Nel nome di Mario Luzi

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Incontri e convegni del Centenario 2014-15

NEL NOME DI MARIO LUZI

Milano, Duomo, Università Cattolica, Santa Maria delle Grazie Firenze, Badia Fiesolana, San Miniato al Monte, Salone dei Cinquecento

a cura di

Mendrisio, Museo d’Arte

NEL NOME DI MARIO LUZI

Pienza Roma, Biblioteca del Senato Fermo, Biblioteca Civica Genova, Biblioteca Berio e Museo Diocesano Con un testo di Mario Luzi Scritti di: Adonis, Paola Baioni, Carlo Carena, Marcello Ciccuto, Fabio Ciceroni, Anna Dolfi, Gianni Festa, Bruno Forte, Bernardo Gianni, Nunzio Giustozzi, Sergio Givone, Giuseppe Langella, Gianni Luzi, Marco Marchi, Massimo Morasso, Nino Petreni, Giovanni Ricasoli-Firidolfi, Guglielmina Rogante, Damiano Sinfonico, Armando Torno, Stefano Verdino, Sergio Zavoli.

Stefano Verdino e Paolo Andrea Mettel

Questa raccolta di atti e interventi nasce dal desiderio di non disperdere vari eventi occorsi nel lungo impegno del Centenario luziano 2014-15. Con Stefano Verdino abbiamo ripreso testi che costituiscono nuove prospettive critiche e di analisi del vasto ed inesauribile corpus dell’opera luziana, nell’intendimento che in sintesi accomuna tutti gli interventi: parlare, pensare, meditare nel nome di Mario. Il volume si apre con la parola di Luzi, con uno scritto disperso su Giotto e Cimabue in Assisi, breve quanto luminoso. Abbiamo fatto riferimento a molteplici avvenimenti succedutisi e organizzati in più luoghi e da più realtà culturali, tra cui l’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo, che per questo ha ottenuto da Giorgio Napolitano l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica. Noi speriamo di non aver tradito l’impegno sulla necessità di ricordare e nello stesso tempo di richiamare tutti, soprattutto le autorità preposte alla cultura, sul bisogno non più negoziabile nel tempo di progredire con celere determinazione nella conoscenza e diffusione della molteplice attività di Mario Luzi, scrittore sempre più nostro contemporaneo. Paolo Andrea Mettel

ISBN 978-88-908728-7-7

9 788890 872877

Metteliana Centro Stampa

Bibliografia e Cronologia

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In copertina:

Nino Lupica, Ritratto di Mario Luzi.




NEL NOME DI MARIO LUZI a cura di Stefano Verdino e Paolo Andrea Mettel

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TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941. ISBN 978-88-908728-7-7 © 2015 Paolo Andrea Mettel Centro Stampa di Meucci Roberto


Paolo Andrea Mettel Premessa Nel nome di Mario

Questa raccolta di atti e di interventi nasce dalla consapevolezza, anzi dalla necessità di non disperdere o peggio di dimenticare vari eventi occorsi nel lungo impegno del Centenario luziano idealmente confluito senza soluzione di continuità nel decimo anniversario della scomparsa del poeta. Con Stefano Verdino abbiamo, insieme, ripreso interventi significativi che evidentemente, pubblicati, diventano nuovi fuochi e prospettive critiche e di analisi del vasto ed inesauribile corpus dell’opera luziana, nell’intendimento non scritto ma che in sintesi accomuna tutti gli interventi: parlare, pensare, meditare nel nome di Mario. Ed abbiamo voluto aprire il nostro volume con la parola di Mario, con un intervento disperso su Giotto e Cimabue in Assisi, breve quanto luminoso. Abbiamo fatto riferimento a molteplici avvenimenti succedutisi e organizzati in più luoghi e da più realtà culturali, tra cui il Centro Studi Mario Luzi “La Barca” di Pienza, l’Associazione Culturale “La Luna” di Fermo, la Fondazione Giorgio e Lilli Devoto di Genova, e – naturalmente – l’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo, promotrice di molti appuntamenti, tra convegni di studio, mostre d’arte e di letteratura, rappresentazioni e letture (e ringraziamo Gianni Luzi per la collaudata vicinanza alle nostre iniziative). Per questo l’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo ha ottenuto nel 2014 da Giorgio Napolitano l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica per tutto il Centenario e per il successivo decimo anniver5


Paolo Andrea Mettel

sario della scomparsa del poeta. Proprio al Presidente Napolitano dobbiamo uno dei momenti più intensi del Centenario quando lo stesso volle ricevere chi scrive ed altri promotori culturali del centenario, intrattenendosi per oltre un’ora in colloquio privato con tema dominante Mario Luzi. Nell’ordinare il volume abbiamo a volte alterato l’ordine cronologico delle manifestazioni per offrire al lettore un più ordinato percorso nell’opera luziana – la poesia, le rappresentazioni, le mostre, le relazioni con altri poeti e la sua eredità – rubricando infine, in conclusione del volume, una serie di nuovi contributi critici che arricchiscono il quadro. Un commosso ricordo va all’amico Nino Lupica, che ci ha lasciato, ma che resta con noi in questo libro con il bel ritratto di Mario in copertina. Noi speriamo di non aver tradito l’impegno sulla necessità di ricordare e nello stesso tempo di richiamare tutti, soprattutto le autorità preposte alla cultura, sul bisogno, non più negoziabile nel tempo, di progredire con celere determinazione nella conoscenza e diffusione della molteplice attività di Mario Luzi, scrittore sempre più nostro contemporaneo.

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Telegramma del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, 21 ottobre 2014.



Mario Luzi Sublime umiltà corporale

Nella basilica di Assisi si dà convegno per un prodigioso appuntamento la pittura nascente d’Italia. Nascente, lo so, è parola impropria: non si trova mai il punto originario nella storia delle arti. Tuttavia non c’è altro modo per rendere la castità sacrale che circola più che mai tra le mura della chiesa francescana inferiore e superiore e avvolge ogni tipo di figurazione. Alcuni dei grandi artisti che hanno affrescato o abbellito con dipinti l’edificio hanno risposto al richiamo quando già erano al colmo della loro carriera e bravura; e tuttavia qui tutto è nuovo e incipiente, emerge da una nascita o da una rinascita: e questa, lo si respira, è insieme spirituale e artistica, talora genera talora rigenera le forme della ideazione devota nella pietà e nella letizia del Santo. Com’è semplice, com’è ardente e credibile il colloquio di preghiera e di comandamento tra Francesco e il crocifisso. Inutilmente il pittore ha voluto ingentilirlo nel suo prezioso contorno, la forza dell’atto risulta anche più imperiosa. La metafora dell’intimazione divina: «restaura la mia casa» non poteva essere più chiara, visibile, concreta. Non poteva essere più toccante la gracilità e l’interezza anche somatica del Santo che, chiamato, risponde a questo compito. Proprio la pietà e la letizia che erano in lui hanno reso amabili le creature nell’immaginazione degli artisti che evocavano le sue storie su quelle pareti. Amabili anche nel loro corpo, siano o non siano esemplari di piacevolezza esteriore. Anche il corpo è un dono, il soma è un’offerta nella 9


Mario Luzi

leggenda giottesca. C’è una levità luminosa nei volti delle donne e pensosa in quella degli uomini ed è sostenuta dal calore affettuoso della chiara spesso dolce massa corporea. La creazione per opera di quella carità ardente si reintegra, santificata tutta. Si avvera in Giotto questo prodigio che la presenza umana mentre è dipinta è anche meditata. Meditata la materia, meditata la carne degli attanti: e l’effetto su chi guarda è che essa sia nuova, visitata, inondata eppure umilmente ancora materia e carne, goffa e celeste insieme, la stessa sempre tribolata dagli affanni e dalla necessità del giorno. La bellezza e la luce emergono in questo caso dalla verità del sentire e non da ideali o regole. Anche la alta, araldica cifra della pittura senese si sostanzia qui di quella sublime umiltà corporale. ***

Questo scrivevo qualche anno fa nell’emozione e nell’incanto della pittura assisiate. Avevo toccato, me ne accorgo a distanza, un principio e una causa: avevo messo le mani su un seme nascosto, sì, ma nascosto paradossalmente in un nascondiglio perspicuo. Questo era il seme che aveva generato il pensiero della bellezza che a me sembra pensabile e desiderabile. La bellezza appunto che proviene dalla verità. Ne avevo avuto la rivelazione visibile in quei sommi maestri: Cimabue, Giotto, Simone e i loro collaboratori talora grandi. Ogni altro modo di pensare la bellezza mi pare accademico. Mossi da vari sentimenti e aspirazioni, è vero, molti l’hanno cercata e messa in cima alle loro ambizioni come se fosse un termine esistente, un punto riconoscibile da raggiungere e avesse magari i suoi canoni, le sue regole. Questi cercatori di bellezza, certo, hanno i loro meriti: la bellezza di quei cercatori di bellezza non è spregevole. Eppure quando nelle dispute e nelle notevoli teoriche si parla di bellezza come fine, perfino la si elegge a unica prospettiva salvifica del mondo, che cosa si vuole veramente dire? Perché rimango assolutamente estraneo o spaesato o incredulo di fronte a quella affascinante tesi? Proprio la nota assisiate mi spiega il mio disagio e placa il mio disappunto. La bellezza è solo quella fedele rispondenza del mondo com’è sen10


Sublime umiltà corporale

tito e pensato dalla creatura che ne è parte. La bellezza interiore all’uomo, solo l’anima dell’uomo con la sua letizia e i suoi turbamenti può dare alle cose della vita una verità e lì sta la bellezza. È la bellezza del vero che Leopardi ha fatto amare relegando tra le anticaglie la bellezza presunta1.

1 Edito con il titolo redazionale Giotto e Cimabue, bellezza del vero su “Luoghi dell’infinito”, IV, 29 aprile 2000, pp. 44-45. Si propone qui il testo del file originale rubricato come “Assisi 14-02-2000” (s.v.).

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Caro Babbo

Caro babbo questi ultimi due anni sono stati sia il Centenario della tua nascita che il Decimo Anniversario della tua morte e molteplici sono state, sono e saranno le manifestazioni pubbliche per celebrarli, da quelle solenni a quelle quasi spontanee, da quelle molto serie a quelle più abborracciate; io me ne compiaccio per te soprattutto e un po’ anche per me. Voglio ricordare tra tutti il ricco programma organizzato dall’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo che ha toccato Milano, Firenze, Pienza più volte, il contributo delle istituzioni sia pubbliche che accademiche, i convegni internazionali come quello della Penn University nonché le mostre come Mendrisio, Pienza e Siena.

Scorgo in tutti gli attori di queste manifestazioni, convegni, serate la volontà di farti onore avendo essi compreso la tua statura di poeta, di intellettuale e soprattutto di uomo; scorgo anche in molti la vanità che li porta a voler farsi protagonisti attraverso di te e ricavarne una qualche sorta di vantaggio come la maggior visibilità o qualche altro titolo; ne sorrido insieme a te ma comunque apprezzo i contributi di tutti.

Tornando invece a noi, non posso non rimpiangere che il nostro rapporto sia stato così incompleto (credo che sia tipico di quasi tutti i rapporti padre-figlio), non posso non rimpiangere tutte le cose che non ci siamo dette, tutti i temi che non abbiamo approfondito, insomma tutta quella parte di vita che non abbiamo condiviso. Questo è avvenuto certo per le circostanze della vita, ma forse anche per colpa nostra, sia mia che tua. 13


Gianni Luzi

Tutto questo ci ha portato a vivere due vite quasi parallele che però si incontravano talvolta trovando grande comunanza di valori morali e civili, ma che reciprocamente ignoravano quasi del tutto l’una dell’altra. Molto tempo era passato dal tempo dei giochi. Quante cose non ci siamo dette babbo.

Oggi però che con calma e serenità rileggo le tue cose e comprendo ancor di più la tua statura di gigante del pensiero del novecento sempre nel fuoco della controversia filosofica e religiosa, nonché quella di poeta vario e spesso sublime, poiché so che tu mi vedi da non so dove, penso proprio che possiamo dircele queste cose. Tuo Gianni

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Stefano Verdino Introduzione Il centenario di Mario Luzi

In una poesia del Simone Martini si legge drasticamente: «Di quel flusso di vita / l’opera appena tratteneva il segno. / Perdeva senso l’opera, certezza / il mio essere stato». La poesia prosegue in termini di spogliazione (e non di nullificazione) rimandando ad un’altra orbita con un allegro ammiccamento dantesco («quando / quando, Dante / la rivestita carne alleluiando?»), secondo la desueta lezione Casini Barbi del ’21 («rivestita carne» e non «revestita voce» come legge Petrocchi), quella da lui sempre praticata fin dalla giovinezza. La fede – sempre più eccitata e incalzante negli ultimi anni – era per qualcosa di diverso dalla memoria letteraria e sempre più Mario sapeva l’insufficienza della parola a testimoniare il mondo, nondimeno la sfida al dicibile era in lui sempre prorompente e vitale. Era il suo destino. E come tale orgogliosamente difeso: umiltà francescana ed orgoglio foscoliano combattevano in lui una costante partita; spogliazione e rivendicazione poetica si animavano l’un l’altra, così come solennità e vocalità presidiano i suoi versi. Il centenario del 2014 e il presente 2015 (decimo anniversario della scomparsa) sono le occasioni di fare il punto su cosa resta di una lunga e vastissima carriera poetica, e non solo: si pensi al drammaturgo, al prosatore, al traduttore, al recensore, scopritore della narrativa sudamericana, che ha un giusto spicco nell’antologia La critica letteraria nel Corriere della Sera (curata da Mauro Bersani nel 2013); per quanto sia forte lo struggimento della perdita per sempre di quell’uomo ‘luminoso’ (come lo appellò George Steiner), che molti abbiamo conosciuto. 15


Stefano Verdino

Voglio partire da dati concreti, ad esempio dall’udienza internazionale di Luzi, oggi; se in Francia – dove era già stato quasi tutto tradotto in vita – possiamo registrare la sua presenza antologica nei pocket di poesia Gallimard (Prémices du désert, 2005), è certamente la lingua spagnola ad aver rappresentato una nuova casa per la poesia e la saggistica luziana con le traduzioni di Coral García Rodríguez (Primicias del desierto Madrid, Hiperión, 2006, e Desde el fondo de los campos, Badajoz, Fundación Ortega Muñoz, 2010), di Pedro Luis Ladrón de Guevara Mellado (Ensayos críticos sobre literatura, EUNSA 2007), di Jesús Díaz Armas (Vida fiel a la vida, Antología poética, Edité par Galaxia Gutenberg, S.L., 2010), di Luis Servera Sitjar (La passiò, Palma di Maiorca, Muntaner, 2010) ed infine Francisco Deco (Honor de la verdad, Linteo, 2012). Ma va registrato anche un Luzi rumeno (Conoscenza per ardore = Cunoastere prin ardoare / antologia poetica italo-romena e postfazione a cura di Geo Vasile, Iaşi, Feed Back, 2010), uno magiaro (Magyar Napló, Budapest, 2008), uno nipponico (Vola alta, parola, Shichò -sha, Tokyo, 2009), a cura di Yasuko Matsumoto, e un’importante antologia con testo a fronte in tedesco: Auf unsichtbaren Grunde, tr. Guido Schmidlin, Munchen, Hanser, 2010. Infine Luigi Bonaffini, benemerito di tanti libri di poesia luziani tradotti in inglese, ha pubblicato nel 2013 Under Human species, presso Green integer. Un quadro – come si vede – più che confortante, speculare all’interesse della critica verso la complessa ‘macchina’ dell’opera luziana, visto che in questi dieci anni sono circa una ventina le monografie o raccolte di saggi volte a mettere a fuoco le varie stagioni poetiche (i libri di Cucinotta, Castellani, Maino, Tordi Castria e altri), il drammaturgo (Modesti, Piazza, Ventura), il francesista (Toppan) e il lettore dei poeti tedeschi (Menicacci), il pensiero poetante (Medici, ancora Menicacci) fino agli ultimi contributi, tra cui ricordo la raccolta di scritti luziani di Marco Marchi, la monografia di Gianni Festa che mette in luce nuovi aspetti sulle fonti religiose di questa poesia (Il discepolo e lo scriba : i “fondamenti invisibili” della poesia di Mario Luzi), l’insieme degli scritti di Giuseppe Nicoletti (Cinque pezzi facili per Mario Luzi), all’insegna di una lunga fedeltà, ed il libro luziano (“Sia grazia essere qui” – Intorno a Mario Luzi) di un altro suo lettore ed interlocutore d’eccezione come Silvio Ramat. Per non dire di volumi collettivi e atti di convegno (a cura di Pegorari per Palomar, di Motta per Interlinea, di Baioni e Savio per Storia e Letteratura 16


Introduzione. Il centenario di Mario Luzi

e i vari in corso di stampa per cui vedi la Cronologia in questo volume), di fascicoli monografici di riviste (da «Nuova corrente» a «Istmi» alla «Rivista di letteratura italiana», ecc.), di articoli su giornali e periodici, di testi vari online (per le statistiche di Italinemo è la sesta voce di ricerca dopo Ungaretti, Dante, Leopardi, Petrarca, Pirandello, in un testa a testa con Montale). La poesia di Luzi è anche stata di recente ben presente in libri per così dire da edicola, a vasta tiratura, con l’antologia Mondo in ansia di nascere (2012), curata da Daniele Piccini per i libri di poesia del «Corriere della Sera» (nella stessa collana si può anche leggere la versione di Luzi dell’Antico marinaio di Coleridge), mentre nel 2013 è stata affidata all’edicola in tre tometti una ristampa del Meridiano Mondadori. Le iniziative del centenario sono rampollate nelle varie lande del paese, anche come giusto tributo di memoria all’uomo che non si è certo risparmiato, nel percorrere la penisola per incontri e conferenze, in città e paesi. E la profonda connessione ‘territoriale’ della sua poesia di incessante ‘viaggiatore’ ha avuto la simpatica rispondenza nelle non poche ‘cittadinanze onorarie’ che gli furono tributate. Così da Ravenna a Fermo, da Parma a Verona, da Genova a Ivrea, da Roma a Pescara, si sono moltiplicati i segni d’attenzione, solo per conteggiarne alcune al di fuori della ‘sua’ Toscana. C’è un uso ‘popolare’ dei versi di Luzi che non dispiace affatto, come si può notare scorazzando in rete, tra episodi privati e pubblici, ad esempio la lettura di poesie di Luzi (con Pasolini e Sanguineti), a Brescia, in maggio 2014, per il quarantesimo della strage di piazza della Loggia. Tra le realizzazioni più interessanti dell’annata segnalo il documentario di Marco Marchi, In Toscana, un viaggio in versi con Mario Luzi (regia di Antonio Bartoli e Silvia Folchi), agile video che ripercorre quello stretto nesso territoriale della poesia luziana che si diceva. Varie le messe in scena di pièces luziane, da Opus florentinum per la regia di Giancarlo Cauteruccio, ad Ipazia, per la regia di Roberto Zorzut, al Fiore del dolore, per la regia di Pietro Carriglio; vanno naturalmente aggiunte le molte letture pubbliche, tra cui varie dedicate alla Passione. A Mendrisio, a cura del Museo cittadino e dell’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo, hanno avuto luogo nel 2014 due fondamentali 17


Stefano Verdino

mostre luziane, che poi – conglobate – sono state riproposte a Pienza e a Siena, mentre ulteriori mostre documentarie e d’artista si sono tenute ancora a Siena, presso la Biblioteca degli Intronati, a Genova a cura della Fondazione Giorgio e Lilli Devoto, a Firenze presso il Vieusseux, a Fermo alla Biblioteca Comunale, a Castellanza. Finalmente, uscite dai limbi della burocrazia, le carte del poeta – che Gianni Luzi, all’indomani della morte del padre, aveva generosamente depositato presso la Regione Toscana – hanno trovato collocazione al Gabinetto Vieusseux, che ne sta provvedendo all’inventario. Non sono tempi di Opere complete (difficili da realizzarsi con un autore tanto vasto), ma il centenario ha comunque offerto importanti appuntamenti: da Aragno sono uscite le Prose (secondo un piano ideato dallo stesso Luzi nel 2004, con una appendice di testi nuovi) e Garzanti ha licenziato nei Grandi libri l’insieme dei Versi ultimi (Sotto specie umana, Dottrina dell’estremo principiante, Lasciami non trattenermi e in Appendice Poesie ritrovate ed altri inediti rari). A questi possiamo aggiungere la raccolta degli scritti religiosi Su ‘la parola di Dio’ curati nel 2010 da Paolo Mettel e la riproposta di Autoritratto per Metteliana, benemerita di molte plaquette luziane a tiratura limitata nel corso di questi anni, mentre alla marchigiana Associazione La Luna si devono varie carte d’artista promosse da Eugenio De Signoribus. Tra le edizioni da farsi, a mio avviso, bisognerebbe por mano ad un volume del teatro che riprenda quello garzantiano del ’93, integrato dai pezzi mancanti (Pietra oscura, Felicità turbate – sul Pontormo, Ceneri e ardori – su Benjamin Constant, Il fiore del dolore – su don Puglisi; Parlate, raccolta di monologhi scenici e frammenti della versione dell’Amleto), così come riprendere e integrare La cordigliera delle Ande (1983), silloge delle sue traduzioni. Per la saggistica il discorso è più complesso, data l’ampiezza del suo arco che va dalla francesistica all’italianistica, alla recensione, alla critica d’arte e cinematografica: un arcipelago in parte inesplorato perché la mancanza di una bibliografia degli scritti – altra urgentissima impresa – non dà certi confini e varie scoperte sono possibili, come un Luzi attento alla critica psicanalitica (e in particolare a Mauron) già nel 1950 in un elzeviro su «Il Popolo», così come c’è un Luzi lettore di romanzi sorprendente (Henry Miller, Musil, i Sudamericani); forse un’antologia attenta a queste varie tastiere 18


Introduzione. Il centenario di Mario Luzi

potrebbe avere un senso. Poi ci sarebbero le molte interviste, oltre quelle fatte (1980-2004) e ora raccolte da Giorgio Tabanelli per Marsilio (Il lungo viaggio nel Novecento, storia politica e poesia Mario Luzi). Credo, alla fine di questo discorso, ci manchi ancora parecchio per una piena focalizzazione del ‘continente’ Luzi: bisogna dotarsi di strumenti come la bibliografia e le concordanze (in progetto dall’équipe di Giuseppe Savoca dell’Università di Catania), nonché lavorare di specifici commenti ai testi. Anche difendere Luzi dai suoi ammiratori, che a volte scorciano troppo il suo viaggio verso la luce e il sublime, dimenticando le zone d’ombra e di grumo, in contrappunto. A inizio d’anno 2014 si è letto sul “Foglio” un contropelo di Alfonso Berardinelli, che fatto salvo Nel magma, liquida l’ultimo Luzi come poetese retorico, bisognoso di prosa; penso che una migliore conoscenza della ‘vera’ prosa di Luzi (narrativa e saggistica) e del traduttore non guasterebbe a dare il quadro di una figura non riducibile al solo fatto poetico. E comunque – rimanendo in questo ambito – c’è un Luzi – come già diceva Caproni per Montale – secondo “misura e statura”, un poeta del Novecento, ma non solo; caparbio erede e custode della tradizione letteraria e di molteplici pelli: dal giovanile surrealismo (perché non chiamarlo così, invece di ancorarsi alla pigra etichetta ermetica), al bianco e nero dei fotogrammi anni ’50, all’unicum di Nel magma, alla fase poematica, incessante, in cui l’impasto è tra solennità e voce, inscindibili, come tra luce ombra, parola e non detto muove il verso.

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Sergio Zavoli Incontri con Mario

Biblioteca del Senato Roma, 22 ottobre 2014



Anch’io ho un mio piccolo ringraziamento da rivolgere a tanti che hanno avuto la bontà di coinvolgermi, in un momento così bello, così alto per la vita del nostro paese, in un tempo che francamente non ci descrive nelle forme che noi ameremmo onorare, nel fatto di essere proprio di questa terra, con i suoi problemi che certamente sono comuni a tutto il resto del mondo, anzi, privilegiati, noi, che possiamo contare su una civiltà più che convenuta, non solo nei testi, ma proprio nel circolare del pensiero umano in ogni parte della terra: basterebbe il nome di Dante per unirci. Io sono di Ravenna e a Ravenna ogni giorno arrivano da ogni parte del mondo i ragazzi dell’ultima generazione, che vengono a portare ai cittadini italiani il segno della loro partecipazione a qualcosa che abbia la natura per durare nel mondo della poesia, quindi vengono a Ravenna per onorare Dante con le traduzioni della Commedia, nelle varie lingue dei loro paesi. Se questo è vero, c’è un motivo per credere che avesse ragione Sant’Agostino. Io non sono propriamente del ramo, però mi pare che sia stato un santo di una laicità straordinaria, se è lecito dirlo, e certamente di una grande modernità, quando diceva alla sua gente – che protestava e inveiva a volte contro le disuguaglianze, le povertà mai lenite, i dolori sopportati, eccetera – che da due pericoli occorrerebbe ugualmente guardarsi: dalla disperazione senza scampo e dalla speranza senza fondamento. Ecco, mi pare che in questa giornata, in un pomeriggio disadorno, che non ha attrattive, abbiamo pensato di dedicare un momento alto di riflessione e di condivisione intorno a un valore che non si può esibire, se non nel rigore del pensiero, della ragione e anche della spiritualità. A questo atteg23


Sergio Zavoli

giamento si unisce, e mi ha molto colpito, la testimonianza di Giorgio Napolitano. Io non sono estraneo alla bellezza della sua lingua (o del suo linguaggio, per meglio dire), tutte le volte che si impegna sul terreno della coesione, una parola che gli sta molto addosso, perché è l’uomo della condivisione, dello stare insieme, un po’ sull’idea di don Milani, il quale diceva che la politica è uscirne insieme. Questo messaggio che ci ha mandato in questa circostanza ci riempie veramente di consolazione e ci fa dire che probabilmente persino noi possiamo essere un motivo di quella speranza cui alludeva Sant’Agostino. Io ho raccolto nel tempo più bello della mia vita, forse perché coincideva con un margine di giovinezza ancora pieno di energie, di entusiasmi, sogni, eccetera, un’amicizia: quella con Luzi; discreta, rispettosa da parte mia, indulgente, tollerante e incoraggiante, da parte sua. Ero, indegnamente, presidente del premio di poesia intitolato a Dino Campana. Ricordo come ci intrattenevamo non sempre e non soltanto sulla poesia, ma attraverso la poesia, tentando io – e lui cercando di venirmi dietro – di mettere a fuoco i motivi che dovevano animare un grande poeta, in un paese come questo, che aveva finito per tradire tante parti di se stesso, abbandonandosi al criterio dell’utile, del pratico, del conveniente, che pareva essere diventato una nuova disciplina, anche morale, forse persino estetica, di questa comunità di italiani che non si ritrovava più nella storia del proprio paese, o della propria patria. Allora io avevo appena finito di registrare talune inchieste che si rivolgevano alla gente che aveva voglia di capire di che razza siamo e che cosa vogliamo fare di questo nostro paese. Luzi mi pareva una testimonianza morale e civile, degna di essere ascoltata, quindi premevo perché si dedicasse a concedermi qualche opportunità per indagare in questo senso, sul destino anche del nostro paese. Fra le tante interviste che gli ho fatto, ce ne sono alcune che hanno trasparenze meno evidenti, meno clamorose; d’altronde, non è stato mai un retore, un declamatore, non era mai abrasivo, neppure nell’invettiva, aveva sempre quel tono rispettoso della parola, dei sentimenti e della buona grazia, in sostanza. Ne ho tratto la convinzione che è stata trascurata, di Luzi, una qualità che io oserei chiamare profetica. Badate: non intendo usare questo termine nei suoi significati più virtuosi, ma profetica proprio nella sua percezione 24


Incontri con Mario

di ciò che andava male e del pericolo che si correva. Io ricordo un’espressione sua in particolare: «il pericolo non è più il pericolo, è la mancanza di percezione del pericolo». E allora, prendendo le mosse da questa premessa, ricordo che cominciammo ad intrattenerci l’un l’altro con delle domande e delle risposte che avrebbero messo insieme un testo che oggi vorrei presentarvi in questa sintesi, nella sua parte in grande misura inedita, raccolta nei miei quaderni, nei miei appunti, dove si ritrova la presenza di quest’uomo che descriveva l’Italia, l’Italia com’è, l’Italia di oggi. Partirò dicendo che la scomparsa di Mario Luzi ci lascia privati fondamentalmente di una misteriosa porzione di bene, di salute, di armonia e di fiducia. Con lui è venuta meno una tra le voci più alte della poesia del Novecento, la cui cifra morale, la professione civile e la tonalità religiosa restano i tratti più forti. La terra come luogo anche dell’anima, i fermenti e i diritti della nostra esistenza, le ragioni della storia. Tutto richiamato, avvalorato, consacrato nel ciclo spirituale che muove dalla creazione, al tempo stesso rivolto alla persistenza del male come scandalo dell’uomo di fede e alla nostra storia come obbligo di parteciparvi con le armi della libertà, della giustizia e della pace e a condizione, aggiungeva, che la storia non debba essere ciò che tutto divora e chiude ogni discorso, perché allora saremmo di fronte a un’altra divinità che susciterebbe più orrore di quanto nella sua povera e tragica incongruenza merita la vicenda degli uomini. Io penso allora alla consolazione di aver trovato nel mio cammino intorno alle questioni e agli uomini della letteratura, della poesia in particolare, quanti vi si sono dedicati pienamente come molti di voi, per esempio, il professore Alberto Brandani, il senatore De Poli, che ha tenuto molto che questa cerimonia avvenisse nei termini più rigorosi, più semplici. E poi, naturalmente, Le Formiche, l’Isola d’Elba, il professor Verdino, il dottor Paolo Mettel con il dottor Armando Torno. Ho ripensato allora che valeva veramente la pena procedere su questa trama della mia interpretazione, e ho ripensato a quella che Teilhard De Chardin chiamava la «santa materia», cioè noi, la gente, l’uomo, con una trascendenza, anche verso il basso. Da qui forse per Luzi è venuta la sua franca testimonianza civile, sempre più presente e viva dopo il lungo indu25


Sergio Zavoli

gio delle oscurità dell’ermetismo, con un trapianto drammatico, a volte persino epico, nella versificazione lirica, che rappresentò il passaggio di una poesia dei giorni e della storia in quella orfica, senza tempo, dell’immaginazione insomma. L’uomo e il poeta avevano conosciuto una continua agonia, nel senso etimologico di lotta, quella che Geno Pampaloni in Palazzo Vecchio – il giorno in cui gli conferimmo il più prestigioso dei nostri riconoscimenti, alla poesia (ho già citato prima il Campana) – chiamò una guerra dolorosa e trionfale, che ha in sé la sofferenza e la speranza, la solitudine e la comunione, la disperazione e il bisogno di non morire del tutto fra le ombre della storia e della vita. Perché tutto – e qui è Luzi a riprendersi la parola – non appartenga alle verità occultate come l’uomo, proprio nelle pieghe della storia e della vita. Ricordo la prima delle domande che io gli feci un giorno: “perché temi che la storia possa prendere per sé tutta la realtà e decidere di tutto, a volte parrebbe persino di Dio?”. Ne venne una risposta davvero epocale, che investiva ogni cosa: «Su questo tema – disse – hanno battuto la testa tutti i più grandi intelletti, tutte le più alte cime del pensiero laico e religioso, assillate dalla propria eticità, sebbene si possa sensatamente argomentare che la coscienza umana sia andata via via affinandosi, e per questo la consapevolezza del negativo sia diventata più suscettibile; tuttavia, il male perdura e in un certo senso prolifera e si moltiplica. La possibilità di conoscerlo e di farlo si moltiplica con un’incontenibile evoluzione tecnica: foto e immagini filmate e teletrasmesse illustrano scempi, stragi, abnormità che ci rimanevano finora sconosciuti e che ci era difficile credere possibili, favorite dalla potenza dei mezzi che la forza dell’immagine ha poi munito di un sinistro potere di fascinazione». Fra la coscienza avvertita e la brutta crescita del male, quale porta è aperta, si chiedeva Luzi: «sono due realtà incomunicanti, o è la prova a cui viene sottoposto l’arbitrio umano a essere ora vittorioso, ora, troppo spesso, destinato alla sconfitta? È il mistero che scioglierà questo nodo? Non credo sia tenuto a spiegarcelo, nei termini usuali, la nostra ragione. Ce lo confermerà forse proprio come mistero una forma di conoscenza alta, alla quale dovremmo essere aperti». 26


Incontri con Mario

Questo che noi viviamo, incalzai, è un periodo di trionfale scientismo, che fa prevalere il come sul quando e sul perché. Se è così, in che cosa si avanza e si arretra? Quel periodo che durava da molti decenni sta in verità declinando. Lo scientismo non è più così trionfale, troppi disinganni e troppi dubbi lo hanno inquinato. Diceva Luzi: «è cresciuta la consapevolezza che il non sapere si accresce in proporzione geometrica con il sapere e si fa strada forse il mistero come forma altra di conoscenza, non per rassegnazione, dunque, ma per la dilatazione possibile nel campo della conoscenza. In ogni caso, la scienza non è possibile lasciarla al diavolo, non è con la diffidenza e con il sospetto che si ricompone il dissidio insorto in tempi non aperti, non equamente ispirati. E non è con il tacito pregiudizio che si risana la dismisura prodottasi tra bisogno e attesa reale da un lato, e la neutra disponibilità dall’altro. Credo che questo dramma si sia perpetuato proprio perché lo spirito si ritraeva dal terreno del confronto, lasciando adito alla sua negazione e persino al fanatismo». Quale destino assegni ai tuoi versi? Gioveranno a qualcuno? O sono nati per essere quello che sono, senza una particolare finalità? Se il fin dell’arte, fosse questo, continueresti a scriverli? E lui: «di quando in quando, qualcuno mi confida di aver ricavato beneficio dalla lettura dei miei versi, e io stupisco. Ma comprendo che quella a me stesso inconfessata speranza, mi aveva sostenuto nel mio lavoro e che sarebbe mostruoso, senza di essa, continuare a occuparsi di poesia. L’importante è che attraverso di essa passi qualcosa di più di quanto io possa averci messo. Come si potrà riavere un mondo che ci corrisponda più di quello di oggi? Comincio a pensare che il senso chiaro della realtà possiamo averlo solo avendo ben fermo un parametro interno, sia esso un retaggio, sia una volontaria costruzione morale. Non avendolo né dell’una né dell’altra specie, non di rado si scivola e si finisce in quelle sabbie mobili in cui le distinzioni non sono nette, tutto è pressappoco uguale a tutto e dunque realtà e realtà si confondono. Così, pur non avendo né rubato né assassinato, ci siamo più o meno consapevolmente adattati a vivere nell’illegalità, diffusissima illegalità: corruzioni o trasgressioni minime capillari, dal lassismo favorito o tollerato della irregolarità delle procedure, all’escamotage, alla frode. Ho avuto le mie indignazioni. Ho anche alzato la voce proprio perché 27


Sergio Zavoli

arrivasse la mia protesta contro chi lasciava che venissero accantonati i beni più gelosi della nostra storia comune: i sogni, le sofferenze, le speranze dei nostri padri. Ma quando lo strumento è spuntato, inefficace, vale forse più la pazienza, il lavoro, il cuci e scuci dei muratori, degli educatori, dei sinceri catechisti (esclusi i retori e i tribuni), ricominciare daccapo, dai fondamenti – ora che crollano gli edifici di cartapesta – da parte di chi in questo paese conserva un po’ di umiltà». Le parole qua e là profetiche che qui ho sommessamente raccolto, ci fanno capire che parlare di Luzi, qualunque ne sia l’occasione, impegna a capire perché l’uomo, anche in questo simbolico luogo, ha lasciato un segno di quella ostinata, quotidiana battaglia che tutti i giorni combattiamo per la più controversa, amata e sempre più pericolante per le nostre fatiche, cioè per la ricerca di una misura reale e comune del vivere. Avevo da poco ricevuto una sua lettera serena, quasi allegra. Poi l’ho rivisto in Palazzo Vecchio, dove Firenze festeggiava i suoi novant’anni; pochi giorni prima, grazie al Presidente Ciampi, c’era stata l’investitura senatoriale. Si congedava come rimpicciolito sotto la curvatura degli anni, densi e onerosi, attraversati sin qui, fino a consegnarsi, credo, in pace, alla parola cruciale, magari con la “p” minuscola, la più corrusca, la più violata, la più umana. “C’è una pace da ritrovare – aveva detto – non solo nei sacri ambulacri della ragione, ma anche nel recinto grandioso delle nostre volontà più profonde e da noi stessi troppo spesso inascoltate”.

