l'Artugna 151 - Dicembre 2020

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ANNO XLIX / DICEMBRE 2020 / NUMERO 151 PERIODICO DELLA COMUNITÀ DI DARDAGO / BUDOIA / SANTA LUCIA


Natale... tempo di silenzio

DICEMBRE 2020 / 151

di don Vito Pegolo

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La permanenza tra di voi carissimi parrocchiani di Budoia, Dardago e Santa Lucia si sta prolungando più del previsto; sono contento di poter servire le vostre comunità, anche con tutti i limiti di tempo e di età. Desidero e spero che si trovi presto da parte dei responsabili della diocesi una soluzione più sicura e stabile, questo per il bene pastorale delle nostre parrocchie, restando sempre disponibile alla collaborazione, se richiesta. Sono mesi che viviamo nell’incertezza, con la paura del Virus, che ci limita nei contatti e nelle celebrazioni comunitarie. Saltano le processioni e le grandi feste che segnano il tempo della vita comunitaria. La nostra fede sembra perdersi. Non deve essere cosi, questo tempo di silenzio deve aiutarci a riscoprire dentro di noi le cose belle che abbiamo. Non siamo abbandonati, Dio non ci lascia soli nelle difficoltà. Proprio la festa che stiamo per celebrare ce lo ricorda: in un momento difficile della storia è venuta una luce di speranza per il mondo: chi aveva fame di giustizia, di bellezza, di amore li ha trovati nella semplice grotta di Betlemme tra i poveri. Quel Bambino è il segno dell’amore di Dio per l’Uomo e per noi Con l’aiuto di papa Francesco sto ripensando diverse cose che riguardano lo stile di vita personale e anche la vita della comunità cristiana. Riscoprire di essere un fratello che ha altri fratelli, con i quali poter condividere speranze e azioni. Non si può essere isole e tantomeno persone che decidono individualmente nelle scelte che coinvolgono tutti. Tutto questo deve portare a creare sempre più spazi di partecipazione, responsabilizzando più persone al bene comune.

Il Presepio, miniatura: dal Salterio di Santa Elisabetta, Museo Nazionale di Cividale del Friuli, sec. XIII (foto Elio Ciol).

Nelle nostre comunità ho incontrato molte persone disponibili e attive, c’è spazio anche per altri. Invito a partecipare senza paura. Gesù chiamava uomini e donne a collaborare con Lui nella evangelizzazione. Li mandava da soli e al loro ritorno verificavano insieme come era andata la missione. È un modo di essere Chiesa. Come Chiesa locale dobbiamo prenderci cura delle persone che si trovano in situazione di difficoltà anche temporanea. Non sempre veniamo a conoscenza di situazioni dove poter intervenire: penso sia giusto collaborare anche con i competenti organi comunali e assistenziali che ci sono nel territorio. Da parte mia c’è disponibilità e so che anche molti di voi sono pronti a farlo. Papa Francesco ci presenta un Si-

gnore misericordioso che non allontana l’uomo e la donna ma che li cerca per riconciliarli con il Padre. Desidero ricordare a tutti che abbiamo bisogno di riconciliarci con Dio anche tramite il sacramento della Confessione. Ricordo che cerco sempre di essere in chiesa almeno mezz’ora prima della Messa e se qualcuno mi chiama sono disponibile per un incontro. Non è il prete che conta, ma la Grazia Misericordiosa del Signore che ci libera e dà gioia. È doveroso ringraziare le catechiste e i catechisti che con generosità si impegnano nella formazione dei ragazzi delle nostre comunità. Molte cose che riguardano il funzionamento delle nostre Chiese si fanno tramite la generosa e competente professionalità di collaboratori che fanno parte del Consiglio affari


e di preghiera Dio sia ringraziato

di don Kiran Thota

Il Natale è gioia, gioia religiosa, gioia di Dio, interiore, di luce, di pace. [ PAPA FRANCESCO ]

economici delle singole parrocchie; senza il loro aiuto sarei perso e incapace. Un grazie di cuore per chi ha la possibilità di aiutarmi. Abbiamo la presenza gradita di don Kiran che ci aiuterà nelle attività, incontrando i ragazzi del catechismo, visitando e portando l’Eucarestia agli ammalati e anziani e nelle celebrazioni liturgiche. Con calma troveremo per Lui sempre più spazi di collaborazione. Un saluto doveroso a don Maurizio ricordando gli anni passati a servizio delle nostre Comunità, certi che da Collevalenza si ricorderà di noi anche con la preghiera.

