta la èretz. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella èretz per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi (Levitico 25,8-12).

Jovèl diventa dunque il cinquantesimo anno, l’anno «santo», l’anno della «liberazione nella èretz [terra d’Israele] per tutti i suoi abitanti». 77


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Da qui l’intonazione dello jubilus. In latino diventa un termine tecnico che indica una musica quale «esplosione gaudiosa di un melisma vocalico, a volte lunghissimo, senza alcun testo o parola» (G. Cattin). Agostino, nelle sue Enarrationes in Psalmos ci dà molte informazioni al riguardo. Ambrogio gli fu maestro anche in questo campo musicale. Il vescovo di Ippona, con altri, lo paragona al kèleuma, originariamente canto dei vogatori e perciò assai ritmato. Da alcune righe di Agostino sembra che lo jubilus non fosse riservato a solisti, ma fosse cantato da tutta l’assemblea. Sarebbe quindi un tripudio di voci non uniforme, e difficilmente controllabile. Forse è per questo che il grido di acclamazione di vittoria, la teru‘à, sia stato tradotto nelle antiche versioni latine con termini della stessa radice linguistica di jubilatio e jubilare. L’intreccio tra il giubileo e lo jòm kippùr mi porta a ricordare un’intrigante ipotesi, legata all’antico calendario ebraico che potremmo definire «delle settimane» o «dei sabati». Fu usato nel Santuario di Gerusalemme nel periodo del Secondo Tempio (520 a.C. – 70 d.c.) e rimase in vigore almeno sino alla metà del I secolo a.C. Ancora i manoscritti di Qumrān ci attestano che era noto nella Comunità ( jàh.ad ) di Qumrān, il cui “monastero” fu distrutto dai Romani prima di salire a Gerusalemme (68 d.C.), durante la Prima Guerra Giudaica. L’organizzazione del tempo in tale calendario è perfetta: 364 giorni, ovvero 4 trimestri di 91 giorni (3 mesi di 30 giorni più un giorno intercalare), vale a dire esattamente 13 settimane ogni trimestre. Il più importante esito era di impedire che lo shabbàt fosse “cancellato” da altre feste ancorate al precedente ciclo lunare, come la festa di pèsah. « pasqua». Vi è però un problema ancora aperto: l’adeguamento con la durata dell’anno solare tropico, che come è noto è di 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46 secondi. L’ipotesi che propongo è la seguente. Ogni 7 anni, prima dello shabbàt successivo alla festa di jòm kippùr, ovvero dopo il 10 e prima dell’11 del VII mese, si vivevano 7 giorni intercalari, che non entravano nel computo del mese e prolungavano lo shabbàt per un totale di 8 giorni sabbatici: 7 giorni intercalari sommati all’11 del VII mese, che era già uno shabbàt. Il VII mese sarebbe poi continuato con il giorno 12, primo giorno della settimana. Una prova a sostegno di tale periodo intercalare si potrebbe trovare in Levitico 25,4: «Il settimo anno sarà come un sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore». 78


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In questo modo era recuperato il giorno mancante. Rimaneva da recuperare il resto, circa 6 ore ogni anno. Ecco allora che nel quarantanovesimo anno, dopo la festa di jòm kippùr si sarebbero intercalati ugualmente i 7 giorni sabbatici, come in ogni settimo anno sabbatico. Al termine di essi, però, si sarebbero introdotti altri 11 giorni, come se il settimo mese fosse ricominciato dall’inizio, partendo dal quarto giorno. È quanto abbiamo indicato dal testo del libro del Levitico appena citato. Il cinquantesimo anno, il «giubileo», non sarebbe durato un anno intero, ma solo un periodo di 18 giorni intercalari che s’incuneava nel quarantanovesimo anno. Con siffatto espediente, la scansione cronologica rimane settenaria (49 anni ovvero 7 volte 7 anni): il cinquantesimo anno suggellava un periodo di 49 anni “solari”. Questa scansione numerica perfetta è attestata nel Libro di Enoc e nel Libro dei Giubilei, due apocrifi molto utilizzati anche dalla Chiesa primitiva, almeno sino al III secolo. La scansione giubilare fu fatta risorgere nel periodo medievale, forse preceduta da alcuni eventi regionali antecedenti, ma ormai con finalità diverse rispetto allo jovèl biblico. L’iniziatore fu papa Bonifacio VIII con la bolla Antiquorum habet fida relatio. In quell’anno, il giorno dell’emanazione della bolla (22 febbraio) cadeva ancora nell’anno 1299, in quanto il nuovo anno 1300 sarebbe iniziato il mese successivo, precisamente il 25 marzo, giorno dell’incarnazione del Signore, secondo il computo introdotto dal monaco Dionigi il Piccolo nel VI secolo. Ispirandosi a un’antica tradizione ebraica, il Papa concedeva l’indulgenza plenaria a tutti coloro che avessero fatto visita trenta volte, se fossero stati romani, e quindici volte, se fossero stati stranieri, alle Basiliche di San Pietro e San Paolo fuori le mura, durante l’anno 1300. Tale «anno santo» si sarebbe dovuto ripetere – secondo il progetto originario – ogni cento anni. L’afflusso dei pellegrini a Roma fu tale che così lo descrive Dante (Inferno XVIII,28-33): «come i Roman per l’essercito molto, l’anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto, che da l’un lato tutti hanno la fronte verso ’l castello e vanno a Santo Pietro, da l’altra sponda vanno verso ’l monte». 79