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Giovanni Ricasoli-Firidolfi Un saluto e un ricordo

Luzi tra colline di Toscana e memoria di Dante – giornata di studio Firenze, 28 febbraio 2015



Il 28 febbraio 2015 si è tenuto a Firenze un importante convegno per celebrare il poeta fiorentino Mario Luzi nel decimo anniversario della sua morte (2005-2015). Come auspicato in quella sede, nel saluto introduttivo che ho avuto l’onore di pronunciare in qualità di Capitano Generale della Lega del Chianti e Presidente dell’omonima Fondazione Onlus, co-organizzatrice dell’iniziativa assieme al Comune di Firenze ed all’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo, sono felice ed emozionato di vedere raccolti in questa pubblicazione gli interventi degli illustri relatori che hanno preso parte alla tavola rotonda nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, cuore della vita civica e culturale della città. Il mio personale ricordo di Mario Luzi risale alla mia giovinezza ed alla sensibilità per l’arte e la poesia che mia madre seppe generosamente trasmettermi. L’interesse per la poetica di Luzi trovò ulteriore sostegno e stimolo in Carlo Cirri, storico Addetto alla Cultura ed al Cerimoniale, che ha rappresentato per me una guida premurosa e competente nel mio percorso all’interno della Lega del Chianti. Quando nell’ottobre del 1998 fui eletto per la prima volta Capitano Generale di questa antica istituzione, fu per me quasi una priorità riuscire, grazie al mio nuovo ruolo “sul” e “per” il territorio, ad entrare in contatto con Mario Luzi. Come ha dimostrato il convegno dello scorso febbraio, il poeta aveva infatti riservato per la Toscana ed i suoi straordinari paesaggi parole profonde, cariche di tenerezza e nostalgia, disseminate negli scritti della sua generosa produzione. 31


Giovanni Ricasoli-Firidolfi

Così per un anno, il 1999, ho avuto l’onore di incontrare più volte, nel suo studio privato a Bellariva a Firenze, il grande poeta e di scambiare con lui opinioni e ricordi sul Chianti ed il suo territorio. Da quelle conversazioni condividemmo i nostri sentimenti di amore e di rispetto, oserei dire “sacro”, per la bellezza della nostra regione; sentimenti che mi fecero più volte ripensare al significato profondo della promessa che tutti i Legati e le Dame sono soliti pronunciare nel corso della Cerimonia d’Investitura, in occasione del Capitolo Annuale: «Prometto di dare un senso religioso alla mia vita, di mantenermi vicino alla natura, di proteggere e valorizzare la “Terra del Chianti” nel rispetto dell’uomo e del Creato, di guardarmi intorno con ottimismo e con amore e di compiere azioni che la mia coscienza giudichi come un atto di amore per il mio prossimo». Così, spinto da questo comune sentire, espressi con pudore al maestro la mia proposta di nominarlo Legato ad Honorem della Lega del Chianti, che accolse – con mia sorpresa – con emozione e riconoscenza. La sua investitura fu celebrata a maggio del 2000 in un’occasione altrettanto speciale ed irripetibile, quale il Capitolo Straordinario per il Grande Giubileo dell’Anno 2000 nella Cattedrale di Fiesole. Spero che questo ricordo personale ed intimo di Mario Luzi possa contribuire, nella sua brevità, a restituire la grandezza di un artista che ha saputo fissare nel tempo, attraverso la poesia, il suo struggente legame con la sua terra d’origine.

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Iconografia

12 marzo 2014 – Milano, Duomo, Mons. Gianantonio Borgonovo Arciprete del Duomo e Presidente della Veneranda Fabbrica del Duomo (La Passione di Cristo, Mario Luzi).


12 marzo 2014 – Milano, Duomo, La Croce – Installazione luminosa di Marco Nereo Rotelli (La Passione di Cristo, Mario Luzi).


16 luglio - 24 agosto 2014 – Mendrisio, Museo d’Arte, Venturino Venturi Bambino Benedicente, cemento, 1967; (mostra, Mario Luzi 1914-2014 – Il poeta e i suoi artisti Memorie di terra toscana).


25 settembre 2014 – Firenze, Basilica di San Miniato al Monte (Firenze), l'Abate Dom Bernardo Gianni – (Opus Florentinum, Mario Luzi).


22 ottobre 2014 – Roma, Biblioteca del Senato, da sinistra: Giulio Ferroni - Stefano Verdino - Sergio Zavoli - Paolo Andrea Mettel - Armando Torno - Giuseppe Langella – (Il secolo di Mario Luzi 1914-2014).


27 ottobre 2014 Milano, Basilica di Santa Maria delle Grazie, Pino Tufillaro voce recitante (La Passione di Cristo, Mario Luzi).


25 novembre 2014 Roma, Quirinale, da sinistra: Fausto Formichi - Annapaola Mettel - Paolo Andrea Mettel Giorgio Napolitano - Emo Formichi - Nino Petreni.


28 febbraio 2015 Firenze, Salone dei 500, (Dieci anni dopo, il ricordo. Luzi tra colline di Toscana e memoria di Dante nel 750esimo) – da sinistra: Marcello Ciccuto - Anna Dolfi - Sergio Givone - Giovanni Ricasoli - Cristina Giachi - Paolo A. Mettel - Armando Torno - Francesca Fumi - Paola Lambardi.


Sergio Givone La poetica di Luzi

Luzi tra colline di Toscana e memoria di Dante – giornata di studio Firenze, 28 febbraio 2015



Nel cuore della sua poetica – nel cuore del suo concetto di poesia, quel concetto che contiene le ragioni, il senso, lo scopo della poesia – Luzi individua un nodo inestricabile, come lui stesso lo chiama, e cioè il nodo di poesia e religione: da intendere per quello che è, questo nodo inestricabile, e non come lo intendiamo solitamente, ossia destinato a essere sciolto secondo il naturale svolgersi delle cose. Perché crediamo di poter sciogliere un nodo non scioglibile e anzi lo crediamo già da sempre sciolto, già da sempre destinato a essere sciolto? Lo crediamo – dice Luzi, sia in linea di fatto sia in linea di principio. In linea di fatto. È un fatto che la poesia nasca religiosa, così come è un fatto che la religione nasca poetica. In origine poesia e religione sono tutt’uno, ma un tutt’uno che tende a farsi due, come effettivamente è accaduto nella storia, se si considera il progressivo emanciparsi dell’una dall’altra, fino al porsi dell’una, la poesia, in piena autonomia rispetto all’altra, e il definitivo costituirsi dell’altra, la religione, in opposizione ad essa. La poesia si è bensì mantenuta fedele ai suoi contenuti essenziali, non diversi dai contenuti della religione; ma adottandoli e facendoli propri li ha continuamente spostati di piano, da una regione all’altra, al punto da trasformarli radicalmente. E anche là dove le domande erano le stesse, per esempio le domande intorno alle cose ultime, così come le stesse potevano essere anche le risposte, che fosse la poesia a porre le domande e a dare le riposte faceva sì che quelle mutassero la loro natura intrinseca. Quasi che la stessa cosa diventasse totalmente un’altra solo perché detta altrimenti. Se in linea di fatto possiamo raccontare la storia della poesia e della religione a partire da un’origine comune, tuttavia dobbiamo prendere atto che 35


Sergio Givone

l’esito di questa storia ha dato luogo a una divaricazione: da una parte la poesia, dall’altra la religione. Erano nate dallo stesso fondo umano e spirituale, probabilmente volte entrambe alla stessa stella polare. Ma sono venute a trovarsi in uno stato di irriducibile separatezza. Nondimeno il processo che le ha coinvolte nasconde una curiosa dialettica. La poesia appare religiosa e irreligiosa al tempo stesso, così come la religione appare poetica e impoetica per non dire avversa alla poesia. Qui si nasconde la ragione per cui anche in linea di principio, e non solo di fatto, noi crediamo di poter sciogliere ciò che in realtà non è possibile sciogliere. La religione secondo Luzi dispone di una fiducia nella fondatezza dei suoi assunti che la poesia evoca ma per poi rifiutarla, negarla. Anche la poesia, non meno della religione, muove dalla certezza di un originario contatto con il trascendente o con il divino; ma questo contatto sembra farsi irrilevante non appena la poesia conquista lo spazio della sua autonomia e chiede di essere valutata e apprezzata per se stessa e non per i contenuti di cui è tramite. Eppure quei contenuti – i contenuti essenziali della religione – continuano ad abitare la poesia. Sia pure soltanto in quanto fantasmi. Ossia in quanto rappresentano il non più della poesia. O addirittura ciò che la poesia nega per affermare se stessa. Ma Luzi va ancora più avanti su questa strada. E chiede: che religione è quella che non sia salvata dalla poesia? E che poesia è quella che non sia salvata dalla religione? La religione deve essere salvata dalla poesia – religione salvata dalla poesia è quella che accoglie la poesia al suo interno e guarda poeticamente ai suoi contenuti essenziali, e quindi volge ad essi uno sguardo pieno di inquietudine e di disarmante problematicità, uno sguardo capace di interrogazione e non soltanto di consolazione. Vero è che la religione abita l’eterno. Ma l’eterno non può essere la prigione dello spirito, che invece è libertà e novità. Religione salvata dalla poesia è una religione che si è portata nell’aperto della poesia e lì ritrova la sua originaria tensione verso il mistero. A sua volta la poesia deve essere salvata dalla religione – poesia salvata dalla religione è quella che guardando religiosamente ai suoi contenuti essenziali, gli stessi della religione, mentre li rifiuta e se ne allontana tuttavia se ne fa memoria trepida e commossa. Certo, la poesia abita l’aperto. Ma è proprio lì che la poesia custodisce a suo modo l’eterno, come dimostra il fatto che un verso perfettamente riuscito sfida il tempo e lo vince. Poesia 36


La poetica di Luzi

salvata dalla religione è una poesia che attesta magari contro se stessa quanto c’è di divino nell’uomo. La pretesa di sciogliere definitivamente il legame è in realtà autoillusione. Dopo di che la poesia è costretta a cambiar pelle: cioè, dice Luzi, a farsi, da religiosa qual era, puramente teatrale, anzi, istrionica. È questa una linea tutta interna alla poesia moderna, ma che ci raggiunge, fondata com’è sul falso presupposto da noi spesso condiviso passivamente di poter sciogliere ciò che non è scioglibile. A testimonianza valgano i versi luziani che Mettel ha voluto inserire in Autoritratto e che illustrano in modo esemplare l’interpretazione che Luzi ha dato di una teologia che non è solo teologia dell’incarnazione perché è anzitutto teologia della “kenosis”: e cioè dell’umiliazione, dello svuotamento e dell’abbassamento di Dio. Dio si fa uomo, dunque; ma facendosi uomo Dio si spoglia di ogni suo privilegio, al punto che Dio è fatto coincidere con l’ultimo degli uomini. Non solo: ma se Dio muore, a morire è l’ultimo degli uomini, e questo significa che la dignità e la verità di cui siamo ancora capaci non possono che essere cercati nella dignità e nella verità dell’ultimo degli uomini. Insomma, all’idea di una secolarizzazione che nel mondo disertato da Dio vede il palcoscenico di una vita allegramente e stolidamente affacciata sul futuro Luzi contrappone la tragedia della secolarizzazione come tragedia di Dio che muore nel mondo ma prima ancora in Dio, perché è Dio a lasciarsi morire. È come se finalmente il segreto della morte di Dio (quella morte di Dio diventata un insulso ritornello) ci fosse svelato insieme con il segreto della poesia: che facendosi mondo, irreligiosamente, muore al mondo ma lascia che sorga qualcosa come una nuova religione dall’al di là di questa morte. Ma lasciamo la parola a Luzi: Frattanto scoscende l’uomo-dio dentro l’abisso della sua profondità scompare a sé medesimo, faticosamente disincarna 37


Sergio Givone

la sua dolorosa incarnazione, discrepa con dolore dalla sua materia ma non se ne scompagna: e il tempo, il suo ricordo brucia tutto di sé nella luce di un lampo… È pura analogia pensata dal pensiero onnipensante o accade precisamente? accade, accade l’analogia come accade l’evento, l’eveniente. Tutto è compiuto? Oppure ha cominciamento? A noi non resta che riprendere e ripetere quella domanda. Tutto è compiuto e quindi: la poesia si è emancipata dalla religione ed è diventata quello che è diventata, smagata affabulazione e corrivo istrionismo? Oppure, compiendosi, tutto ricomincia dove tutto è iniziato, là dove la poesia attinge alla stessa fonte cui attinge la religione? Poesia di pensiero al pari di poche altre, la poesia di Luzi è fatta di domande come questa.

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Anna Dolfi Tempo e paesaggio dal “Fondo delle campagne”

Luzi tra colline di Toscana e memoria di Dante – giornata di studio Firenze, 28 febbraio 2015



Aveva esordito Luzi, nel 1935, con un libro, nuovo e importante, La barca, che, se da un certo punto di vista era tutto fiorentino (non a caso si apriva già nella seconda edizione del ’42 su una Serenata di Piazza d’Azeglio), dall’altro, fin dalla seconda strofa di quel primo testo, spostava immagini consuete (sia pur capovolte; ad essere rovesciata per l’esattezza era la prospettiva dello sguardo) verso un immaginario nordico, un mondo mitico fatto di fiumi, foreste…, che costituivano, assieme ai “sitibondi emisferi” e le “avene /solari”, la “pausa terrestre”, ovvero l’allontanamento dalla terra, indotto dal mutamento delle stagioni1, dall’avanzare della sera2. Anche se la vista riportava poi al fiume della dimora vitale (l’Arno, sempre presente, e in modo addirittura crescente, lungo l’iter poetico luziano3), ai “boschi tre1 Così in Alla primavera (B). I testi di Luzi saranno da intendersi sempre citati dalla raccolta, completa fino al ’98, dell’Opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di Stefano Verdino, Milano, Mondadori, “I Meridiani”, 1998 (d’ora in poi O), a cui si farà riferimento anche per la siglatura delle singole raccolte: B per La barca; AN per Avvento notturno; BR per Un brindisi; PD per Primizie del deserto; OV per Onore del vero; FCA per Dal fondo delle campagne; FICS per Frasi e incisi di un canto salutare). 2 Come già nella Serenata di Piazza D’Azeglio, nel Canto notturno per le ragazze fiorentine (B) gli eventi, le passioni, i corpi, si sarebbero allontanati ‘volando via’ dalla terra. 3 Ce ne offre testimonianza anche una delle ultime antologie d’autore: Mario Luzi, Flos. Poesie per Firenze, a cura di Stefano Verdino, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2002, oltre alla bella intervista, non a caso intitolata A Bellariva. Colloqui con Mario, realizzata da Stefano Verdino (adesso in O, pp. 1239-1292, a precedere l’accuratissimo apparato critico del “Meridiano”).

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Anna Dolfi

molanti” della Maremma4, alle siepi, ai campi, ai fiori di una campagna talvolta imprecisata, ma che in Samprugnano 5 trovava il modo per fondere ricerca ed elegia in una prospettiva religiosamente verticale, unendo il presente a un mondo immobile e mosso diversamente fatto di storia, ove l’oggi trova il senso nella necessità di riconoscersi nelle “età trascorse”, di ritrovare in “altri corpi” la persistenza di una forma originaria6. Insomma accanto al vagheggiamento medievaleggiante della “città turrita”, all’oro, al celeste, all’azzurro della pittura del primo umanesimo che in Alla vita avevano fornito la patina di cui si sarebbe nutrito lo spazio della distanza implicito nel rifugio nell’antico ‘vasello’ stilnovista7 (arca della poesia), l’‘avvento notturno’ (appena cinque anni sarebbero bastati) avrebbe introdotto un dubbio radicale sul senso e sulla destinazione (“era questa la vita?”; “Verso dove”8) che riconduce a un universo tangibile, benché, almeno a quell’altezza, spesso mediato dalla poesia (si ricordino i “bivacchi” di Cuma che, come ha opportunamente segnalato Verdino, riconducono ai feux du bivouac di Apollinaire9) o dalla trasfigurazione malinconica10. Al punto che si dovrà attendere il ’46 di Un brindisi per trovare alberi veri (gli olivi, la quercia, i castagni11) e strade credibili di campagna che si inerpicano fiancheggiate da tabernacoli, o l’Appendice al Quaderno gotico per imbattersi in notti di inquietudine e ricerca12 che culminano “Di gennaio, di notte” quando lo spazio, turbato da un vento che ha una forza e durata che trascende l’umano (“vento inesauribile”), si cala dal dove nel quando, in “giorni incerti ai crocevia del tempo”, nel Si pensi a titolo esemplificativo a All’Arno e a Lo sguardo (B). Cfr. Le meste comari di Samprugnano (B). 6 Cfr. Giovinetta, giovinetta (B). 7 Il riferimento è al celebre sonetto dantesco (“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento /e messi in un vasel, ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio”) di cui il poeta novecentesco dovette serbare memoria nell’incipit della poesia Alla vita. 8 Cfr. Cuma (AN). 9 Cfr. l’apparato critico a O, p. 1345. 10 Penso a un testo di grande suggestione e complessità come Già colgono i neri fiori dell’Ade. 11 Cfr. Passaggio (BR). 12 La notte viene col canto (BR). 4 5

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Tempo e paesaggio dal “Fondo delle campagne”

punto di discrimine tra dolore e lenimento, memoria e dimenticanza. Avviata ormai la faticosa via crucis del poeta tra “i muri alti” di una “patria ventosa e montuosa” che tenderà ad assomigliare sempre di più a quella maremmana della madre e della propria infanzia e giovinezza. Visto che ormai, a partire da Primizie del deserto, sono le icone familiari a suggerire squarci di paesaggio, mentre le voci che riemergono dal passato si fanno portatrici dei profumi di stagioni antiche13. Nonostante che visitare con E (Elena) il ‘suo’ paese marchigiano serva a portare in primo piano poggi, balze, pendici14, sarà con Villaggio che si entra a pieno nel paesaggio reale e metafisico della poesia luziana degli anni ’50 e ’60. Che registra anche un mutamento di collocazione dell’io; non più all’esterno della scena a guardare (come nella lirica giovanile) il mondo, e neppure coinvolto in un momentaneo attraversamento, ma come preso all’interno del più stretto dei cerchi che circoscrivono quanto si può vedere. Mentre la stagione invernale (nel periodo che va dall’autunno inoltrato alla Quaresima, con la sottolineatura – già montaliana – del Carnevale) spinge a collocarsi all’interno, a guardare fuori i segni che il tempo traccia sul paesaggio visibile, modificandolo lentamente, facendone – con l’indotta sofferenza – una sorta di correlativo esistenziale. Ferito, il paesaggio, alla pari dell’io, che si collocherà con sempre maggiore precisione al centro dello spazio e della vita (l’“età di mezzo”, la “vicissitudine sospesa”), ma con una sorta di difficoltà nel distinguere (alla maniera dantesca) ombre e corpi certi. Trovando però, nella coscienza contraddittoria e paradossalmente complementare di perdita e persistenza, il modo per volgere “in salute” le lacrime, grazie alla scommessa pascaliana di essenza contro forma. L’io, alla prova del tempo che nasce nello spazio circoscritto del pagus, sospeso, mentre intorno discende la notte, cessa la ricerca, lo sguardo orizzontale, per accogliere ciò che affiora lentamente “dal fondo” di un’“angoscia” che traduce orfanità e solitudine risolvendole (a partire dal ’49 di Villaggio) con l’introduzione, a garanzia di persistenza, a latere dell’istanza/presenza del divino, di un figlio infans per cui/tramite cui si può sperare “salute”. 13 14

Cfr. Notizie a Giuseppina dopo tanti anni (PD). Visitando con E. il suo paese (PD).

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Da quel momento, in Primizie del deserto si infittiscono i quadri della campagna toscana, assieme al gioco di intrecciate messe a fuoco di esterni ed interni (si pensi esemplarmente a Nella casa di N. compagna d’infanzia). Non stupirà dunque se, nel clima di questa nuova sensibilità, e dei suoi ‘valori’ e figure, Luzi sceglierà di inscrivervi retrospettivamente l’intera stagione della poesia giovanile (raccolta sotto l’omnicomprensivo titolo del Giusto della vita), ponendo quale incipit tardivo della prima raccolta e del primo complessivo volume una lirica dal perfetto andamento endecasillabico come ParcaVillaggio (scritta nel ’51), che emblematicamente riunisce i temi e motivi di cui si accennava. E che, del testo di Primizie del deserto (Villaggio), che ne dichiarava parte del titolo, conserva, oltre ai suggestivi cronotopi (la fredda stagione, le povere case, la diacronia), l’immagine del figlio bambino. Per altro, a questa altezza, la natura del contesto paesaggistico è delineata, oltre che da netti confini interno/esterno, da tutta una serie di potenziali coppie oppositive: nativi e forestieri, infanzia e maturità, vecchi e giovani, vivi e morti (il tutto, per pertinenza testo e contesto, in prospettiva delle future Las animas), speculari alle contrapposizioni verbali (porta/scaccia; passò/scomparve; passato/presente; tua infanzia/tuo figlio). Mentre il fuoco (già apparso come strumento tipico dell’agricoltura) diviene luogo intorno al quale si celebra il rito quotidiano della comunicazione e della conservazione della memoria. ‘Onorare il vero’ (dinanzi al fuoco) vorrà significare dare alle cose il loro nome, a dispetto di ogni tautologia (“Il vento è…”15), recuperare senza timore di ripetizioni l’identità delle azioni (“quel che verrà, verrà…”16) chiudendo poi i testi con una clausola definitoria che ha valore di massima o di precetto. Come avveniva nel “vecchio mondo latino” la cui legge passa dal paesaggio all’io non appena, durante un viaggio in treno nel settembre del ’43 (tempo propizio per le agnizioni), lo scrittore si accorge della capacità disvelativa/ rivelatoria che hanno colline (leopardianamente) “celesti” e la luce liquida17. Uccelli (OV). Versi di ottobre (OV). 17 Così nella prosa Toscana, in Trame (ma la citazione è ormai dalla complessiva raccolta delle prose creative: Mario Luzi, Prose, a cura di Stefano Verdino, Torino, Aragno, 2014, p. 60). 15 16

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Tempo e paesaggio dal “Fondo delle campagne”

Visto che dal paesaggio passa qualcosa che oltre il singolo io tocca la coscienza antropologica della ‘stirpe’, per risalire fino alle origini, a dare l’impressione di poter conoscere ogni frammento del creato, di essere in grado di ricondurlo alla propria genesi, esseri umani in testa, riportati ben oltre il mitico Adamo18: Mi misi [una donna] a guardarla attentamente e subito qualcosa cominciò a risalire in me, qualcosa di mio e di antico che gradatamente, in mezzo a uno sterminato silenzio, mi avvicinava a lei e con lei alla terra e al sole

visto che vedere/guardare figure sullo sfondo (lo scrittore ha bisogno di farlo “contro il vetro e contro il paesaggio”) permette di ricondurle alle forme primigenie che si identificano con quelle eternanti/eterne dall’arte. Necessaria insomma l’accoppiata persona+paesaggio per vedere come i luoghi trasformano gli individui, offrendoli di nuovo, almeno in certi casi, all’originaria sacralità. Si ricordino ad hoc alcune pagine di una prosa di Luzi: Infine mi spostai leggermente per poterla guardare contro il vetro e contro il paesaggio. Allora la riconobbi. L’avevo vista in piedi, ammantata, presso la regina di Saba, là dove questa adora genuflessa il ponticello di legno nell’affresco di Piero ad Arezzo. Era lei e non era mutata [...] era stata scelta per restare immobile e intatta nel tempo, secoli e secoli or sono, sulle pareti di una chiesa in una vecchia città della nostra vecchia terra latina19

che dicono di illusioni platoniche, di immagini preesistenti restituite per forza di sfondo, oltre la banalità del quotidiano, alla familiarità che conduce, oltre ogni esilio, verso la vera heimat. Patria del sapere e della sensibilità, che si situa in terre assieme terrestri e immaginarie, “fondali della memoria” e “luoghi del sogno”20, già che sovrappone alla dimidiata coscienza novecentesca i topoi della grande tradizione georgica del mondo greco-latino: i campi, la beatitudine, l’otium, la malinconia. Topoi che sono capaci anche di 18 Di cui avrebbe parlato uno scrittore come Giuseppe Dessí, dinanzi al paesaggio della sua Sardegna. 19 Ivi, p. 61. 20 Così in uno degli Otto luoghi dedicato a Il Monte Amiata, ivi, p. 83.

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Anna Dolfi

guidare la lingua, fattasi a un tratto comunicativa (perfino di un’apparente facilità, nella sua classica perfezione e bellezza), nel trasferire il pensiero in cadenze ritmiche, o meglio nel tradurre in ritmo il pensiero, se è vero che la prima edizione del pezzo Il monte Amiata dovrebbe risalire all’“Approdo” dell’aprile-giugno del 1953. Basterà per questo accostare il tardivo testo proemiale della Barca ad alcune pagine in prosa: A lungo si parlò di te attorno ai fuochi [...] in queste case grige [...]. Dopo il discorso cadde su altri ed i suoi averi, / furono matrimoni, morti, nascite, / il mesto rituale della vita. Solo dopo a veglia nelle grandi cucine affumicate o nella piazza o all’osteria si accende la conversazione in quella lingua chiara e forte, che tuttavia consente nei suoi modi rituali [...] della tribù più che del singolo. Dai loro discorsi il borgo si leva come un universo nella fitta rete delle sue parentele, nella profondità delle generazioni che si sono succedute nelle sue case grigie, nella storia degli averi, nei mutamenti della fortuna delle famiglie, nelle malattie, nelle nascite, nelle morti, nei suoi vegliardi leggendari; e tutto è considerato un rito, un tributo dovuto alla vita e al tempo21.

Ambedue restituiscono un mondo rurale comune a una società e a una generazione. Non sarà un caso infatti se si potrà trovare nella prosa dedicata da Luzi all’Amiata (“la vecchia al fuso e lì accanto il somaro legato all’anello o alla stanga”22) un ausilio per leggere e decifrare il cardo e la spina ricorrenti nella poesia di Alfonso Gatto, in particolare proprio nella lirica Fummo l’erba, considerata23 tipicamente generazionale, e per chiarire il ruolo pacificatore assunto dal paesaggio, per la capacità di dare senso ad azioni e a sentimenti24 rendendosi così per certi versi essenziale; si pensi alle crete del senese che ritorneranno nella poesia di Luzi fino al Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Ivi, p. 85. Ibidem. 23 In primis da Donato Valli, che l’ha posta significativamente a chiudere la sua Storia degli ermetici, Brescia, La Scuola, 1978. 24 Cfr. ancora: “le operazioni dell’uomo hanno un senso, una causa e un termine chiari e finiti tra pochi atavici oggetti e immagini, tra poche essenziali passioni sempre vive” (ibidem). 21 22

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Tempo e paesaggio dal “Fondo delle campagne”

e con significativa trascorrenza tra realtà, pittura, scrittura, già che niente restituisce più della fedele trasfigurazione artistica le emozioni, i miraggi. “Codice interno”, quello degli spazi naturali parcamente abitati, al pari di quello delle città25: sì da formare una struttura, “una grammatica della mente e del senso”26. Se Firenze era per Luzi, alla luce di queste strutturali mise en abîme, pietra, acqua, luce, genialità 27, potremmo tentare di inscrivere il mondo dei pagi e dei campi che domina Onore del vero e Dal fondo delle campagne all’insegna non solo della “sobrietà, elementarità, concretezza” tipiche della toscanità 28, ma della fatica, della povertà, della grazia 29, in definitiva del sacro, ergo, in ultima istanza, di ciò che, suscitandola (da Agostino a Mallarmé, si potrebbe dire velocemente), si mostra/rivela degno di fede. Una fede che passa non solo dalla religione naturale (più che rivelata), ma dalla cultura: la lettura di Lucrezio 30, di Virgilio. Tutto deposto poi (Come tu vuoi, OV ) in una finale resa, già che ai campi semantici del freddo e dell’aridità (tramontana, screpola, stringe, assoda, irrita, rattrappito, serra) contrappone il silenzio (silenzio, muto), sì che anche il mutamento che scaturisce dall’immobilità ne viene in qualche modo contagiato (muto/mutamento), unite le generazioni, perfino oltre l’io31.