Un sereno Natale a tutti...

Mi chiamo don Kiran Thota e da qualche tempo sono collaboratore di don Vito per le parrocchie di Dardago, Budoia e Santa Lucia. Vorrei ringraziare il Signore per tutte le grazie che ho ricevuto, soprattutto per il Sacerdozio che mi permette di servire il Suo Popolo. Sono nato il 15 agosto 1980 a Dendiluru, un paesino nel sud dell’India. Ho ricevuto il Battesimo dai missionari del PIME che hanno catechizzato i miei nonni e genitori. L’1 ottobre 2011 sono stato ordinato sacerdote da S.E. mons. Vincent M. Consaavo, Arcivescovo di Nuova Delhi. Mio papà mi suggerì di offrire la mia Prima Messa per i Missionari PIME e in particolare per padre Russelo e padre Galezi Barthalomew che mi ha battezzato. L’aver insegnato inglese in una scuola media, di cui ero vicedirettore, mi ha fatto imparare molte cose di bambini ed adulti anche di religioni diverse. Ho fatto parte anche di una commissione per le donne (CBCI). Ho scelto di venire in missione in Italia e con l’aiuto di don Pietro Gogu, Indiano, ci sono riuscito e sono stato invitato nella diocesi di Concordia e Pordenone da S.E. mons. Giuseppe Pellegrini, che ringrazio.

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Ho iniziato il mio esercizio pastorale in Italia all’Abbazia di Sesto al Reghena e poi a Campagna di Maniago. Grazie a don Vito per avermi accettato come collaboratore a Dardago, Budoia e Santa Lucia. Ringrazio anche don Riccardo Ortolan e don Salvatore per l’accoglienza nella parrocchia di Coltura. Sarvejana Sukhino Bhavantu, in Sanscrito, vuol dire Tutti nel mondo dobbiamo vivere in pace e serenità. Anche in questo periodo di emergenza, in cui le maschere nascondono il nostro sorriso e il distanziamento non ci lascia abbracciare gli amici, cerchiamo di essere veri cristiani con la Fede e la Carità come dice San Paolo. Non perdiamo la Speranza e celebriamo il Natale insieme cantando «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». (LC 2,13)

Sia lodato Gesù Cristo.

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LA RUOTA DELLA VITA NASCITE Benvenuti! Abbiamo suonato le campane per l’arrivo di...

IMPORTANTE Per ragioni legate alla normativa sulla privacy, non è più possibile avere dagli uffici comunali i dati relativi al movimento demografico del comune (nati, morti, matrimoni). Pertanto, i nominativi che appaiono su questa rubrica sono solo quelli che ci sono stati comunicati dagli interessati o da loro parenti, oppure di cui siamo venuti a conoscenza pubblicamente. Naturalmente l’elenco sarà incompleto. Ci scusiamo con i lettori.

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Chi desidera usufruire di questa rubrica è invitato a comunicare i dati almeno venti giorni prima dell’uscita del periodico.