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Papa Clemente VI, volle tornare alla scansione biblica dei cinquant’anni e nel 1350 decise di indire il secondo giubileo. In seguito, Urbano VI volle indire un giubileo a soli 33 anni dal precedente (gli anni della vita di Gesù), ma in realtà fu Bonifacio IX che riuscì a inaugurarlo nel 1390. È dubbio, dal punto di vista storico, che vi sia stato un giubileo nel 1423 con Martino V, mancando documentazione al riguardo. La cadenza divenne poi di soli 25 anni con Paolo II, dal 1475 in poi. Alcuni papi hanno anche proclamato degli «anni santi» straordinari, al di fuori di queste cadenze. L’8 aprile 1933 Pio XI concesse il XXIV Giubileo in occasione del diciannovesimo centenario della Redenzione. Nella bolla Quod nuper (6 gennaio 1933) Pio XI bandisce l’«anno santo» esaltando il bene della pace mondiale. San Giovanni Paolo II indisse un Anno Santo straordinario nel 1983 in occasione del 1950° anniversario della Redenzione, a cinquant’anni del giubileo del 1933 (bolla Aperite portas Redemptori del 6 gennaio 1983). L’ultimo giubileo ordinario è stato il Grande Giubileo del 2000 e papa Francesco ha indetto il Giubileo straordinario «della misericordia» (8 dicembre 2015 – 20 novembre 2016) con la bolla Misericordiæ vultus del 13 marzo 2015, primo giubileo tematico, in occasione dei 50 anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II. Al n. 15 della Bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia, Papa Francesco ricorda: In questo Anno Santo, potremo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. Quante situazioni di precarietà e sofferenza sono presenti nel mondo di oggi! Quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi. In questo Giubileo ancora di più la Chiesa sarà chiamata a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo. 80


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Leggendo questo testo, subito si è portati a ricordare il progetto ideale dello jovèl nella determinazione della seconda parte di Levitico 25 (i vv. 13-17), che già ci ha portato a parlare del senso cronologico del giubileo biblico: In quest’anno del giubileo ciascuno tornerà nella sua proprietà. Quando vendete qualcosa al vostro prossimo o quando acquistate qualcosa dal vostro prossimo, nessuno faccia torto al fratello. Regolerai l’acquisto che farai dal tuo prossimo in base al numero degli anni trascorsi dopo l’ultimo giubileo: egli venderà a te in base agli anni di raccolto. Quanti più anni resteranno, tanto più aumenterai il prezzo; quanto minore sarà il tempo, tanto più ribasserai il prezzo, perché egli ti vende la somma dei raccolti. Nessuno di voi opprima il suo prossimo; temi il tuo Dio, poiché io sono il Signore, vostro Dio.

Il testo del Levitico continua, dando anche delle istruzioni per la terra e le abitazioni, da vivere come dono di Dio a noi affidati in quanto custodi, perché «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. Perciò, in tutta la terra che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni» (vv. 23-24). Il testo della bolla di papa Francesco, se confrontato con il testo di Levitico 25, conduce alla commovente constatazione che con questo anno giubilare siamo tornati alle origini dello jovèl e al suo primordiale significato. Dobbiamo davvero essere grati a papa Francesco. Egli, con l’indizione di questo «anno santo», ha sorpreso tutti e ha riportato la Chiesa alla sorgente e al senso originario del giubileo, creando un’occasione singolare per riscoprire la «carta d’identità» del vero Dio e per distruggere ogni tentazione idolatrica: «Jhwh, Jhwh, Dio misericordioso e clemente, lento all’ira e ricco di tenerezza e di fedeltà: egli conserva la sua lealtà per mille generazioni, egli perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione; egli castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Esodo 34,6-7).

Questo è il senso dello jovèl: sperimentare la possibilità del ricominciamento per grazia e la teshuvà («conversione») che lo Spirito plasma in noi, mostrandoci il Volto di misericordia del Padre e facendo vivere nella nostra carne la fede del Figlio dell’Uomo, Gesù Signore, così che diventiamo anche noi capaci di plasmare il nostro mondo con il suo modo di sentire. 81


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Tra le molte perle inanellate nell’Opera poetica di Mario Luzi, concludo con questa pagina, sicuramente amata da chi conosce e predilige il Grande Poeta: Pasqua? sì, Pasqua – ti è data ancora. Dal nero adesso, dal concavo le arriva quel vociante murmure, la tiene sveglia quell’ansito – è l’aria, questa, o l’oceano? Fatica, sente, dell’etere e del mare in quelle inquiete masse, in quegli oscuri profondissimi commovimenti e conosce quell’afono e ciclonico ricominciamento del tempo da sé medesimo… e, sì, sono pronta evento io stessa, o che altro? Sono viva e mi raggiunge la vita, sono donna e mi sopravviene, nuova, la muliebrità nell’azzurro grembo. O resurrezione, resurrezione di quel che è – pensa nel suo pensiero dove la morte manca. (da: M. Luzi, L’opera poetica, p. 763).

La carne e il sangue sono un grumo di vita teso tra l’alef e il tau che non provengono solo da ciò che è terrigeno, ma sono animati da un alito che – al di là della nostra possibile conoscenza – sta al di là del nostro mondo. Possiamo dire che sta nei cieli, purché questi siano pensati almeno nella dualità, come shamájim, quelli di sotto che anche gli uomini contemplano e quelli di sopra che Dio solo vede. Dio solo «è» in una dimensione che sta prima del bêt di bereshìt «in principio» e insieme dopo il tau di ogni «tu» o «voi» dell’jiqtol, maschile o femminile che sia. 82


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L’uomo, in questa tensione, è simbolo ed attesa: è «perenne vigilia». La sua compiutezza è rimandata al «settimo giorno» di Dio, al suo compiersi ed essere di nuovo assimilato nell’Uno per vivere quella comunione eterna del Padre e del Figlio nello Spirito, del Creatore e del Logos nella Shekhinà. Si tratta di raggiungere quella «semplicità» che non è ingenuità né tanto meno faciloneria. Definire «semplice» una realtà o un essere umano significa dire che è piegato-una-sola-volta. Questa immagine della piega singola è molto evocativa: «semplice» non è qualcosa di già squadernato, palese, che si capisce da sé, senza alcuno sforzo, ma qualcosa che non è difficile da aprire alla propria conoscenza, e che però va appunto aperto. Ecco il segreto per sperimentare il giubilo gaudioso del volto misericordioso di Dio: vivere in semplice franchezza, ovvero con parresía – è un vocabolo caro all’Apostolo delle genti! Siamo chiamati a vivere l’attesa, attenti e intenti a perseguire la forza critica del Vangelo smascherando «tanta ipocrisia». Mi scuso con il Poeta. Avrei detto – e so che sotto specie umana Lui stesso avrebbe scritto – «tanta idolatria»!