Si vedano gli splendidi Paragrafi fiorentini (ivi, pp. 107-112). Ivi, p. 107. 27 Ivi, pp. 108-111. 28 Cfr. Toscanità, ivi, p. 215. 29 Quella di cui parla Luzi in Borghi, ivi, p. 219. 30 Tra i poeti latini preferiti. Cfr. in proposito Mario Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Milano, Garzanti, 1999, p. 41. 31 Cfr. Fumo (FCA). Ma in un ideale percorso ‘georgico’ si dovrebbe soffermare almeno in particolare, oltre che sulle intere raccolte OV e FCA, su Colpi, Api (FCA), Avvampò l’anno (FICS); e su Ha la sua giusta canicola [in Dottrina dell’estremo principiante]; Non sta in sé, crepa (in Mario Luzi, Poesie ultime e ritrovate, a cura di Stefano Verdino, Milano, Garzanti, 2014, rispettivamente pp. 295, 570). 25 26

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Marcello Ciccuto Il tempo dell’eterno: Luzi e Dante

Luzi tra colline di Toscana e memoria di Dante – giornata di studio Firenze, 28 febbraio 2015



C’è un momento, nel viaggio dantesco verso il Paradiso, verso la luce, verso l’assoluto, nel quale al poeta si presenta la necessità di uno stacco, di un allontanamento – suo e naturalmente anche della sua poesia – dal mondo terrestre. È il momento in cui – lo ricordate senz’altro – si volge indietro a guardare l’aiuola che ci fa tanto feroci, un mondo piccolo da quella prospettiva cosmica. Ed è il momento in cui il poeta deve prendere la forza per slanciarsi, attraverso ancora nuove prove, verso la mèta del suo itinerario: il sublime, l’assoluto, le sostanze eterne. Questo momento prende forma soprattutto nella parte centrale della cantica del Paradiso, e sono i canti, notissimi, XXIII-XXVI. È il momento di ‘trapassare il segno’, un verso densissimo dal punto di vista narrativo. A un certo punto compare la figura di Adamo, il progenitore, che – Dante lo fa capire benissimo – rappresenta anche la sua lingua, la lingua dell’uomo, il modello di un linguaggio che finalmente, assumendo su di sé tutto quello che scorre nel tempo, nella vita, la mutevolezza delle cose umane (“l’uso d’i mortali è come fronda/in ramo, che sen va e l’altra vene”), dicendo come le cose umane variano continuamente e sono impermanenti. Si apre dunque la via a una nuova lingua, a una nuova vita e, insomma, a una nuova poesia, appunto, teologica. Dall’uso dei mortali, che è come fronda in ramo, che sen va e altra vene, che muta continuamente, ecco che si arriva alla lingua che parla e dice parole perfette, sostanze assolute, come se fosse Dio stesso a scrivere e a parlare. Dante, qui, lo sapete, si fa scriba Dei, è come se fosse un Evangelista e la sua opera, il suo poema un libro della Bibbia. Pari ad Adamo, il poeta si 51


Marcello Ciccuto

propone di usare, deve usare – a questo punto – una lingua quasi come per se stessa mossa, dunque investita da tutto l’esistente, dall’universo, dagli Universalia. Ma si faccia attenzione. La parola dell’uomo, qui, si fa divina solo perché ha già accolto in sé tutta la terrestrità, tutto l’umano e il suo continuo fluire, tutto il mondo reale e non l’immobilità assoluta dell’ente metafisico dato una volta per tutte come nell’esperienza dei santi e dei mistici, quanto piuttosto la dinamicità della vita che scorre e che cambia e che vive. Il poema, a questo punto, si assume un compito gigantesco: dare voce a tutto l’universo, far parlare al cosmo la lingua di tutto l’esistente, di tutto ciò che esiste, anche delle cose peggiori della terra, nessuna esclusa. Ecco, allora, la polifonia del poema dantesco, fatta di ogni possibile lingua, diverse lingue, orribili favelle e il suon di man con elle; persino forme non linguistiche (diciamo così). Ed ecco forme di parlare che noi abbiamo conosciuto nel corso del viaggio umano e ultraterrestre di Dante: la cennamella di Malacoda, la bava parlante degli uomini serpente o dei serpenti uomini; l’inno di bolle d’aria gorgogliato nella strozza degli accidiosi. Anche loro parlano. Le parole – lacrime di Francesca o di Ciacco. Il linguaggio vegetale di Pier delle Vigne. E poi anime che profumano, astri che sorridono e suonano come arpe, gemme, orologi e arcobaleni che si muovono, le luci che vanno e vengono su e giù per la scala d’oro di Saturno e i pesci che emergono dalla lucente peschiera di Mercurio – per fare cosa? – per «pasturarsi di parole umane»! I corpuscoli allora che nella galassia di Marte circolano nell’aria come polvere nel raggio di sole, e incontrandosi scintillano e poi, guarda caso, tintinnano come corde di una giga tirate e allentate dalla mano di Dio a formare un’unica melodia. Corpuscoli terrestri che si trasformano in musica celeste e le anime beate del cielo di Giove che sono come uccelli che si riuniscono a stormo e, cantando, cioè poetando, diventano essi stessi le parole del loro canto e, quindi, si arrestano a formare e mostrare una scritta, una scrittura, che è la costellazione dei loro corpi: Diligite iustitiam, qui iudicatis terram. Ecco Dante farsi sotto a dire che attraverso le sue parole umane, parole di uomo, ora il divino gli si mostra; e lo dice, a un certo punto, con un verso che, a mio avviso, è uno dei più straordinari dell’intero poema, riferito certo a Beatrice che, ormai, ha raggiunto anche lei, e da tempo, una condizio52


Il tempo dell'eterno: Luzi e Dante

ne divina. Dice che, appunto, tutto quello che ha imparato nel suo esistere, nella sua proiezione fino a diventare figura di Cristo, e come stella in cielo in me scintilla, cioè tutto quello che è qui nel divino si manifesta attraverso me, proprio come la luce divina si manifesta attraverso le stelle che scintillano nel cielo. Tutto questo avviene non per un processo astratto, ma solo facendosi carico del mondo, della terra, della vita umana, attraverso il sacrificio di questo viaggio, dell’homo viator in mundo. Bene. Non si fatica a seguire un percorso affine anche in Mario Luzi. Quando, per la prima volta, nel ’49 Luzi pubblica L’Inferno e il Limbo, erano stati tempi in cui i poeti ermetici avevano fronteggiato proprio il sublime, la parola assoluta, pura, perfetta. Era stata cioè la stagione del simbolismo, come dire della trasformazione di ogni segno e parola in spirito e astrazione, ogni oggetto simbolo evocativo di altro e di più alto. Luzi scriveva, amareggiato, a un certo punto ne L’Inferno e il limbo: «Che grande rinuncia. Di che strenuo malinconico esilio dalla violenza e dall’inferno della storia era frutto la sublimità del modello». Che significò: noi ermetici, che ci confrontavamo con l’assoluto, avevamo dovuto rinunciare alla violenza, all’inferno della storia, al peso reale del mondo. Luzi, come Dante, non se la sente di rinunciare al mondo reale. Ha già scelto, a questo punto, la concretezza dell’umano, quello che lui chiama «il discorso naturale» che fa dello scorrere del tempo, della varietà del mondo, della mutevolezza, il suo vero assoluto, la sua vera forma divina. Parla di tempo ricordato e dimenticato e di tempo mai vissuto («Il tempo ricordato/e quello dimenticato/e l’altro mai vissuto/da lei, eppure stato/le si stringono ai fianchi/le scendono parimente ai sensi,/le si fondono in unità./Eterno è il tempo». «Eterno è il tempo». È un paradosso assoluto, il più grande dei paradossi, perché se c’è qualcosa che non è assoluto è proprio il tempo che, nel momento stesso in cui accade, svanisce; ma perché il nostro tempo, il nostro vivere, proprio in questa sua condizione di continuo scorrimento e annullamento, è l’eternità che ci è stata concessa, è la nostra eternità, più vera e durevole. L’invito, dunque, è a portare dentro la poesia tutte le forme del vissuto, tutto questo vivere fragile e trascorrente, anche la morte e il dolore. Ci conferma il poeta (sono le sue parole – questa la lezione dantesca): l’esperienza che l’uomo fa delle cose del mondo: «ferisciti, sanguina anche tu, /soffri con noi, umiliati in un tronco». 53


Marcello Ciccuto

Certo, la posizione allora sembrava assai audace, perché si vede bene che punta a un traguardo ambizioso, almeno quanto quello dantesco, cioè trovare negli istanti perlopiù insignificanti del nostro vivere, della vita, del presente, i veri significati, quelli dell’eterno, dell’assoluto, della metafisica. Cito: «brevi intervalli di attualità nei quali è leggibile, perché in essi è scritto, il significato del mondo». Per essere ancora più chiari, c’è un verso di Luzi che riassume tutta questa posizione, a mio avviso: «Essere significa solo essere stati». È di una chiarezza davvero divina, devo dire. Essere significa soltanto essere stati, cioè si raggiunge l’essenza, l’assoluto, l’entità solo attraverso la cognizione del dolore, solo vivendo, solo attraversando l’esistenza e le sue controversie. Ecco perché in molte zone le poesie di Luzi possono essere lette sotto questa angolatura: i segni umani che acquistano un valore, una chiave universale, e si tratterà davvero di una posizione dantesca a ogni effetto. La critica, d’altronde, ha evidenziato molto bene le figure che Luzi usa per poter mostrare questa sua posizione: il vento che porta le tracce dell’eterno, il fiume come ‘attante dell’essere’, tutte cose che scorrono nel tempo. Le montagne che non scorrono, ma conservano dentro di loro, nella loro immobilità, tutti i tempi trascorsi, la storia millenaria del mondo. D’altronde se non c’è «il bel patimento d’amare la vita» non ci si apre agli altri, non si fonda un dialogo costruttivo. Alla luce di questo, si capisce anche il senso molto chiaro di quel titolo luziano Dante, da mito a presenza. A Luzi interessa «il poeta antico che fa molti incontri: il convivere e il contrastarsi di personaggi, di menti e di sensibilità», e lo dice molto congeniale a sé, alle prerogative di unicità e assolutezza di cui godeva il soggetto lirico. A quelle si sostituisce in Dante la voce dei fenomeni, la materia umana e cosmica. Insomma, è il Dante che accoglie in sé le tante vicissitudini di tutti gli uomini e dentro queste fa – altro titolo luziano – une promenade humaine, una passeggiata tutta umana. Infine, la soluzione – credo – per l’uomo dovrebbe essere, agli occhi di Luzi, prendere atto che il tempo della vita non è vero che finisce o che scorre senza senso. È vero il contrario, e cioè che il senso più alto della vita e del tempo che ci è concesso, la sua eternità è proprio questo trascorrere, è il «mondo che in molte guise, ma sempre in te stesso ti trasformi», e mutando 54


Il tempo dell'eterno: Luzi e Dante

diventa se stesso, diventa assoluto e definitivo. Il nostro compito, come quello del poeta, sarà quello di adeguarsi a questa continua finitezza che appunto e paradossalmente non finisce mai. È la stessa ragione per cui Dante è un classico, nel senso calviniano del termine e come lui anche Mario Luzi. All’interrogativo che viene fatto in Vicissitudine e forma: perché la poesia di Dante non invecchia? Si dà risposta con le parole stesse di Luzi: «il tempo della poesia è lo stesso dell’azione e dell’intelligenza attuale del mondo, è questo presente in cui alla creatura è o fu dato di esistere e di risolversi: è un presente che risponde direttamente all’eternità». Dante non invecchia? Perché lo scorrere suo e della sua poesia è una immobilità, è l’eternità dell’uomo. Chiudo con una citazione che ci fa capire altre cose e, forse, anche il messaggio globale che la poesia di Luzi ha consegnato a noi contemporanei (viene da La notte lava la mente): «Il Poema potrebbe essere rappresentato da un mascherone simile a una bocca della verità, a una fontana che versa: è la perennità della voce umana, del discorso umano». L’uomo che, appunto, dantescamente e in Luzi tende a farsi divino attraverso l’uso della parola poetica.

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Bruno Forte Mario Luzi di fronte a Maria donna terrena, madre divina

Per gentile concessione del ÂŤCorriere della SeraÂť Milano, 28 febbraio 2015



È un gioco di fioretto quello che Mario Luzi legge nella Lauda di Jacopone da Todi Donna de Paradiso1. È un duello veramente singolare, di cui sono protagonisti l’umano e il divino. È l’agón più decisivo che si sia combattuto sulla scena della storia, quello fra una giovane donna di Galilea e niente di meno che l’Angelo dell’Eterno. Che sia agone, e non gioco, che sia arco di fiamma rovente e non semplice «sacra rappresentazione», lo esprimono il genere e i termini della lotta: di lotta d’amore si tratta, ed è l’Amore infinito che interpella un cuore umano, quello di Maria, chiamandolo al dono sacrificale dell’amore più grande che cuore di donna abbia potuto esprimere. Acconsentire all’Eterno non è farsa, è dramma: resa all’impossibile possibilità di Dio, è un perdutamente consegnarsi nella dignità della fede oscura, atto irrevocabile una volta che sia stato posto. È incontro di «acquiescenza sommessa», di sottomissione liberamente accogliente e di abissale lontananza, che viene a farsi prossimità, vertigine intima dell’Annuncio: «Dov’è ora la sommessa acquiescenza, dove l’intima vertigine dell’Annunciazione?». Si incontrano nel «sì» della Donna, nell’«eccomi» di Maria. Posta in gioco dell’incontro è null’altro che il nostro destino, il riscatto offertoci dalla morte seconda, il dono divenuto possibilità di una vita mortale che sia fatta anticipo d’eternità. «Acquiescenza» è un consapevole accogliere, un libero assenso. Ne è convinto Mario Luzi: «Il senso del disegno per il quale era stata scelta le era ri1 Si fa riferimento a Mario Luzi, Il pianto di Maria – con Donna de Paradiso lauda di Jacopone da Todi, Firenze, Metteliana 28 febbraio 2015, pp.[12] n.n.. Plaquette per il 10° anniversario della morte. Contiene una nota critica sulla poesia di Jacopone.

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Bruno Forte

masto ora più ora meno presente, ma non l’aveva mai abbandonata del tutto al dubbio o all’angoscia». La giovane Donna è creatura dell’ascolto, plasmata dalla fede d’Israele, educata così a farsi spazio del Dio vivo nella storia: «Shemà, Israel» – «Ascolta, Israele» – «Adonai Elohenu, Adonai Echad» – «Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno». Maria non si arrende, si affida, perdutamente fidandosi del Dio dell’alleanza, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, Dio fedele, eppur sempre sorprendente. Perciò la sua «acquiescenza» è «sommessa», come solo può essere la resa della fede: incondizionato fidarsi, irrevocabile affidarsi, inesauribile confidare nella fedeltà dell’Altro, Signore della promessa e del compimento da Lui stesso donato quando e come vorrà. Mario Luzi ha di Maria l’idea più fedele al dettato biblico della «donna forte», della credente che come i «poveri del Signore», gli anawim, si fida, si affida e confida nel Dio del patto, l’Adonai d’Israele. Tale Maria resta in tutto il suo percorso terreno, compagnia di discrezione vigile e di tenerezza immensa accanto al Figlio «beato», che sarà infine il Figlio «impiccato», «Figlio de mamma scura», di Madre addolorata, crocifissa nel cuore: «Il Vangelo – annota Luzi – la lascia intravedere, qualche rara volta, mentre segue a distanza gli spostamenti di suo figlio e gli incontri e le allocuzioni alle turbe, i prodigi per tutta la Galilea; e non tace di qualche momento in cui vorrebbe abolire quella distanza, avvicinarlo e parlargli». Umanissima Maria di Jacopone, perfettamente còlta dalla sensibilità poetica di Mario Luzi come Madre capace di rappresentare ogni madre, donna terrena, prima che di Paradiso, icona dell’universale dolore delle donne chiamate a generare la vita inesorabilmente destinata a morire. Proprio così in lei, come in ogni amore materno, «tenerezza e soggezione si lasciano ugualmente cogliere in quel vivo – e dunque mutevole – rapporto», che è la prossimità femminile alla vita dei figli. Forza della fede e umana vicinanza, coraggio dell’assenso a un superiore progetto e apprensione di un cuore che visceralmente ama chi è stato nutrito dal proprio sangue nell’oscurità luminosa del grembo, si fondono in Maria. «Trascendente fermezza e apprensività creaturale erano mescolate» in Lei, come nota Luzi con potente resa di parole. E l’umano non scompare neppure nell’ora dell’offerta suprema: «Con sublime incoerenza si appella a suo figlio, invoca pietà da lui che è perduto», voce di ogni umano dolore, troppo umano per non invocare e attendere l’oramai impossibile dono… 60


Mario Luzi di fronte a Maria donna terrena, madre divina

Questa umanissima Maria è il terreno d’avvento, il cuore liberamente accogliente dell’Eterno che ha voluto farla Sua dimora: sta qui «l’intima vertigine dell’Annunciazione», dove l’infinitamente Altro e Sovrano si è fatto uno di noi dentro la nostra storia, carne della nostra carne, uomo fra gli uomini. Vertigine di un’incommensurabile lontananza divenuta prossimità e di una scandalosa prossimità, che non ha consumato la trascendenza dell’Eterno. «L’incarnazione – osserva Luzi – per il poeta e teologo francescano non è stata certo simbolica: il resto discende di conseguenza. Il dramma esprime un massimo di concentrazione patetica». Solo se a farsi uomo è il Figlio eterno, la salvezza è entrata nella storia e vinta è la morte. Solo se quel Figlio di Maria è insieme l’Unigenito eternamente generato da Dio Padre, l’alleanza è compiuta e ai mortali è dischiusa la porta dell’eternità. L’umanissima Maria è la Madre di Dio, la Donna che ha generato nella carne il Figlio dell’Altissimo. Ed è questo connubio sorprendente, scandaloso agli occhi di chi non abbia fede, che rende Lei madre universale, Donna a cui ogni figlio d’uomo potrà rivolgersi perché Lei sa capire le nostre lacrime e Lei, sola, può lenirle con la tenerezza materna, resa forte dalla potenza d’intercessione presso il Figlio nato dal suo grembo verginale. Come scrive Luzi, è «a questa immedesimazione totale con l’amore e con il dolore materno, vissuti senza privilegio e riserva» che è dovuta la devozione alla Madre di Gesù. «La sua mediazione, la sua intercessione per la quale è pregata dai fedeli non vengono da questa debolezza e da questa forza non manifesta?». Maria comprende perché ha conosciuto il dolore che solo una madre fino in fondo conosce. Maria intercede e interviene in maniera potente perché – donna delle lacrime – è stata l’oggetto di una «celestiale elezione». In quanto è Mater dolorosa richiama su di sé «la preghiera e la confidente attesa delle moltitudini. La pena solitaria e inconsolabile dell’uomo, la pubblica calamità che non vede scampo o rimedio portano ugualmente a pronunciare il suo nome». È la Maria di Jacopone, la Donna de Paradiso. È la Maria di Mario Luzi, il cui pianto davanti al Figlio morto è al contempo prossimità inesauribile a ogni umano dolore e prossimità salvifica a Colui che ha generato, dal quale solo viene a chiunque l’invochi e l’accolga la liberazione dal male e dalla morte.

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Dom Bernardo Gianni L’Opus florentinum a San Miniato al Monte

Basilica di San Miniato al Monte Firenze, 25 settembre 2014



Per paradossale inversione architettonica stasera sono le forme romaniche di San Miniato al Monte a ospitare e contenere gli svettanti vertici, le acute arcate e i vastissimi volumi della chiesa madre di ogni chiesa fiorentina. Oggi risuonano infatti nella nostra Basilica i nobili versi di Mario Luzi che nella forma poetica e dialogica hanno sigillato per sempre l’audace epopea della costruzione e la profonda coscienza ecclesiologica di quell’immane organismo gotico che i nostri portali da questo crinale inquadrano giorno e notte come vigilanti sentinelle fedeli alla loro missione di custodia della città intera, battenti pronti a spalancarsi quando da oriente il Signore Gesù, per la seconda volta nella storia, tornerà a visitarci. È impossibile pensare Firenze senza San Miniato al Monte e San Miniato al Monte senza Firenze: questo chiasmo perenne di relazione e di presenza corrisponde all’antica intuizione del Vescovo Ildebrando che quasi mille anni fa volle che questa Basilica di luminosa e dorata geometria teologale ricordasse a Firenze il sangue dei suoi primi martiri e con quella memoria disegnata dalla bellezza e celebrata nel canto si fecondasse ogni giorno una speranza gravida di senso e di futuro. San Miniato al Monte è infatti segno della «città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Ebr 11, 10) e profezia di quella medesima città che ci attende oltre ogni cortina difensiva costruita da mano d’uomo: la Gerusalemme celeste intravista da San Giovanni come lo spazio e il tempo in cui, col Vangelo di Cristo, l’utopia cessa di essere tale per divenire, oltre ogni domani storico, apocalittico adempimento di quell’antica promessa di amore e di salvezza con cui Dio ci ha chiamato e richiamato dal niente all’esserci. Solo in forza di questa indole 65


Dom Bernardo Gianni

architettonica e decorativa tutta protesa al futuro, che corrisponde peraltro all’«antropologia escatologica» (L. Bouyer) propria del monaco, stasera si dilatano le cornici marmoree dei nostri portali quasi per riorientare l’intera civitas – e non solo la grandiosa cattedrale ormeggiata al centro di mille percorsi – verso il suo zenith, finalmente sospinta dal vento buono e vigoroso della speranza sino agli estremi confini di quel Regno germogliato nella storia con la prima venuta del Signore Gesù. A questo riguardo così ci ha insegnato il Concilio Vaticano II nel numero 5 di Lumen Gentium: «La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria». Laboratorio architettonico di memoria e di speranza in questa prospettiva è ogni organismo ecclesiale a cominciare, com’è ovvio, dalla chiesa madre di ogni chiesa, quella Santa Maria del Fiore a cui Mario Luzi, nell’Opus florentinum che ascoltiamo stasera, assegna parole di lirica e teologale intensità: «Io chiesa madre di tutte le altre / li guardo entrare e uscire dalle mie porte i figli dei figli / di coloro che mi fecero visite e preghiere, / padri di altri che saranno nei secoli, lo spero, / i miei fedeli: vorrei che gli ultimi fossero dell’anima i più esperti, / i più degni del cielo. O che officina / è questa delle anime. Lo fu per molti secoli. / Che resti aperta e operosa per i prossimi». Questa laboriosa apertura al futuro, con cui è bello oggi celebrare i cento anni dalla nascita di Mario Luzi, forse diventa stasera, qui sul crinale di San Miniato al Monte, una più corale e complessiva «officina» ove si celebra una speranza che includa non solo la nostra splendida cattedrale, ma anche ogni chiesa e ogni casa, ogni palazzo, ogni strada, ogni piazza, ogni torre e ogni campanile grazie a quello sguardo umile e sapiente su Firenze che Giorgio La Pira ci ha insegnato a rivolgere da San Miniato al Monte sulla nostra secolare vicenda civile e spirituale. Così infatti egli, con la sua consueta e insonne passione, scriveva nel 1953 alla Madre Abbadessa di un imprecisato monastero femminile dei dintorni di Firenze: «Qual è il posto 66


L’Opus florentinum a San Miniato al Monte

di Firenze nella storia della Chiesa e nella storia dei popoli e delle civiltà? Quale vocazione, quale missione? Ecco, Madre Reverenda, io vorrei poter rispondere così: – guardi Firenze dalla collina di San Miniato e mi dica: non Le pare il riflesso in terra della città del cielo? Lo specchio terrestre della Gerusalemme celeste? C’è nel mondo delle nazioni cristiane e non cristiane una città comparabile – per bellezza “teologale” – a questa città? Vi è città in cui Dio abbia profuso tutti insieme, quasi contemporaneamente, gli uni legati ed ordinati agli altri, tanti doni mistici ed artistici quanti ne ha profuso in Firenze? Si può dire davvero: alla quale han posto mano e cielo e terra! [...] Urbs perfecti decoris gaudium universae terrae, si può bene ripetere per Firenze ciò che disse Geremia di Gerusalemme». E a noi sovviene il somigliantissimo sguardo memore e profetico che alla fine del 1997, ispirato dal «sogno di Lapira», Mario Luzi ha saputo cantare con mirabili versi che ancora oggi rivelano al meglio il significato estremo di ogni presenza a San Miniato al Monte e della stessa presenza di San Miniato al Monte, porta di speranza aperta quasi mille anni fa nel cielo di Firenze per divenire custodia della sua memoria, ma anche, e forse soprattutto, varco profetico del suo futuro: Ricordate? Levò alto i pensieri, stellò forte la notte, inastò le sue bandiere di pace e d’amicizia la città dagli ardenti desideri che fu Firenze allora ... Essere stata nel sogno di Lapira “la città posta sul monte” forse ancora la illumina, l’accende del fuoco dei suoi antichi santi e l’affligge, la rode, nella sua dura carità il presente di infamia, di sangue, di indifferenza. 67


Dom Bernardo Gianni

Non può essersi spento o languire troppo a lungo sotto le ceneri l’incendio. Siamo qui per ravvivarne col nostro alito le braci, chè duri e si propaghi, controfuoco alla vampa devastatrice del mondo. Siamo qui per questo. Stringiamoci la mano, sugli spalti di pace, nel segno di San Miniato.

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Giuseppe Langella La Passione secondo Luzi

Basilica di Santa Maria delle Grazie Milano, 27 ottobre 2014



I versi di stampo teatrale che verranno letti fra poco furono scritti da Mario Luzi per la Via Crucis al Colosseo del Venerdì Santo 19991. Si potrebbe parlare, in tal senso, in analogia con la formula che si adotta per i Vangeli canonici, della “Passione secondo Luzi”. Il poeta non segue che in parte il percorso tradizionale di questa pratica devota, discostandosi, peraltro, anche dallo schema introdotto, pochi anni prima, da Giovanni Paolo II. Delle antiche stazioni, la prima caduta, l’incontro con la madre, la deposizione e la sepoltura scompaiono del tutto; delle nuove, oltre a quest’ultima, si perde anche il rinnegamento di Pietro. In compenso, almeno due delle stazioni di Luzi: Gesù e il pensiero della morte e Gesù e la terra degli uomini, non hanno il corrispettivo in alcuna delle sequenze precedenti; e anche Il lamento dei pietosi è da annoverare, quanto meno, tra le sottolineature d’autore, andandosi ad aggiungere a due episodi già ripresi, come l’incontro con le donne di Gerusalemme e l’atto premuroso della Veronica. Non è poi un dettaglio di poco conto l’inserimento, al termine della Via Crucis di Luzi, di una stazione intitolata Resurrectio, scioglimento glorioso e compiutamente pasquale della Passione, contemplato e celebrato anche mediante il ricorso al codice ‘sacro’ del latino festivamente innografico e liturgico 1 Cfr. Mario Luzi, La Passione. Via Crucis al Colosseo, Milano, Garzanti, 1999; ma si cita dall’edizione speciale La Passione di Cristo, a cura di Paolo Andrea Mettel, tirata per il centenario della nascita del poeta, in occasione della lettura integrale dell’opera, affidata alla voce recitante di Pino Tufillaro, il 27 ottobre 2014, nella basilica di Santa Maria delle Grazie in Milano.

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Giuseppe Langella

della Chiesa, così frequente nell’ultimo tempo della poesia luziana, quando ogni altra parola umana è costretta a piegarsi e ammutolire davanti al mistero2. Sostando ancora un attimo sui titoli, si deve registrare, nel testo di Luzi, una certa deviazione, non sistematica ma ugualmente vistosa, dalla linea maestra tenuta dalla tradizione devota per inquadrare i singoli episodi, esemplata sul modello formale dell’enunciato narrativo, in cui Gesù campeggia al centro della scena, come soggetto grammaticale, attivo o passivo, di un’azione. Luzi si adegua, in qualche caso, al canone più consolidato, titolando, ad esempio, Gesù nell’orto degli ulivi o Gesù incontra le pie donne; ma in qualche altro si emancipa completamente da questo stampo pianamente didascalico, optando per soluzioni più allusive, come La sentenza (ovviamente di condanna alla crocifissione) o Una donna pietosamente (con riferimento all’episodio della Veronica). Questa struttura di tipo nominale torna anche altrove, in veste di binomio, per introdurre, ogni volta, un motivo tematico; come nei casi già citati di Gesù e il pensiero della morte o di Gesù e la terra degli uomini. Di analogo tenore sono i sottotitoli esplicativi delle stazioni che prendono lo spunto da due cadute del Signore sotto il peso della croce: Seconda caduta. Gesù e la famiglia umana, Terza caduta. Il male e l’innocenza. La rimozione del verbo da queste frasi è indizio di una torsione del baricentro testuale dal piano del racconto a quello della meditazione, fino a convertire l’azione, con quel tanto di episodico e di momentaneo in cui si esaurisce, in una condizione perdurante, che attiene all’ontologia del vivente. Affinché, tuttavia, questa operazione non venga scambiata per un tentativo di disincarnare l’evento dalla sua tragica storicità, soccorrono altri titoli, a cominciare dall’originalissimo Mi alzano alla croce, anomalo anche nella scelta della prima persona, che sostituisce il codice narrativo o argomentativo degli altri titoli con quello teatrale del discorso diretto. Come l’autore stesso chiarisce nella Premessa all’edizione a stampa, la sua Via Crucis è concepita come «un testo poematico» che ha in Gesù non sol2 Cfr. Gianni Festa, Lo stile liturgico dell’ultimo Luzi, in Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste, con un’appendice di scritti dispersi, a cura di Paola Baioni e Davide Savio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014 (“Archivio della Letteratura Cattolica”, 7), pp. 187-201.

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tanto, com’è naturale, «l’unico agonista», ma anche, almeno fino alla crocifissione, l’unico parlante3. Si tratta di una scelta indubbiamente coraggiosa e oltremodo impegnativa, rarissima nel pur gettonato filone letterario degli ‘apocrifi moderni’, ovvero delle riscritture novecentesche dei Vangeli, che procedono in genere per vie laterali, facendo perno sulle figure di contorno4. Si prenda, ad esempio, per fare un confronto omogeneo e ravvicinato, la Rappresentazione della Croce di Giovanni Raboni5, pubblicata e andata in scena nel 2000, a distanza di non più di un anno e mezzo dalla lettura al Colosseo del testo luziano: molti sono i personaggi cui Raboni dà voce nei dialoghi e nelle parlate della sua Passione, da Pietro a Giuda, da Maria a Maddalena, da Pilato a Caifa, dai Soldati ai Pescatori, dai Farisei ai Sacerdoti; l’unico grande assente è il Cristo, da tutti evocato e chiamato in causa, vero polo magnetico di ogni discorso, ma in sé inattingibile, perennemente dietro le quinte. Il punto d’interesse della drammaturgia di Raboni non è perciò, a ben guardare, Gesù, ma il posto e il significato che ciascun personaggio gli attribuisce in rapporto a sé, alle sue macchinazioni politiche, al suo status sociale, ai suoi progetti di vita, alle decisioni da prendere, alla condotta tenuta in passato. Luzi, invece, accetta la sfida più ardua, quella di far parlare Gesù in persona, indovinandone i moti del cuore e il tenore dei pensieri nelle ore nevralgiche della Passione; tenta, insomma, di scrivere, rinnovando i privilegi dell’autore onnisciente, quello che con Mario Pomilio potremmo definire il ‘quinto evangelio’6, il Vangelo dei Vangeli, l’unico in grado di restituirci, se fosse mai sperabile tanta grazia di conoscenza, il vero Dio e vero Uomo in una visione dall’interno, totalmente fedele e plenaria. La Via Crucis di Luzi ci si offre, in altri termini, come una sorta di autobiografia della Passione, o, meglio ancora, di diario steso in prima persona o comunque dettato dallo stesso protagonista di essa. Mario Luzi, La Passione di Cristo, p. 9. Cfr. Apocrifi moderni. Riscritture dei Vangeli nel Novecento e oltre, Atti del convegno nazionale (Università Cattolica del Sacro Cuore, 8-9 maggio 2012), a cura di Giuseppe Langella, Borgomanero (Novara), Giuliano Ladolfi Editore, 2013. 5 Cfr. Giovanni Raboni, Rappresentazione della Croce, Milano, Garzanti, 2000. 6 Cfr. Mario Pomilio, Il quinto evangelio, Rusconi, Milano 1975. 3 4

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Solo nelle ultimissime stazioni, a partire da È di uomo infatti l’estremo pensiero, alla voce di Gesù ne subentra una esterna, quella di un «testimone della passione»7, che registra le parole pronunciate dal Maestro durante la sua straziante e nondimeno edificante agonia. Ne consegue, in una con lo spostamento della focalizzazione, un taglio più descrittivo, più adagiato sui fatti, dove la preoccupazione maggiore sembra tornata quella di narrare l’evento, secondo l’intenzione originaria degli evangelisti. Ma fino all’elevazione della croce Luzi si avvale del monologo interiore, per avvicinare il più possibile ai vissuti di Gesù chi assiste al dramma sacro per eccellenza della tradizione cristiana, accompagnando idealmente il Redentore lungo la via dolorosa. Ne risulta un registro molto differente, che guadagna in intimità e in dimensione esistenziale e spirituale quel che cede sul terreno referenziale del racconto. I fatti restano quasi sullo sfondo, appena accennati di scorcio, come cornice in cui si svolge e da cui prende le mosse il flusso di coscienza dell’uomo dei dolori. Immerso e schiacciato, ma non vinto, dalla prova spaventosa cui è sottoposto, nel dipanarsi di questo «ininterrotto monologo» il Gesù di Luzi, come ci avverte il poeta in Premessa, «confida al Padre la sua angoscia […], la sua afflizione e la sua soprannaturale certezza»8. E in effetti, il suo «accorato soliloquio»9 non è, in realtà, un assolo, un parlare tra sé e sé, ma una continua apostrofe al Padre, segnalata dal ‘tu’ cui egli costantemente si rivolge e non di rado esplicitata mediante un richiamo diretto in apertura: «Sono ora Padre in balìa degli uomini / a cui tu mi hai mandato», «Padre come vorrei fosse passato / questo tempo», «Padre mio, mi sono affezionato alla terra», «Padre, non giudicarlo / questo mio parlarti umano quasi delirante»10. Perfino nelle stazioni dove il racconto evangelico riporta un dialogo tra Gesù e i suoi interlocutori del momento, come lo scambio di battute col sommo sacerdote o con le pie donne, l’unico interlocutore del Gesù di Luzi è il Padre. Gli uomini, 7 L’incipit di questa quattordicesima stazione suona infatti così: «Subentro io testimone della passione» (Mario Luzi, La Passione di Cristo, p. 73). 8 Mario Luzi, La Passione di Cristo, p. 9. 9 Gianni Festa, Il discepolo e lo scriba: i "fondamenti invisibili" della poesia di Mario Luzi, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2013, p. 276. 10 Mario Luzi, La Passione di Cristo, rispettivamente pp. 21, 53, 65, 69.