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Giorgia Menegoz di Alessandro e di Monica Zambon – Dardago Zelda Andreazza di Marco e di Federica Fabris – Budoia Matilde Moretton di Andrea e di Claudia De Silvestri – Dardago Isabella Foster-Orr Zambon di Christopher e di Valeria Zambon – Londra Sophie Claudia Vettor di Maurizio e di Angela Velingheri – Monza (MB)

MATRIMONI Felicitazioni a... Nozze d’oro Lorenzo Bigai e Rosalia Bocus – Vimodrone (Milano)

LAUREE, DIPLOMI Complimenti! Laurea Chiara Maccioccu – Laurea in Scienze Motorie – Padova – Dardago

DEFUNTI Riposano nella pace di Cristo. Condoglianze ai famigliari di… Andrea Lacchin di anni 83 – Santa Lucia Gino Pellegrini di anni 78 – Dardago Igino Bortolini di anni 67 – Dardago Giuseppina Zambon di anni 91 – Dardago Domenica Dorigo di anni 96 – Budoia Giampietro Panizzut di anni 75 – Budoia Letizia Fedrigo di anni 98 – Budoia Redento Carlon di anni 90 – Budoia Anna Mezzarobba di anni 89 – Budoia Emilio Puppin di anni 80 – Budoia Rita Zambon di anni 68 – Budoia Fortunato Rui di anni 85 – Budoia Amelia Burigana di anni 88 – Budoia Dina Panizzut di anni 90 – Budoia Anna Luisa Bravin di anni 85 – Santa Lucia Bianca Maria Barraco di anni 91 – Santa Lucia Ariedo Rigo di anni 81 – Santa Lucia Luciano Rizzo di anni 86 – Santa Lucia Velio Fort di anni 93 – Santa Lucia Claudio Zambon di anni 91 – Trieste – Dardago Liliana Zambon di anni 93 – Treviso Armido Busetti di anni 82 – Venezia Clelia Melloni di anni 76 – Roma Matteo Oloferne Zambon di anni 85 – Torino Basilio Zambon Pala di anni 85 – Francia Luigia (Luisa) Steffinlongo di anni 91 – Pordenone – Budoia Barbara Ardemagni di anni 46 – Signoressa di Trevignano Sandro Signora di anni 81– New Milton, Hampshire (Inghilterra) Antonio Carlon Cec di anni 92 – Svizzera Primo Zambon di anni 85 – Venezia


L’ARTUGNA PERIODICO DELLA COMUNITÀ DI DARDAGO BUDOIA / SANTA LUCIA BUDOIA

DARDAGO

SANTA LUCIA

IN QUESTO NU MERO

151 ⁄ ANNO XLIX / DICEMBRE 2020

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www.artugna.blogspot.com

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2 Natale... tempo di silenzio e di preghiera di don Vito Pegolo

36 Mino Mos’cion di Fernando Del Maschio

3 Dio sia ringraziato di don Kiran Thota

37 ’na «fava» de novant’ains fa… di Flavio Zambon Tarabìn Modola

4 La ruota della vita

39 Lasciano un grande vuoto...

6 Bach danza sulle acque del Livenza di Marco Maria Tosolini

44 La Cronaca

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Autorizzazione del Tribunale di Pordenone n. 89 del 13 aprile 1973 Spedizione in abbonamento postale. Art. 2, comma 20, lettera C, legge n. 662/96. Filiale di Pordenone. Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione di qualsiasi parte del periodico, foto incluse, senza il consenso scritto della redazione, degli autori e dei proprietari del materiale iconografico.

10 Il mio lockdown a Dardago di Ida Zambon 14 ‘Si vede... e io lo so’ di Manuela Zambon

45 L’inno alla vita 46 I ne à scrit... Il bilancio 47 Programma religioso

16 Co-housing a Budoia di Katia Gavagnin e Azzurra Lanfranconi 17 I 90 anni di Berto de Theco di Pietro Ianna 18 Fratelli tutti l’enciclica del Papa: spigolature di don Maurizio Busetti 20 San Domenico Maggiore e Caravaggio di Alessandro Fontana 22 Ricordo dello scultore Giorgio Igne Lo scultore senza frontiere di Sergio Gentilini L’anarchico viaggiante di Lorena Gava 25 Umberto Martina, quella ‘promessa’ che diventò una sfida di Vittorio Janna Tavàn 28 Lo scultore Antonio Pigatti di Mario Del Maschio 30 Saper guardare oltre di Adelaide Bastianello 32 Facile come bere un bicchiere di latte? di Gaia Emi Del Maschio, Nicole Fiorot, Erika Zambon 34 ’n te la vetrina