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Appendice



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27 Febbraio 2010

Caro Mario, la tua poesia è vita L’omaggio di Adonis all’amico fiorentino e una lirica inedita di Luzi

Ho incontrato Mario Luzi a Firenze circa dieci anni prima della sua morte. Ci avevano invitato insieme a una serata di poesia. Finita la lettura, che aveva avuto un discreto successo, ho visto raccogliersi attorno a Luzi un certo numero di donne di età diverse. S’erano trattenute con lui e ad alcune aveva firmato suoi libri. Era calmo, sereno e molto felice. Mi piacque vedere un poeta circondato da donne che lo ammiravano e stimavano, anche se i suoi versi non parlavano in modo specifico di loro. Mi dissi, pensando al rapporto delle donne arabe con la poesia: allora, la donna, qui a Firenze, ama la poesia per la poesia, non come una cosa che la riguarda in modo specifico. Da quell’incontro ho incominciato a leggere tutte le sue poesie che trovavo tradotte in francese. E oggi, ogni volta che lo leggo mi tornano alla mente le donne raccolte attorno a lui in quella serata. Al tempo stesso mi viene alla mente questo interrogativo: perché la poesia di Luzi è così influente su di loro? E questo porta a un’altra domanda: che cosa può fare la poesia? Specie quando i lettori di questo tempo hanno perso la facoltà di distinguere fra la buona e la cattiva poesia, anzi, gran parte di loro non ha più un alto e vitale interesse per la poesia. La poesia di Luzi viene dai luoghi intimi e profondi dell’uomo, luoghi di meditazione ed esplorazione dove si fondono sogno e realtà, sensoriale e immaginario, visibile e invisibile, poesia e scienza, religione e filosofia. Così possiamo descrivere la sua poesia come un viaggio in questo spazio intimo, attraverso lo spazio esterno, che penetra e supera – lo spazio del caos socio-politico, degli eventi e della tecnica. L’occhio del volto qui è l’occhio del cuore, l’uno fa da guida all’altro, si completano nel superare l’oscuro, per accogliere ciò che illumina, dove valori e rapporti tornano alla loro natura prima, dove la parola diviene corpo, come se la poesia, nel linguaggio e nell’esistenza, fosse un altro utero accanto a quello naturale femminile, per la nascita e per rinnovare la vita. Così il 87


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poeta non si serve di parole già preconfezionate, le usa ricollocandole in un contesto inconsueto. Il femminile del linguaggio è il luogo di questa riallocazione. Come la donna è il luogo della nascita, anche il linguaggio è luogo di nascita della poesia. Alla prima l’uomo deve la propria esistenza, alla seconda la propria identità. La particolarità della poesia è quella di nascere dall’utero del linguaggio-vita così come l’infanzia viene dall’utero della donna-femminilità. I rapporti d’amore sicuramente non sono facili e nemmeno il rapporto del poeta col linguaggio. Quando sembra che la lingua fuoriesca dal poeta come un profluvio, questo fa sorgere qualche sospetto sulla poesia in sé e sulla sua qualità artistica. La poesia è sempre contro: anzitutto contro il poeta, intendo contro la sua debolezza, sottomissione e arrendevolezza. Contro la macchina dello schiavismo nella società, che è una macchina infernale, contro la bassezza del mondo. Il rapporto col linguaggio, quindi, è un rapporto di respingimento, rifiuto, perdita, dolore e attesa. Che cosa può fare, allora, la poesia? La mia risposta viene dalla poesia stessa e da te, Mario Luzi, amico in poesia – la mia risposta a Mendrisio tra coloro che ti hanno conosciuto e ti stanno celebrando è che la poesia non può spostare un sasso ma nonostante ciò, come la religione, riesce a dare un senso al mondo: che possa essere sempre una nascita-inizio. Adonis

(Traduzione dall’arabo di Fawzi Al Delmi)

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16 Marzo 2012

Una poesia inedita di Luzi sulla «domenica di neve»

L’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo (www.marioluzimendrisio.com) il 17 marzo alle 17.30 nella sala del consiglio comunale di Mendrisio ricorderà il settimo anniversario della scomparsa del poeta con la presentazione di una plaquette (tirata in 160 copie finemente stampate su carta Amalfi Amatruda) contenente l’inedito Si stese, che qui viene pubblicato in anteprima per concessione dell’Associazione e del figlio Gianni Luzi. La plaquette, che raccoglie il terzo inedito uscito a Mendrisio (fa parte della serie «Metteliana», la collezione di opere realizzata dal bibliofilo e imprenditore svizzero Paolo Andrea Mettel), oltre la trascrizione del testo offre anche l’anastatica dell’autografo. Accanto all’inedito di Luzi, in questa plaquette si legge un breve scritto di Stefano Verdino (professore di Letteratura italiana all’Università di Genova), il massimo specialista dell’opera del poeta toscano, che ha curato nel 1998 il «Meridiano» Mondadori dedicato a questo autore. Nel piccolo e intenso saggio egli inquadra l’inedito – risalente al 2003 – nell’opera e nelle stagioni poetiche di Luzi. Il quale in quel tempo era giunto – per usare le parole del medesimo Verdino – a scegliere come soggetto della poesia, «per lo più un pronome, al centro o alla fine di un ritmo verbalmente scolpito tra incalzare, incisi e interrogativi». Infine, va precisato che i versi inediti si trovavano in un’agenda del Banco di Sicilia. La poesia è stata posta sotto un segno «x», «ma senza esplicita approvazione», sottolinea Verdino, «diversamente da quella a fronte, siglata con un “sì” sottolineato». La plaquette verrà distribuita in un’occasione particolare: durante uno degli incontri culturali programmati dall’Associazione. Sabato prossimo, alle 17.30, sarà ospite Anne Cheng, del College de France. È una delle massime studiose al mondo di filosofia cinese ed è stata invitata per parlare delle «Emozioni della libertà». O meglio, terrà una relazione – in italiano – su come sia possibile tradurre in cinese la parola libertà. R.C. 89


