Mario Luzi "Il pianto di Maria"

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Mario Luzi

Il pianto di Maria î ł con Donna de Paradiso lauda di Jacopone da Todi

Metteliana


Nino Lupica, Ritratto di Mario Luzi, San Gimignano, 1998.


Il pianto di Maria

«Figlio de mamma scura» queste parole erompono sulle labbra di Maria durante il «corrotto» nella lauda jacoponica. Dove è, ora, la sommessa acquiescenza, dove l’intima vertigine dell’Annunciazione? Il mistero, rimasto incomprensibile, si era allora un attimo illuminato della sua stessa irrefutabile prepotenza, e lei aveva chinato il capo. Più tardi, lo si nota seguendo il racconto evangelico che è anche un po’ (ma quanto poco!) il suo racconto, il senso del disegno per il quale era stata scelta le era rimasto ora più ora meno presente ma non l’aveva mai abbandonata del tutto al dubbio o all’angoscia. «Perché figlio ci hai fatto questo» aveva recriminato a Gerusalemme dove, separati dalla folla dei pellegrini, i genitori lo avevano perduto di vista e, incurante dell’ansia dei suoi, il fanciullo si era fermato a disputare con i dottori del Tempio. C’era un rimprovero, una protesta muliebre a pieno titolo in quelle parole. Quella pena umana lasciava adito al pensiero della divinità del loro destino? La risposta del fanciullo era stata tagliente. Ma a Canaa lei era stata misericordiosamente, sì, ma autorevolmente nella sua parte. Il primo miracolo di Gesù aveva preso avvio dalla aspettativa e dalla certezza per non dire da una dolce intimazione di Maria. Il Vangelo la lascia intravedere, qualche rara volta, mentre segue a distanza gli spostamenti di suo figlio e gli incontri e le allocuzioni alle turbe, i prodigi per tutta la Galilea; e non tace di qualche momento in cui vorrebbe abolire quella distanza, avvicinarlo e parlargli. Gli emissari che vanno ad annunciarla (lei insieme con «i fratelli» di Gesù) le portano in risposta dinieghi: lui sa che il suo tempo è contato e non può concederne a questi indugi. Non ha udienze particolari o riservate: «I miei fratelli sono tutti quelli che fanno la volontà del Padre». Come lei riceve questi messaggi non è detto ma al di là di qualche trasparente amarezza tutto lascia pensare sia adeguata alla necessità


messianica che si attua nel figlio – suo, ma fino a che punto? Tenerezza e soggezione si lasciano ugualmente cogliere in quel vivo – e dunque mutevole – rapporto. Trascendente fermezza e apprensività creaturale erano mescolate, non possiamo dire se perfettamente perché ci sfugge il criterio e la misura di quella perfezione. Ma Jacopone vuole che la passione sia veramente e unicamente passione: la prescienza del sacrificio non diminuisce la sua reale e desolata gravità nel figlio, meno ancora nella madre. L’incarnazione per il poeta e teologo francescano non è stata certo simbolica: il resto discende di conseguenza. Il dramma esprime un massimo di concentrazione patetica, un buio episodio umano trova la forza di gridare la sua enormità. Questo e non altro riesco a vedere nella elementare e sintetica progressione narrativa (come rudi grani di un duro rosario) che apre la trenodia e risponde intanto alle elementari necessità drammaturgiche della lauda. Dalla cattura alla sentenza, all’esecuzione quella voce fuori campo, lancinante corale, comunica a Maria il crescendo delle violenze che si fanno a Gesù. Ciascuna è una coltellata al suo cuore materno e nello stesso tempo un’offesa alla sua mente di donna mite e saggia, a cui tali efferatezze riescono inconcepibili: per cui è in atto tra il coro e Maria implicitamente una protesta per quelle persecuzioni, per la loro spietata carica criminosa. Quelle crudeltà si operano e si consumano nella sua carne. Sì, è stata chiamata Donna de Paradiso e suo figlio è stato chiamato beato. Ma la forza di gravità del dolore sposta il centro nell’umano e solo nell’umano di questa prova. Al coro che, soverchiato dallo smarrimento e dall’ansia, sembra chiedere aiuto a lei, la più confusa, le prime risposte sono di incredulità. Non si capacita che quelle notizie si riferiscano a suo figlio («che non fece follia»): e subito il contraccolpo di tenerezza la induce, come nelle lamentazioni, a inventargli un prezioso attributo («Cristo, la spene mia»); senonché la brutalità dell’antefatto («Juda sì l’ha venduto») la convince che, sì, quella è la realtà. Il primo moto è di chiamare in aiuto Maddalena, da sola non le sembra di poter reggere a quel colpo. Seguono altri movimenti spontanei della confusione e della disperazione:


O Pilato, non fare el figlio mio tormentare, ch’io te pozzo mostrare como a torto è accusato.