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beninteso, non vengono estromessi da questo asse verticale: Gesù li tiene tutti stretti nel suo cuore, fatti oggetto di un amore davvero sconfinato, che del resto costituisce anche l’a priori del suo immolarsi per la loro salvezza. Ma conserva un rapporto privilegiato col Padre, tanto più nei terribili frangenti del sacrificio supremo che sta consumando in obbedienza alla sua volontà. Tutta la forza drammatica e lo spessore teologico del Cristo di Luzi derivano dal convergere in lui di spinte contrastanti, sancite ab antiquo dal dogma della doppia natura. Ci mette sull’avviso il poeta quando accenna, nella Premessa, ai pensieri che attraversano il suo Gesù, «dibattuti tra il divino e l’umano»11. Luzi ha saputo rendere con rara efficacia la compresenza, in un’unica persona, del Figlio dell’uomo e del Figlio di Dio, creando un movimento pendolare tra le due polarità della sua figura, in cui la sapienza divina supera, certo, il dato sconvolgente e sconfortante dell’esperienza umana, ma non lo cancella. Il suo Gesù vive fino in fondo, in piena autenticità di affetti e di emozioni, la propria incarnazione terrena12, dando «voce, nel nome dell’uomo, agli interrogativi di Giobbe»13. Anzi, come ha notato giustamente padre Gianni Festa, «l’umanità vulnerabile di Gesù» nella Via Crucis di Luzi «assume un rilievo preminente», mostrandoci il volto di un uomo «assalito dai dubbi, logorato dall’ambascia», «invaso dal pensiero della morte», «davanti al vuoto» della quale «arretra sgomento»14. Di questa preminenza è indice il titolo, già citato, di uno degli ultimi quadri: È di uomo infatti l’estremo pensiero. Il Gesù di Luzi vive – per dirla con Giorgio Tabanelli – «il dramma e lo strazio dell’Uomo che si sente solo e abbandonato»15. E appunto in questo Ibi, p. 9. Su quest’ultimo aspetto si è soffermato Gianfranco Ravasi in “Il bulbo della speranza”, incluso nell’appendice di Note critiche al vol. Mario Luzi, Autoritratto. Scritti scelti dall’Autore con versi inediti, a cura di Paolo Andrea Mettel e Stefano Verdino, Milano, Garzanti, 2007, poi Metteliana – Centro Stampa, Città di Castello (Perugia) 2014, donde si cita, p. 294. 13 Achille Silvestrini, Trovatore dell’uomo e di Dio, in Mario Luzi, Autoritratto..., p. 290. 14 Gianni Festa, Il discepolo e lo scriba…., pp. 276-278. 15 Mario Luzi − Giorgio Tabanelli, Il lungo viaggio del Novecento. Storia, politica, poesia, Venezia, Marsilio, 2014, p. 205. 11 12

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insondabile silenzio del Padre, che non interviene», che «non toglie a Cristo la sofferenza», consiste, per Luzi, «il mistero del male che opprime l’uomo», la sua vera «Croce»16. Da questa carne spaventata e ferita si leva sempre, però, la visione rasserenatrice, capace di proiettare l’evento tragico nell’orizzonte di un piano provvidenziale di riscatto. Su questo salto di prospettiva si chiude, emblematicamente, il monologo Gesù e il pensiero della morte: «Io che in nome tuo ho resuscitato Lazzaro / ho paura e dubito che la morte sia vincibile. / Ma a questo mi hai mandato, a vincere / la vittoria della morte»17; dove si vede che a salvare il Cristo umano di Luzi dalla disperazione è la fede incrollabile nei decreti del Padre e la sua totale docilità al suo disegno.

16 Ibidem. Sull’«apparente assenza di Dio» che mette duramente alla prova il Christus patiens di Luzi ha portato l’attenzione anche Ennio Antonelli nella sua testimonianza La voce della speranza, in Mario Luzi, Autoritratto..., p. 285. 17 Mario Luzi, La Passione di Cristo, p. 42. A conferma, si veda quel che rispose il poeta a Stefano Verdino nel volume-intervista Mario Luzi, La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, Casale Monferrato (Alessandria), Piemme, 1997, p. 92: «Cristo si riappropria di tutto il suo divino».

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Guglielmina Rogante La mostra: Viaggio terrestre di Mario Luzi

Il viaggio terrestre di Mario Luzi – Mostra documentaria e d’arte Fermo, 28 febbraio-11 aprile 2015



Una nicchia preziosa di materiali luziani la mostra allestita alla Biblioteca Civica di Fermo nelle due salette attigue alla Sala di lettura: ricchezza di foto, rari autografi, lettere che sono paragrafi di storia letteraria, edizioni capitali ed edizioni rare. Materiali che scrivono la vita di un grande poeta che non pochi legami ha intessuto con le Marche e con la città di Fermo, dove più volte è tornato accolto da un pubblico attento e dagli amici, a lui cari, dell’Associazione La Luna, presieduta per l’ambito letterario dal poeta Eugenio De Signoribus. Segni iscritti sul panorama vasto e vario del ’900, metamorfico, affollato di idee, di autori, di premi, di editori, lungo il quale Luzi si è mosso con discrezione e autorità, partecipando della nascita di movimenti e dichiarandone la fine («fra le rose d’Armida un guerriero è sfiorito» scrisse in Un Brindisi simboleggiando l’epilogo della poesia pura), mostrando nuove strade, sempre all’insegna della ricerca, ontologica ed espressiva. Chi ha visitato la mostra, in quel materiale giunto a Fermo grazie alla mediazione di Stefano Verdino, e che l’Associazione La Luna con la Biblioteca Civica hanno organizzato e messo in visione, ha tangibilmente potuto percepire il senso della poesia luziana come un intenso viaggio nella storia e nella cultura, e, attraverso autografi e dattiloscritti, la incessante recherche della parola, che in Luzi, come fu per gli ermetici, è sempre parola di vita, operata con un’interrogazione che oltrepassa il manifesto avvicendarsi dei fenomeni, e percorre l’accidentata strada che conduce all’Essere. E si spera che il visitatore abbia avuto anche la percezione di avere a che fare con la grandezza di un classico. Le foto, distribuite nella Sala delle collezioni ottocentesche, richiamano stagioni, luoghi, compagni di strada, passaggi. Il tempo fervido dell’ermeti79


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smo sta nei ritratti con Parronchi, Betocchi e Carlo Bo, con Montale e l’editore Neri Pozza; poi Luzi con i poeti che hanno fatto il Novecento: Caproni, Zanzotto, Sanguineti, Giudici; i passaggi estivi, a Pienza con don Flori, l’amico di tante conversazioni spirituali; i passaggi marchigiani a Recanati con la contessa Leopardi e Eugenio De Signoribus; a Urbania con Bonnefoy; a Fermo per ricevere il libro d’arte Sole e mare, celebrante il suo amore per l’Est, terra delle origini, luogo degli elementi originari, Principio perennemente ricercato e fatto ricercare, nel suo Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, al pittore conterraneo, a ritroso, in stringente identificazione, come prova di estrema conoscenza, ultimo traguardo conoscitivo. Infine le foto private, della famiglia d’origine, con la moglie e il figlio negli anni ’50, i luoghi intimi della sua casa fiorentina sull’Arno, a Bellariva, il terrazzo, la cucina, lo studio, la cameretta. Luoghi di esistenza e di pensiero, luoghi di memoria, luoghi del dialogo e della storia. Perché un poeta come Luzi è tutto questo vissuto con estrema tensione, conoscitiva e religiosa, che in poesia si traduce in una incessante domanda, in sospensione, in attesa. Il percorso iconografico fa da giusto prologo alle tante edizioni esposte, edizioni note e rare, ed edizioni d’arte, ma soprattutto alle carte uscite dal laboratorio del poeta, dal lavoro sulla parola, rappresentato da sei tra autografi e dattiloscritti, incunaboli di poesie note, come il dattiloscritto che contiene il nucleo fondante della lirica Nell’imminenza dei quarant’anni, di Onore del vero, o gli autografi di poesie coeve a La barca (1935), non incluse nel libretto d’esordio, ma nel 1990 recuperate dal poeta e inserite in Perse e brade, ora poste in Appendice al Meridiano curato da Stefano Verdino (1998), come ineludibile documentazione storica di un percorso poetico avviato e declinato, comunque «avvenuto», come nota il curatore nell’apparato critico. Nell’imminenza dei quarant’anni è lirica cruciale nella progressione poetica dell’autore, rivelante l’ormai avvenuto passaggio dallo stato di giovanile meraviglia e letizia creaturale alla sliricizzazione imposta dalla storia, dalle sue oscurità, dalle sue perdite. Il viaggio terrestre di Luzi abbandonate le «strade odorose» dell’aura ermetica, ora attraversa un «borgo cupo» spazzato da «un vento d’altipiano», dove solo alligna «l’albero di dolore» dai cui rami cadono anni e storie. Ma è in virtù dell’ardore di conoscenza e carità con cui il poeta attraversa i freddi vicoli che «il fuoco oltre la fiamma dura ancora», 80


La mostra: Viaggio terrestre di Mario Luzi

così partecipando del corpo mistico della Croce universale. La lirica dattiloscritta esposta a Fermo è una delle carte preparatorie a questo testo, recando essa in incipit, pur in un contesto differente, il citato nucleo etico-religioso di Nell’imminenza: «Il fuoco oltre la fiamma dura ancora, / la vita senza ardore è ancora vita». Indizio di una insistenza ideativa nella mente del poeta già codificata in immagine simbolica, quella del fuoco d’amore e di conoscenza che permette alla fiamma breve del tempo di intersecarsi con l’eterno. Il seguito del dattiloscritto declina un tema luziano costante da Parca-villaggio ai versi di Onore del vero: il perenne sfrangiarsi dell’esistere, tra vita e morte («l’autunno ormai affila le montagne, [verso ripreso in L’osteria] / cola dalle ferite, si propaga / nelle polpe ancora integre /…/ Il primo tonfo, il primo colpo d’ascia…»). Uno smagliarsi riscattato dalla coscienza, in senso naturalistico e religioso, che ogni morte cela il germe della rinascita («s’apre la terra alla semina, / quello che pare termine è anche inizio») e dall’interrogazione-attesa escatologica («Tu dove sei che per lunga promessa / vieni ed occupi il posto / lasciato dalla sofferenza?»). Del manipolo di Perse e brade scritte tra il 1935 e gli anni ’50 e recuperate dal poeta, la mostra espone due autografi: i versi di Scendono le vaste pianure i giovani torrenti coevi a La barca e, di poco posteriori, Rari segni m’allevano alla morte. Entrambi ritrovati da Luzi tra le sue carte, il secondo vide la stampa come sezione VII del Monologo, in “Botteghe oscure” (quaderno III, Roma 1949). Nel primo autografo, segnato da poche correzioni, attorno all’immagine fluviale, che sempre nel poeta assume grande intensità vitale, feconda di rifrazioni di molteplicità e metamorfosi (rapidamente ricordiamo Lo sguardo de La barca, Lungo il fiume di Onore del vero e Presso il Bisenzio in Nel magma), si leva il canto delle creature in luminosa e docile tensione verso una dimensione sovrumana: il tuffo della «rondine» dall’ «ala infervorata», le «fanciulle» dagli «assolat(i)» luoghi terrestri sospiranti il celeste, «l’erba dei rifioriti continenti» che «nel mare profuma», immagine questa che si ritrova in Alla primavera (La barca): «Dal fondo dei mari i vascelli si faranno un’erba / per la rondine acerba al valico dei continenti». La voce corale di un fatale divenire fluisce figurata dallo scorrere perenne delle acque dove mature lavandaie si specchiano nelle loro immagini giovanili. La vita fedele a se stessa, nozione persistente della poesia di Luzi, viene ricapi81


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tolata nel congedo «ecco così fedele si propaga / la grazia tra le docili creature», che annuncia il finale della bellissima Augurio di Dal fondo delle campagne: «Sia grazia essere qui, / nel giusto della vita, nell’opera del mondo. Sia così». Dal laboratorio di Un brindisi (1946), raccolta che testimonia, nel pieno dei passaggi angosciosi della storia, la necessità di una poesia che si innervi, pur nella insospesa domanda di senso, nelle ombre e nei deserti dell’esistere, provengono il dattiloscritto A Firenze, preparatorio di Memoria di Firenze, e il manoscritto Nella nebbia di quello che tu fosti, che ne Il giusto della vita diventa Non so come, poesia dedicata ad Elena, dove nucleo del testo è la metamorfosi del rapporto. Ma più che al nucleo poetico le carte indirizzano l’interesse del visitatore verso il lavoro testuale del poeta, dai passaggi intermedi alle redazioni definitive. Nel testo dedicato ad Elena il dattiloscritto in quattro strofe di cinque versi, rispetto al testo poi stampato in Un Brindisi col titolo di Piccolo inno, presenta un passaggio notevolmente prosastico «non mi ricordi però lente parole / sul gelido barbaglio nel cielo smemorato, / ma il tuo pettine triste nella luce / delle piogge – uno scettro desolato / sull’essenza avvenire della notte» che nella redazione per la prima stampa si innalza poeticamente anche in virtù di qualche suggestione montaliana: «Ah non ricordo più le tue parole, / avevano un barbaglio sul cielo marmorato, / ma il tuo pettine vivo nella luce / delle piogge…». Sull’ultima strofa il poeta poi lavora riscrivendola a matita con interventi funzionali a fare della figura femminile un emblema poetico e ad espungere l’ombra dell’autobiografismo. Diamo le due redazioni della strofa: a-

Nel bagliore di quella che tu appari ora qui nelle penombre, stranita, morendo nella tua l’altrui dimenticanza i sospiri desistono, precipita il vento della mia vita in un turbine.

b - e quale appari ora, un lieve fremito nella penombra muta in cui sei fusa riassorbita dall’anno che ti spinse al tuo culmine i sospiri desistono, precipita il vento della vita in un turbine.

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La mostra: Viaggio terrestre di Mario Luzi

Infine nella stesura definitiva per Il giusto della vita (1960), con magistrale sintesi poetica, delle quattro strofe, Luzi raccoglie solo la prima e l’ultima, a cui affida il titolo dubitativo di Non so come: Nella nebbia di quella che tu fosti dentro cieli improvvisi alta, friabile, coronata di piogge, unta di lagrime, risonante di echi, non so come… nel chiarore di quella che sei oggi, o equanime, o discosta, non so come le passioni desistono, precipita il vento della mia vita in un turbine.

Il progredire del testo nelle diverse redazioni è documentato nell’Apparato critico redatto da Stefano Verdino per il volume Meridiano. Fuggevolezza e resistenza della memoria sono pure i temi del testo dedicato a Firenze, la città di una vita. Nel dattiloscritto essi sono espressi nel modulo ancora giovanile del desiderio-speranza esplicitato con l’uso del tempo futuro («oltre la bruma / vedrò le tue pareti sofferenti»; «ascolterò / la tua voce recedere in assorte stanze»; «non un pianto, ma una musica concorde / coi secoli sarà»). Nel testo definitivo sono rielaborati seguendo la cognizione della persistenza della memoria sul fluire del tempo, resa con l’uso iterativo dell’imperfetto («e quando resistevano /…/ le tue eccelse pareti sofferenti /…/ più distinto era il soffio della vita / intanto che fuggiva»; «là dove s’ascoltava /…/ la tua voce recedere in assorte / stanze ma non morire, / non un pianto, ma una musica concorde / coi secoli affluiva»). Sostanzialmente senza varianti la chiusa, secondo Macrì (cfr. Verdino nell’Apparato critico), di sapore foscoliano: «Senza un grido, / né un sorriso per me lungo le sorde / tue strade che conducono all’Eliso…».

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Fabio Ciceroni Fermo quel giorno

Il viaggio terrestre di Mario Luzi – Mostra documentaria e d’arte Fermo, 28 febbraio-11 aprile 2015



Quel giorno, 28 febbraio 2015, è lo stesso della morte di Mario Luzi, dieci anni dopo. Più che una rimemorazione critica, peraltro celebrata altrove – a Siena, Firenze, Milano… – il decennale è stato vissuto in pacata confidenza amicale. A Fermo. Ove con levità è potuta riaffiorare nei presenti la misura umana dell’uomo dagli occhi di acuta mitezza, così artigliante per la comprensione del mondo. Sguardo del poeta teso all’estremo e mai stremato lungo settant’anni di lacerata timidezza. Complice una fervida storia di sintonia spirituale tra lui e le convergenti esperienze di poeti ed artisti dell’Associazione culturale La Luna, editrice della rivista Istmi, entrambe orientate da Eugenio De Signoribus, poeta dello sgomento cosmico, a Luzi empatico fino a richiamarvi qui e ora, suggello avallante, la presenza di Stefano Verdino, che di Luzi ha la piena custodia critica. Grazie a questi ed a Gianni Luzi, figlio del “gran fiorentino”, La Luna ha potuto assiepare ancora una volta una serie di testi rari o inediti in versi e prose, e per il decennale raccolti in Ti chiedo perdono di essere nato. Volumetto, il titolo annuncia, come porta aperta su un Luzi ripiegato fino alla denegazione di sé quale «grumo opaco alla trasparenza del creato» quasi «macula alla sua purezza»: preghiera di non essere all’essere, che è mare ove perdersi nelle diversità insondabili. Movente leopardiano non accidentale in terra marchigiana. Fino ad escutere riflessioni su intimità e biografia di un Mario Luzi in viaggio permanente da una sua Toscana marginale verso una meta orientale, ritorno all’origine aperto sulla salvifica colonna di luce che all’alba il tremolar della marina dona all’Adriatico. Apertura che gli rimemora un paesaggio umano e familiare: il nonno Giuseppe Luzi, «figura 87


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austera, premurosa e saggia», che resuscita in lui una rêverie per quella scelta romanzesca, l’Italia appena unita, di lasciare il Metauro degli avi per il Fiora. Periferia formativa è poi l’infanzia a Samprugnano fino alla radiosa scoperta adolescenziale di Siena, la cui arte gli lascia un sigillo indelebile. Periferia anche dov’era nato, Castello, allora frazione di Sesto Fiorentino, non dunque Firenze. Anzi, «prima di acquistare una certa fiorentinità mi ci vollero anni…per questo non sono mai stato fiorentino come gli altri». Poi a Firenze, primi anni Trenta, l’incontro con la futura moglie, Elena Monaci, che vi giunge dal Piceno, terra di confine (e proprio Istmi – La Luna pubblicherà l’inedita lirica dell’innamoramento, 2014). È anche l’urgenza ritornante di questo contrappunto periferico a permeare di conversioni linguistiche la sua fedeltà alla poesia, a suscitare scoramento e ribellione a fronte degli abomini della storia, a fomentare la ricerca sulla parola e di questa sulla modernità in un continuo rinnovarsi di stagioni storiche e di una multipla tradizione letteraria in controverso antagonismo col suo primario stilnovo ermetico. Si officia in lui tutto il rovello di un’esistenza che preme per darsi una forma. Poesia plurima eppure mai sperimentale la sua, per approdare ad un discorso naturale ove orizzonte e vertice si traguardino in pieno dinamismo intellettivo e sensoriale. Nel nostro tempo allarmato la poesia sussume in Luzi l’antico ruolo della filosofia. Così egli resta fedele sino all’ultimo a quel pensiero poetante, che indica il viaggio verso un «buon uso delle rovine» finché e purché ne riesca indenne la promessa di un ritorno alla sorgente. Nella sua parola poetica preme un impulso all’eternità nonostante l’impermanenza di ogni esistere. Qui sta la sua capacità di premonizione. Appena ventenne ha già in sé una lucidità predittiva sul nostro oggi occidentale, un mondo di apparente vitalità ma atrofico nella sua congestione, ove «non manca l’azione, ma il sentimento dell’azione, che deriva direttamente da una fede accolta e nutrita con calore» (Il sangue bianco dell’Europa). Qui il suo stigma, che è tensione a quella «sublimazione concreta» del dato reale inoculatagli dall’arte senese del “suo” Simone Martini. Sull’inferno di dolore e di astiosa sopraffazione della storia, la poesia è chiamata all’esercizio di una verifica spietata ma anche ad incidervi col lacerante bulino della salvezza: la sfida estrema è con la Rivelazione, la presa d’atto della «travolgente nascita» ben oltre la certez88


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za «terribilmente ottimistica del cristianesimo». Questa sfida ultima «degna di un uomo che vive e soffre intensamente» tra fede e disperazione trova eco puntuale almeno in due delle riflessioni in prosa rivelate dal libretto fermano. Tra loro assai diverse per occasione, Il lutto cristiano e Solitudine, sono tuttavia rispettivamente aggiogate dall’idea desertificante dell’impermanenza della vita l’una, e l’altra dell’amicizia, che dell’esistenza di Luzi è stata cifra essenziale. Atavica condanna in entrambe è la coscienza dell’espulsione invincibile dal mondo vitale. Dopo la morte di Abele, il giusto, di lui pesa l’inconoscibilità della sorte assorbita tra pena e pietà, tra umano rifiuto dell’affronto e mite accettazione che si scioglie in preghiera: ti chiedo perdono di essere sopravvissuto. Così anche l’irrefutabile consapevolezza della propria solitudine accresce la solitudine, che diventa solo rimedio a sé stessa. «Tutti gli affetti, tutti gli amici…non impediscono che quando mi penso, mi penso solo» e «neppure il sapersi vivo della vita di tutte le creature – come ora penso e sento di essere – rimargina quella ferita». Solitudine del poeta, il cui «vivere è ancora ciò che ci rimane / occupate le dita già dal gelo». Braccato nella sua solitaria plenitudine dalla propria indicibilità agli altri, come ai compagni di lotta di Presso il Bisenzio: «È difficile spiegarti. Ma sappi che il cammino / per me era più lungo che per voi /e passava da altre parti…È difficile, difficile spiegarti». Resta, costante e fermo lungo il viaggio – che sia promenade, cammino, infine pellegrinaggio – quel Desiderio di verità che ne è il movente e che ora titola l’ antologia di scritti civili del Luzi “politico” richiamati amorevolmente da Istmi nel suo numero annuale 2014, centenario della nascita. Una trentina di pagine iniziali addensa il coagulo ordinato di pensiero e sentimento in un pamphlet sullo stato corrente d’Italia. Una visione coerente in un crescendo di passione che sfiora l’invettiva dantesca. Ma lo sdegno dell’innocente ferito si alterna allo scoramento dell’amante deluso eppure fedele all’idea sempre alta di un’Italia «luogo superiore della evoluzione culturale dell’umanità», tuttavia ancora costretta nell’angustia della rissa antica. Idea di un’unità che continua a mancare cui egli vuol sopperire con un mito operativo che non può perire. «L’Italia è stata vera nella tensione verso un sé da raggiungere, è stata una vera utopia, oppure non è stata niente». Un file occhieggia anche dal libretto fermano, Gli anni ’40, stilato in suprema sintesi proprio nel cadere del 89


Fabio Ciceroni

secolo (breve? infinito?) delle idee assassine: 15 dicembre 1999. La metà di quel fatale decennio segna la faglia tra due epoche: «anni prima allarmati, poi traumatici, poi da incubo, poi disastrosi, infine umiliati e miseri» per la corruzione degli animi, «l’ostilità sempre meno occulta verso gli uomini che non si possono comprare». Amici lo hanno accompagnato nell’illusoria palingenesi «verso una possibile ricostituzione»: Giaime Pintor, Vittorini, Bilenchi, La Pira. E da sempre i modelli alti della nazione e della lingua, Dante e Leopardi. Ma questi tutti, e gli altri sodali di letture sterminate e di corrispondenze letterarie, poggiano sul sostrato formativo più profondo che si è rappreso nel paradigma domestico: la madre, malinconica vestale dell’oltre in quel «mondo di religione contadina ed elementare ma introflesso» che lo affascina nel «suo trasportare tutte le cose in una interiorità», promessa di «costante figurale e trascendentale» (Verdino) della sua poesia; il marchigiano nonno paterno «che, ragazzo, mi aspettava nella sua vasta casa» a Giogoli, attorno a Firenze, dove Mario trascorre le vacanze e fa la prima comunione. Poi il padre Ciro, il capostazione di Castello e consigliere a Sesto Fiorentino, liberale infastidito dai fascisti. Con un altro file segreto di «commossa intelligenza postuma» gli si rivolge rimemorandone la «ricchezza, umile e riservata, rimasta in ombra» del buon padre di famiglia. E che, nel giorno compleanno di lui – trascorsi centoundici anni – il figlio Mario estrae «da un interno che non si vede, ma s’intuisce», trasmettendogli il portato della continuità genealogica che si rinnova «per trascorrere a me e da me a mio figlio ed a suo figlio e al figlio di suo figlio». Ed infine Elena con «la pungente dolcezza del nostro principio» quando egli era «ancora / inabitato d’umiltà, / ignudo di limiti». Quel giorno, a Fermo, è dunque potuta germogliare una rilettura riservata e devota di Mario Luzi, condotta sul registro medio e sommesso del riconoscimento all’ abissale necessità d’interrogazione e di svelamento, al dovere d’inquietudine, alla meraviglia etica della sua poesia. Una rilettura offerta da un osservatorio, non marginale e non silente, a quella naturalezza che trova nell’abiura di ogni astrazione il fondamento verificabile entro una storia dei suoi codici espressivi. Di qui, da questa geografia orientale, anche il percepibile respiro di un suo policentrismo culturale, così acuito da assorbirne le diversità antropologiche fino a confluire nel suo paesaggio interiore. 90


Fermo, quel giorno

Poeta di autocoscienza nazionale e di convergenze europee, è stato filtrato qui, da un rifugio mai quieto della provincia centritaliana, da una dignità di vita rinnovellata nella civiltà dell’amicizia. Amici come maestri veri. Tra questi l’aura luminosa che riesce a creare la presenza inerme di Eugenio De Signoribus, il poeta distante da Luzi per generazione e formazione, eppure a lui così consentaneo. Anche lui maestro in ombra nella comune solitarietà di ascendenza marchigiana, ossia leopardiana. In entrambi, il flusso vitale, il senso dell’avanzamento della lingua della poesia come dell’esistenza. Il movimento, inappagato, intrinseco al loro fare poetico che obbliga Luzi al tuffo nel magma ed Eugenio al grido nella Ronda dei conversi. Pellegrine le loro parole entro le stagioni diverse della proterva reiterazione del male, perché c’è sempre un’opera umana da compiere: interrogarci sino allo spasimo se siamo ancora testimoni o profeti dell’innocenza di Abele. Ferma, quel giorno del decennale, l’impressione che questa celeste affinità abbia sospinto Mario Luzi negli ultimi anni non solo a frequentare appena possibile sole e suono delle sue domeniche ascolane, ma a far lievitare negli anni la stima schietta verso la corale accolta fermana di Istmi e de La Luna. Da cui la corona di quegli incisori (Piccardoni, Cartuccia, Sanchini, Pazzi, Bartolomeoli, Torcianti) è tornata ad illuminare di forme i capitoli finora inediti del volumetto fermano. Con nota sugli artisti di Nunzio Giustozzi e letture poetiche di Piergiorgio Cinì.

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Nunzio Giustozzi I segni dello Spirito

Il viaggio terrestre di Mario Luzi – Mostra documentaria e d’arte Fermo, 28 febbraio-11 aprile 2015



Una decade dalla scomparsa dell’ultimo, sommo poeta del Novecento e un tributo. Sono le dita le prime ad apprezzare il pregio della raccolta1, dove ogni carattere si imprime nella cedevole ruvidità della carta di pura cellulosa, avida di un inchiostro insolitamente nero e nitido per occhi avvezzi all’uniformità del bistro sbiadito della stampa offset. Risaltano le righe ritrovate di Mario Luzi, frasi scelte in una prosa lirica, sensibile e perciò discosta dal frastuono della corrente percezione. Il godimento continua nella raffinatezza delle tavole ispirate agli scritti, incise e stampate da sei artisti, con ancora ben visibile il solco impresso dal perimetro lievemente stondato dalla bisellatura della lastra calcografica sul foglio umido, anch’esso ricco di rilievi e depressioni insospettate, dalle tinte così sature di un inchiostro grasso e denso che impregna con decisione ogni fibrilla del supporto cartaceo. Un’acquaforte di Riccardo Piccardoni accompagna Tram a Firenze. La morsura corrode intrinsecamente la scena tra serrate prospettive di piani. La visione simultanea del tempo inclinato percorre il fascino metallico del mezzo esteriore nel suo meccanico incedere verso una rappresentazione coinvolgente dell’interno, dove l’umanità in movimento è messa a nudo dall’immagine diafana delle sagome graffiate da una punta in una tessitura di infiniti tratteggi. 1 Si fa riferimento a Mario Luzi, Ti chiedo perdono di essere nato: note e appunti, Casette d’Ete AP: Associazione culturale La Luna - Istmi, 2015; edizione d’arte in centodieci esemplari.

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Nunzio Giustozzi

Una coerenza simbolica informa la lettura che Agostino Cartuccia propone de Il lutto cristiano. La meditazione filosofica sull’aspetto sacrificale è rivelata da una traccia cromatica discontinua, battente in una situazione aperta alla speranza. La sintesi dinamica del segno è consona all’autore che riesce a costruire icone dell’anima con semplici gesti esteriori. A Semplicità e meraviglia rimandano le infuocate geometrie di Athos Sanchini che la luce abbacinante del sole rischiara e mangia, come acido, come la razionalità delle cose. La tensione monta a vertigini siderali, verso un cielo ruvido, che sembra fatto di granelli fissati a una matrice calda, dove lievi ruotano trasparenze, lavate nel colore ma cariche di una sublime vibrazione spirituale. La sedia curule nella traduzione di Sandro Pazzi evoca le ragioni del cuore, il sentimento della natura incredibilmente morbido e tonale al di là del regime schematico della conoscenza, modulato in una fitta granitura fatta degli aspri valori del chiaroscuro. L’importante è scoprire tentazioni immaginarie oltre l’inquadratura del reale: nell’aria leggera, nella verde quiete, fra i dolci riflessi della placida riva. Lacerante, di una durezza espressionista, è l’interpretazione che Alfredo Bartolomeoli dà di Solitudine. Un grido, un occhio perso nel vuoto, intorno alla voragine del bianco, il punto in cui la matrice lignea è scavata più profondamente dal lavoro tagliente delle sgorbie, assorbito altrove da un fosco verde tipografico in una tessitura di sottili filamenti paralleli che corrono con il nero, o sovrapposti alla mercé di un triste vento. Echi della Metafisica e della Transavanguardia si odono specularmente nella creazione di Franco Torcianti ispirata all’oracolare Poetry Day Delfi 2001. Una sapiente mistura di tecniche non basta a risolvere l’enigma del canto rituale affidato ad antiche eppure arcane lettere scomposte su rotuli come boe in balìa delle onde. L’empireo dell’arte poetica resta classico ma rimane un mistero distante in un tempio abitato da divinità umane sotto la volta celeste. Le opere d’arte che ingemmano il volume si pongono non come “illustrazioni” realizzate per completare, arricchire, rendere visibile il codice. Sono piuttosto segni dello Spirito, un controcanto al testo equivalente a un’impressione naturale, a un libero fondamento creativo: dove la parola è luogo di attesa e riflessione per il pensiero, l’immagine diviene lo spazio dell’azione, binario su cui corre l’espressione estetica accanto a quella poetica. In una dimensione nuova. 96


Nino Alfiero Petreni Pienza ricorda il “suo� Mario Luzi

Pienza, 19 ottobre 2014



È la città intera, con il Comune e le numerose associazioni che vi operano, che ha voluto fortemente celebrare Mario Luzi nel centesimo anniversario della sua nascita. Pienza ha svolto parte attiva nel Comitato sorto sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, partecipando in tutta Italia alle più importanti celebrazioni di questo centenario luziano (1914-2014), e la mostra Mario Luzi: Le campagne, la parola, la luce – Memorie di terra toscana nel Museo della città, che rimarrà aperta fino al 31 di ottobre, è la prova concreta ed evidente di un amore riconoscente. Ma il 20 ottobre, giorno della nascita del suo illustre cittadino onorario, meritava un evento particolare. Ecco quindi l’incontro a Pienza, Il senso della poesia. Ricordando Mario Luzi, con Adonis, il poeta arabo di assoluto rilievo nel quadro della letteratura mondiale di oggi, e l’artista Marco Nereo Rotelli, che della poesia e della parola ha fatto la sua ragione di vita, con interventi di Fawzi Al Delmi, il traduttore dall’arabo delle poesie di Adonis, di Marco Marchi, uno dei più attenti critici dell’opera luziana, e di Paolo Mettel, presidente del comitato del centenario. Questo incontro a Pienza, di Adonis e Rotelli, nel segno di una antica amicizia e collaborazione con Luzi, parte da lontano, parte da Roma, alla fine dell’anno 2002, a Ponte Milvio, dove Marco Nereo Rotelli realizzò una memorabile installazione luminosa: «Ponti che uniscono terre diverse», con i versi appunto di Mario Luzi e di Adonis, il tutto in un’atmosfera quasi surreale, magica, nella quale sembrava che Il Ponte avesse preso vita e volesse volare oltre le nuvole, per unire popoli e terre diverse. Ed i due grandi poeti, amici da molto tempo di Rotelli, scrissero per quell’occasione versi preziosi, che così iniziavano: 99


Nino Alfiero Petreni

Mario Luzi:

Adonis:

Bellezza, lo sentiamo che sei al mondo … Qualche transitiva forma ci illudiamo ti sorprenda: da qualche raro volto ci fulmini e ci incanti...

La morte arriva alle spalle anche quando sembra venire incontro L’incontro è per la sola vita il gruppo scrive la storia che l’uomo legge...