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1 Marzo 2013

L’ultima poesia di Mario Luzi

La vena civile, il fratricidio: Caino e Abele abitano in ogni uomo

Domani, sabato 2 marzo alle ore 10,30 alla Pieve Romanica di Primo di Stazzema (Lucca), verrà presentata l’ultima poesia inedita di Mario Luzi Ed ecco torna a lui. Evoca Caino e Abele. Fa parte di quelle autografe che egli affidò all’agenda del Banco di Sicilia del 2003 (in tal caso i versi occupano i giorni dal 24 al 30 novembre). Un autografo in pulito, tranne una parziale riscrittura della parola «assassinio». Stefano Verdino ha notato: «Il testo appartiene alla vena civile del poeta e a un tema, quello del fratricidio originario, che fin dalle origini fu presente nella poesia di Luzi, se nella Barca si legge una poesia come Abele. Tornando a distanza di settant’anni sul tema, Mario – secondo la strategia stilistica della sua ultima fase – ci ha voluto scandire il testo in una serrata dinamica di gesti, trasalimenti emotivi e memoriali, con il commento della voce stessa del testo che va sciogliendo le parole». Un biblista come Gianantonio Borgonovo ha notato, tra l’altro, leggendo questi ultimi versi di Luzi: «Ciascuno di noi è Caino e insieme Abele. Siamo tutti umani acquistati dalla mano benedicente di Dio (qnh), fragili e inconsistenti come un soffio (hebel). Lo afferma anche il Salmo 39: “Davvero ogni Adamo è Abele” (v. 12)». Qui offriamo in anteprima Ed ecco torna a lui, stampata in una plaquette della collezione «Metteliana» (300 esemplari, con trascrizione e anastatica dell’autografo). Stazzema è la città che, insieme a Pienza e Mendrisio, ha patrocinato l’ottavo anniversario della morte di Luzi. Oltre al figlio Gianni, interverranno Paolo A. Mettel, presidente dell’Associazione Mendrisio Mario Luzi e realizzatore della plaquette, Nino Petreni, Stefano Verdino, Marco Marchi e Marco Nereo Rotelli. A Sant’Anna di Stazzema vennero uccise dai nazisti 560 persone, la più piccola delle quali aveva 20 giorni. R.C.

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9 Marzo 2014

Tutto l'amore di Mario Luzi

Passeggiavamo sul Lungarno, mentre scendeva il crepuscolo su Firenze. Mario Luzi, che lentamente avanzava con me e un altro amico, ci fece notare che nella maggior parte delle finestre si intuiva il riquadro azzurrognolo del televisore acceso: «Ecco, sono lì davanti a quello schermo con le mani alzate in segno di resa o di adorazione». È quello che avrebbe spesso ripetuto: «C’è oggi un difetto di parola e un eccesso di parole». E continuava: «La poesia agisce secondo la sua necessaria dinamica, che è quella di distruggere la lettera per ripristinare ed espandere lo spirito». La sua poesia aveva puntato dritto a questo nucleo essenziale, sacrale, trascendente perché – come diceva Charlotte nel dramma Cenere e ardori (1997) – «la tragedia è l’uomo, la sua storia, / il suo disaccordo col divino». Nel centenario della sua nascita, avvenuta il 20 ottobre 1914 a Firenze, vorrei proporre anch’io, come uno dei suoi tanti amici, una libera testimonianza, spoglia dall’apparato critico che sarà indossato da molti altri più competenti e capaci di perlustrare un orizzonte testuale tutt’altro che agevole. In lui s’incarnava l’immagine di un altro grande “collega”, Clemente Rebora, per il quale la vera poesia dev’essere distillata come miele «in casta cera». In entrambi, poi, non di rado il cantare poetico si trasfigurava in un invocare orante. In una delle sue «conversazioni sul cristianesimo» con Stefano Verdino raccolte nella Porta del cielo (1997) Luzi confessava che «la preghiera comincia dove finisce la poesia, quando la parola non serve più e occorre un linguaggio altro». Emblematico è quel gioiello che è la Via Crucis al Colosseo, un testo preparato per il papa Giovanni Paolo II in occasione del Venerdì Santo 1999. In esso si raggrumava il mistero doloroso della vita di Cristo e della nostra storia in versi di straordinario pathos e di intensa adorazione, come quando sulla croce egli resta solo col Padre celeste muto e assente: «Com’è solo l’uomo, come può esserlo! / Tu sei dovunque, / ma dovunque non ti trova. Ci sono luoghi / dove tu sembri assente / e allora geme perché si sente deserto / e abbandonato. Così sono io, comprendimi». Ma alla fine c’è un approdo dove la distanza è varcata tra l’umanità col suo male e con 91