IN COPERTINA Il Covid 19 continua ad attanagliare l’umanità rendendola inquieta, ma per i Cristiani è tempo di Natale e la Speranza sopraffa i sentimenti negativi d’inquietudine e di ansia. Anche la Cultura è angosciata: teatri, cinema, mostre d’arte, biblioteche, archivi, ...sono deserti. Ma essa resta ancora l’occasione per percorrere il cammino della bellezza e per ricominciare a sperare. Lo testimonia l’eloquente immagine, che ci giunge dal teatro Zancanaro di Sacile, privo di pubblico ma attivo sul palco in cui si ammira l’esibizione del ballerino Amine Messaoudi, ripreso dal regista Luca Coassin, in una scena interna del cortometraggio, nel momento iniziale della performance di Danse Serpentine (omaggio cinematografico al film dei fratelli Lumiere e alla ballerina Ioie Fuller). [foto di Luca Coassin]


Bach danza sulle acque del Livenza

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di Marco Maria Tosolini

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Ci onora pubblicare l’articolo del critico Marco Maria Tosolini* (cfr. biografia), composto per l’Artugna, riguardante il film musicale Goldberg Serpentine love, firmato brillantemente dal regista Luca Coassin da un’idea di Davide Fregona. Il cortometraggio o meglio ‘minifilm’, girato nel 2019 a Sacile lungo la Livenza e all’interno dell’azienda Fazioli, produttrice di pianoforti (per la prima volta aperta ai non addetti ai lavori), narra la storia d’amore tra due giovani degli anni Venti del Novecento: il pianista (Tymoteusz Bies), che si esercita all’accompagnamento del film Danse Serpentine dei fratelli Lumiere, ed una ragazza a scuola di danza (Ilaria Moretto del Liceo Pujati di Sacile), che sta seguendo lo stesso film dal suo telefonino. La scena si trasferisce in un cinema in cui il Danseuse Serpentine (Amine Messaoudi), fuori dallo schermo in veste di Cupido, farà innamorare i due protagonisti, accompagnandoli nei luoghi più attraenti e romantici di Sacile. Un terzo budoiese, Mirko Fort, ha collaborato alla realizzazione grafica del manifesto.

Paradossalmente i primi vent’anni del Terzo Millennio hanno visto modificarsi la tendenza dell’ultima parte del XX secolo per la quale aumentava, nel mondo occidentale, l’inurbamento e la crescita dei grandi centri. Basta scorrere qualche dato e si vede che i piccoli centri conoscono una costante moderata crescita. La provincia e le innumerevoli (tranquille) bellezze che offre sembrano invitare molti, soprattutto in età matura, a scegliere se non forme di Splendid Isolation certo di ragionato ritiro e riscoperta di valori ambientali sempre più preziosi. Se questo è un aspetto prevedibile dell’attrattiva dei piccoli centri meno noto è il fatto per il quale siti «riparati» – dove lo stesso Friuli Venezia Giulia, pur essendo «crocevia» delle culture latina, slava e germanica come in nessun altro luogo d’Europa vive una dimensione «appartata» con tutti i pro e i contro che ciò comporta – producono stimoli che in tali luoghi «muovono» e nutrono soggetti talentosi. Davide Fregona e Luca Coassin, hanno in comune l’origine budoiese e una irriducibile dedizione professionale alle varie strade dell’arte. Davi-

de Fregona, pianista allievo del grande Luciano Gante, ha orientato le sue energie in modo particolare come didatta ma, soprattutto, come organizzatore e direttore artistico di innumerevoli iniziative dove ciò che si intuisce è il completamento di un «sistema» nella creazione, a livello nazionale, del primo «Distretto culturale ed economico» innervato, ma certo non limitato a quello, dalla produzione e centralità del pianoforte. Se il mondo dei suoni ai più alti livelli è quello che il lavoro di Fregona segna tre decenni di attività


A sinistra. Ilaria Moretto, studentessa del Liceo Pujati di Sacile scelta tra le ottanta ragazze del casting, che ha interpretato con dolcezza e soavità la ragazza degli anni ’20 del Novecento a fianco del giovane pianista polacco Tymoteusz Bies, immerso nel mondo bachiano ma non insensibile agli sguardi della fanciulla.