«Illuminare Ponte Milvio – scrisse Rotelli – è stato un sogno. Avevo chiesto a Mario Luzi e Adonis se mi donavano un verso da proiettare con i laser. Ho illuminato il Tevere di luce azzurra, ho scritto poesie su lastre d’acciaio che al centro del Ponte creavano un piccolo luogo sacro». È ancora Rotelli, che nella sua ricerca coinvolge filosofi, musicisti, fotografi, registi, ma principalmente ed essenzialmente la poesia e che nella cava di marmo abbandonata di Carrara realizza «La Cava dei Poeti», un progetto di arte, poesia e musica, cioè quel sogno totale che l’arte insegue da sempre, scolpendo sulle splendide pareti di marmo le parole dei più grandi poeti del mondo, tra le quali ovviamente quelle di Mario Luzi e Adonis. Pienza, per circa trenta anni, ha accolto Mario Luzi, prima al Seminario vescovile con don Fernaldo Flori e poi alla mitica Via del bacio, di fronte al mirifico paesaggio della Val d’Orcia. A Pienza, nel suo buen retiro, Luzi, nelle calde stagioni estive, si ricaricava di luce e di calore, e confortato dal silenzio ovattato della città, ha composto molte delle sue opere. E qui nel pieno spirito che le ha valso il riconoscimento da parte dell’Unesco di Patrimonio mondiale dell’umanità, Pienza rende omaggio ancora una volta a Lui, alla sua arte, alla sua vita di vero uomo di pace, cantore coraggioso e attento di tutte le nostre vicende umane e rende omaggio al grande poeta 100


Pienza ricorda il “suo” Mario Luzi

Adonis, e alla sua amicizia per Luzi. Ci piace riproporre questo suo scritto per Mario Luzi: La poesia di Mario Luzi ha un alfabeto particolare, unico, nel quale la poesia si trasforma in teatro interiore, intimo e aperto alle cose umane e mondane. Le cose giungono a questo teatro e uscendo da sé entrano in un movimento di luce simile all’ombra, o d’ombra simile alla luce. Un teatro che indaga e osserva, che va oltre il chiaro e l’oscuro, dove nella notte della foresta dei sentimenti non c’è che il fiore del sole. Adonis

Nell’occasione dell’incontro pientino, nella Sala convegni comunale viene inaugurata la Mostra «Vento e Luce», un evento itinerante, un sentito omaggio al poeta Mario Luzi. Adonis e Marco Nereo Rotelli in una comune ricerca, un comune investimento sul «moto poetico» del e per vivere, un «credere» cioè che la poesia può portare la verità dell’uomo e aprire puramente alla vita. L’opera comune di Adonis e Rotelli prenderà forma a Pienza, grazie a un evento curato da Salvatore Marsiglione che ha colto l’importanza di questo incontro ed ha voluto promuoverlo come movimento, come vera e propria dichiarazione di un intento poetico. La parola è al centro dello spazio visivo come un immaginario filo che lo attraversa. Questa idea era stata espressa in una importante mostra che poeta e artista realizzarono a Milano nelle maestose sale di Palazzo Reale e alla Rotonda della Besana, oltre che un progetto urbano con istallazioni luminose e marmoree in Piazza Duomo, Facciata del Palazzo Reale e affissioni in tutta la città meneghina, per poi essere ripetuta in Piazza Duomo a Como nel meraviglioso Palazzo Broletto ed in Pinacoteca Civica con un incontro alla presenza di Adonis con i maggiori intellettuali italiani. Adonis poeta, pittore, filosofo: un uomo, un intellettuale che crede profondamente nella cultura come cambiamento, come «ragionamento» verso una condizione umana di rispetto, di comprensione. Adonis capace di comprendere le differenze, di creare sistemi per comporle, capace di considerare la diversità e nel contempo di rispettarla considerando le ragioni dell’altro. Sono elementi questi che affiorano negli eccezionali disegni che il più importante poeta di lingua araba vivente presenta in questa mostra; Adonis affron101


Nino Alfiero Petreni

ta lo spazio pittorico con le armi più elementari, il bianco del cartoncino e il nero inchiostro, conducendo chi guarda nello spazio e nel tempo intrecciato: dalla scrittura alla percezione della forma, all’energia misteriosa dell’informe. Non possiamo non pensare queste opere di Adonis se non come un viaggio luminologico. Le linee, i confini, le forme e gli orizzonti che vi si percepiscono non rappresentano che il ritmo dell’espandersi del pensiero luminoso. In questi recenti lavori l’opera di questo grande maestro che vive tra Oriente ed Occidente è più libera, sgombra da contaminazioni evocative. Le composizioni sembrano essere un aut aut, bianco o nero, bene o male, luce o buio, ma in questo «sembrare» egli gioca la chance della parola che diviene guida. Mentre le macchie nere segnano l’assenza e rimandano a cose, corpi che furono, la poesia dipinta guida la danza, trasforma la traccia dell’icona, la traccia di verità scomparse in oblio e affida alla parola poetica una nuova danza. Il senso dell’incontro artistico con l’artista Marco Nereo Rotelli risiede nella condivisa fiducia nella parola etica/poetica. Rotelli, noto per le sue spettacolari installazioni luminose in tutto il mondo da Santiago a New York, da Chicago a Montecarlo, dove illuminando città intere rende visibile un universo poetico, presenta a Pienza delle microcosmiche visioni dove l’azzurro, il colore della memoria, rimanda all’incanto della visione. È un enigmatico intreccio di percezioni il suo, con monocrome stesure di colore blu azzurro ceruleo, il colore amato da Luzi. Rotelli lavora da anni su un’idea di materializzazione della parola poetica utilizzando differenti media. Nella sua ricerca è riconoscibile un costante impegno e un dialogo sistematico tra figure e parole, in cui pittura, scultura, narrativa e poesia diventano il territorio in cui costruire un percorso estetico e di impegno civile. Per Marco Nereo Rotelli la «verità» si raggiunge e si abita con la poesia. La poesia è un bene comune da difendere e diffondere, capace di suggerire a ognuno una forma di comportamento.

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Adonis Alchimia

Per gentile concessione di Ugo Guanda Editore, letta a Pienza il 20 ottobre 2014.



ALCHIMIA

Avanzate, o campi, con passi di paglia spogliati, o monte passa la luce e con lei passano gli insetti passano le boscaglie, i fianchi delle colline. E io ricoperto dal tempo e dalle sue ceneri gettato dagli alberi e dalle loro fenditure afferrato da uno spazio cinto di cosce invisibili tra le onde dei frutti cerco i germogli dell’erranza dove mi issa l’albero del piacere e le rocce si fondono alle vele, dove il corpo è un rifugio e il desiderio una fortezza assediata. Dico: il nostro spazio sarà selvatico, verde, ma amore che verrai, corpo che verrai, dove ospitarti che cosa donarti se non la memoria delle farfalle?

(Traduzione dall’arabo di Fawzi Al Delmi)

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Marco Marchi Per ricordare Mario Luzi e salutare Adonis

Pienza, 28 marzo 2015



Festeggiamo il centenario della nascita di Mario Luzi ed è suggestivo immaginare, uniti nel ricordo, tutti i luoghi e tutti i tempi della sua lunga e intensamente operosa vita: tutti, compresi dunque i giorni e gli indimenticabili momenti in cui Luzi è stato ospite tra i più insigni di Pienza per tanti anni, per tante delle sue tarde estati, in compagnia dello stimatissimo, amatissimo Don Fernaldo Flori e di tanti pientini diventati poi suoi amici, amici che come un amico insostituibile di anno in anno, estate dopo estate, lo aspettavano. Tutti i tempi e tutti i luoghi della vita di Mario Luzi insieme, «dalle foci alle sorgenti», come fossero le acque di uno stesso fiume che continua a scorrere, permettendo ancora alla nostra «barca» di sopravvissuti, il cui nocchiero è rimasto in realtà saldamente al nostro fianco, vigile e premuroso, di «vedere il mondo», di coglierne ancora – come si dice in un celebre testo della Barca, Alla vita – il «sospiro profondo». Non una memoria di morte, ma di vita: da «discorso naturale» ininterrotto, plurimo e interattivo, da poesia della trasformazione, del «dramma» e del ritrovato accordo. Nella Barca, il libro d’esordio del 1935, il noviziato poetico di Luzi subito si caratterizza, fin dall’inizio, come un’urgente disposizione al bilancio, alla realizzazione sentimentale di un modo di aderire alla realtà: un’ideale Vita nuova novecentesca che dalla contemplazione di creature còlte e illuminate nei gesti quotidiani dell’esistenza risale confidentemente a paradigmi generali. C’è già nel primissimo Luzi la consapevolezza che questa vanità nasconde verità. Si direbbe anzi che la raccolta d’esordio, con i suoi risultati lirici talora già notevoli, si delinei fin troppo generosamente come una «fisica perfetta», indulgendo da un lato al fissaggio immaginativo dei 109


Marco Marchi

segni del dolore, e dall’altro alla dichiarazione delle sue sicure ragioni di riscatto: certo sull’esempio recente del Carlo Betocchi – il suo «solo, umile maestro» – di Realtà vince il sogno. In Avvento notturno, la raccolta pubblicata da Vallecchi nel 1940, in piena stagione ermetica, l’abbandono dell’intrattenimento tipico dell’opera prima facilita l’insorgenza degli «emblemi sibillini della perennità» che la parola recupera dalle profondità della memoria. La fitta trama simbolica esperita è d’altronde destinata a rapide quanto durature sostituzioni, calibrate tra la riattivazione della tematica memoriale-affettiva delle prove dell’immediato dopoguerra (Un brindisi, Quaderno gotico) e aperture su panorami inediti, dell’angoscia ma anche della pietà, previste dalle raccolte degli anni Cinquanta (Primizie del deserto e Onore del vero, Dal fondo delle campagne e il fondamentale Nel magma), dove la raggiunta maturità espressiva della poesia di Luzi si lascia cogliere in accordo con le ragioni del cuore di Pascal, da poeta del tutto consapevole che «la verità senza carità non è Dio». Preme già potentemente, ai confini della scrittura del Luzi post-ermetico, quella che l’autore chiamerà la «sorte comune», con le sue insufficienze da riconoscere e in cui riconoscersi e le sue esigenze bisognose di espressione, in cerca di comprensione e compassione e prima ancora di «voce». Ed è Nel magma, ad apertura del decennio successivo, nel 1963, che si inaugura il nuovo, straordinario corso, storico e tellurico, della poesia di Luzi: una poesia dapprima estensivamente aperta al dialogo e al confronto anche drammaticamente polemico con il disintegrato mondo contemporaneo, poi sempre più sprofondata, con riacquisti di visibilizzata verticalità, nel ritmo biologico della sua vicenda tumultuaria che produce quegli eventi frammentari e quelle insorgenze cronachistiche. Dal petrarchismo al dantismo: è la «creazione incessante» a venire ormai alla ribalta, siglando quasi di necessità questo passaggio, questo modo diverso di concepire la poesia, tra realismo e innovativi incrementi linguistici e polistilistici di realizzazione. Il poeta tra poco, condannato ogni residuo di apriorismo e ideologicamente confortato nei suoi mutati orientamenti da un incandescente cristianesimo di tipo paolino, oppositivo rispetto a un precedente cristianesimo connotabile come pascaliano-contemplativo, in110


Per ricordare Mario Luzi e salutare Adonis

sisterà con forza sull’assunzione dell’indiscriminato a livello poetico. Essenziale, al crocevia di questi innovativi orientamenti, la riflessione su Teilhard de Chardin. Sta di fatto che nei libri dagli anni Settanta agli ultimi (i tutti e del tutto memorabili Su fondamenti invisibili, Al fuoco della controversia, Per il battesimo dei nostri frammenti, Frasi e incisi di un canto salutare, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, fino agli estremi Sotto specie umana e Dottrina dell’estremo principiante e al postumo Lasciami, non trattenermi), come nella vasta, parallela produzione per il teatro (dal Libro di Ipazia a Rosales e Hystrio, dalle pontormiane Felicità turbate a Ceneri e ardori a quell’Opus florentinum che recentemente abbiamo riascoltato a Firenze nella straordinaria cornice di San Miniato al Monte), gli incontri dell’autore con la realtà si intensificano, facendosi via via più esigenti, più stringenti ed inclusivi. La poesia luziana attingerà d’ora in poi all’inespresso, promuovendo sempre nuovi battesimi di amore e di dolore. L’idea di degrado e distruzione implicita al fluire inarrestabile del tempo e all’azione rovinosa della Storia gradualmente si evolve in una nozione più complessa della temporalità, intesa nella sua ambivalenza di perdita e di durata, di passato e di futuro. Il futuro del mondo e la credibilità stessa della poesia convergono così nella prospettiva di un cristianesimo agonico e penitenziale che riafferma con convinzione – nel nome del Christus patiens che la poesia di Luzi evocherà nel percorso della Via Crucis al Colosseo del 1999 – il «giusto» valore della sofferenza come punto di incontro di umano e divino. È dunque nella sua appartenenza ad una vita che nasce perennemente alla vita che la poesia di Luzi sempre di più viene qualificandosi: un poema creaturale portavoce della volontà dell’universo, in ogni suo aspetto, ad esprimersi, a vivere e rivivere. Un Luzi ai vertici, io credo, e un «non sapere / che tutto sa», un sapere che conosce l’angoscia, l’abbandono, il tedio, l’afflizione, l’indignazione, ma anche l’amore, la solidarietà, la pietà, aprendo infine al miracolo, alla pienezza della vita rintracciata e allo stupore lieto e letificante della scoperta. Poesia naturale, del ritrovato accordo; e poesia dell’umano, alta poesia dell’umano. È a questo esaltante spartiacque dell’umano che si situa, io credo, 111


Marco Marchi

il più profondo, intimo ed implicante incontro tra due poeti maiuscoli come Mario Luzi e Adonis: ed è questo, credo ancora, il significato più intenso che la sua testimonianza in onore di Luzi, a Pienza, viene ad assumere. Pluricandidato al Nobel, Adonis – siriano d’origine, poi cittadino libanese, da molti anni francese, classe 1930 – è, lo sapete tutti benissimo, un poeta arabo di assoluto rilievo nel quadro della letteratura mondiale di oggi. La sua opera, vasta, variegata, internazionalmente qualificata e molto tradotta – dai Canti di Mihyar il damasceno a Il teatro e gli specchi, dal Libro delle metamorfosi e Celebrazione delle cose oscure e chiare a Un desiderio che avanza sulle mappe della materia e Memoria del vento –, ha presto previsto la rottura degli schemi convenzionali della poesia arabo-islamica, facendosi portavoce, nell’innovare e nell’aprirsi a forme e valori universali, di una rinascita di quella tradizione e, insieme, della difesa della libertà di pensiero che nel fatto artistico culmina. Arte e senso dell’umano: trionfo dell’umano, attraverso la parola della poesia che ogni confine annulla e ogni barriera abbatte; e ogni senso di fraternità ed ogni forma di comprensione, al contrario, favorisce e suggella. Distante da ogni rigido confessionalismo e da ogni forma di ossequio al potere, parimenti critico nei confronti del cinismo dell’Occidente, Adonis ha sostenuto e poeticamente interpretato con i suoi versi l’importanza della condivisione e della interrelazione fra le varie culture, valorizzando il senso di «opera comune» rivendicabile alla poesia, tra ascolto del presente, memoria del passato e speranza. Ha dichiarato qualche anno fa Adonis nel corso di un suo viaggio in Italia, siglando l’apertura a un collettivo e davvero globale «noi» dell’arte, rispettoso delle pluralità e delle differenze: «Sì, sono d’accordo con Publio Terenzio Afro, Homo sum, humani nihil a me alienum puto; sono un uomo, non ritengo a me estraneo nulla di ciò che è umano». «A Napoli – ha detto ancora – la tomba di Virgilio è accanto a quella di Leopardi, segno di una continuità che è anch’essa una forma di dialogo attraverso lo spazio e il tempo. In modo analogo, si può essere di religioni diverse, ma quando vediamo la statua del Cristo velato di Giuseppe Sammartino nella Cappella Sansevero contempliamo un’espressione dell’arte umana. L’arte aiuta a portare tutto su un piano di profonda umanità». 112


Per ricordare Mario Luzi e salutare Adonis

Virgilio come Leopardi, e Adonis come Luzi, nel nome dell’umano, nel nome di quei significati e di quei valori di cui troppo spesso l’umanità si dimentica. Questo i grandi poeti – in ogni luogo e in ogni tempo, anche in un’epoca drammaticamente travagliata e disorientante come la nostra – ci insegnano.

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Damiano Sinfonico «Si parlava del futuro» Mostra bio-bibliografica

Fondazione Devoto – Biblioteca Berio Genova, 10-31 marzo 2015



«Il bravo storico somiglia all’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Aveva certamente ragione Marc Bloch, nel comporre la sua Apologia della storia, a sottolineare la vitalità di ogni disciplina che nutra un interesse per il passato. Non diversamente, le mostre intorno ai poeti non sottraggono al fiuto del lettore quella “carne umana” di cui egli va in cerca. Una scrivania, una chioma fluente, uno scambio di lettere o di recensioni, un inedito, una prima edizione, possono arricchire un viaggio all’interno della vita di un grande autore. È quello che ha fatto la Fondazione Giorgio e Lilli Devoto allestendo una mostra bio-bibliografica presso la Biblioteca Berio di Genova1: Mario Luzi, il poeta che più di tutti ha volato al di sopra del disincanto del nostro Novecento, imbevendo la sua penna in un inchiostro tanto ceruleo da apparire purissimo, ci viene incontro con la sua umanità cordiale, il tratto elegante e l’affetto che lo circondava. I documenti eterogenei che qui sono esposti offrono nel loro amalgama un ritratto unitario e avvincente, e insieme un percorso nella storia poetica del secolo scorso. Dà una certa emozione rileggere la prima recensione dedicata al poeta ventunenne, apparsa nelle colonne de «Il Popolo siciliano» il 29 novembre 1935, firmata da un ancora ignoto Giorgio Caproni: «Una musicalità piana, continuamente soffusa e quasi direi suadente, adesiva all’animo del lettore, è la prima virtù che avvince e convince alla lettura di questa poesia». Dopo questo incipit il recensore si sofferma sulle qualità melodiche del giovane 1 Mario Luzi (1914-2014). Mostra bio-bibliografica (Genova, Biblioteca Berio, 10-31 marzo 2015), San Marco dei Giustiniani, Genova, 2015.

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Damiano Sinfonico

Luzi per poi asserire: «Ma è chiaro che, così visto soltanto dal di fuori, il problema musicale del Nostro non viene affatto risoluto [...] Lo studio dei semplici mezzi tecnici, semmai, potrà tuttalpiù giovare a una critica vanamente formalistica, non mai a una critica volta a un problema di stile». Esattamente quarant’anni più tardi, Luzi recensirà Il muro della terra, a cui Caproni risponderà con una lettera datata 8 ottobre 1975 e in cui si legge: «Ma se c’è un poeta, in questo secolo, che mi ha insegnato davvero qualcosa, e soprattutto ha allargato i miei orizzonti, sei soltanto tu». Sul versante opposto, nel 1959, Pasolini discute alcune poesie che forse Luzi aveva proposto a “Officina”: su carta intestata e dattiloscritta, aperta da un affettuoso «Caro Luzi», il bolognese spiega le ragioni del suo rifiuto: «è meglio pensare alla storia che all’assoluto, ci sembra. Solo nella storia l’amore ha i suoi oggetti: fuori – trepido a dirtelo – non riesco a concepire oggetti, o Oggetto, ma solo la prospettiva di un enorme narcissismo [sic], un soggetto adorante, un mito. Mah… Ne riparleremo quando protagonisti de Las animas saremo noi. Scusa il tono scherzoso, e ricevi i più affettuosi saluti». L’opposizione fra due linee, di pensiero e di poetica, non poteva essere espressa meglio. Mentre poco più tardi, in un biglietto d’auguri per l’anno nuovo, Cristina Campo apprezzerà, con un’immagine fluviale, la svolta di Luzi: «sono felice di aver visto queste poesie – così tue ma così nuove insieme [...] come se alla corrente del tuo discorso si fosse aggiunta una vena nuova, che gonfia tutta l’acqua senza scomporla e ne arricchisce infinitamente l’obbedienza alle proprie leggi». Tra le carte si rinvengono anche alcune curiosità, come una cartolina spedita nell’ottobre ’44 dal tenente Vittorio Sereni, prigioniero di guerra in Algeria, e il disegno Mario Luzi che legge tratteggiato da Eugenio Montale. E all’universo poetico di quest’ultimo Luzi dedica una riflessione che mi pare ne colga il succo con una formula: «la sottomissione dell’idealità [...] a una contromisura di dubbio e di ironia». Tra gli altri, è notevole il saggio rivolto ai maestri, apparso nel 2003: il ricordo della passione giovanile per Foscolo e Cavalcanti si inserisce in un ampio quadro sulla tradizione, percepita come «un sistema latente o palese di continuità che opera in ciascuno di noi». Luzi si sofferma poi sulla sostanza del classico, sentito come «una opera che non può essere pensata assente», e torna sulla contrapposizione 118


«Si parlava del futuro»

tra Dante e Petrarca, mediata dall’esperienza postbellica: «Eravamo nel ’45, quando uscendo dalla guerra ci si ritrovava di fronte a un mondo tutto da rifare. E mi accorsi che Dante aveva lavorato in una condizione simile, pur avendo una sicurezza di dottrina, che noi non abbiamo, pur avendo una intensità di fede che noi non possiamo avere». L’intensità di fede invece l’hanno avuta i lettori di Luzi, attestata dalle tante traduzioni straniere, in greco, svedese, inglese, tedesco, romeno, francese, spagnolo, qui accompagnate dalle prime edizioni italiane. Anche un visitatore distratto si accorgerebbe che La barca perde il sottotitolo Canti nel passaggio dalla prima (Guanda, 1935) alla seconda edizione (Parenti, 1942): sarebbe un’ipotesi suggestiva pensare che questa parola rimossa sia tornata a zampillare nella creazione dell’ultimo periodo, ritrovando nella vecchiaia un contatto con la prima vocazione giovanile. L’orizzonte culturale, poetico e umano in cui Luzi ha vissuto e operato emerge abbastanza nitidamente agli occhi del visitatore, i quali saranno gratificati anche dalle numerose fotografie che ritmano il percorso e in cui il poeta è ritratto in compagnia di Caproni, Sanguineti, Pasolini, Montale (uno scatto rubato), Spaziani, Bo, i traduttori Bernard Simeone e Margherita Dalmati, alcuni amici genovesi come Giorgio Devoto, Stefano Verdino, Adriano Sansa. Quasi sempre in cravatta, la sola camicia nelle occasioni più distese (e con la maniche arrotolate se del caso), il basco e il cappotto nelle stagioni fredde. Il tratto umano, infine, è messo bene in luce dalle testimonianze che aprono il catalogo, a firma di cinque amici genovesi: oltre a quelli già citati, il bibliofilo Beppe Manzitti e il poeta Giuseppe Conte. Tutti convergono sul modo informale e affabile di Luzi, genuinamente interessato a chi aveva di fronte, mai rivolto con nostalgia al passato ma intensamente immerso nel presente e curioso del futuro. Si potrebbe allora chiudere questa visita ideale assegnando come didascalia, alle tante fotografie ma anche alla mostra nel suo insieme, questo verso di Fabio Pusterla in cui convivono diversi piani temporali e che a Luzi sarebbe sicuramente piaciuto: «Il futuro, allora. Si parlava del futuro».

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Massimo Morasso Il sopramondo nel mondo Riflessioni sulle ereditĂ di Mario Luzi

Per il dopo, per il principio – incontri e letture Genova, 17-18 aprile 2015



Per qualità stilistica e forza di visione intellettuale, l’opera di Mario Luzi è una delle più notevoli nell’ambito della poesia europea del secondo Novecento. Il settantennale viaggio di Luzi nelle dimensioni profonde di una realtà “superinseguita” tramite le “vicissitudini” di una coscienza interrogante votata alla “conoscenza per ardore”, supera la via negativa esperita da tanta parte della poesia recente e ci racconta, sia sul piano conoscitivo sia sul piano della lingua, di una mite ma inflessibile resistenza contro le sirene del disincanto. Riconoscersi nella pratica di questa resistenza è stato il cuore della mia intenzione, quando, nei mesi scorsi, mi sono deciso a organizzare Per il dopo, per il principio, un convegno in due giornate che prendendo spunto dalla figura e dall’opera tarda di Luzi (quella che dal Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, del 1994, porta alle Poesie ultime e ritrovate del 2014) ha offerto l’occasione, lo scorso aprile a Genova, per un ripensamento condiviso dell’idea del fare-poesia oggi, oltre il disorientamento e le derive nichilistiche che segnano tanta parte del nostro paesaggio letterario e culturale. Con Luzi e il suo lavoro nell’ultimo, fertilissimo decennio, il motore dell’incontro di Genova è stata soprattutto la convinzione che la poesia (italiana?) abbia bisogno di un rinnovamento nella sua sostanza, e non soltanto nel giro modaiolo delle poetiche. Un rinnovamento, nel segno della sua tensione utopica, che ambisca a portare la poesia un passo più in là verso se stessa, anziché verso la “contemporaneità”, riaprendo il discorso dell’ispirazione forte, alta, in una chiave non riduttivamente letteraria. È un fatto evidente, per me che leggo e studio Luzi da oltre trent’anni, che lungo le varie 123


Massimo Morasso

stazioni del suo itinerario “terrestre e celeste”, Luzi si è mosso sempre, e sempre con maggior vigore con l’andare del tempo, in consapevole antagonismo contro ogni visione a basso coefficiente energetico del mandato poetico. Ed è un fatto evidente, ancora, sotto il duplice profilo dell’analisi storica e della prassi artigianale, che rifarsi al magistero luziano in quest’epoca dell’inconsistenza e delle passioni tristi non è un’azione politicamente “neutra”, soprattutto quando si consideri che la perdita di una funzione forte della poesia e della letteratura corrisponde al depotenziamento di quella vocazione morale che fa o dovrebbe fare del gesto poetico (luzianamente, certo, ma anche, va da sé, ben al di là di Luzi, ovunque quel gesto sia per davvero un gesto autentico) un veicolo di umanizzazione, oltre che di piacere estetico. Una convinzione non dissimile è quella per esempio di Marco Marangoni, uno dei convegnisti genovesi, che l’ha articolata così: «il problema di una letteratura mordente la realtà non passa attraverso la vexata quaestio novecentesca, almeno da Anceschi a Galaverni, per cui si dovrebbe forse abbandonare la poesia anacoretica per una poesia più estroversa, che guarda la realtà, le cose, gli oggetti ecc». Il problema, oggi, a ben vedere, è che occorre “volare più alto” (da qui, chioso io, anche il riferimento all’emistichio di Luzi “Vola alta, parola” che ha dato il titolo della seconda giornata dei lavori), «essendo la problematica della salute della poesia unita a quella antropologica e storico-ontologica». Oggi come sempre, è bene saper riportare il discorso sulla poesia alla verità della poesia. Che fatta la tara sui discorsi critico-teorici “secondari” pieni di false dialettiche, o perlomeno inessenziali, va ricondotta anche alla sua natura di grimaldello immaginativo, di strumento utile all’apertura, nel qui e nell’ora, di mondi altri, e di intramondi intravisti. Da questa prospettiva, che presuppone una grande fiducia nella parola e nel suo valore di testimonianza spirituale, la drammatica teleologia contemplativa che suggella il mosso, via via sempre più inquieto tour de force espressivo di Luzi, è il luogo privilegiato di rispecchiamento, nel contemporaneo, per chi, fra noi poeti, sa ancora accogliere il mistero come “fondamento”, pur “invisibile”, della realtà. Dopo il crollo delle genealogie e delle gerarchie, la complessità postmoderna ha posto la poesia di fronte a una molteplicità spaesante di paesaggi. 124


Il sopramondo nel mondo

Naturalmente, la ricchezza topologica e la fluidità espressiva di questi paesaggi sfavorisce mappature di orientamento generale – posti anche, ormai, come sappiamo, il rapporto libero degli autori con il repertorio delle forme e, in parallelo, il sempre più disinvolto proliferare di una parola che si (auto) suppone poetica nel labirinto senza vie d’uscita della rete, dove vige la legge dell’accumulo e del fai-da-te più o meno criticamente supportato. Ma con Luzi, e soprattutto con l’ultimo Luzi, quello che scrive fra la fine del “suo” secolo e l’inizio del “nostro”, la domanda “Cosa vuole da noi la poesia?” torna epicamente, dantescamente a risuonare come il controcanto morale a una veemente esigenza noetica. Quando concepisce quella cosa stupenda che è Vola alta parola, Luzi chiede alla poesia che sale al suo “celestiale appuntamento” di senso e di “significazione” di non abbandonarlo, e la implora così: “sii / luce, non disabitata trasparenza”. Come la sapienza del colloquio essenziale disseminata in certi intensi passaggi di Clemente Rebora, la luce e il suo desiderio è la meta ultima di Luzi, il polo Nord di una poesia intenzionalmente polisemica intesa in quanto opus metaphysicum che richiede letture (lettori) capaci di toccare piani diversi; dove il passaggio dal piano letterale a quello anagogico non può essere considerato un movimento narcotico in senso crociano, ma, tutto al contrario, la dinamica creativa capace di spalancare una mente ricettiva a un panorama di segni più articolato, che esige attenzione, e un arduo lavoro di discernimento. E anche se dappertutto, nelle più o meno moriture o fantasmatiche collane di poesia, nelle antologie, nelle riviste on-line o nei loro sempre più rari residui doppi cartacei, la poesia è spesso proprio quella “disabitata trasparenza” paventata dal poeta (fra parentesi, en passant: non sarà anche per questo, in fondo, che il mondo extraletterario la rifiuta, relegandola ai margini del dialogo fra gli uomini?), l’idea della luce come evento e linguaggio testimonia la vocazione a una tensione estatica che punta a recuperare la radice che sta nel movente profondo del fare poesia. Ha ragione Lorenzo Gobbi quando afferma: «Innanzitutto è una questione di verità: la luce non può mentire né inventare. Può solo scoprire, trovare, accarezzare, rivelare, dispiegare ciò che esiste ed è racchiuso in se stesso, aprire e riscaldare ciò che giace raggomitolato su di sé nel buio e nel freddo. Può suscitare, risvegliare: è anche calore, vita che si dona alla vita. Non è “disabitata trasparenza”, 125


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ma vita protesa, seme di vita che si slancia verso altra vita: un inizio che è anche, insieme, un ritorno». Sì, è proprio vero, anche al di là del candore ermeneutico di Gobbi: è una questione di verità, e di umanità. Di un’umanità che non si accontenta di confinarsi entro l’angusto spazio di una lettura orizzontale ed estensiva di ciò che è, e per la quale, com’è nel caso del Luzi as an old man, la luce è il tramite, il symbolon per dire ciò che non può essere detto, il tratto sensibile in luogo di una Bellezza che si pone sempre in un “oltre” rispetto all’umano troppo umano. E ha ragione anche Vittorio Cozzoli, il più fiero araldo dell’anagogia in poesia, oggi, in Italia, quando parlando fra di noi di queste cose (mi) scrive: «La questione è profonda, e va affrontata con coraggio. Poiché il discorso non è più da confondersi con quello del solo impegno ideologico (o peggio antilaicistico): è spirituale ed implica il Creator (“Veni Creator Spiritus”, Dio ‘crea’ e fonda ogni modo dell’essere ‘creatori’, artisti)». Ora, non voglio dire che il lascito più fecondo del Luzi fra gli ottanta e i novant’anni di età sia questa apertura a una poetica del trascendere innervata di riflessione teologica cui sembrano alludere, fra le righe, in quanto promesse de bonheur, le righe di Cozzoli. Ma senza dubbio, il movimento di trascendenza che anima il dettato dell’ultimo Luzi, a braccetto con la sua straordinaria capacità di attingere a risorse linguistiche inusitate e di calarle in strutture sintattiche e verbali sempre nuove e perfino arditissime, costituisce il più mirabile esempio, nella poesia post-novecentesca, del recupero dell’esperienza della parola come esperienza dello spirito, giacché l’asse portante della scrittura di Luzi è la poetica della parola come elemento creatore, e della nominazione in funzione genetica. Questo, lungo le numerose fasi o “svolte” della sua multiforme produzione, si può dire da sempre: dai tempi, addirittura, dell’innamoramento per Mallarmé, e dei simbolisti, e delle pratiche astrattive dell’ontologismo ermetico. Ma nelle ultime raccolte, prima in un difficile fin du siècle e poi, oltre la svolta nel secolo nuovo, con il crisma, finalmente, di una verità esposta in superficie, messa in questione sulla pagina nel vivo del rovello tematico, a un livello di riflessione metapoetica che configura una febbrile, ininterrotta metafisica “in corso d’opera”. Con tutti i rischi del caso, beninteso, fra arzigogoli, qua e là, e zeppe concettuali teologanti in sospetto d’intellettualismo… Ma senza entrare, qui, nel merito dei testi, e di quel cer126


Il sopramondo nel mondo

to deficit di labor limae che s’avverte, ogni tanto, lungo il veemente flusso poematico dell’età estrema, fuor di giudizio il fatto è, semplicemente, che per il Luzi a noi più vicino la caccia alla parola è ormai caccia all’essere, e viceversa. Tanto che il nesso fra parola poetica e conoscenza va specificato nel senso della straordinaria coerenza dell’investigazione appassionata di una realtà metamorfica e composita come manifestazione del mistero presente così in natura come in interiore homine. Gli esiti testuali del vecchio e vecchissimo Luzi consentono una lettura retrospettiva di tale eccezionale coerenza. In virtù della quale, per la divina pedagogia dei contrari, l’auto-immolazione dell’io poetante messa in scrittura oltre Nel magma a favore dell’io sempre più sfrangiato e centripeto delle prove tarde fino alle postume, restituisce le immagini unitarie e perfettamente luziane del poeta come “scriba” e “principiante”: come umile homo viator, cioè, che continua a mettersi in questione interrogandosi, dilemma dopo dilemma, in un punto del tempo sospeso fra “origine” e “fine”, e che è disposto ogni volta come fosse la prima a tentare di farsi trascrittore della nuda vita interpretata dall’alto di una “luce intellettual piena d’amore”, in grado di leggere l’eterna compresenza del Tutto in ogni parte, visibile e invisibile, del mondo creato. Detto in modo filosofico, a un’immanenza assoluta, corrisponde nell’ultimo Luzi una trascendenza assoluta. Per cui il sopramondo è sì l’oltre-mondo, ma è anche, insieme, il non-luogo senza negazioni imbricato con questo nostro piccolo mondo sublunare nel quale trova spazio, dentro al tempo, il dramma storico dell’umanità. Gli amanti dei piatti contraltari alla verticalità e all’intensità non credano, perciò, di poter liquidare o aggirare impunemente l’ultimo Luzi disinnescandone attualità e vis profetica, magari provando a etichettarlo quale poeta religioso. Semmai, è un poeta dell’altezza e della profondità. Uno dei pochi poeti dei nostri giorni nell’opera dei quali si rendono chiaramente visibili, nel caso di Luzi a uno (spesso) straordinario livello formale ed espressivo, le radici del fare poetico, che sono radici spirituali e civili. Senz’ansia di storicizzare, possiamo incominciare a capire, allora, il significato storico della sua produzione estrema. Dove non a caso la città (sia essa Firenze, o Siena, o Pienza, o la mia Genova sede del nostro convegno…) non è soltanto, per così dire, un’ennesima “materia del ricordo” messa al servizio del sentire memore, quando ciò che risalta nei versi dell’anzianissimo Luzi mentre le evoca 127


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è, piuttosto, l’afflato allegorico che ci rimbalza quasi sempre con naturalezza al termine latino civitas. Che non vuol dire cittĂ , quanto piuttosto cittadinanza: lo spazio comune di una condizione spirituale in cui ci giochiamo, ciascuno e tutti insieme, la nostra unica, irrimandabile chance esistenziale.