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la sua colpa e il Dio giusto giudice: «L’offesa del mondo è stata immane. / Infinitamente più grande è stato il tuo amore. / Noi con amore ti chiediamo amore. / Amen». La preghiera per Luzi era«un atto d’amore, nel suo fondamento. Io penso che ci sia non solo negli uomini, ma in tutto ciò che è presente nel mondo, un respiro e un’aspirazione orante» (così ancora nella Porta del cielo). A questo anelito umano Dio deve rispondere, e lo fa attraverso l’incarnazione del Figlio: «Non startene nascosto nella tua onnipresenza. Mostrati! / Il roveto in fiamme lo rivela, / però è anche il suo impenetrabile nascondimento. / E poi l’incarnazione – si ripara dalla sua eternità / sotto una gronda umana, scende nel più tenero grembo, / verso l’uomo, nell’uomo... sì, / ma il figlio dell’uomo in cui deflagra / lo manifesta e lo cela» (Via Crucis). Un ossimoro, dunque, di presenza-assenza, di rivelazione e di mistero, di parola e di ineffabilità, di splendore e di oscurità, di trascendenza e di immanenza. Certo, noi creature mortali rimaniamo immersi nel tempo: «Tempo, l’uomo che s’allarma / dentro il tempo fermo / insediato nella sua durata, / immobile nel suo trascorrimento. / Tempo dell’uomo... / che leva il suo pugno d’istanti d’illusione / perennità...». Così il poeta cantava nell’arduo ed esaltante Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994) intrecciando la finitudine della temporalità con l’illusorietà dell’eternità: quest’ultima, infatti, non ci appartiene e non può che esserci donata dall’unico Eterno. Ciò avviene appunto nell’incarnazione in cui il Verbo divino diventa carne, ossia tempo successivo e fine, deponendo però in essa il germe della sua eternità. La nostra esistenza, allora, oscilla tra la finitudine presente e l’infinito che ci attende: «Noi siamo in terra / ma ci potremo un giorno librare / esilmente sul seno divino / come rose dai muri nelle strade odorose / sul bimbo che le chiede senza voce» (nella raccolta garzantiana di Tutte le poesie). Intanto noi camminiamo nella storia e nello spazio terreno e spesso seminiamo odio e male che ci allontanano da quel “seno divino”. Eppure è possibile trasformare questo mistero doloroso in gaudioso. È ciò che canta la giovane ebrea al suo amato musulmano nella raccolta poetica Parlate (2003): «C’è una pozza di sangue tra te e me. / Mio Dio, chi l’ha versato? / Chiunque sia stato, / caro, è sangue sprecato. / Ma io so che l’amore mio, se mi aprirai le braccia, / potrà vederlo asciugato. / Vieni, non tardare». È, dunque, ancora una volta l’amore la scintilla divina deposta nel terreno opaco del tempo, è il seme della speranza che attende di attecchire: «Il bulbo della speranza, / occultato sotto il suolo ingombro di macerie, / non muoia, / in attesa di fiorire alla prima primavera». Tempo ed eternità, terra e cielo, persona e società, amore e solitudine, luce e tenebra sono, dunque, alcuni binomi strutturali della religiosità e della poesia di Luzi. Talora la sua ricerca teologica ha una stella polare 92


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esplicita, come accade nel caso di san Paolo. L’Apostolo domina con la sua Prima Lettera ai Corinzi nel saggio Glossolalia e profezia (1973) ove si celebra il contrappunto tra lingua statica e canto illuminato e mobile, la prima appannaggio della quotidianità, il secondo epifania della fede e della poesia. E nonostante il brusio incessante delle voci che chiacchierano e che stendono un sudario sonoro sul mondo, il cantico spirituale squarcia questo velo e risuona come uno squillo di tromba che risveglia le coscienze e trasforma le opere umane. Concludiamo questo bozzetto molto essenziale del poeta dei Fondamenti invisibili con una sorta di testamento, un testo da lui scritto occasionalmente: «Vorrei arrivare al varco con pochi, essenziali bagagli, / liberato dai molti inutili, / di cui l’epoca tragica e fatua / ci ha sovraccaricato... / E vorrei passare questa soglia/ sostenuto da poche, / sostanziali acquisizioni / e dalle immagini irrevocabili per intensità e bellezza / che sono rimaste / come retaggio. / Occorre una specie di rogo purificatorio / del vaniloquio / cui ci siamo abbandonati / e del quale ci siamo compiaciuti». Card. Gianfranco Ravasi Presidente Pontificio Consiglio della Cultura

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28 Febbraio 2015

Mario Luzi di fronte a Maria donna terrena, madre divina

È un gioco di fioretto quello che Mario Luzi legge nella Lauda di Jacopone da Todi Donna de Paradiso. È un duello veramente singolare, di cui sono protagonisti l’umano e il divino. È l’agón più decisivo che si sia combattuto sulla scena della storia, quello fra una giovane donna di Galilea e niente di meno che l’Angelo dell’Eterno. Che sia agone, e non gioco, che sia arco di fiamma rovente e non semplice «sacra rappresentazione», lo esprimono il genere e i termini della lotta: di lotta d’amore si tratta, ed è l’Amore infinito che interpella un cuore umano, quello di Maria, chiamandolo al dono sacrificale dell’amore più grande che cuore di donna abbia potuto esprimere. Acconsentire all’Eterno non è farsa, è dramma: resa all’impossibile possibilità di Dio, è un perdutamente consegnarsi nella dignità della fede oscura, atto irrevocabile una volta che sia stato posto. È incontro di «acquiescenza sommessa», di sottomissione liberamente accogliente e di abissale lontananza, che viene a farsi prossimità, vertigine intima dell’Annuncio: «Dov’è ora la sommessa acquiescenza, dove l’intima vertigine dell’Annunciazione?». Si incontrano nel «sì» della Donna, nell’«eccomi» di Maria. Posta in gioco dell’incontro è null’altro che il nostro destino, il riscatto offertoci dalla morte seconda, il dono divenuto possibilità di una vita mortale che sia fatta anticipo d’eternità. «Acquiescenza» è un consapevole accogliere, un libero assenso. Ne è convinto Mario Luzi: «Il senso del disegno per il quale era stata scelta le era rimasto ora più ora meno presente, ma non l’aveva mai abbandonata del tutto al dubbio o all’angoscia». La giovane Donna è creatura dell’ascolto, plasmata dalla fede d’Israele, educata così a farsi spazio del Dio vivo nella storia: «Shemà, Israel» – «Ascolta, Israele» – «Adonai Elohenu, Adonai Echad» – «Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno». Maria non si arrende, si affida, perdutamente fidandosi del Dio dell’alleanza, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, Dio fedele, eppur sempre sorprendente. Perciò la sua «acquiescenza» è «sommessa», come solo può essere la resa della 94