Dal laboratorio della Fazioli, pianoforti nella loro bellezza iniziale come scafi di navi pronti per solcare i mari della sonorità. Sotto. Ragazze e ragazzi degli Istituti Marchesini e Pujati di Sacile, figuranti entusiasti, nelle sale di Palazzo Regazzoni.

quello di Luca Coassin insiste nella magia dell’immagine, trattandosi di direttore della fotografia e regista di respiro internazionale. Sono innumerevoli gli esempi, nel corso della Storia delle Arti, che raccontano di artisti, operatori di alto profilo, creativi, ingegni sorprendenti che nascono, muovono i primi passi in contesti assai circoscritti e, poi, prendono il volo sia percorrendo le strade del mondo sia portando le strade del mondo a convergere nei piccoli centri. Il caso di Sacile è un caso esemplare. Complice la bellezza del luogo e dintorni – vedi luoghi come Dardago, frazione budoiese, o Polcenigo per citare a caso, espressioni di una bellezza gentile e un po’ misteriosa ad un tempo, quasi sospesi nel tempo – l’idea di realizzare un cortometraggio, nata dalla fervida mente di Davide Fregona, si è presto manifestata nel compimento filmico firmato da

Luca Coassin. Un’opera d’immagine e suoni, che «fondesse» in modo particolare una «summa» estetica fatta di musica sublime, di bellezza urbana e naturale ad un tempo, di suggestione coreografica e trasparente giovinezza di amorosi intenti: questo è «Goldberg serpentine love». Neanche dieci minuti che raccontano molte cose ma, soprattutto, Le Cinéma, si, molto con lo spirito delle origini, che sono francesi. Non solo perché c’è un riferimento esplicito, una sorta di citazione trasfigurata in diversi momenti, di un debutto storico del fratelli Lumiére del 1897 con «Danse Serpentine», uno dei primo cortometraggi della storia dell’arte che ha cambiato il volto del ’900 e della civiltà, non solo occidentale. Soprattutto perchè «Goldberg serpentine love» sembra proprio lo «srotolarsi» della pellicola (anche se il mezzo è elettronico) che immerge lo spettatore in un gioco di storie incrociate che poi si riuniscono. L’arte di Coassin, supportato da una sapiente sceneggiatura scritta dal produttore Pasqualino Suppa e da Elettra Del Mistro, responsa-

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Nella pagina accanto. Amine Messaoudi, il ballerino franco-marocchino che ha danzato Serpentine al teatro Zancanaro di Sacile. È noto anche per essere stato scelto sia dalla cantante Madonna per il corpo di ballo nel suo ultimo videoclip che da una famosa cantante marocchina; lavoro, quest’ultimo, diretto e ripreso da Luca Coassin fra Frisanco, Sacile, Brugnera e Porcia.