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ADDENDA



Armando Torno La parola di Luzi

Ripensando all’opera di Mario Luzi – le occasioni non sono mancate nel 2014 e 2015, centenario della nascita e decennale dalla scomparsa – viene alla mente un’intuizione di Stefano Verdino, il suo massimo esegeta. Andrebbe proferita sottovoce come i pensieri preziosi, sussurrandola: in lui vivevano tanti poeti, non uno solo. Vi si poteva scorgere il lirico notturno, il diarista e pellegrino purgatoriale, il poeta narrativo e drammaturgo, lo scriba poematico. Forse altro, si avrebbe desiderio di aggiungere pensando alla razza estinta (o in estinzione) di cui Luzi faceva parte. In termini che prendiamo in prestito dai canoni di letteratura e critica di qualche decennio fa, basterà aggiungere che egli ha attraversato il Novecento da protagonista, accanto agli esponenti di una società intellettuale riconoscibile e attiva, costruendo giorno dopo giorno il suo messaggio poetico e interpretando come nelle grandi tradizioni i mille riflessi del tempo, le tendenze, i cambiamenti. Forse occorre aggiungere che Mario Luzi ha soprattutto reso testimonianza alle lettere. È stato ora inserito in una corrente e ora in un’altra, ma in fondo il suo vero segreto è stato quello di aver creduto ancora – è il caso di aggiungere l’avverbio “disperatamente”? – nella parola. Questa sua fede, materializzatasi in una scrittura dagli infiniti orizzonti, non lo ha abbandonato nemmeno negli ultimi anni, anzi egli ha saputo abbracciarla senza requie, mettendo in gioco se stesso. Tutto questo accadeva mentre i cosiddetti valori diventavano, in un secolo di rivoluzioni e di ricerca di estreme formule politiche, un vuoto fonema. 131


Armando Torno

Tra i tanti tramonti del Novecento, un dato vinceva su ogni altro: l’apparenza. Era giunta, per usare le parole di Luzi, «la fornace dei tempi». La società dell’immagine e della comunicazione prendeva il sopravvento su ogni forma d’arte sino a mutarla geneticamente. Oggi ci accorgiamo che la storia recente non merita eccessive nostalgie perché è anche quella di un naufragio, o meglio di una dissoluzione. Il secolo scorso si è portato con sé i sogni dei precedenti, ha dissipato le più fascinose e possibili architetture letterarie ricevute in eredità, soprattutto ha ucciso l’atomo che comunicava vita a questo universo: la parola. Ebbene, Luzi è stato uno degli ultimi difensori di questa micro-particella dalla quale, a suo tempo, nacquero la “Commedia” o l’“Iliade”, i Vangeli o altre Rivelazioni. «Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith della tua significazione»: non è il verso del poeta che stiamo ricordando ma è un suo urlo. Chi ne “La barca” colse «l’immensità dell’attimo» e in «Per il battesimo dei nostri frammenti» rivelò «il giogo della metafora» ha chiesto semplicemente alla parola di continuare la sua missione, o forse di rifiutare l’eutanasia continuamente propostale. Oggi sappiamo che questo significava possedere una fede infinita nell’uomo e nel suo spirito, nel mondo che verrà, nelle opere che nasceranno dai bambini del futuro. I quali si chiederanno se – usiamo ancora le parole di Luzi – «l’offesa del mondo è stata immane».

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Paola Baioni «La vita può darsi nella cenere»

Mario Luzi si è sempre interrogato sul senso della vita e sul rapporto fra la poesia e la vita, la vita e la luce, la luce e le tenebre. In Discretamente personale egli sottolinea come la presenza della vita appaia indissolubilmente legata all’idea di continuità: Di fatto, quando nasceva, la poesia tendeva ad affermare con la massima intensità possibile la presenza della vita e insieme la forza risolutiva d’amore che valesse da sola a spiegarla. Ne cercavo l’enunciazione appassionata non per simboli, ma per figure affettive, sensibili, che per lo più contenevano, mi accorgo ora, l’idea allora latente di genesi perpetua, di continuità; quella enunciazione e quella passione esaurivano tutto il mio intendimento e non lasciavano campo a nessun intervento esplicito da parte mia1.

Il poeta fiorentino, animato da ispirazione religiosa, rimane aperto alla speranza, fino all’ultimo giorno della sua vita2. La speranza della «purgazione Mario Luzi, Discretamente personale, in Id., Naturalezza del poeta. Saggi critici, a cura di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1995, p. 110. 2 Cfr. almeno Mario Luzi cantore della luce, a cura di Stefano Verdino, Assisi, Cittadella, 2003; Giorgio Cavallini, La vita nasce alla vita. Saggio sulla poesia di Mario Luzi, Roma, Edizioni Studium, 2000; Mario Luzi, Vita fedele alla vita. Autobiografia per immagini, a cura di F. Grimaldi, prefazione di Stefano Verdino, Firenze, Passigli Editore, 2004; Il Nuovo Testamento. Nuovamente tradotto, introduzioni di Giovanni Giudici, Sergio Givone, 1

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Paola Baioni

dipende da un libero, umile atto di vita e di poesia». La poesia «non può dimenticare, ma può vincere», perché «la poesia (e la vita) decide per la vita, gliela impone»3. In Primizie del deserto (il titolo è già spia della speranza della ‘rifioritura’ dopo la devastazione del furore bellico) Luzi sottolinea come la vita possa rinascere dalla cenere e come anche una piaga (magari incancrenita) possa mirabilmente sanarsi: ché all’uomo, dici, è forza porre fine alle lacrime, è forza cominciare ogni giorno – questo è più acuto strazio – e la vita può darsi nella cenere e questa piaga atroce può volgere in salute4

Nella medesima silloge, nella lirica Gemma, è icasticamente richiamato alla memoria il gesto dell’auscultazione attenta della natura, la cui voce «corre», irrompe; speranza di una vita che «ricomincia»: Che ti mormora il sangue negli orecchi e alle tempie quando è là di febbraio che nel bosco ancora risecchito corre voce d’una vita che ricomincia5 Mario Luzi et alii, traduzioni dal greco di Dario Del Corno, Fernando Bandini, Carlo Carena et alii, illustrazioni di Venturino Venturi, Verona, Stamperia Valdonega, 2006; Mario Luzi, Su “La Parola di Dio”, a cura di Paolo Andrea Mettel, introduzione di B. Forte, postfazione di Carlo Carena, Mendrisio, Metteliana, 2010; Mario Luzi, Autoritratto. Scritti scelti dall’Autore con versi inediti, a cura di Paolo Andrea Mettel, Stefano Verdino, introduzione di Marco Marchi, con uno scritto di Carlo Carena, Mendrisio, Metteliana, 2014; Giancarlo Quiriconi, Il fuoco e la metamorfosi. La scommessa totale di Mario Luzi, introduzione di Carlo Bo, Bologna, Cappelli, 1980. 3 Mario Luzi, Villaggio, in Id., L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di Stefano Verdino, Milano, Mondadori, 20014 («I Meridiani»), pp. 192-193. 4 Mario Luzi, Gemma, in Id., L’opera poetica, cit., p. 201. 5 Mario Luzi, Il piacere, in Id., L’opera poetica, cit., p. 227. Cfr. pure Mario Luzi, Hystrio, in Id., Teatro, postfazione di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1993, p. 307: «La vita è crocifissa / umilmente alla sua gracilità, umilmente conosce / l’ascesa e la caduta, non ignora nascita e morte». L’uomo è tanto incline al cedimento sia per via della fragilità umana,

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«La vita può darsi nella cenere»

Qualche volta, però, la durezza della vita fa ripiegare l’uomo su se stesso e induce a un cedimento della speranza: Ma il supplizio è senza fine quando si pensa della vita ch’è solo vile se non è crudele6

Del resto la vita è un combattimento, una lotta, per dirla con Luzi, è un’«agonia». Ad ogni umano cedimento, tuttavia, segue una ripresa, una illuminata intuizione che inaugura una nuova via e riempie il cuore di pace. Nella lirica La notte viene col canto, Luzi varca la soglia della speranza7 e ricoferita dal peccato originale, sia per la finitudine, che si «oppone come duro limite alla nostra aspirazione di conoscere e di vivere l’universo in cui siamo immersi. […] È tormentoso riconoscerci così inadeguati a quel tanto di meraviglioso e mostruoso che l’osservazione e la riflessione ci hanno permesso di intuire. […] sappiamo che quanto più si amplia il campo della nostra effettiva interrogazione, tanto più si moltiplica […] il vertiginoso del non pensabile. […] Da quella finitudine la mente e l’anima dell’uomo tendono per vocazione originaria ad evadere come da un carcere. L’infinito le reclama e le risucchia prepotentemente. […] L’infinito è l’origine e la destinazione, la causa prima e l’esito impensabile e inimmaginabile del linguaggio della poesia. Per questo, come la mente dell’uomo, la poesia ha bisogno del limite, l’infinito che è della poesia e nella poesia ha bisogno del finito come di una condizione sine qua non. Leopardi ha la siepe. Non è solo un espediente dialettico, è un oggetto caro che lo protegge dallo sperdimento e dal naufragio sia pure dolce e gli permette nello stesso tempo di vagheggiarlo col pensiero. Se non fosse forte il senso del limite e della finitudine mancherebbe all’anima l’insofferenza di essi e l’aspirazione a superarli. Mancherebbe anche il conforto di sapersi in un punto inconfondibile e dicibile in un universo né dicibile né pensabile. Un punto nel finito visitato dall’infinito e dal divino che ha voluto così limitarsi con la sua incarnazione» – cfr. Mario Luzi, [Finitudine], Testo senza titolo, secondo file computer Luzi, archiviato con etichetta «Leopardi 10-02-98», ora in Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste. Con un’appendice di scritti dispersi, a cura di Paola Baioni e Davide Savio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014 («Archivio della letteratura cattolica», 7), pp. 247-248 –; cfr. altresì la lirica Dove, a che termine, a che fine? –, in Mario Luzi, Dottrina dell’estremo principiante, Milano, Garzanti, 2004, p. 90: «L’intelletto umano, / è in lui la finitudine, / la infligge / all’essere, al vivente, / all’incommensurabile / e alle briciole che pensa. / Sarebbe rotta e onta / non ci fosse / pietà per la nostra insufficienza». 6 Cfr. Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Milano, Mondadori, 1994. 7 Mario Luzi, La notte viene col canto, in Id., L’opera poetica, cit., p. 152.

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nosce non solo che la fede è nell’uomo, ma anche che essa è una persona. La fede, virtù teologale (e in quanto tale, condizione stabile), è un dono, e il lógov, che si è fatto carne, è disceso fino all’uomo per innalzarlo fino a Dio. Ecco quindi che la fede è un atto di fiducia e di affidamento concreto (non astratto) a Qualcuno, a «una persona», come dice Luzi. La pace, se verrà, ti verrà per altre vie più lucide di questa, più sofferte; quando soffrire non ti parrà vano ché anche la pena esiste e deve vivere e trasformarsi in bene tuo ed altrui. La fede è in te, la fede è una persona8

Se è vero che la vita è lotta, va da sé che il dolore, temuto nemico dell’uomo, è una sua componente non secondaria. Non ha regole mai la via del dolore, che in alcuni casi entra nella vita con la violenza di uno tsunami: si pensi alle malattie, ai lutti, ai fallimenti che si spingono oltre la soglia dell’umana tollerabilità, per cui non si sopporta, ma si subisce. Anche il dolore, però, ha un confortante archetipo: Cristo, umiliato fino alla morte di croce. La sua comunione con l’uomo è profonda e segnata dalla condivisione di sentimenti umani, appunto: anche Cristo prova l’affezione, il rifiuto, il dubbio, la paura, l’angoscia, il tragico senso di abbandono, come si legge nella Via crucis del Nostro: Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. […] La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa […] Congedarmi mi dà angoscia più del giusto9. 8 Mario Luzi, Via crucis al Colosseo, presieduta dal Santo Padre Giovanni Paolo II, Venerdì Santo 1999, Città del Vaticano, Tipografia Vaticana, 1999, pp. 51-52. 9 Mario Luzi, Via crucis al Colosseo, cit., p. 60.

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«La vita può darsi nella cenere»

Cristo sa che risorgerà, però deve passare attraverso la morte, per questo la sua anima «è triste fino alla morte»10 e ciò va inteso con molta serietà, non si può prendere questa affermazione con leggerezza pensando che in ogni caso egli già sapeva che sarebbe risorto. Nel momento della passione, anche il Figlio di Dio prova questo umano sentimento. Dopo la sua morte e sepoltura, la: vita si ritrae in sé, rientra nelle sue latebre, nei suoi ricoveri. Comincia il pomeriggio più angoscioso che mai sia stato al mondo11.

Passato il sabato, però, le donne si recano al sepolcro portando aromi, ma trovano la pietra rotolata via e soprattutto non trovano Gesù. Ricevuto l’annuncio della risurrezione da due angeli, corrono anch’esse a portare la buona novella agli apostoli, stupiti e increduli. Luzi sottolinea come i corpi umiliati nella morte siano ricompensati con la vita eterna che ‘deflagra’ dal sepolcro: Dal sepolcro la vita è deflagrata. La morte ha perduto il duro agone. Comincia un’era nuova: l’uomo riconciliato nella nuova alleanza sancita dal tuo sangue ha dinanzi a sé la via. […] L’offesa del mondo è stata immane. Infinitamente più grande è stato il tuo amore. Noi con amore ti chiediamo amore12.

Ivi, p. [62]. Mario Luzi, Il 1945, in Id., Tutto in questione, Firenze, Vallecchi, 1965, p. 53. 12 Mario Luzi, La porta del cielo: conversazioni sul cristianesimo, a cura di Stefano Verdino, Casale Monferrato, Piemme, 1967, pp. 151-152. 10 11

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Per il poeta fiorentino la vita è qualcosa di inafferrabile ed egli ritiene che «Sarebbe un […] errore cedere alla nostalgia o alla delusione e dimenticare che il mondo diviene seguendo un moto né univoco né apparente»13; tutto è soggetto a una continua metamorfosi. Nella parola, nel silenzio, nella Scrittura c’è qualcosa che sfugge all’uomo, che non è alla portata dell’uomo, qualcosa di non riducibile alla ‘sua’ parola: c’è un mistero. E a proposito di questo termine, usato e abusato, è opportuno intendersi. Luzi precisa che il mistero, che anima e popola i Vangeli, non è qualcosa di negativo, anzi è «un’offerta di conoscenza» elargita all’uomo, il quale può entrare ‘in armonia’ con il mistero se accetta la scissura che c’è tra l’ordinario e il trascendente; in altre parole, se fa posto all’«imprevedibile»: mistero […] è un vocabolo che noi usiamo e di cui abusiamo e abbiamo troppo abusato […] quello che non è intelligibile lo chiamo mistero […] Ma mistero è una forma, invece, di conoscenza. C’è una conoscenza per mistero, come c’è una conoscenza per idee e anche per formule […] Nei Vangeli, mi sembra, la presenza del mistero non solo aleggia, ma è proprio palpabile, sensibile, e nel linguaggio del Vangelo è inclusa anche la presenza del mistero come nozione non negativa. Non come un divieto a conoscere, ma anzi come un’offerta di conoscenza. La parola che emerge dunque dal silenzio, da quel silenzio, ha una forza straordinaria di intimazione. […] La logica ordinaria […] deve far posto […] a qualcosa che era imprevedibile: la forza di rottura che ha questa parola, la Parola, che viene a fare giustizia di luoghi comuni, di credenze convenzionali che erano più lettera morta che spirito14.

13 Mario Luzi, Fede e poesia, Testo secondo file computer Luzi, archiviato in data 03-10-1998; edito in Fede e Poesia. Omaggio a Mario Luzi, a cura di Tiberia Vitaliano, Todi, Ediart, 1999, pp. 21-23; ora in Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste. Con un’appendice di scritti dispersi, cit., pp. 249-251. 14 Mario Luzi, Leopardi e l’Europa: vivere la modernità, Testo secondo file computer Luzi, archiviato in data 25-3-99, edito con il titolo Giacomo Leopardi, «Revues des Études Italiennes», 3-4, 1999, pp.165-166; e con il titolo Leopardi e l’Europa: vivere la modernità, in Leopardi in Europa, a cura di Franco Musarra, Bart van den Bossche, S. Vanvolsem, Leuven, Leuven University Press, 2000, pp. 21-22; ora in Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste. Con un’appendice di scritti dispersi, cit., pp. 253-255. Sull’argomento Luzi e la modernità, cfr. Giuseppe Langella, Mario Luzi e il dramma della modernità, in

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«La vita può darsi nella cenere»

L’uomo diventa uomo quando ‘cede’ a Dio, quando riconosce che non può fare a meno di Dio, quando ha l’intuizione di mettere la sua mano in quella del Padre, per camminare insieme; fede e poesia, insomma, si danno la mano. A tal proposito, il Nostro dice che: Fede e poesia sono due (ammesso lo siano) termini o polarità di cui è impossibile parlare distintamente. Chi li ha chiari e certi e li vive in consapevolezza, non importa se armoniosa o disarmonica, dentro di sé non può tenerli separati, non ci riesce, non gli è dato.

Chi programmaticamente ne esclude uno per laicismo conclamato e ostentato, di fatto lo evoca; e riannoda un filo nato per rimanere unico anche nella separazione apparente degli stami. […] La fede agisce inavvertita e non segreta ma discreta in un poeta che l’ha avuto in dono come elemento costitutivo della sua esistenza: per exempla, per retaggio. Naturaliter. Il suo sguardo sul mondo, offeso o lieto, ne è imbevuto. […] Si è dentro la fede, le sue opere, i suoi segni: e la fede è presente in noi, nella nostra giornata. […] La fede diviene essa stessa un tema, un argomento di vita interiore: ed ha molti gradi di espressione, da quello dialettico – che comporta un contrario – a quello celebrativo di lode e di esultazione, a quello supremo di meraviglia e rivelazione, di conoscenza suprema nei mistici: san Giovanni della Croce, santa Teresa d’Avila, Dante. […] La fede è presente nella poesia anche nella sua perdita. […] Perché il Vangelo stravince? Perché Gesù è presente, vive, testimonia, non argomenta. La sua verità: il suo annuncio si afferma, diviene fede per via di amore, perché si fa amare15. «L’amore aiuta a vivere, a durare». Bigongiari, Luzi, Parronchi cento anni dopo (1914-2014), a cura di Paola Baioni e Giorgio Baroni, «Rivista di letteratura italiana», 3, 2014, pp. 139147. 15 Mario Luzi, Fede e poesia, Testo secondo file computer Luzi, archiviato in data 03-10-1998; edito in Fede e Poesia. Omaggio a Mario Luzi, a cura di Tiberia Vitaliano, Todi, Ediart, 1999, pp. 21-23; ora in Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste. Con un’appendice di scritti dispersi, cit., pp. 249-251.

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La modernità può essere vissuta come «ubriacatura», dice Luzi, ma «la richiesta intellettiva e morale di essere all’altezza del suo dramma è […] la più forte e conscia esortazione a intendere giustamente e a operare correttamente»16.

16 Mario Luzi, Leopardi e l’Europa: vivere la modernità, Testo secondo file computer Luzi, archiviato in data 25-3-99, edito con il titolo Giacomo Leopardi, «Revues des Études Italiennes», 3-4, 1999, pp.165-166; e con il titolo Leopardi e l’Europa: vivere la modernità, in Leopardi in Europa, a cura di Franco Musarra, Bart van den Bossche, Serge Vanvolsem, Leuven, Leuven University Press, 2000, pp. 21-22; ora in Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste. Con un’appendice di scritti dispersi, cit., pp. 253-255. Sull’argomento Luzi e la modernità, cfr. Giuseppe Langella, Mario Luzi e il dramma della modernità, in «L’amore aiuta a vivere, a durare». Bigongiari, Luzi, Parronchi cento anni dopo (1914-2014), a cura di Paola Baioni e Giorgio Baroni, «Rivista di letteratura italiana», 3, 2014, pp. 139-147.

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Nella ricorrenza del decimo anniversario della scomparsa di Mario Luzi 2005-20151 è apparsa una plaquette con l’edizione di un commento – «presumibilmente inedito»2 – del poeta alla celebre lauda Donna de paradiso di Jacopone da Todi. Si tratta di un testo che risale, secondo Stefano Verdino, probabilmenSigle e abbreviazioni delle opere di Mario Luzi citate nel testo: OP – Mario Luzi, L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di Stefano Verdino, Milano, 19993.. DN – Idem, Discorso naturale, Milano, 1984. IL – Idem, L’inferno e il limbo, Milano, 1964. NP – Idem, Naturalezza del poeta. Saggi critici, Milano, 1995. AB – Idem, A Bellariva. Colloqui con Mario, a cura di Stefano Verdino, in “Annuario della Fondazione Schlesinger”, Lugano – Milano-New York, 1995 (e ripreso in OP pp. 1241-1292, da cui si cita). CMS – Idem, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Milano, 1999. VV – Idem, Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratura, a cura di Daniele Piccini e Davide Rondoni, Milano, 2002. PC – Idem, La porta del cielo. Conversazioni sul Cristianesimo, a cura di Stefano Verdino, Casale Monferrato, 1997. PUR Idem, Poesie ultime e ritrovate, a cura di Stefano Verdino, Milano, 2014. 2 Stefano Verdino, Nota al testo, in Mario Luzi, Il pianto di Maria, con Donna de Paradiso lauda di Jacopone da Todi, con Nota al testo di Stefano Verdino, Metteliana, Firenze, Palazzo Vecchio 28 febbraio, 2015, in 701 esemplari (senza i. p., ma a p.6). 1

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te agli anni Ottanta del secolo appena trascorso e ritrovato dall’impagabile studioso tra le carte che lo stesso Luzi tempo addietro gli aveva donato. Siamo dunque indicativamente all’altezza delle raccolte della cosiddetta “terza fase” dell’opera luziana, quella cioè denominata Frasi nella luce nascente e che si apre con Per il battesimo dei nostri frammenti (1985)3; seguiranno in ordine di apparizione: Frasi e incisi di un canto salutare (1990) e Viaggio celeste e terrestre di Simone Martini (1994)4. Il 1997 vede l’uscita di un’importante conversazione del poeta con Stefano Verdino dal titolo La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo 5, nel corso della quale: «Uno dei maggiori poeti del nostro secolo […] parla della sua esperienza religiosa […], e […] apre con semplicità il suo mondo interiore, da sempre contrassegnato dalla presenza e dalla centralità del Cristo, che ha sostanziato sia la sua vita che la sua poesia»6. A qualche anno più tardi risalgono due testi di contenuto e di profonda tensione religiosa: le meditazioni per la Via Crucis papale al Colosseo del 19997 e l’azione drammatica Opus florentinum composta a ridosso del settimo centenario della fondazione della cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore e del Giubileo del 20008. Ho ricordato le opere sopra menzionate non per arido dovere bibliografico, bensì per tentare di ben contestualizzare un testo di altissimo profilo spirituale a sfondo cristologico/mariano, qual è il ritrovato Il pianto di Maria, all’interno di una fase dell’opera luziana diffusamente caratterizzata da una indubbia quanto verificabile dizione celestiale che ingloba in sé ogni frammento e voce di un’esperienza cristiana personale, collettiva e perfino cosmica9. È in tale fase che ri-emerge la figura della Vergine Maria. Dico “ri-emerge”, perché fin dall’apparizione dei primi testi poetici de La barca l’icona femminile della Madonna si ritaglia un profilo da attante primario, sia pure accompaMario Luzi, Per il battesimo dei nostri frammenti, in OP, pp. 501-706. Frasi e incisi di un canto salutare, in ibidem pp. 707-948. 5 Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, in OP, pp. 949-1132. 6 PC, risvolto di copertina. 7. Idem. La Passione. Via Crucis al Colosseo, Milano, 1999. 8 Mario Luzi, Opus florentinum. Azione drammatica in due parti, Locarno, 2002. 9 Sulla produzione ultima di Luzi cfr. gli Atti del recente convegno milanese Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste. Con un’appendice di scritti dispersi, a cura di Paola Baioni e Davide Savio, Roma 2014. 3 4

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gnandosi, inconfondibile e trasparente, a quella folla di creature femminili che tanto e originalmente hanno contrassegnato l’immaginario affettivo, religioso e dunque poetico del giovane Luzi. Già Alfredo Luzi aveva evidenziato puntualmente l’importanza di questa presenza: «Nella prima opera La barca […] prevale una idea della Provvidenza, configurata attraverso le immagini femminili giovanili, le fanciulle di derivazione leopardiana, e la condensazione iconica della madre nella figura della Madonna, elemento tramite per colloquiare con il Cristo figlio di Dio»10. Se l’andatura e l’attitudine contemplativa assunta davanti alla bellezza femminile appare evidente ed espressa in immagini delicate ed evanescenti, nell’attesa di un incontro che sa di miracolo, non va sottovalutato l’innesto di quella coloritura tutta cristiana che l’icona mariana conferisce al mondo femminile della raccolta, quella della carità: soccorso, sguardo compassionevole, incontro amorevole, occhi vigili verso gli infanti e gli umili della terra, sono queste le fattezze di Maria, pregata essenzialmente come madre: volgi gli occhi della Vergine sul cuore dei fanciulli soli, stendi le sue vesti celesti sulle loro nudità11.

E ancora: la Madonna dagli occhi trasparenti scende adagio incontro ai morenti, raccoglie il cumulo della vita, i dolori le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita12.

Indubbia la proiezione dell’immagine materna sulla Madonna, ipotesi di lettura autorizzata dallo stesso Luzi: «Dapprima Maria l’ho vista iconicamente; è una immagine per un ragazzo, dove si ritrova la madre con il più squisito 10 Alfredo Luzi, Icone del femminile nella poesia di Mario Luzi, in “Quaderni del Centro Studi Mario Luzi”, V (2004), pp. 27-37: p. 28. 11 Primavera degli orfani, da La barca, in OP, p. 24. 12 Alla vita, in ibidem, p. 29.

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senso della protezione e dell’autorizzazione»13. La presenza della Madre di Cristo aleggia dunque ed appare fin dal “primo noviziato” della poesia luziana; più tardi, focalizzando con maggiore chiarezza la visione mariana connaturata alla sua esperienza di fede e rintracciabile nella sua scrittura, preciserà: «Maria è centrale nel sentimento di fede […] è al meglio quello che il cristianesimo ha fatto sentire di creaturale [...] è la prima porta […] è […] la carità creaturale, che è il tratto più distintivo del cristianesimo […]. Sembrerebbe quasi inventata teoreticamente, ma noi la dobbiamo considerare storicamente come madre di Cristo. Poi vi sono tutti i suoi infiniti attributi, ma noi dobbiamo partire dal fatto storico che lei è la madre terrena di Cristo. […] Dopo [l’adolescenza] l’ho vista come un punto di salvaguardia non solo perché la preghiera e la liturgia puntano su questo, ma anche perché un’intermediazione tra divino e umano non l’ho mai potuta separare da Lei»14. Sentimento di fede, preghiera, liturgia, mediazione…luoghi teologici e spirituali nei quali Luzi coglie e fissa poeticamente Maria. Naturale, allora, tentare di reperire nella sua produzione lirica quei testi nei quali la figura della Madonna venga così colta dal poeta: tra meditazione, preghiera e poesia. La raccolta nella quale mi risulta di poter raccogliere il più corposo numero di occorrenze a sfondo mariano è il poema narrativo Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, nel quale ben otto liriche stanno ad indicare altrettante tappe meditative, Sub suum praesidium, lungo l’itinerarium o nostos di Simone/Luzi da Avignone verso Siena: Dormitio virginis15, Sole, lei, si leva16, Si leva, quasi un alleluia17, Ma ora s’ammanta18, Risveglio inquieto, angelica19, Un attimo / di universa compresenza 20, Rimani dove sei, ti prego 21, Era paradiso, già? 22. PC, p. 92. Idem, pp. 90-92. 15 Dormitio virginis da, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, in OP, p. 983. 16 Sole, lei, si leva, ibidem, p. 1031. 17 Si leva, quasi un alleluia, ibidem, p. 1032. 18 Ma ora s’ammanta, ibidem, p. 1063. 19 Risveglio inquieto, angelica, ibidem, p. 1079. 20 Un attimo / di universa compresenza, ibidem, p. 1088. 21 Rimani dove sei, ti prego, ibidem, p. 1089. 22 Era paradiso, già? ibidem, p. 1090. 13 14

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Dormitio virginis si presenta come una sorta di visione mistica nella quale l’immagine dell’Immacolata viene delineata con un lessico allusivo e simbolico: se i termini «fertilità», «grembo», «ventre», «vulva» sono naturalmente riferibili alla fecondità e maternità di Maria, altri di più spessore simbolico/biblico/teologico necessitano di una decriptazione per farli esplodere in tutta la loro valenza semantica, per cui «stella» ed «astro» rimandano al ruolo di guida di Maria (“Respice Stellam, voca Mariam”, secondo la celebre invocazione di Bernardo di Chiaravalle23), lo «scafo», «l’oblò» e «l’occhio liquido rotante» allo Spirito Santo, la domanda in terza persona «Perché lei?» richiama l’evangelico lucano “Perché io?” e l’indicazione della stagione primaverile isolata nel primo verso da un trattino «Primavera – piove un suo presagio», richiama la festa dell’Annunciazione, il 25 marzo. Viene, tuttavia, da domandarsi come mai il poeta abbia adottato a titolazione della lirica il sintagma latino dormitio virginis che la tradizione liturgica romana riserva solo all’Assunzione, traducendo per altro l’originale greco koimesis. Credo di poter spiegare l’apparente confusione non solo rilevando che siamo di fronte ad una scena di ambientazione notturna ed onirica («Dorme lei?») ma, con maggiore coerenza teologica, ricorrendo all’argomentazione con la quale Pio XII definì il dogma dell’Assunta: proprio perché preservata dal peccato originale (“Immacolata”), in previsione dei meriti di Cristo e illibata nella sua verginità, poté essere assunta in cielo in corpo «Chiunque tu sia, che nel flusso di questo tempo ti accorgi che, più che camminare sulla terra, stai come ondeggiando tra burrasche e tempeste, non distogliere gli occhi dallo splendore di questa stella, se non vuoi essere sopraffatto dalla burrasca! Se sei sbattuto dalle onde della superbia, dell’ambizione, della calunnia, della gelosia, guarda la stella, invoca Maria. Se l’ira o l’avarizia, o le lusinghe della carne hanno scosso la navicella del tuo animo, guarda Maria. Se turbato dalla enormità dei peccati, se confuso per l’indegnità della coscienza, cominci ad essere inghiottito dal baratro della tristezza e dall’abisso della disperazione, pensa a Maria. Non si allontani dalla tua bocca e dal tuo cuore, e per ottenere l’aiuto della sua preghiera, non dimenticare l’esempio della sua vita. Seguendo lei non puoi smarrirti, pregando lei non puoi disperare. Se lei ti sorregge non cadi, se lei ti protegge non cedi alla paura, se lei ti è propizia raggiungi la mèta.» San Bernardo, Lodi alla Vergine Madre, a cura di Claudio Leonardi, in Opere di San Bernardo, II, Sentenze ed altri scritti, Milano 1990, p. 91. 23

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e anima24. Tra i testi biblici riportati a fondare scritturisticamente il nuovo dogma è – nel rispetto della tradizione esegetica greca e latina –, ricordato il celebre passo della visione di Ap 12, 1-17, al quale Luzi potrebbe aver alluso 24 «Dio, infatti, che da tutta l’eternità guarda Maria vergine, con particolare pienissima compiacenza, “quando venne la pienezza del tempo” (Gal 4, 4), attuò il disegno della sua provvidenza in tal modo che risplendessero in perfetta armonia i privilegi e le prerogative che con somma liberalità ha riversato su di lei. Che se questa somma liberalità e piena armonia di grazie dalla chiesa furono sempre riconosciute e sempre meglio penetrate nel corso dei secoli, nel nostro tempo è stato posto senza dubbio in maggior luce il privilegio della corporea assunzione al cielo della vergine Madre di Dio Maria. Questo privilegio risplendette di nuovo fulgore fin da quando il nostro predecessore Pio IX, d’immortale memoria, definì solennemente il dogma dell’Immacolata Concezione dell’augusta Madre di Dio. Questi due privilegi infatti sono strettamente connessi tra loro. Cristo con la sua morte ha vinto il peccato e la morte, e sull’uno e sull’altra riporta vittoria in virtù di Cristo chi è stato rigenerato soprannaturalmente col battesimo. Ma per legge generale Dio non vuole concedere ai giusti il pieno effetto di questa vittoria sulla morte se non quando sarà giunta la fine dei tempi. Perciò anche i corpi dei giusti dopo la morte si dissolvono, e soltanto nell’ultimo giorno si ricongiungeranno ciascuno con la propria anima gloriosa. Ma da questa legge generale Dio volle esente la beata vergine Maria. Ella per privilegio del tutto singolare ha vinto il peccato con la sua concezione immacolata; perciò non fu soggetta alla legge di restare nella corruzione del sepolcro, né dovette attendere la redenzione del suo corpo solo alla fine del mondo […] Nei libri liturgici, che riportano la festa sia della Dormizione sia dell’Assunzione di Santa Maria, si hanno espressioni in qualche modo concordanti nel dire che quando la vergine Madre di Dio salì al cielo da questo esilio, al suo sacro corpo, per disposizione della Divina Provvidenza, accaddero cose consentanee alla sua dignità di Madre del Verbo incarnato e agli altri privilegi a lei elargiti. Ciò è asserito, per portarne un esempio insigne, in quel Sacramentario che il Nostro predecessore Adriano I, d’immortale memoria, mandò all’imperatore Carlo Magno. In esso infatti si legge: “Degna di venerazione è per noi, o Signore, la festività di questo giorno, in cui la santa Madre di Dio subì la morte temporale, ma non poté essere umiliata dai vincoli della morte colei che generò il tuo Figlio, nostro Signore, incarnato da lei”. Ciò che qui è indicato con la sobrietà consueta della Liturgia romana, nei libri delle altre antiche liturgie, sia orientali, sia occidentali, è espressa più diffusamente e con maggior chiarezza. Il Sacramentario gallicano, per esempio, definisce questo privilegio di Maria “inspiegabile mistero, tanto più ammirabile, quanto più è singolare tra gli uomini”. E nella liturgia bizantina viene ripetutamente collegata l’assunzione corporea di Maria non solo con la sua dignità di Madre di Dio, ma anche con altri suoi privilegi, specialmente con la sua maternità verginale, prestabilita da un