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fede: incondizionato fidarsi, irrevocabile affidarsi, inesauribile confidare nella fedeltà dell’Altro, Signore della promessa e del compimento da Lui stesso donato quando e come vorrà. Mario Luzi ha di Maria l’idea più fedele al dettato biblico della «donna forte», della credente che come i «poveri del Signore», gli anawim, si fida, si affida e confida nel Dio del patto, l’Adonai d’Israele. Tale Maria resta in tutto il suo percorso terreno, compagnia di discrezione vigile e di tenerezza immensa accanto al Figlio «beato», che sarà infine il Figlio «impiccato», «Figlio de mamma scura», di Madre addolorata, crocifissa nel cuore: «Il Vangelo – annota Luzi – la lascia intravedere, qualche rara volta, mentre segue a distanza gli spostamenti di suo figlio e gli incontri e le allocuzioni alle turbe, i prodigi per tutta la Galilea; e non tace di qualche momento in cui vorrebbe abolire quella distanza, avvicinarlo e parlargli». Umanissima Maria di Jacopone, perfettamente colta dalla sensibilità poetica di Mario Luzi come Madre capace di rappresentare ogni madre, donna terrena, prima che di Paradiso, icona dell’universale dolore delle donne chiamate a generare la vita inesorabilmente destinata a morire. Proprio così in lei, come in ogni amore materno, «tenerezza e soggezione si lasciano ugualmente cogliere in quel vivo – e dunque mutevole – rapporto», che è la prossimità femminile alla vita dei figli. Forza della fede e umana vicinanza, coraggio dell’assenso a un superiore progetto e apprensione di un cuore che visceralmente ama chi è stato nutrito dal proprio sangue nell’oscurità luminosa del grembo, si fondono in Maria. «Trascendente fermezza e apprensività creaturale erano mescolate» in Lei, come nota Luzi con potente resa di parole. E l’umano non scompare neppure nell’ora dell’offerta suprema: «Con sublime incoerenza si appella a suo figlio, invoca pietà da lui che è perduto», voce di ogni umano dolore, troppo umano per non invocare e attendere l’oramai impossibile dono... Questa umanissima Maria è il terreno d’avvento, il cuore liberamente accogliente dell’Eterno che ha voluto farla Sua dimora: sta qui «l’intima vertigine dell’Annunciazione», dove l’infinitamente Altro e Sovrano si è fatto uno di noi dentro la nostra storia, carne della nostra carne, uomo fra gli uomini. Vertigine di un’incommensurabile lontananza divenuta prossimità e di una scandalosa prossimità, che non ha consumato la trascendenza dell’Eterno. «L’incarnazione – osserva Luzi – per il poeta e teologo francescano non è stata certo simbolica: il resto discende di conseguenza. Il dramma esprime un massimo di concentrazione patetica». Solo se a farsi uomo è il Figlio eterno, la salvezza è entrata nella storia e vinta è la morte. Solo se quel Figlio di Maria è insieme l’Unigenito eternamente generato da Dio Padre, l’alleanza è compiuta e ai mortali è dischiusa la porta dell’eternità. L’umanissima Maria è la Madre di Dio, la Donna che ha generato nella carne il Figlio dell’Altissimo. Ed è questo connubio sorprendente, scandaloso agli occhi di chi non abbia fede, che rende Lei madre universale, 95


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Donna a cui ogni figlio d’uomo potrà rivolgersi perché Lei sa capire le nostre lacrime e lei, sola, può lenirle con la tenerezza materna, resa forte dalla potenza d’intercessione presso il Figlio nato dal suo grembo verginale. Come scrive Luzi, è «a questa immedesimazione totale con l’amore e con il dolore materno, vissuti senza privilegio e riserva» che è dovuta la devozione alla Madre di Gesù. «La sua mediazione, la sua intercessione per la quale è pregata dai fedeli non vengono da questa debolezza e da questa forza non manifesta?». Maria comprende perché ha conosciuto il dolore che solo una madre fino in fondo conosce. Maria intercede e interviene in maniera potente perché – donna delle lacrime – è stata l’oggetto di una «celestiale elezione». In quanto è Mater dolorosa richiama su di sé «la preghiera e la confidente attesa delle moltitudini. La pena solitaria e inconsolabile dell’uomo, la pubblica calamità che non vede scampo o rimedio portano ugualmente a pronunciare il suo nome». È la Maria di Jacopone, la Donna de Paradiso. È la Maria di Mario Luzi, il cui pianto davanti al Figlio morto è al contempo prossimità inesauribile a ogni umano dolore e prossimità salvifica a Colui che ha generato, dal quale solo viene a chiunque l’invochi e l’accolga la liberazione dal male e dalla morte. Mons. Bruno Forte Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto

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1 Marzo 2015

Il canto della «mamma scura»