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bile anche di scene e costumi, porta a magnificazione la storia di un garbato innamoramento, che nasce fra le acque del Livenza, la bellezza «venexiana» dei palazzi di Sacile, complice la gioia festosa di studenti che sciamano – figuranti entusiasti degli Istituti Marchesini e Pujati di Sacile e della scuola «ML danza» – e i laboratori della Fazioli dove nascono pianoforti finalmente ripresi nella loro bellezza germinale: sembrano scafi di navi lignee approntate per solcare i mari della sonorità. Si narra, nel videofilm, di un amore di sapore altonovecentesco per tipo di fotografia, giusto ritmo del montag-

volgente giovane pianista polacco Tymoteusz Bies (vincitore di una recente edizione del concorso Piano FVG, animato dall’infaticabile M° Fregona) si delinea un labirinto di segni eppure fluido nella sua dimensione narrativa. La potenza suggestiva della musica che, di per sé, incanta è incrementata dal gesto del danzatore franco-marocchino Amine Messaoudi, sorta di malizioso Cupido, che trasfigura in icone del grande cinema delle origini. Come non percepire echi di Murnau nei fantasmatici disegni che crea con un semplice costume candido e alato? La semplicità dei mezzi fa

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Ancora i giovani gioiosi e festosi lungo la Calle dell’Oca.

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gio, cura delle luci mai invadenti, colori pastello, quando non, a siglare un stile elegantissimo e nostalgico, un bianco e nero d’antan. Coassin non è solo uno straordinario fotografo – che già non è poco – ma appartiene a quel novero di registi che, giustamente, dalla fotografia nascono come Jan de Bont e l’ancora più grande Ridley Scott. Solo chi vede negli interstizi della luce l’immagine dei sogni può poi trarli in evidenza. E solo chi ha visto e amato tanto, tanto cinema. Di tanti tipi ma soprattutto degli stili fondativi e sovrastorici. Nella serpentina amorosa nutrita da frammenti di quel capolavoro assoluto che sono le Goldberg Variationen di Johann Sebastian Bach interpretate dall’etereo eppure coin-

Moretto del Pujati di Sacile, che precipita non troppo lentamente, ma molto soavemente, in un inesorabile innamoramento per il giovane pianista biondo, immerso nel mondo bachiano ma non insensibile agli sguardi della fanciulla. Pur nelle brevità la densità delle scene e dello scorrere narrativo il cortometraggio fa pensare a stili immortali come quelli di Maestri quali – a ritroso nel tempo – Hal Hashby, John Schlesinger, i nostri sottovalutati Fabio Carpi e Valerio Zurlini, Fred Zinneman, Abel Gance, Fritz Lang, Friedrich Wilhelm Murnau. Senza, però, dimenticare suggestioni provenienti della

Tymoteusz Bies, il giovane pianista polacco in meditazione, avvolto dall’assordante fragore della Livenza.

sì che l’ingegno di Coassin emulsioni momenti iconici come ad esempio quando il pubblico di giovani è frontalmente illuminato. Giovani i cui volti denunciano quello Stupor che fu dei primi spettatori ma anche di quelli che, per decenni, hanno goduto di capolavori. Vale la pena di abbandonarsi alla visione di questo minifilm la cui completezza non ha nulla da invidiare ad un articolato lungometraggio. È noto che la brevità in arte è assai più difficile da gestire di forme estese. Le atmosfere riescono ad essere sorprendentemente metatemporali, e, pur narrando, un po’ sospese. Scelta eccellente – in un attento casting di 80 giovani studentesse – per il volto e la fisicità da ragazza degli anni ’20 quella di Ilaria

raffinatezza di Visconti e della stralunatezza felliniana. Il rapporto diretto e storico, poi, con la altissima magistralità di Peppino Rotunno, caposcuola di una teoria di geni della fotografia cinematografica – da Vittorio Storaro al carnico (di origine) Dante Spinotti – la dicono lunga sull’apprendistato di Coassin. Una riflessione la merita la luce degli esterni – ché quelli interni sono più gestibili con luci, proiettori e fari adeguati – poiché la luce di Sacile, della zona ripresa, è sinuosamente permeata di riverberi che giungono dalle acque del Livenza. «Già in altre occasioni, per alcuni film, ho illuminato a giorno scene in cui era scritto «interno notte poco illuminato». Qui invece abbiamo giocato sulla cromia e


sulla composizione dell’inquadratura. Ho girato le riprese con lenti anamorfiche». Queste parole di Coassin non si riferiscono al cortometraggio in oggetto ma provengono da una intervista relativa ad un suo lavoro realizzato a Miami su quella icona della musica rock-pop che Iggy Pop («Un volto scolpito nella pietra» scriverebbe Borges). Una frase illuminante – è il caso di dirlo – sulla sensibilità creativa e trasfiguratrice del regista. Viene in mente l’uso di lenti particolari che usò Ridley Scott nel capolavoro di debutto come regista di lungometraggi: The duellist («I duellanti» del l977).