E poi alle grida di accanimento della folla la toccante ingenuità della supplica: Prego che me ’ntennate, nel mio dolor pensate: forsa mo vo mutate de che avete pensato.

Ben presto le sue implorazioni di povera donna non hanno più destinatario possibile. La furia dell’evento si sviluppa in se stesso. Allora con sublime incoerenza si appella a suo figlio, invoca pietà da lui che è perduto. Ancora un gradino della delirante ricerca di soccorso, e ora è la croce che deve rifiutarsi di collaborare al martirio: «O croce, e che farai? / el figlio mio torrai?»; poi ripiega su una più rassegnata pretesa: «Se i tollete el vestire, / lassetelme vedire». Particolare su particolare le viene descritta (in simultanea) la crocifissione... «E io comenzo el corrotto». Sarebbe vana ogni altra parola. È lo strazio di una donna che ha subìto la più atroce ferita. Il figlio, in questo momento non può lasciarla a se stessa, al suo disperato soliloquio: si instaura un dialogo in cui lei pensa alla morte («c’una aiam sepoltura») e lui al dopo, alla vita che lascia dietro di sé. Solo l’affidamento di lei a Giovanni ha nelle parole di Gesù, pur sobrie e ferme, una vibrazione patetica: Joanni, èsto mia mate, tollela en caritate, àggine pïetate, cà ’l cor sì à furato.

Dopo il dialogo ritorna monologo, diventa anzi insieme singhiozzo e rito finché, rivolgendosi anche lei a Giovanni perché qualcuno deve pur esservi a ricevere quella piena di dolore, in quella afflitta adozione di figliolanza, dice: «Or sento el coltello / che fo profetizzato». Per un attimo la donna si ricongiunge con la Madonna, torna ad essere la creatura prescelta per la gloria e


per la sofferenza. Ma è un attimo, la povera donna prende ancora il sopravvento nella cupa desolazione dell’ultima quartina: Che moga figlio e mate d’una morte afferrate, trovarse abraccecate mate e figlio impiccato.

Quanto deve a questa immedesimazione totale con l’amore e con il dolore materno, vissuti senza privilegio e riserva, la devozione a Maria? La sua mediazione, la sua intercessione per la quale è pregata dai fedeli non vengono da questa debolezza e da questa forza non manifesta? Il potente romanico del grande frate-poeta la assimila fino in fondo al destino della creatura; e solo per questa via ne fa riconoscere la celestiale elezione. Mater dolorosa, o come dice qui, «mamma scura»: ecco l’attributo che più ha richiamato su Maria la preghiera e la confidente attesa delle moltitudini. La pena solitaria e inconsolabile dall’uomo, la pubblica calamità che non vede scampo o rimedio portano ugualmente a pronunciare il suo nome.

Nota al testo Nelle carte, a suo tempo, donatemi da Mario Luzi ho ritrovato questo testo, presumibilmente inedito, di certo mai raccolto dall’autore. Ignoro l’occasione di questa lettura della celebre lauda jacoponica, né sussiste una datazione, anche se presumo si tratti di uno scritto degli anni Ottanta del ’900. L’originale (se così si può dire) consiste in cinque fogli di fotocopia, che riproducono un testo – con titolo autografo – dattiloscritto dallo stesso autore (con alcuni errori di battitura) e varie correzioni autografe, sia di refusi sia di variazioni testuali. Non è chiaro che testo della lauda Luzi usasse, in ogni caso le citazioni riproducono quelle del dattiloscritto. Stefano Verdino


Donna de Paradiso

«Donna de Paradiso, lo tuo figliolo è preso, Iesù Cristo beato. Accurre, donna, e vide che la gente l’allide: credo che lo s’occide, tanto l’ho flagellato». «Com’essere porria, che non fece follia, Cristo, la spene mia, om l’avesse pigliato?» «Madonna, ell’ è traduto: Iuda sì l’ha venduto; trenta denar n’ha avuto, fatto n’ha gran mercato». «Soccurri, Maddalena! Ionta m’è adosso piena: Cristo figlio se mena, com’ è annunzÏato». «Soccurre, donna, adiuta, ca ’l tuo figlio se sputa e la gente lo muta; hòlo dato a Pilato». «O Pilato, non fare el figlio mio tormentare, ch’io te pozzo mustrare como a torto è accusato».