«Figlio de mamma scura» queste parole erompono sulle labbra di Maria durante il «corrotto» nella lauda jacoponica. Dove è, ora, la sommessa acquiescenza, dove l’intima vertigine dell’Annunciazione? Il mistero, rimasto incomprensibile, si era allora un attimo illuminato della sua stessa irrefutabile prepotenza, e lei aveva chinato il capo. Più tardi, lo si nota seguendo il racconto evangelico che è e un po’ (ma quanto poco!) il suo racconto, il senso del disegno per il quale era stata scelta le era rimasto ora più ora meno presente ma non l’aveva mai abbandonata del tutto al dubbio o all’angoscia. «Perché figlio ci hai fatto questo» aveva recriminato a Gerusalemme dove, separati dalla folla dei pellegrini, i genitori lo avevano perduto di vista e, incurante dell’ansia dei suoi, il fanciullo si era fermato a disputare con i dottori del Tempio. C’era un rimprovero, una protesta muliebre a pieno titolo in quelle parole. Quella pena umana lasciava adito al pensiero della divinità del loro destino? La risposta del fanciullo era stata tagliente. Ma a Canaa lei era stata misericordiosamente, sì, ma autorevolmente nella sua parte. Il primo miracolo di Gesù aveva preso avvio dalla aspettativa e dalla certezza per non dire da una dolce intimazione di Maria. Il Vangelo la lascia intravedere, qualche rara volta, mentre segue a distanza gli spostamenti di suo figlio e gli incontri e le allocuzioni alle turbe, i prodigi per tutta la Galilea; e non tace di qualche momento in cui vorrebbe abolire quella distanza, avvicinarlo e parlargli. Gli emissari che vanno ad annunciarla (lei insieme con «i fratelli» di Gesù) le portano in risposta dinieghi: lui sa che il suo tempo è contato e non può concederne a questi indugi. Non ha udienze particolari o riservate: «I miei fratelli tutti quelli che fanno la volontà del Padre». Come lei riceve questi messaggi non è detto ma al di là di qualche trasparente amarezza tutto lascia pensare sia adeguata alla necessità messianica che si attua nel figlio suo, ma fino a che punto? Tenerezza e soggezione si lasciano ugualmente cogliere in quel vivo – e dunque mutevole – rapporto. Trascendente fermezza e apprensività creaturale erano mescolate, non possiamo dire se perfettamente perché ci sfugge il criterio e la misura di quella perfezione. 97


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Ma Jacopone vuole che la passione sia veramente e unicamente passione: la prescienza del sacrificio non diminuisce la sua reale e desolata gravità nel figlio, meno ancora nella madre. L’incarnazione per il poeta e teologo francescano non è stata certo simbolica: il resto discende di conseguenza. Il dramma esprime un massimo di concentrazione patetica, un buio episodio umano trova la forza di gridare la sua enormità. Questo e non altro riesco a vedere nella elementare e sintetica progressione narrativa (come rudi grani di un duro rosario) che apre la trenodia e risponde intanto alle elementari necessità drammaturgiche della lauda. Dalla cattura alla sentenza, all’esecuzione quella voce fuori campo, lancinante corale, comunica a Maria il crescendo delle violenze che si fanno a Gesù. Ciascuna è una coltellata al suo cuore materno e nello stesso tempo un’offesa alla sua mente di donna mite e saggia, a cui tali efferatezze riescono inconcepibili: per cui è in atto tra il coro e Maria implicitamente una protesta per quelle persecuzioni, per la loro spietata carica criminosa. Quelle crudeltà si operano e si consumano nella sua carne Si è stata, chiamata Donna de Paradiso e suo figlio è stato chiamato beato. Ma la forza di gravità del dolore sposta il centro nell’umano e solo nell’umano di questa prova. Al coro che, soverchiato dallo smarrimento e dall’ansia, sembra chiedere aiuto a lei, la più confusa, le prime risposte sono di incredulità. Non si capacita che quelle notizie si riferiscano a suo figlio («che non fece follia»): e subito il contraccolpo di tenerezza la induce, come nelle lamentazioni, a inventargli un prezioso attributo («Cristo, la spene mia»); senonché la brutalità dell’antefatto («Juda sì l’ha venduto») la convince che, sì, quella è la realtà. Il primo moto è di chiamare in aiuto Maddalena, da sola non le sembra di poter reggere a quel colpo. Seguono altri movimenti spontanei della confusione e della disperazione: «O Pilato, non fare / el figlio mio tormentare, / ch’io te pozzo mostrare / como a torto è accusato». E poi alle grida di accanimento della folla la toccante ingenuità della supplica: «Prego che me ’ntennate, / nel mio dolor pensate:/ forsa mo vo mutate / de che avete pensato». Ben presto le sue implorazioni di povera donna non hanno più destinatario possibile. La furia dell’evento si sviluppa in se stesso. Allora con sublime incoerenza si appella a suo figlio, invoca pietà da lui che è perduto. Ancora un gradino della delirante ricerca di soccorso, e ora è la croce che deve rifiutarsi di collaborare al martirio: «O croce, e che farai? / el figlio mio torrai?»; poi ripiega su una più rassegnata pretesa: «Se i tollete el vestire, / lassetelme vedire» . Particolare su particolare le viene descritta (in simultanea) la crocifissione... «E io comenzo el corrotto». Sarebbe vana ogni altra parola. È lo strazio di una donna che ha subìto la più atroce ferita. Il figlio, in questo momento non può lasciarla a se stessa, al suo disperato soliloquio: si instaura un dialogo in cui lei pensa alla morte («c’una aiam sepoltura») e lui 98