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con il verso in latino: «Dilaspa illa in aetere», seguito da «inestinguibile favilla», dislocato a destra, a sigillare quasi con una nuova invocazione litanico/ mariana – resa per altro in rima con illa, – l’avvenuta esaltazione della Vergine al fuoco dell’eterno amore25. Non va dimenticato infine che una tradizione agiografica di lontana ascendenza apocrifa vuole che lo stesso angelo che annunziò l’Incarnazione del Verbo alla Vergine, facesse lo stesso poco prima della morte rivelandole il momento preciso del trapasso/dormizione e l’iconografia mariana orientale-bizantina si ispirò abbastanza presto a questi testi e la formella di Duccio di Buonisegna nella Pala della Maestà conservata nel Museo dell’Opera del Duomo a Siena (senz’altro notissima a Luzi) ne testimonia la vitalità ancora nel Trecento italiano26. disegno singolare della Provvidenza Divina: “A te Dio, re dell’universo, concesse cose che sono al disopra della natura; poiché come nel parto ti conservò vergine, così nel sepolcro conservò incorrotto il tuo corpo, e con la divina traslazione lo conglorificò”». Pio XII, Costituzione Apostolica, Munificentissimus Deus, Romae 1950. 25 In un testo apocrifo, scoperto nel 1955 (Transitus romanus), Pietro afferma che: «la luce della sua lampada riempì il mondo tutto e non si estinguerà finché il secolo sia terminato, perché quanti desiderano ricevano da lei coraggio e voi abbiate pure la benedizione della quiete», a Maria è dunque affidata una missione universale di consolazione. Sugli apocrifi mariani cfr. I Vangeli apocrifi, a cura di Marcello Craveri, Torino 1969, pp. 445-474 (Assunzione di Maria). 26 Una forma ‘narrativa’ peculiare relativa a Maria è quella degli scritti incentrati sulla fine della sua vita: vengono indicati col titolo di Transitus e di Dormitio di Maria, con allusione al fatto che non si è trattato di una morte normale e non c'è stata corruzione delle sue spoglie; è già in qualche modo implicito il concetto di “assunzione”. Possediamo almeno una quarantina di opere di questo tipo, in varie lingue. Esse presentano uno schema di base a grandi linee comune, ma con numerose varianti. Lo schema di base, e comunque il più antico, è il seguente. Successivamente all’ascensione di Gesù, Maria, che dimora a Gerusalemme, riceve da un messaggero celeste la notizia della sua prossima dipartita, e vi si prepara, sia fisicamente sia spiritualmente. In preda all’ansia, prega il Figlio chiedendogli di venire personalmente a prendere la sua anima. Convoca quindi parenti e conoscenti perché le stiano vicino. Riceve la visita degli apostoli che giungono ciascuno dai luoghi di missione, trasportati prodigiosamente. Maria esprime le sue ultime volontà. L’ultima notte è una veglia di preghiera e meditazione; al mattino giunge il Signore a prelevare l’anima di Maria e portarla in cielo. Il corpo invece viene seppellito dagli apostoli in una tomba nuova. Durante il corteo funebre si verificano attacchi dei giudei, che vorrebbero

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I due microtesti Sole, lei, si leva e Si leva, quasi un alleluia, lei della sezione Dopo la malattia. Deliri, vaneggianti, visioni, sono successivi nella scansione poematica e formano un dittico per omogeneità di contenuto e numero di versi, rafforzati stilisticamente nella loro contiguità dall’anafora Si leva dell’ultimo verso di Sole, lei, si leva, che si ripete in sede di primo in Si leva, quasi un alleluia, lei. Il pronome lei – posizionato al centro e alla fine dei primi versi – allude ad una «epifania della Madonna dopo la malattia»27 di Simone, mentre nei successivi versi 21-25: «La luce non le pare luce / se non piena di tenebre, / la sua letizia non sarebbe lieta / senza la condivisa pena – / cantano lodi antiche…»28 nel rimando alle “lodi antiche” (dal Sub tuum al Memorare, alla Salve, Regina alla preghiera di san Bernardo alla Vergine del Canto XXXIII del Paradiso dantesco…) emerge, protettivo e compassionevole, il ruolo materno della Vergine che quasi kenoticamente non teme di adulterare la propria bellezza e splendore con l’opacità e la pena dell’umanità, soccorrendola. Il mistero gaudioso dell’Annunciazione è al cuore della lirica Ma ora s’ammanta «rivelatrice del rapporto che Luzi intrattiene con l’immagine pittorica»29. Viene qui richiamata la tanto lodata Annunciazione (agli Uffizi) di Simone Martini intravista o prefigurata – nel fantasticato racconto luziano – in sogno da Giovanna durante un momento di assopimento nella soffocante calura estiva: un’epifania di azzurro ammanta regalmente Maria-fanciulla conferendole un’aria di «limpida maestà» mentre l’angelo annunziante, dall’alto, le rivela il supremo quanto misterioso disegno divino. Sogno visionarioprofetico quello di Giovanna che anticipa nel tempo il genio/gesto pittorico di Simone: «Oh lui dipingerà: dopo, nel tempo giusto». Lo sfondo dorato e impadronirsi del corpo di Maria per bruciarlo, ma vengono miracolosamente bloccati. Al terzo giorno dopo la sepoltura il corpo di Maria viene portato via dalla tomba da Gesù e dagli angeli e recato in paradiso, dove viene ricongiunto con l’anima. 27 Stefano Verdino, Apparato critico, in OP, p. 1770. 28 Sole, lei, si leva, da Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, in OP, p 1031. Riscontro lessicale del Dante paradisiaco (Canto XXX, vv. 40-42), come spesso nell’ultimo Luzi: “luce intellettual, piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore”. 29 Paola Cosentino, Il poeta e il pittore: brevi riflessioni sul Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, in “Nuova Corrente”, 54 (2007), pp. 297-312: p. 311.

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splendente della pala mariana assume nella cromatura onirica il guizzo rosso del fuoco che vince sull’azzurro: «S’incendia l’aria, il visibile»30. In Risveglio inquieto, angelica, nella sezione dedicata al rapporto tra Simone e la sua pittura, Lui, la sua arte, la presenza di Maria è delineata nei vv. 15-22 «secondo la prediletta iconografia in Maestà della pittura senese e di Simone»31. Il nome di Maria è occultato nella terza persona al presente indicativo del verbo “dominare” del v. 17 domina/Domina: «Ma lei, volto fiorito / sulla grazia dello stelo, / tutto domina, ovale / appena appena / granito porporino, / tutto in sé contiene, / seduta sul suo trono / di pace e di vertigine»32. I tre testi posti in successione Un attimo / di universa compresenza, Rimani dove sei, ti prego, Era paradiso, già?, formano un vero e proprio trittico mariano nel quale preghiera, contemplazione e dialogo tra arte e vita si combinano in un sublime e coeso risultato poetico: l’io del poeta, proiettato in quello di Simone Martini, domanda soccorso perché dall’alto Maria conferisca anima e pienezza a quanto sta partorendo. Inserite nella sezione Lui, la sua arte, segmento del nostos dove si compie finalmente «l’agognato incontro con Siena, in una luminosa estate»33, le tre brevi liriche vanno lette a modo di tre parti o strofe di una sola preghiera di Simone alla Vergine perché la sua arte (e dunque anche quella di Luzi) non appaia scura ma venga fatta lievitare in splendore e trasparenza dalla luce, perché l’opera non «diventi vaniloquio, colpa»34. Nella prima Un attimo / di universa compresenza, il parto o la creazione mentale del progetto («entrano le cose / nel pensiero che le pensa, entrano / nel nome che le nomina / sfolgora la miracolosa coincidenza») con conseguente invocazione di soccorso («aiutami, Maria, t’inciderò / per la tua gloria, / per la 30 Cfr. anche Stefano Verdino, Apparato critico, in OP, p. 1776 che parla di «Epifania della celebre Annunciazione […] colta ancora nello stato di progetto mentale prima della realizzazione». 31 Ibidem, p. 1779. 32 Risveglio inquieto, angelica, da Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, in OP, p. 1079. 33 A Bellariva, in OP, p. 1290. 34 Così Verdino: «Sono scuri i colori di Simone senza lo smagliare della luce per cui il congedo dalla sua carta culmina con la preghiera, tutt’altro che retorica, che l’opera ricaduta, anziché riscattata, non “diventi vaniloquio, colpa”», ibidem.

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gloria del cielo») si chiude con la clausola asseverativa di matrice liturgica, in italiano «Così sia»35. La seconda Rimani dove sei, ti prego alza una vibrante preghiera di supplica alla Vergine perché l’immagine resti colma della grazia che la mano del pittore, con umiltà, senza superbia «solo per obbedienza» le ha conferito «Rimani dove sei, ti prego, / così come ti vedo»: Simone appare quasi un agiografo bizantino che prega perché l’icona sacramentalmente riesca non solo ad epifanizzare la bellezza della Madre di Dio, offrendosi «all’adorazione», ma perché sia anche luogo di mediazione efficace di grazia, da qui il bisogno dell’ «anima», del «fuoco» dello «spirito del mondo», della charis insomma, allo stesso modo della pittura che può vivere solo per il battesimo nella luce. La terza, infine, Era paradiso, già?, rappresenta, nel trittico, non solo il momento della riflessione, lo stacco meditativo e di ammirazione (sottolineato dall’interrogativa straniante del primo verso) ma anche la stasi contemplativa di Simone ad opera terminata, il cantico dell’uomo (la clausola finale ispirata al cantico neotestamentario del Magnificat lucano e solennemente posta in latino, conferisce un’aura di sacralità liturgica all’intera lirica): lo sguardo ammirativo parte dall’Annunciata appena dipinta per elevarsi e mutarsi in memoria contemplativa dell’evento evangelico. Maria colta in atto orante «Pregava lei, pregava / ed era / pregata intanto dalla sua preghiera» accoglie le parole dell’angelo mentre lo Spirito (la «divinità») la sostanzia di una nuova vita, nel mistero dell’incarnazione del Verbo «Così fiore crescente / le si apriva in nuovi sensi, / così le straripava in incrementi di forza / la divinità». Le profezie veterotestamentarie non appaiono più lettera morta, prigioniere della confusa esegesi umana, ma prendono vita perché il Logos è diventato carne: «Ecco riconosceva dette / e scritte / dovunque in trasparenza / verità / credute mute – / lo erano per l’uomo / e il suo buio intendimento, / ma ora? Dilagavano / senza riparo di menzogna, / di ottusità». Estrapolato dal contesto evangelico il significato si allarga all’ arte e alla poesia: non è solo la pittura di Simone ad essere salvata dalla luce, ma anche la parola dell’uomo ad essere ri-fiduciata nella sua possibilità di poter dire le cose nella loro originale verità 35 Sulle occorrenze e sul significato delle clausole liturgiche nell’ultimo Luzi cfr. Gianni Festa, Lo stile liturgico dell’ultimo Luzi, in Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste. Con un’appendice di scritti dispersi, cit., pp. 187-201.

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Luzi “mariano”

(cfr. il testo precedente: “…entrano le cose / nel pensiero che le pensa, entrano / nel nome che le nomina, / sfolgora la miracolosa coincidenza” dove il verbo sfolgorare allude anche alla pittura salvata dalla luce). Con la fiducia rinnovata nell’umile potere della parola e dell’arte si conclude questo breve itinerario mariano colto ed evidenziato in quello certamente più lungo e più contrastato itinerario di ritorno di Simone. La presenza femminile e sacra di Maria appare immagine di conforto, di speranza e di bellezza, e non è un caso, allora, che le tre luci (quasi a simboleggiare le tre stelle / virtù teologali che il nuovo pellegrino ammira dalle spiagge di un Purgatorio in procinto di diventare Paradiso: «Era paradiso, già?») che rischiarano il viaggio del pittore/poeta siano al femminile: Siena, la lingua / pittura, Maria.

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Carlo Carena Andromaque tra Ungaretti e Luzi

Accadde a due protagonisti della poesia italiana novecentesca di cimentarsi contemporaneamente e per ragioni analoghe con uno dei capolavori teatrali di tutti i tempi: Andromaque di Racine1. La tragedia è del 1667. Fondata su un passo del III libro dell’Eneide, l’apparizione dell’eroina troiana sui lidi dell’Epiro e il racconto della sua storia di sposa e madre infelice, e sull’Andromaca di Euripide, non esprime e suscita l’ammirazione per gesta eroiche bensì l’orrore per le passioni irrefrenabili e ancor più la pietà per le sofferenze dell’amore o per quella che Racine stesso definisce in una delle Prefazioni la debolezza delle virtù. Ungaretti si avvicinò al testo su richiesta di Diana Torrieri dopo il successo della Fedra al Teatro Sant’Erasmo di Milano nel ’50. Il 19 novembre del ’57 scrive all’attrice di essersi messo a tradurre Andromaca: «È stato più forte di me. Faccio il terzo atto […]. Poi farò gli altri. Ma sono cose che si fanno piano piano»2. Così piano, che il traduttore non andrà oltre quel terzo atto e la tragedia verrà completata con gli altri quattro da Corrado Pavolini, che cercò di adeguarsi alla tonalità e al lessico del collega. 1 Da ricordare anche le loro versioni dell’Après-midi d’un Faune di Mallarmé (Ungaretti, 1946; Luzi, 1983). 2 Vedi Andromaca di Racine nella traduzione di Giuseppe Ungaretti e Corrado Pavolini, a cura di D. Torrieri, Milano, Mondadori, p. 133. Per l’Andromaca di Luzi vedi in Id., La cordigliera delle Ande e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1983, pp. 89-137.

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Carlo Carena

Luzi vi fu sollecitato a sua volta per la radio nel ’58 e vi si immerse affascinato dal «sentimento tragico» che è in Racine come nei colleghi greci3. Ungaretti affermava4 che l’arte di tradurre «se parte da una ricerca di lingua poetica e si risolve in espressione poetica, sfocia semplicemente nella poesia»; ed evoca ripetutamente la lingua di Petrarca. Le tracce si rinvengono nella sua Andromaca consegnando i versi dello squisito poeta francese a costrutti e vocaboli ponderosi, a versi regolari, o invece spezzati secondo lo stile del frammento ermetico, e secondo che dettava il senso dell’originale. È l’eterno dibattersi fra i due abissi dei «modi di voltare in altra lingua una poesia»: fare ancora poesia «secondo qualche regola del canto», ma nel contempo con «rispetto, alla lettera, parola per parola, del significato originale»5. Nella sola prima scena si incontrano termini come niun, serbare, si celi, e rimane un primo imene; non mancano all’opposto un disappunto per courroux, stava per allontanarsi o sta chiamandoci; più avanti si alternano niun con vacci; vascello e rampollo con andiamo via e che ne so; lungi e si celi con qualunque sia la parte dalla quale… L’impegno è sul verso, accenna il traduttore nel testo “Per Diana Torrieri” in appendice all’edizione Mondadori del ’75. L’endecasillabo è posto fin dall’apertura con La vostra furia, Signore, si moderi in bocca a Pilade; ha due belle pause (un cantante Lasciate che… | No, non cui segue sono più di stagione i tuoi consigli, e Pilade, sono stanco | D’essere ragionevole), per riprendere con un costruito Sarebbe un trascinare in lungo | La mia presente vita e il mio supplizio: |Devo rapirla, oppure ch’io perisca. In Luzi: Moderate questo furore… No, non è più tempo di consigli. | Sono stanco, Pilade, di dare ascolto alla ragione. | Sarebbe trascinare troppo a lungo la mia vita, | il mio supplizio. Bisogna la conduca via, via | o che io perisca. In RaciCfr. Mario Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Milano, Garzanti, 1999, p. 130. Giuseppe Ungaretti, Andromaca di Racine, cit., p. 120. 5 Id., “Della metrica e del tradurre” (1946), in Vita d’ un uomo. Saggi e interventi, Milano, Mondadori, 1974, p. 571; e, per la metrica, ibid., p. 573: «I novenari, i settenari, gli endecasillabi, i quinari, non essendo per me mai schemi, non mi nascono dunque dopo trovate le parole, per partito preso; ma mi nascono insieme alle parole, muovendomene naturalmente il senso. Quando nella mia traduzione c’è un endecasillabo, è perché il senso della traduzione, cioè le parole stesse dell’originale, dettavano alla traduzione che si sforzava d’essere esatta nel senso, quel moto, e nessun altro». 3 4

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Andromaque tra Ungaretti e Luzi

ne: Non, tes conseils ne sont plus de saison, | Pylade, je suis las d’écouter la raison. | C’est traîner trop longtemps ma vie et mon supplice: | Il faut que je l’enlève, ou bien que je périsse. Si constata facilmente come i diversi esiti derivino sì fors’anche da una volontà o da maggiore necessità di chiarezza e di forza immediata per il palcoscenico, nel caso ungarettiano, ma anche, si può credere, dall’approfondimento e dalla condivisione ‘ideologica’ del traduttore da parte luziana. Ungaretti tenta nel citato brano “Per Diana Torrieri” (p. 125) un affondo storico-letterario, ma è imbarazzato, e imbarazzante6: De l’expérience du Baroque dérive ce qu’en Italie nous appelons le Neoclassicismo, et les Français, qui l’ont inventé, de Descartes à Racine, le Classicisme, mais c’est ici le Classicisme enseigné à Port-Royal, le même, dont se couvrait l’angoisse de Pascal. Per cui Luzi, nel Colloquio con Mario Specchio (p. 130): Port-Royal ripresenta queste cose [il sentimento tragico e la tragedia greca come tragedia del destino umano] in veste teologico-cristiana. […] Racine ha questo sentimento del tragico che è quello cristiano doppiato da quello cristiano-cattolico ecc. Non si potrà scorgere un tocco di ideologia port-royalista nel Pylade, je suis las d’écouter la raison, che Luzi rende così rigorosamente? E quando egli spiega (lì, p. 131) che in Racine «prevale l’elemento epico, narrativo, patetico, piuttosto che drammatico», non ci fa giungere al nocciolo della sua traduzione, non ci sollecita a leggerla in profondità? Ungaretti è più forte che delicato, netto che sottile, sonoro che dolce. Luzi risente dell’intimismo delicato e drammatico della sua poesia, a cui pure non associa le sue traduzioni7, e conserva il grande senso della sofferenza cristiana: Ah con quale richiamo colpisci la mia anima! [Ah! de quel souvenir viens-tu 6 Anche per Phèdre, in “Sulla «Fedra» di Racine”, 1951, ora in Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Saggi e interventi, cit., p. 581. Per il Neoclassicismo e per Petrarca, ibid., pp. 582 s. 7 Premessa alla Cordigliera delle Ande, cit., p. vii.

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Carlo Carena

frapper mon âme!]; Quanto costa a tua madre, figlio, la tua vita ! [O mon fils, que tes jours coûtent cher à ta mère!]8. Conscio, come Ungaretti9, della formalità ineludibile dell’alessandrino e del suo “regime” fonetico e organizzativo, che nella metrica italiana non ha corrispondenti adeguati; e pur conscio della specificità scenica dell’opera e della necessità di un risultato efficace scenicamente; per uscire dalla “palude” di una formalità immota e inerte ricerca strutture in cui si ritrovino e che riproducano la solennità e maestà di quel “regale” verso raciniano nel “sistema musicale” della nostra lingua10. Si adegua pressoché sempre con gli a capo all’ampia misura originale, con ritmi non solenni ma di musicalità penetrante testo e lettore11. È difficile trovare altrove tanta dolcezza e ritmi di periodi metrici in una traduzione. Ciò che Luzi cerca e applica di volta in volta nel suo lavoro è l’empatia alle “variabili” degli originali o più ancora, dei loro autori, applicandovi ed esplicandovi le proprie varie attitudini. Ora si sprigiona un “entusiastico connubio”, ora prevale il desiderio di appropriarsi del testo altrui per conferire ad esso nuova attualità, o viceversa di evadere dal presente in “lontani paradisi della forma”12 – nostalgia di una vita di poeta, e perfetta definizione della poesia del Tradotto. D’altronde, a come leggere (e tradurre) Andromaque ci indirizza il traduttore quando analizza la tragedia in “Per la lettura di Andromaque”13. Vi si trova Andromaca, III VIII. Ungaretti: Figlio, quanto a tua madre costano | I tuoi giorni. Cfr. Giuseppe Ungaretti, “Sulla «Fedra» di Racine”, cit., p. 578. 10 Mario Luzi, Colloquio, cit., p. 134. 11 Luzi in una “Lezione sull’endecasillabo” (2000), in Mario Luzi, Vero e verso, a cura di Daniele Piccini e Davide Rondoni, Milano, Garzanti, 2002, pp. 212-224, racconta e spiega: «A me pare che [nel] mio primo libro [La barca, 1935], più che la ricerca o la predilezione consapevole per un tipo di versificazione in cui l’endecasillabo fosse sovrano, prevalga piuttosto un bisogno di costruire complessi ritmici, delle varietà integrantesi, in cui il ritmo unifica la varietà dei versi. […] Do più rilevanza al ritmo di quanta non ne dia alla normativa della metrica. […] Anche a non cercarlo e a non volerlo, si affaccia, si propone e si impone». 12 Id., Premessa alla Cordigliera delle Ande, cit., p. vii. 13 In Id., Vicissitudine e forma, Milano, Rizzoli, 1974, pp. 103-113, testo «da premettere alla ristampa di una mia versione della pièce raciniana, ristampa rimasta poi in sospeso» (ibid., p. 202). 8 9

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Andromaque tra Ungaretti e Luzi

in un contesto storico-critico ciò che è sotto traccia nella versione. Andromaque, scrive il poeta traduttore, occupa nella tradizione critica raciniana un posto di privilegio «per il suo potere patetico esplicito» sullo sfondo epico; la rovina di Troia e i suoi lutti offrono la materia al dolore umano e alla femminilità dolorosa e afflitta ma non spenta della protagonista e alla vastità dei sentimenti che la critica ha riconosciuto e variamente sottolineato in lei. In tale complessità e ricchezza di sentimenti, la tragedia manifesta appieno l’arte del suo Autore: «In primo luogo la sua compagine linguistica di tono medio, di vocabolario ristretto e ritornante ma infinitamente variato nel valore delle parole, chiusa nelle sue perfette costruzioni sintattiche, bilanciata ritmicamente nel sistema degli alessandrini». Un poeta, una poesia e una voce che a volta a volta si adagiano «tra grazia e profondità, nell’ineffabile [corsivo nostro] di certe modulazioni di verso, nello sfumato delle sue famose rime femminine».

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Cronologia Bibliografia

Febbraio 2014 − agosto 2015



CONVEGNI DI STUDIO E MOSTRE DOCUMENTARIE

20 febbraio – 17 marzo 2014 – Scandicci Mario Luzi a cento anni dalla nascita. Ciclo di incontri a cura di Caterina Trombetti, interventi di Giancarlo Cauteruccio, Cosimo Ceccuti, Ernesto Piccolo, Presentazione video di Claudio Giachi. 26 febbraio 2014 – Genova, Biblioteca Universitaria e 28 febbraio 2014 – Firenze, Palazzo Medici Riccardi – Provincia di Firenze Anima e destino. Omaggio a Mario Luzi, a cura di Ugo De Vita, con l’intervento di Gianni Luzi. 28 febbraio 2014 – Sesto Fiorentino, e SUC delle Murate In Toscana. Un viaggio in versi con Mario Luzi Documentario di Marco Marchi, Regia di Antonio Bartoli e Silvia Folchi, Voce recitante di Francesco Manetti, Musica di Francesco Oliveto. In collaborazione con Regione Toscana – Gabinetto Vieusseux. 4 marzo 2014 – Roma, Palazzo Madama Solenne commemorazione – Interventi: Pietro Grasso (PD) (Presidente Senato); Sergio Zavoli (PD), Gian Marco Centinaio (LN-Aut), Luigi Compagna (NCD), Alessandra Bencini (M5S), Pietro Liuzzi (FI-PdL), Rosa Maria Di Giorgi (PD). 10-13 marzo 2014 – Milano, Università statale Una discesa. Nell’erebo del nostro essere. Qui e ora e così. Nel magma di Mario Luzi. A cura dell’associazione studentesca ‘Per il battesimo dei nostri frammenti’. Interventi: Milo De Angelis, Edoardo Esposito, Stefano Ghidinelli, Marco Marchi, Liana Nissim, Daniele Piccini, Silvio Ramat, Stefano Verdino, Marco Zulberti. 161


Convegni di studio e mostre documentarie

12 marzo 2014 – Milano, Duomo La Passione di Cristo, testo poetico di Mario Luzi. Con la collaborazione di Scuola della Cattedrale di Milano. Voce recitante Roberto Mussapi. Interventi di Mons. Gianantonio Borgonovo, Armando Torno, Paolo Andrea Mettel. Musiche all’organo Maestro Ermanno Codegoni. Installazione luminosa “Croce di Luce” di Marco Nereo Rotelli. 15 marzo 2014 – Pienza Celebrazione 9° anniversario scomparsa di Mario Luzi con presentazione della plaquette commemorativa con la poesia L’amore, letture di Luciano Bonuccelli. Interventi: Armando Torno, Nino Petreni, Paolo Andrea Mettel, Marco Nereo Rotelli, proiezione del film Nulla va perduto (intervista a Mario Luzi) regia di Nino Bizzarri. Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo e Centro Studi Mario Luzi “La Barca”. 19–20 marzo 2014 – Milano, Università Cattolica Mario Luzi – Un viaggio terrestre e celeste, convegno di studi, con la collaborazione di Centro Culturale “Alle Grazie” – Università Cattolica del Sacro Cuore – Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo. Vedi Bibliografia. 19 marzo 2014 – Milano, Basilica delle Grazie Serata per Mario Luzi alla Sacrestia del Bramante con intervento di Massimo Cacciari, letture di Roberto Mussapi e musiche eseguite da Ensemble SOLI DEO GLORIA. Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo. 22 marzo 2014 – San Miniato La Fondazione Istituto Dramma Popolare, ricorda Mario Luzi con la partecipazione di Michele Placido. 14 aprile 2014 – Fiesole (Firenze), Badia Fiesolana La Passione di Cristo, testo poetico di Mario Luzi. Fondazione Ernesto Balducci, Archivio Venturino Venturi, Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo. Voce recitante Luciano Bonuccelli, Interventi di Andrea Cecconi, Lucia Fiaschi, Paolo Andrea Mettel. 162


Convegni di studio e mostre documentarie

27 aprile 2014 – Massarosa In Toscana. Un viaggio in versi con Mario Luzi. Documentario di Marco Marchi, Regia di Antonio Bartoli e Silvia Folchi, Voce recitante di Francesco Manetti, Musica di Francesco Oliveto. In collaborazione con Regione Toscana. Interventi di Riccardo Rolle, Nino Alfiero Petreni, letture di Luciano Bonuccelli. 12 maggio 2014 – Montepulciano Incontro con gli studenti del Liceo. Daniela Terzuoli, Nino Alfiero Petreni, Marco Nereo Rotelli, Giampietro Colombini, letture di Paolo Andrea Mettel. In Toscana. Un viaggio in versi con Mario Luzi. Documentario di Marco Marchi, Regia di Antonio Bartoli e Silvia Folchi, Voce recitante di Francesco Manetti, Musica di Francesco Oliveto. In collaborazione con Regione Toscana. 28 maggio 2014 – 31 agosto 2014 – Mendrisio, Casa Croci Mario Luzi – Le campagne, le parole, la luce, mostra documentaria. Comune di Mendrisio, Museo d’Arte Mendrisio e Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo. Vedi Bibliografia. 16 luglio 2014 – 31 agosto 2014 – Mendrisio, Museo d’Arte Memorie di terra toscana: il poeta e i suoi artisti. Comune di Mendrisio, Museo d’Arte Mendrisio e Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo. Agosto 2014 – settembre 2014 – Firenze Poesia nella città. Un itinerario di poesia, musica, scultura e danza dedicato a Mario Luzi, a cura di Versiliadanza, Edizioni della Meridiana. 25 settembre 2014 – Firenze, San Miniato al Monte Omaggio a Mario Luzi, cittadino di Firenze e del mondo. “Opus Florentinum”, adattamento di Marco Marchi. Interventi: Dom Bernardo Gianni, Nino Alfiero Petreni, Paolo Andrea Mettel, Anna Dolfi, Cristina Giachi, Marco Marchi, Armando Torno. Voce recitante Pino Tufillaro. Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo. 163


Convegni di studio e mostre documentarie

27 settembre 2014 – 31 ottobre 2014 – Pienza, Museo della Città Mario Luzi 1914-2014. Le campagne, le parole, la luce. Il poeta e i suoi artisti. Memorie di terra toscana, a cura di Paolo Andrea Mettel e Nino Alfiero Petreni con la collaborazione di Marco Nereo Rotelli. Intervento di Giovanna Uzzani. Comune di Pienza, Centro Studi Mario Luzi “La Barca”, Comune di Mendrisio, Museo d’Arte Mendrisio. 10 ottobre 2014 – Siena, Contrada Valdimontone Ritorno a Siena. Mario Luzi, la città dell'anima, la contrada. Massimo Vedovelli, Marco Marchi. In Toscana. Un viaggio in versi con Mario Luzi. Documentario di Marco Marchi, Regia di Antonio Bartoli e Silvia Folchi, Voce recitante di Francesco Manetti, Musica di Francesco Oliveto. In collaborazione con Regione Toscana. Interventi: Roberto Barzanti, Antonio Prete, Luigi Oliveto, Lucia Cresti, Carlo Fini, Giovannella Pacini, Graziella Rossi, Caterina Trombetti. 11 ottobre 2014 – Fano, Palazzo San Michele Mario Luzi – A che vi lascio, miei posteri? Convegno di studi, a cura dell’Associazione culturale per la poesia e le arti contemporanee “Rêverie”. Interventi: Giuseppe Bomprezzi, Enrico Capodaglio, Elisabetta Gesmundo, Alfredo Luzi, Katia Migliori. 11 ottobre 2014 – Buonconvento, Teatro dei Risorti Mario Luzi nel centenario della nascita. Interventi: Carlo Fini, Luigi Oliveto, Caterina Trombetti. 14-15 ottobre 2014 – Roma, Dipartimento di studi Umanistici – Roma 3: Riemergere in lontana chiarità, Convegno di studi. Interventi: Noemi Corcione, Paola Cosentino, Elisa Donzelli, Caterina Giordano, Marco Guzzi, Giuseppe Lionelli, Daniele Piccini, Paolo Rigo, Francesca Tommassini, Elisa Tonani, Laura Toppan, Emiliano Ventura. 17 ottobre 2014 – Pescara, Mediamuseum Il mondo di Mario Luzi – Mario Luzi nel mondo, Convegno di studi, a cura del Centro nazionale di Studi dannunziani. Interventi: Alfredo Luzi, Dante Marianacci, Renato Minore, Yasuko Matsumoto, Giancarlo Quiriconi, 164


Convegni di studio e mostre documentarie

Ferenc Szénasi, Edoardo Tiboni, Enrico Tiozzo, Stefano Verdino, Naglaa Waly. 18 ottobre 2014 – Pienza, palazzo Comunale Mario Luzi nel ricordo degli studenti del Liceo Classico di Montepulciano. Mario Luzi e noi, una proposta di lettura. Interventi: Prof.ssa Daniela Terzuoli, Prof. Andrea Giambetti. 20 ottobre 2014 – Siena, Liceo Classico Mario Luzi: una città, il liceo, il mondo. Interventi: Alfredo Franchi, Giorgio Tabanelli, Luigi Oliveto. 20 ottobre 2014 – Pienza Il senso della poesia. Ricordando Mario Luzi. Interventi: Fabrizio Fè, Paolo Andrea Mettel, Marco Marchi, Nino Alfiero Petreni, Adonis, Marco Nereo Rotelli. 20 ottobre 2014 – 15 novembre 2014 – Pienza, Museo della città Mostra “Vento e Luce” a cura di Salvatore Marsiglione, per onorare il centesimo anniversario della nascita di Mario Luzi. Opere di Adonis e Marco Nereo Rotelli. 22 ottobre 2014 – Roma, Biblioteca del Senato Il secolo di Mario Luzi 1914-2014, tavola rotonda a cura di Paolo Andrea Mettel e Stefano Verdino. Interventi: Giulio Ferroni, Giuseppe Langella, Armando Torno, Sergio Zavoli. Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo. 27 ottobre 2014 – Milano, Basilica di Santa Maria delle Grazie La passione di Cristo – Testo poetico di Mario Luzi. Interventi: Gianni Festa, Giuseppe Langella, Paolo Andrea Mettel, Armando Torno, Stefano Verdino.Voce recitante Pino Tufillaro – Musiche all’organo Maestro Ermanno Codegoni. Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo. 27-31 ottobre 2014 – Firenze, Università degli Studi L’ermetismo e Firenze, Convegno di studi. Su Luzi interventi (28-29 ottobre): Mario Baudino, Pietro Cataldi, Marcello Ciccuto, Fabrizio Dall’Aglio, 165