«Crucifige, crucifige! Omo che se fa rege, secondo nostra lege contradice al senato». «Prego che me ’ntennate, nel mio dolor pensate: forsa mo vo mutate de che avete pensato». «Traàm for li ladruni, che sian suoi compagnuni: de spine se coroni, ché rege s’è chiamato!» «O figlio, figlio, figlio, figlio, amoroso giglio! figlio, chi dà consiglio al cor mio angustïato? Figlio occhi iocundi, figlio, co’ non respundi? Figlio, perché t’ascundi al petto o’ si’ lattato?» «Madonna, ecco la croce, che la gente l’aduce, ove la vera luce dèi essere levato». «O croce, e che farai? El figlio mio torrai? Como tu ponirai, chi non ha en sé peccato?» «Soccurri, piena de doglia, ca’l tuo figlio se spoglia: la gente par che voglia che sia martirizzato!»


«Se i tollete el vestire, lassatelme vedere, como el crudel ferire tutto l’ha ensanguenato!» «Donna, la man li è presa, ennella croce è stesa; con un bollon l’ho fesa, tanto lo ci ho ficcato. L’altra mano se prende, ennella croce se stende e lo dolor s’accende, ch’è più moltiplicato. Donna, li pè se prenno e chiavellanse al lenno: onne iontur’ aprenno, tutto l’ho sdenodato». «E io comenzo el corrotto: figlio, lo mio deporto, figlio, chi me t’ha morto, figlio mio dilicato? Meglio averiano fatto che ’l cor m’avesser tratto, che ne la croce è tratto, stace descilïato!» «Mamma, ove si’ venuta? Mortal me dài feruta, ca ’l tuo planger me stuta, che ’l veio sì afferrato». «Figlio, che m’aio anvito, figlio, pate e marito! Figlio, chi t’ha ferito? Figlio, chi t’ha spogliato?»


«Mamma, perché te lagni? Voglio che tu remagni, che serve ei mei compagni, ch’al mondo aio acquistato». «Figlio, questo non dire: voglio teco morire; non me voglio partire fin che mo m’esce ’l fiato. C’una aiam sepoltura, figlio de mamma scura: trovarse en afrantura mate figlio affocato!» «Mamma col core afflitto, entro le man te metto de Ioanne, mio eletto: sia tuo figlio appellato. Ioanni, èsto mia mate: tollela en caritate, aggine pïetate, ca’l cor sì ha furato». «Figlio, l’alma t’è ’scita, figlio de la smarrita, figlio de la sparita, figlio attossecato! Figlio bianco e vermiglio, figlio senza simiglio, figlio, a chi m’apiglio? Figlio, pur m’hai lassato! Figlio bianco e biondo, figlio volto iocondo, figlio, per che t’ha ’l mondo, figlio, così sprezzato?


Figlio dolze e placente, figlio de la dolente, figlio, hatte la gente malamente trattato! Ioanni, figlio novello, mort’è lo tuo fratello: ora sento ’l coltello che fo profitizzato. Che moga figlio e mate d’una morte afferrate: trovarse abraccecate mate e figlio impiccato». Jacopone da Todi

(Testo ripreso da: La letteratura italiana, Poeti del Duecento, Tomo II, a cura di Gianfranco Contini, 1960, Riccardo Ricciardi Editore).


MARIO LUZI

ED ECCO TORNA A LUI

COLOPHON

Questa plaquette è stata voluta dall’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo e dalla Lega del Chianti in occasione del decimo anniversario della scomparsa del poeta (2005-2015). È stata tirata in 701 esemplari di cui 700 su carta a mano Amatruda di Amalfi e 1 speciale per Papa Francesco su carta a mano Alcantara delle Cartiere Sicars di Catania. Firenze, Palazzo Vecchio 28 febbraio 2015

 Metteliana

Sotto l’ALTO PATRONATO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Si ringrazia:


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