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al dopo, alla vita che lascia dietro di sé. Solo l’affidamento di lei a Giovanni ha nelle parole di Gesù, pur sobrie e ferme, una vibrazione patetica: «Joanni, èsto mia mate, / tollela en caritate, / àggine pïetate, / cà’l cor sì à furato». Dopo il dialogo ritorna monologo, diventa anzi insieme singhiozzo e rito finché, rivolgendosi anche lei a Giovanni perché qualcuno deve pur esservi a ricevere quella piena di dolore, in quella afflitta adozione di figliolanza, dice: «Or sento el coltello / che fo profetizzato». Per un attimo la donna si ricongiunge con la Madonna, torna ad essere la creatura prescelta per la gloria e per la sofferenza. Ma è un attimo, la “povera donna” prende ancora il sopravvento nella cupa desolazione dell’ultima quartina: «Che moga figlio e mate / d’una morte afferrate, / trovarse abraccecate / mate e figlio impiccato». Quanto deve a questa immedesimazione totale con l’amore e con il dolore materno, vissuti senza privilegi e riserva, la devozione a Maria? La sua mediazione, la sua intercessione per la quale è pregata dai fedeli non vengono da questa debolezza e da questa forza non manifesta? Il potente romanico del grande frate-poeta la assimila fino in fondo al destino della creatura; e solo per questa via ne fa riconoscere la celestiale elezione. Mater dolorosa, o come dice qui, «mamma scura»: ecco l’attributo che più ha richiamato su Maria la preghiera e la confidente attesa delle moltitudini. La pena solitaria e inconsolabile dall’uomo, la pubblica calamità che non vede scampo o rimedio portano ugualmente a pronunciare il suo nome. Mario Luzi

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4 Marzo 2015

L’inedito di Mario Luzi e la “poesia” che non muore mai

La poesia non è morta, anche se qualcuno lo ripete da tempo. Soffre soltanto per la crisi culturale che ci ha assaliti, la medesima che strozza giorno dopo giorno l’editoria; è difficile trovarla in libreria, come accadeva sino a un ventennio fa, riconoscerla, parlarne. La rete? Imprudente per ora rispondere perché la poesia, come la Chiesa, si regola con i secoli. Giovani poeti? Ce ne sono moltissimi. Una prova si è avuta a Firenze lo scorso 28 febbraio, a Palazzo Vecchio, nel Salone dei Cinquecento. Nell’ambito di un incontro per ricordare Mario Luzi a dieci anni dalla scomparsa, dove si è presentato un inedito del poeta (un commento alla lauda di Jacopone “Donna de Paradiso”, pubblicato a cura di Stefano Verdino in una plaquette realizzata da Paolo A. Mettel) sono stati premiati i vincitori della quarta edizione del premio “Firenze per Mario Luzi”. Ebbene: erano ragazzi delle medie e dei licei. Tutti hanno scritto poesie che poi hanno letto. Non erano banali, né scontate. Certo, le collane di poesia dei grandi editori fanno quel che possono. Se si esclude la regolarità con cui esce la serie di Einaudi (è appena uscita una nuova versione di Villon e poi “La misura dello zero” di Bruno Galluccio), il resto è affidato a piccoli editori fedeli. Quali, per esempio, Crocetti o La Vita Felice. Oppure ecco la poesia in raffinate collane di classici. Sembra lontana da noi, ma non lo è. Un esempio? Carocci pubblica una “Biblioteca medievale” giunta al 148° titolo. Vede la luce, a cura di Patrizio Tucci, “Charles d’Orléans e i poeti di Blois. Rondò di conversazione” (pp. 280, euro 38). Si torna al Quattrocento. Alla corte di Blois, appunto, il “Livre des Ballades de Monseigneur” diventò un testo collettivo: alla sua composizione parteciparono non soltanto le strofe del signore, ma anche quelle di altri poeti quali Alençon, Blosseville, Estienne Le Gout (era segretario di Charles), Torsy, il ricordato Villon oltre, ovviamente, il duca d’Orléans. Che dire? Innanzitutto che collane come 100


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questa di Carocci sono fonte di sorprese e scoperte: vanno sempre seguite. E inoltre che il passato ci può insegnare che la poesia non guarda i ceti sociali ma è aperta, disponibile, indispensabile. Il magnifico duca accanto al suo dipendente, Villon ladro e assassino, o qualche altro blasonato non si distinguono quando sono poeti. Armando Torno

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Indice

Indice

Premessa

di Stefano Verdino

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Appunto per Assisi

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La strada tortuosa

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Floriana

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Chi sa, forse c’è un luogo

Omaggio di Adonis all’amico Poeta da Il libro (Al Kitab)

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Suda questa calura

27

Fu lento

31

Si stese

37

Ed ecco torna a lui

43

L’amore

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Il pianto di Maria

Donna de Paradiso lauda di Jacopone da Todi

55 67

Il tempo umano è perenne vigilia

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Nota di Gianantonio Borgonovo

Appendice

Caro Mario, la tua poesia è vita

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da Il Corriere della Sera, 27 Febbraio 2010

Una poesia inedita di Luzi sulla «domenica di neve» da Il Corriere della Sera, 16 Marzo 2010

L’ultima poesia di Mario Luzi

da Il Corriere della Sera, 1 Marzo 2013

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Tutto l'amore di Mario Luzi da Il Sole 24 Ore, 9 Marzo 2014

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Mario Luzi di fronte a Maria donna terrena, madre divina da Il Corriere della Sera, 28 Febbraio 2015

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Indice

Il canto della «mamma scura»

da L’Osservatore Romano, 1 Marzo 2015

L’inedito di Mario Luzi e la “poesia” che non muore mai da Il Sole 24 Ore, 4 Marzo 2015

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duzione in cinese di alcuni versi tratti da rrestre e celeste di Simone Martini arricchita produzione dell’opera di Pietro Paolo co, A Mario Luzi - Terra ancora lontana, grafia su pietra, 1995, è stata fatta da ian Yang per onorare l’undicesimo anniversario della morte di Questa raccolta di plaquettes e inediti viene pubblicata Mario Luzi 2005-2016 dall’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo in

occasione del tredicesimo anniversario della scomparsa del Poeta (2005-2018).

Pienza, 28 febbraio 2016

 ASSOCIAZIONE MENDRISIO MARIO LUZI POESIA DEL MONDO

28 febbraio 2018 Città di Castello




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