Convegni di studio e mostre documentarie

Mattia Di Taranto, Luigi Ferri, Michela Landi, Giuseppe Langella, Romano Luperini, Alfredo Luzi, Marco Menicacci, Franco Musarra, Giuseppe Nava, Margherita Pieracci Harwell, Giancarlo Quiriconi, Silvio Ramat, Alberto Ricci, Antonio Saccone, Giulia Tellini, Laura Toppan, Stefano Verdino. 6 novembre 2014 – Arezzo, Accademia Petrarca “Vola alta, parola”. Mario Luzi a cent’anni dalla nascita (1914/2014), Convegno di studi. Interventi: Andrea Gialloreto, Alfredo Luzi, Marco Marchi, Marco Menicacci, Daniele Piccini, Giancarlo Pontiggia, Giancarlo Quiriconi. 8 novembre 2014 – 28 marzo 2015 – Pienza Letture di poesie di Mario Luzi, a cura degli attori del Teatro povero di Monticchiello, per la regia di Andrea Cresti, Daniela Terzuoli, Furio Durando. 14-15 novembre 2014 – Firenze (Palazzo Medici Riccardi) e Panzano in Chianti (Pieve di San Leolino) Mario Luzi. L’umanesimo della poesia, Convegno di studi. Interventi: Paola Baioni, Giuseppe Betori, Giuseppe Langella, Carmelo Mezzasalma, Matteo Munaretto, Massimo Natale, Giancarlo Quiriconi, Francesco Ricci, Gugliemina Rogante, Davide Rondoni. 14 novembre 2014 – Firenze, Cattedrale di S. Maria Del Fiore Opus florentinum, omaggio a Mario Luzi nel Centenario della nascita (19142014), regia di Giancarlo Cauteruccio, con Cristina Borgogni – Santa Maria Del Fiore, Patrizia Schiavo – Santa Reparata, Massimo Grigò – Il Canonico, Francesco Argirò, Cristina Arnone, Alessio Martinoli,Flavia Pezzo, Tommaso Taddei; soprano Monica Benvenuti, musiche originali Hidehiko Hinohara. 25 novembre 2014 – Roma, Quirinale Incontro privato con il Presidente Giorgio Napolitano per la consegna della scultura “La Barca”. Presenti: Paolo Andrea Mettel, Annapaola Mettel, Nino Alfiero Petreni, lo scultore Emo Formichi, Fausto Formichi. 166


Convegni di studio e mostre documentarie

27 novembre 2014 – Siena, Biblioteca degli Intronati Mario Luzi nel magma, Tavola rotonda. Interventi: Stefano Carrai, Pietro Cataldi, Romano Luperini, Marianna Marrucci, Antonio Prete. 29 novembre 2014 – 6 gennaio 2015 – Siena, Santa Maria della Scala Mostra Tra l ’arte e letteratura. Il ’900 di Mario Luzi e Alessandro Parronchi. 4 dicembre 2014 – Genova, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Palazzo Ducale Mario Luzi, 1914-2014, a cura della Fondazione Giorgio e Lilli Devoto. Interventi: Beppe Manzitti, Adriano Sansa, Stefano Verdino. 5 dicembre 2014 – 10 gennaio 2015 – Castellanza “Il Poeta e Giuseppina”, una mostra di documenti e lettere autografe di Mario Luzi e Giuseppina Mella, a cura di Giulia Borroni Cagelli. 12 dicembre 2014 – Chiusi, Lubit (Libera Universale per le Scienze BiblioTeologiche Pio II) “La vita fedele alla vita”. Lezione Magistrale di Davide Rondoni sul centenario di Mario Luzi. Interventi di Andrea Giambetti e Nino Alfiero Petreni. 13-14 febbraio 2015 – Philadelphia Mario Luzi 1914-2014: the Man and the Verbum, a cura del Center for Italian Studies at the University of Pennsylvania. Interventi: Gianni Luzi, Paola Baioni, Alberto Comparini, Nicola Di Nino, Alain Elkann, Elisabetta Ferrero, Fabio Finotti, Marta Gas, Massimo Gennari, Ernesto Livorni, Marco Marchi, Anna Marra, Marco Menicacci, Fabrizio Miliucci, Thomas Peterson, Rosanna Pozzi, Silvio Ramat, Martino Rebaioli, Alberto Luca Zuliani. 27 febbraio 2015 – 21 marzo 2015 – Siena, Biblioteca comunale degli Intronati Mario Luzi. Un segno indelebile – Presenze e incontri in terra di Siena, Mostra documentaria a cura di Roberto Barzanti, Duccio Benocci, Luciano Borghi, Carlo Fini, Luca Lenzini, Elisabetta Nencini, Roberto Nencini, Luigi Oliveto, Nino Alfiero Petreni. 167


Convegni di studio e mostre documentarie

28 febbraio 2015 – Firenze, Salone dei Cinquecento Dieci anni dopo, il ricordo: Luzi tra colline di Toscana e memoria di Dante (nel 750esimo), Convegno di studi a cura di Stefano Verdino e Paolo Andrea Mettel. Interventi: Cristina Giachi, Sergio Givone, Anna Dolfi, Marcello Ciccuto, Armando Torno, Giovanni Ricasoli-Firidolfi, Marco Marchi. 28 febbraio 2015 – 11 aprile 2015 – Fermo, Biblioteca comunale Viaggio terrestre di Mario Luzi, Mostra documentaria e d’artisti a cura dell’Associazione “La Luna”. Interventi di Eugenio De Signoribus e Stefano Verdino. 10-31 marzo 2015 – Genova, Biblioteca Berio Mario Luzi. Mostra Bio Bibliografica, a cura della Fondazione Giorgio e Lilli Devoto – Edizioni S. Marco dei Giustiniani. Vedi Bibliografia. 28 marzo 2015 – Pienza Ricordo del poeta. Interventi: Paolo Andrea Mettel, Nino AlfieroPetreni, Marco Nereo Rotelli. 17-18 aprile 2015 – Genova, Museo Diocesano Ufficio Cultura dell’Arcidiocesi di Genova, Casa Valéry Per il dopo, per il principio – a dieci anni dalla morte di Mario Luzi (19142005), a cura di Massimo Morasso. Interventi: Enrico Elli, Paolo Andrea Mettel, Rosanna Pozzi, Elisa Tonani, Stefano Verdino; i poeti: Laura Accerboni, Corrado Bagnoli, Maddalena Bertolini, Giuseppe Conte, Guido Conforti, Vittorio Cozzoli, Alberto Fraccacreta, Daniele Gigli, Lorenzo Gobbi, Gianfranco Lauretano, Massimiliano Mandorlo, Marco Marangoni, Massimo Morasso, Roberto Mussapi, Giuseppe Nibali, Riccardo Olivieri, Bernardo Pacini, Giancarlo Pontiggia, Alessandro Rivali, Davide Rondoni, Francesca Serragnoli e Sarah Tardino. 30 maggio 2015 – Montemaggiore al Metauro, presso la sala “Ex Mattatoio” in Via Belvedere Churchill, 8 Inaugurazione del “Centro Studi Mario Luzi” per la poesia e le arti contemporanee, in collaborazione con l’Università di Urbino. Interventi: Al168


Convegni di studio e mostre documentarie

fredo Luzi e Katia Migliori. Il Premio di studio per tesi di laurea o di dottorato riguardante l’opera e la figura di Mario Luzi è assegnato alla Dott.ssa Laura Piazza, per una tesi di dottorato dal titolo “Il verso dell’uomo. Sul teatro di Mario Luzi” e il Premio di studio “Giorgio Ugolini Jr.” per un progetto di ricerca sull’opera e la figura di Mario Luzi al Dott. Paolo Rigo, per il progetto di ricerca intitolato “La corrispondenza intellettuale di Mario Luzi”. 8-17 agosto 2015 – Semproniano Estate luziana 2015, Proiezione di film anni ’50 recensiti da Mario Luzi su «La Nazione».

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BIBLIOGRAFIA

TESTI Mario Luzi, Le poesie – Vol. 1: Il giusto della vita; Nell’opera del mondo; Per il battesimo dei nostri frammenti – Vol. 2: Frasi e incisi di un canto salutare; Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Milano, Garzanti, 2014 (nuova edizione), pp. 1244. Mario Luzi, Poesie ultime e ritrovate, a cura di Stefano Verdino, Milano, Garzanti, 2014, pp. 770. Raccoglie: Sotto specie umana – Dottrina dell’estremo principiante – Lasciami, non trattenermi – Poesie ritrovate – Parole pellegrine – Disperse – D’occasione – Juvenilia – Altri versi inediti e rari. Mario Luzi, Prose, a cura di Stefano Verdino, Torino, Aragno, 2014, pp. XLIV + 383. Raccoglie: Trame (ed. 1982), De quibus e altre prose organizzate da Luzi nel 2004; Prose sparse. Mario Luzi, Autoritratto: scritti scelti dall’autore con versi inediti; a cura di Paolo Andrea Mettel e Stefano Verdino; introduzione di Marco Marchi; con uno scritto di Carlo Carena, [Città di Castello], Metteliana, 2014, pp. XXXV + 378 nuova edizione ampliata (prima ed. 2007). Mario Luzi, La Passione: Via Crucis al Colosseo, Milano, Garzanti, 2014, pp. 77 (nuova edizione). Mario Luzi, La passione di Cristo, [S. l.], [Città di Castello], Metteliana, 2014, pp. 81. Mario Luzi, Desiderio di verità e altri scritti inediti e rari, [a cura di Stefano Verdino], Urbania, Istmi: Tracce di vita letteraria, 2014, pp. 135. 171


Bibliografia

Stefano Verdino, Premessa – Interventi civili: Desiderio di verità, 1945; Sopra una frase, 1979; Che la guerra affretti la sua catarsi, 1991; Italia, non dimenticarti, 1993, [elezioni 1994] E dopo il polverone decidete con freddezza; Bell’Italia, odiate sponde…; Essere è non dimenticare, 1994; Dov’è l’errore, 1995; Ai fratelli del Ruanda, 1997; La fermata dell’ orrore, 1999; La parola patria per noi esiste, 2001; Contro il sonno della ragione, 2002; Un’altra lettura del mondo, 2004; La Pira, 2004 – Scritti autobiografici: Ritratto su misura, 1960; Lungo il viaggio, 1962 [Manoscritto], 1992; Tram a Firenze, 1997; L’incanto e l’attesa, 2004 – Scritti critici: Delle parole affermative, 1940; Crisi d’oggettività, 1945; Umberto Saba – Uccelli, Lo zibaldone – Trieste, 1950; Gadda, 1953; Dove va la poesia?, 1958; Ricordo di Luigi Fallacra, 1964;Grandezza di Eliot, 1965; Un grande deserto [Sbarbaro], 1967; Il valore ciclico di una autobiografia dei sentimenti [Pavese], 1968; La Toscana, 1970; [Il manoscritto ritrovato di Campana]: Il quaderno di Dino Campana 1971; Campana, il mistero del manoscritto scomparso, 2002; Ricordo di Aldo Palazzeschi, 1974; 1973, V. Bodini; Betocchi ultimo, 1986-99; Commemorazione di Giorgio Caproni, 1990; Per Alberto Moravia, 1990; Introduzione a “I nuovi credenti” del Leopardi, 2001; Per Federigo Tozzi, 2002; Paragrafi sulla figura presente, 2002; Pensieri casuali sulla lingua, 2003; Appunti danteschi, 2005. Postuma: Versi ultimi e sparsi poi in Poesie ultime e ritrovate; Dal Taccuino “L’erbolario” (appunti inediti); Pietro Tarasco, Se ne vanno il giorno e l’uomo. Mario Luzi, A Elena – Sandro Pazzi, Paesaggio (acquaforte), Casette d’EteFermo, Coedizione Istmi-La luna, 2014. Edizione d’arte; in 200 esemplari, con una riproduzione dell’originale, in tre foglietti autografi; poi in Poesie ultime e ritrovate. Mario Luzi, L’amore, plaquette in 200 esemplari, a cura dell’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo, Pienza, Metteliana, 28 febbraio 2014, p. [5]. Da foglio dattiloscritto e autografo, nella serie delle carte delle poesie giovanili dei primi anni Trenta, conservate al Centro studi La Barca di Pienza. La poesia è l’unica che Luzi non riprese nell’edizione di quei testi in Poesie ritrovate (2003); poi in Poesie ultime e ritrovate. Mario Luzi, Pensieri casuali sulla lingua, [Firenze], Accademia della Crusca, 2014, pp. 32 nuova edizione (prima ed. 2003). 172


Bibliografia

Giovanni Paolo II, Mario Luzi, Il futuro ha un cuore antico: il contributo di Firenze per un nuovo umanesimo, Panzano in Chianti (FI): Feeria – Comunità di San Leolino, [2014], pp. 80. Introduzione di Carmelo Mezzasalma; Giovanni Paolo II, Discorso all’arrivo a Firenze [1986] – Mario Luzi, Indirizzo di saluto – Giovanni Paolo II, Discorso alle persone di cultura – Giovanni Paolo II, Discorso ai giovani – Editoriale della Rivista “Feeria” n. 1 (marzo 1987) dedicato a Firenze Capitale europea della cultura. Mario Luzi nel centenario della nascita: un’antologia luziana con una cronologia della vita e delle opere e la lettura critica di “Avorio”, a cura del Gruppo Artigiani della Lettura (tutor Umberto Manopoli), Firenze, BiblioteCaNova Isolotto, 2014, pp. 56. Mario Luzi, Giorgio Tabanelli, Il lungo viaggio nel Novecento: storia, politica, poesia, Venezia, Marsilio, 2014 (interviste), pp. XII + 329. Mario Luzi, Ti chiedo perdono di essere nato: note e appunti; [raccolti e presentati da Stefano Verdino], Casette d’Ete AP: Associazione culturale La Luna – Istmi, 2015, pp. 46. Raccoglie prose inedite e rare (Ti chiedo perdono di essere nato; 13 marzo 1993; Razzismo; Tram a Firenze; Il lutto cristiano; Semplicità e meraviglia; La sedia curule; Solitudine; Gli anni ’40; Poetry Day Delfi 2001) e sei opere originali degli artisti incisori marchigiani Alfredo Bartolomeoli, Agostino Cartuccia, Sandro Pazzi, Riccardo Piccardoni, Athos Sanchini e Franco Torcianti: Nota critica di Nunzio Giustozzi. Anche in edizione d’arte in cartella numerata. Mario Luzi, Il pianto di Maria – con Donna de Paradiso lauda di Jacopone da Todi, Firenze, Metteliana 28 febbraio 2015, pp.[12] n.n. Plaquette per il 10 anniversario della morte. Contiene una nota critica sulla poesia di Jacopone. Mario Luzi, A mia madre dalla sua casa – Traduzione in Arabo di Adonis in onore dell’amico poeta e di Pienza. Con una nota di Marco Marchi, Pienza – Centro studi Mario Luzi “La Barca” – Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo, 28 febbraio 2015, pp. [6] n.n. Plaquette per il 10° anniversario della morte. 173


Bibliografia

Mario Luzi, Il Fiore del Dolore, a cura di Paolo Andrea Mettel, introduzione di Paola Cosentino, Città di Castello, Metteliana - Centro Stampa, Città di Castello, 2015, pp. 64.

ATTI DI CONVEGNI Mario Luzi: un viaggio terrestre e celeste, a cura di Paola Baioni e Davide Savio; con un’appendice di scritti dispersi. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014, pp. 266. Prima Parte: Frammenti, Domande, Epifanie: Daniele Piccini, Sull’elaborazione di “Nel magma”; Antonio Prete Luzi o il respiro del visibile; Paola Cosentino, «Melpomene è perduta». Il teatro autobiografico di Mario Luzi; Francesca D’Alessandro, Tra Luzi e Sereni: cronistoria di un debito poetico; Anna Dolfi, La torre delle ore: cadenze dall’alba alla notte in forma di lieder; Giuseppe Langella, Ricognizioni, ipotesi, epifanie. Sull’epistemologia poetica di Mario Luzi; Elisa Tonani, Il ritmo ascendente di un discorso frammentario; Stefano Verdino, L’ultima mano: pratiche di congedo e questioni editoriali. Seconda parte: Poesia come Profezia: Paola Baioni, La profezia, la parola e il suo potere; Enrico Elli, Presenze ungarettiane nel “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini”; Massimo Natale, Il male, il fiore, il desiderio: sul Leopardi dell’ultimo Luzi; Matteo Munaretto, La poesia dall’interrogazione alla celebrazione. L’ultima dottrina di Mario Luzi; Gianni Festa, Lo stile liturgico dell’ultimo Luzi. Testimonianze: Milo De Angelis, Breve viaggio tra le ombre di Mario Luzi; Franco Loi, La poesia come ‘ fare spirituale’; Guido Oldani, Il naso di Luzi; Silvio Ramat, Con il poeta, a Firenze e altrove; Davide Rondoni, Una letizia ribalda e movimentata; Cesare Viviani, Continuità della vita. Appendice: Sette scritti dispersi di Mario Luzi a cura di Stefano Verdino: [Teilhard e Maritain]; Teatro per un popolo immorale; Identità e originalità; [Finitudine]; Fede e poesia; Leopardi e l’Europa: vivere la modernità; Paragrafi sulla figura presente. 174


Bibliografia

CATALOGHI DI MOSTRE

Mario Luzi – Le campagne, le parole, la luce, Mendrisio, Museo d’arte, 2014, pp. 90. Catalogo delle Mostre: Mario Luzi – Le campagne, le parole, la luce, 28 maggio 2014 – 31 agosto 2014 – Mendrisio, Casa Croci e Memorie di terra toscana: il poeta e i suoi artisti, 16 luglio 2014 – 31 agosto 2014 – Mendrisio, Museo d’Arte. Carlo Ossola, Sotto specie umana; Stefano Verdino, Stazioni di Mario Luzi; L’officina di Mario Luzi (abbozzi di Rughe, 1946 e di Fanno mostra di sé in anticamera, 1990); Giovanni Fontana, “Ferita nei suoi gangli / la bellezza del pianeta”: poesia e natura nell’ultimo Luzi; Giovanna Uzzani, “Moti e ricerche verso l’infinito”. Mario Luzi e i suoi artisti; Mario Luzi, Tre scritti toscani (Dalle ville ai casolari s’innalza una struggente melodia, 1983; Camera con vista sulla storia – Pellegrinaggio di qua e di là dall’Arno, 1989; Levante fiorentino, 1997). Volti dell’ermetismo: segno e ritratto in Venturino Venturi: con nove ritratti di Mario Francesconi per Mario Luzi, Firenze, Polistampa, 2014, pp. 159. Catalogo della Mostra, Firenze, Villa Bardini e Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti”, 14 novembre 2014 – 15 febbraio 2015. Testi di Michele Gremigni, Gloria Manghetti, Lucia Fiaschi, Susanna Ragionieri, Giovanna Giusti, Nicoletta Mainardi, Mario Luzi, Franco Zabagli. Mario Luzi (1914-2014) Mostra bio-bibliografica Genova – Biblioteca Berio 10-31 marzo 2015, Genova, Fondazione Giorgio e Lilli Devoto, 2015, pp. 92. Giorgio Devoto, Mario Luzi la discrezione di un’amicizia; Stefano Verdino, Ritratto di Mario; Giuseppe Conte, Un poeta che ama la vita; Adriano Sansa, Il nostro concittadino; Beppe Manzitti, In memoria di un’amicizia. Luzi parla (Mia madre; La parola patria per noi esiste). Testimonianze (Carlo Bo, Cristina Campo, Yves Bonnefoy, Giorgio Caproni). Inediti e rari di Mario Luzi: La seduzione della cultura [relazione inedita del 1992]; Un frammento inedito nell’elaborazione di Non è data, forse; Elezione di maestri, 2003; Tre asterischi da postero [su Montale], 1981. Cronologia. 175


Bibliografia

Vento e Luce, Como, MAG, 2014, p. 22. Adonis, Marco Nereo Rotelli, A Mario Luzi, per onorare il centesimo anniversario della nascita. 1914 – 20 ottobre 2014. Il senso della poesia. Ricordando Mario Luzi. Testi di Salvatore Marsiglione, Nino Alfiero Petreni.

OMAGGI DI PERIODICI Nell’opera di Mario Luzi, a cura di Eugenio De Signoribus, Enrico Capodaglio, Feliciano Paoli, «Istmi», 34, 2014, pp. 272. Yves Bonnefoy, Souvenirs de Mario Luzi. I: Stefano Verdino, Paragrafi per la poesia di Mario Luzi; Alfredo Luzi, “Vola alta parola”. Fisica e metafisica nella poesia di Luzi; Antonio Prete, Nella luce dell’apparire. Luzi e il giusto della vita; Barnaba Maj, Le arcate e il ponte. Sulla metafisica poetica di Mario Luzi; Vittorio Coletti, “Pensieri casuali” di Luzi sulla lingua; Paolo Giovannetti, Sillabe o “gruppi semplici”? Ragionando sul sintattismo di Luzi. II – Francesca Nencioni, La contemplazione dell’amore e della morte nelle prose narrative di Mario Luzi; Giuseppe Langella, Critica della modernità letteraria. Un percorso attraverso il Luzi saggista; Paola Cosentino, Sul libro di Ipazia. Dalla scrittura alla rappresentazione; Leonardo Manigrasso, Contro assurdi anacronismi. Gli scritti civili dell’ultimo Luzi; Silvio Ramat, Quella foto rara… III – Mario Luzi, Quattro testi e un incontro (Lettera a Carlo Bo, 1937; [Sogno di don Mauro – abbozzo per “Pietra oscura”]; Per salutare Jabès, 1984; [Lettera al futuro], 1995; Un incontro, Pesaro, 18 aprile 1985; Paolo Teobaldi, Il poeta chiarificato (Intervista a Luzi) IV – Nino Ricci, Dal libro di casa: elevazioni. Mario Luzi nel centenario della nascita, a cura di Irene Baccarini, «Studium», anno 110, luglio-agosto 2014, 4, pp. 507-550. Irene Baccarini, Introduzione; Stefano Verdino, Quattro discussioni di Mario Luzi (La letteratura e la critica, 1948; Variazioni sull’arte, 1949; Cultura, 1949; Critica e psicanalisi, 1950); Laura Piazza, “Hystrio è dio”. Erme176


Bibliografia

neutica dell’attore nella drammaturgia di Mario Luzi; Irene Baccarini, Mario Luzi: il senso del ricongiungimento. Per il centenario di Mario Luzi, «Poesia», xxvii, ottobre 2015, 297, pp. 2-17. Stefano Verdino, Introduzione; Yves Bonnefoy, “Mario voi somigliate a Firenze”; Poesie inedite e rare di Luzi, poi in Poesie ultime e ritrovate; Silvio Ramat, Qualche scheggia di memoria; Mario Luzi, Una traduzione inedita da Claudiano, Milo De Angelis, I dialoghi di Mario Luzi; Tre poeti per Mario Luzi (Eugenio De Signoribus, Jolanda Insana, Cesare Viviani); Daniele Piccini, Il mai pienamente detto di Luzi; Alessandro Gentili, Due poesie di Luzi tradotte da Seamus Heaney (Il pescatore / The Fisherman; Qui? troppo opaca la musica / here? But the music is too indistinct); Rosanna Pozzi, Un poeta in prosa, tra memorie e impegno civile. «L’amore aiuta a vivere, a durare» – Bigongiari, Luzi, Parronchi cento anni dopo (1914-2014), a cura di Paola Baioni e Giorgio Baroni, «Rivista di Letteratura italiana», 2014, xxxii, 3, pp. 278. Paola Baioni, Introduzione. «Si svelano meravigliosamente la parola, il silenzio, l’amicizia»: Silvio Ramat, Verso il ’40: tre giovani alla prova del sonetto; Stefano Verdino, Mario Luzi e il «Giornale del Mattino» (con tre articoli mai raccolti); Dario Tomasello, De-ontologia poetica. Lo spazio ‘assente’ della metafora ermetica; Massimo Fanfani, «Vorrei vedervi più decisi». Un critico ermetico e i suoi poeti; Daniele Maria Pegorari, Attesa ed epoche: il Libro di Ipazia come autobiografia dell’Ermetismo; Maria Chiara Tarsi, Appunti per una lettura diacronica di I giorni sensibili di Alessandro Parronchi. «Negli interstizi del poema»: Anna Dolfi, Per una grammatica e semantica dell’immaginario; Luigi Tassoni, Una sperimentazione non silenziosa. Alcuni dati per la storia di Bigongiari; Paolo Fabrizio Iacuzzi, Piero Bigongiari negli interstizi del poema o dell’universo?; Luca Lenzini, Parronchi sperimentale; Marco Zulberti, L’immagine della parola ermetica. «Nel magma della poesia»: Giuseppe Langella, Mario Luzi e il dramma della modernità; Edoardo Esposito, Scrivere il magma; Daniele Piccini, La poesia di Luzi nel magma; Marco Marchi, I Fiumi di Luzi; Guglielmina Rogante, Mario Luzi. ‘Diverbi’ e ‘rovelli’ tra poesia e teatro. «Nella luce nascente»: Giorgio Bàrberi Squarotti, Luzi: l’Invocazione; Giorgio Cavallini, La parola «vita» 177


Bibliografia

nella poesia di Mario Luzi; Enrico Elli, Luzi pellegrino e testimone: il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini; Encarna Esteban Bernabé, La città di Dio di Sant’Agostino in Opus Florentinum di Mario Luzi. «Vola alta, parola»: Alfredo Luzi, Dai ‘frammenti’ ai ‘fondamenti’. Il viaggio verso la metafisica nella poesia di Mario Luzi; Paola Baioni, Il logos si è fatto carne. La parola incarnata nella lirica di Mario Luzi; Amelia Juri, Presenze dannunziane nel primo Luzi. Osservazioni linguistiche.

MONOGRAFIE E ALTRO Antonio Donadio, La vita al quadrato: sulla poetica di Mario Luzi, Faloppio, Lieto Colle, 2014. Marco Menicacci, Mario Luzi e la poesia tedesca: Novalis, Hölderlin, Rilke, Firenze, Le Lettere, 2014. Giuseppe Nicoletti, Cinque pezzi facili per Mario Luzi, Bagno a Ripoli, Passigli, 2014. Silvio Ramat, Sia grazia essere qui: intorno a Mario Luzi, Firenze, Le Cáriti, 2014. Irene Baccarini, Mario Luzi: il “sistema” della natura, Roma, Studium, 2015. Rosario Vitale, Mario Luzi: il tessuto dei legami poetici, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2015. Rosanna Pozzi, Nove poeti per Mario Luzi, Ariccia, Aracne, 2014. Interviste a Roberto Carifi, Maurizio Cucchi, Giuseppe Conte, Milo De Angelis, Eugenio De Signoribus, Roberto Mussapi, Daniele Piccini, Davide Rondoni, Cesare Viviani.

178


COMITATO D’ONORE DEL CENTENARIO

– Gianni Luzi, Presidente Comitato del Centenario – Guido Baldassarri, Ordinario Letteratura Italiana Università di Padova, Presidente dell’Associazione degli italianisti – Maria Bernardini, Giornalista – Mons. Gianantonio Borgonovo Biblista, Arciprete del Duomo di Milano – Mario Botta, Architetto, Mendrisio – Anna Buoninsegni, Poetessa, Giornalista, Editrice “Arte del Libro - unaluna” – Tullio Cappelli Haipel, Vicepresidente Istituto Internazionale di Studi sui Diritti dell’Uomo, Membro consultivo del Consiglio d’Europa e dell’UNESCO – Carlo Carena, Consulente editoriale Einaudi – Giuseppe Conte, Poeta e Saggista – Eugenio De Signoribus, Poeta, Direttore di “Istmi” – Accademia degli Euteleti, San Miniato, Pisa – Andrea Fagioli, Giornalista – Gianni Festa, Professore Facoltà Teologica Emilia-Romagna di Bologna, Priore Santa Maria delle Grazie (Padri Domenicani) Milano – Lucia Fiaschi, Direttore Archivio e Museo Venturino Venturi, Loro Ciuffenna (Arezzo) – Fondazione Ernesto Balducci, Fiesole, Firenze – Fondazione Giorgio e Lilli Devoto, Genova – Fondazione Istituto Dramma Popolare, San Miniato, Pisa – Fondazione San Carlo Borromeo, Pienza – Fondazione Formiche, Roma 179


Comitato d’Onore del Centenario

– Bruno Forte, Teologo, Arcivescovo Diocesi Chieti-Vasto

– Dom Bernardo Francesco Gianni, Priore Abbazia San Miniato al Monte, Firenze – Domenico Gioffrè, Professore, Presidente del Premio Nazionale “NottolaMario Luzi” – I.I.S.S. A. Poliziano, “Licei Poliziani”, Montepulciano

– Giuseppe Langella, Ordinario Letteratura Italiana contemporanea Università Cattolica, Milano – Lega del Chianti, Firenze – Nino Lupica, Artista

– Luca Macchi, Pittore

– Gavino Manca, Manager, già Professore Economia Politica Università Bocconi, Milano, Vicepresidente Istituto Javotte Bocconi Manca di Villahermosa – Marco Marchi, Associato Letteratura Italiana moderna e contemporanea Università di Firenze

– Leonardo Masotti, Presidente del Consiglio Scientifico di EL.EN. S.p.A., vincitore Premio Columbus 2009, già Ordinario Elettronica Università Firenze; Presidente Distretto Tecnologico Beni Culturali Regione Toscana – Paolo Andrea Mettel, Consulente finanziario, Bibliofilo, Presidente Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo – Comune San Miniato, Pisa

– Annamaria Murdocca, Avvocato

– Nino Alfiero Petreni, Giornalista, Presidente del Comitato Centro Studi Mario Luzi “La Barca”, Pienza – Ernesto Piccolo, Artista

– Premio Letterario Internazionale Isola d’Elba “Raffaello Brignetti” Portoferrario – Gianfranco Ravasi, Cardinale

– Giovanni Reale, Direttore delle Collane filosofiche Bompiani – Walter Rossi, Poeta

180


Comitato d’Onore del Centenario

– Marco Nereo Rotelli, Artista – Pietro Paolo Tarasco, Artista – S.E. Mons. Fausto Tardelli, Vescovo della Diocesi di San Miniato – Armando Torno, Editorialista del «Corriere della Sera» – Caterina Trombetti, Poetessa, Docente e Animatrice culturale – Andrea Ulivi, Docente, Editore – Stefano Verdino, Ordinario Letteratura Italiana Università Genova – Cesare Viviani, Poeta e saggista – Anna Zaniboni Mattioli, Critico d’arte

181



INDICE

Paolo Andrea Mettel Premessa. Nel nome di Mario pag.

5

Telegramma del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano »

7

Mario Luzi Sublime umiltà corporale »

9

Gianni Luzi Caro Babbo »

13

Stefano Verdino Introduzione. Il centenario di Mario Luzi

»

15

»

21

Giovanni Ricasoli-Firidolfi Un saluto e un ricordo

»

29

Segio Givone La poetica di Luzi

»

33

Anna Dolfi Tempo e paesaggio dal “Fondo delle campagne”

»

39

Marcello Ciccuto Il tempo dell’eterno: Luzi e Dante

»

49

Biblioteca del Senato – Roma 22 ottobre 2014 Sergio Zavoli Incontri con Mario Luzi tra colline di toscana e memoria di Dante Giornata di studio – Firenze 28 febbraio 2015

183


Indice

Bruno Forte Mario Luzi di fronte a Maria donna terrena, madre divina

(Dal «Corriere della Sera» 28 febbraio 2015 in occasione della presentazione della Plaquette Il pianto di Maria, inedito di Mario Luzi)

»

57

Basilica di San Miniato al Monte – Firenze 25 settembre 2014

Basilica di Santa Maria delle Grazie – Milano 27 ottobre 2014 Dom Bernardo Gianni L’Opus florentinum a San Miniato al Monte

»

63

Giuseppe Langella La Passione secondo Luzi

»

69

Il viaggio terrestre di Mario Luzi Mostra documentaria e d’arte – Fermo 28 febbraio – 11 aprile 2015 Guglielmina Rogante La mostra: Viaggio terrestre di Mario Luzi

»

77

(Sul quaderno inedito di Mario Luzi Ti chiedo perdono di essere nato)

»

85

Nunzio Giustozzi I segni dello Spirito

»

93

Nino Alfiero Petreni Pienza ricorda il “suo” Mario Luzi

»

97

Adonis Alchimia

»

103

Marco Marchi Per ricordare Mario Luzi e salutare Adonis

»

107

Damiano Sinfonico «Si parlava del futuro». Mostra bio-bibliografica

»

115

Fabio Ciceroni Fermo, quel giorno

Pienza – 2014 / 2015 Genova – 2015

184


Indice

Massimo Morasso Il sopramondo nel mondo. Riflessioni sulle eredità di Mario Luzi

»

121

Armando Torno La parola di Luzi

»

131

Paola Baioni «La vita può darsi nella cenere»

»

133

P. Gianni Festa Luzi “mariano”

»

141

Carlo Carena Andromaque tra Ungaretti e Luzi

»

153

Convegni di studio e mostre documentarie

»

161

Bibliografia Testi Atti di convegni Cataloghi di mostre Omaggi di periodici Monografie e altro

» » » » »

171 174 175 176 178

Comitato d’Onore del Centenario

»

179

Addenda

Cronologia – Bibliografia Febbraio 2014 – agosto 2015

185



MARIO LUZI

ED ECCO TORNA A LUI

Si ringraziano:

Metteliana

Finito si stampare a CittĂ di Castello da Centro Stampa il 20 ottobre 2015 festa di Santa Irene (centouno anni dalla nascita di Mario Luzi)







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