Nel nome di Mario Luzi

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Fermo, quel giorno

Poeta di autocoscienza nazionale e di convergenze europee, è stato filtrato qui, da un rifugio mai quieto della provincia centritaliana, da una dignità di vita rinnovellata nella civiltà dell’amicizia. Amici come maestri veri. Tra questi l’aura luminosa che riesce a creare la presenza inerme di Eugenio De Signoribus, il poeta distante da Luzi per generazione e formazione, eppure a lui così consentaneo. Anche lui maestro in ombra nella comune solitarietà di ascendenza marchigiana, ossia leopardiana. In entrambi, il flusso vitale, il senso dell’avanzamento della lingua della poesia come dell’esistenza. Il movimento, inappagato, intrinseco al loro fare poetico che obbliga Luzi al tuffo nel magma ed Eugenio al grido nella Ronda dei conversi. Pellegrine le loro parole entro le stagioni diverse della proterva reiterazione del male, perché c’è sempre un’opera umana da compiere: interrogarci sino allo spasimo se siamo ancora testimoni o profeti dell’innocenza di Abele. Ferma, quel giorno del decennale, l’impressione che questa celeste affinità abbia sospinto Mario Luzi negli ultimi anni non solo a frequentare appena possibile sole e suono delle sue domeniche ascolane, ma a far lievitare negli anni la stima schietta verso la corale accolta fermana di Istmi e de La Luna. Da cui la corona di quegli incisori (Piccardoni, Cartuccia, Sanchini, Pazzi, Bartolomeoli, Torcianti) è tornata ad illuminare di forme i capitoli finora inediti del volumetto fermano. Con nota sugli artisti di Nunzio Giustozzi e letture poetiche di Piergiorgio Cinì.

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