gista e della troupe «annusano» la luce e immaginano ciò che potrà diventare un sito nella dinamica di una narrazione per immagini e suoni. In questo caso sublimi, visto che le Variazioni Goldberg di Bach costituiscono un vertice compositivo senza pari. Così il barocco musicale dialoga con il barocco architettonico, la visionarietà coreografica di un danzatore di fisicità quasi alchemica si nutre del pianismo sorvegliato eppure intensamente poetico dell’implume (eppur maturo) Bies immersi in luci soffici e trasfiguranti, quasi occhio dell’inconscio. Così dalla piccola Budoia due

non facili equilibri. Colpisce, infine, che in questa ragionata modernità dei mezzi la bellezza venga conclamata con soggetti che provengono dalla storia passata: musica e architettura del XVI, XVII e XVIII secolo, cinema degli esordi, espressionismo, controllata secchezza del realismo d’oltreoceano e, infine, il mistero, vera anima e motore dell’arte più suggestiva, che permea fiumi (di Note), valli e montagne dei dintorni di Sacile e Budoia, terra friulana venata di elegante venezianità. «Goldberg serpentine love»: da vedere e sentire, come un sogno da accogliere e far proprio.

Il regista Luca Coassin sul set durante le riprese cinematografiche.

L’ambiente, se ben scelto, è complice. Una intuizione che è certo nata nell’idea originaria di Davide Fregona, non nuovo a contestualizzare «artisticamente» eventi (Palazzo Regazzoni per vari eventi, la ex chiesa di San Gregorio...) dove i suoni vengono potenziati dal Genius loci. Poi i sopralluoghi del re-

artisti moderni – dove moderno significa esperto nell’organizzazione e nella lucidità progettuale – lanciano al mondo, attraverso il media audiovisivo un messaggio che può giungere ovunque, nel segno dell’eccellenza e dell’originalità. Questo dove archetipi e strumenti culturali di alto profilo raggiungono

Davide Fregona alla presentazione della giuria del concorso ‘Piano FVG’.

È professore di Storia ed Estetica della Musica al Conservatorio «G. Tartini» di Trieste ed è membro del Consiglio d’Amministrazione. Docente presso i corsi di ARTEM (alta scuola specialistica di formazione di musicoterapisti), ha collaborato e collabora con prestigiose istituzioni e fondazioni liriche (Bologna, Venezia, Roma, Modena, Siena, Parma), svolge attività di conduttore e regista in campo radiofonico e televisivo con la RAI e strutture private. È drammaturgo – autore di oltre una ventina di testi teatrali realizzati la RAI, per Mittelfest e Festival di Spoleto – compositore di musiche di scena, per balletto, di oratori e di commento radiotelevisivo, oltre che polistrumentista (batteria, percussioni, chitarra, tastiere, flauto). Fa parte del Comitato di gestione dell’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi del Ministero dei beni culturali. Critico musicale e culturale, ha lavorato con testate nazionali e ora mantiene rapporti di collaborazione con Il Gazzettino. Ha tenuto conferenze e seminari per le università di Bologna, Roma Tre, Rouen, Trieste, Udine e Venezia, e diretto i Laboratori Interscolastici di Istruzione e Sperimentazione Musicale. Fra i premi e le onorificenze, nel 2007 ricevette il titolo di socio-corrispondente dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Udine, fondata nel 1606, per alti meriti culturali.

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*MARCO MARIA TOSOLINI

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NEL NOSTRO TERRITORIO

il mio lockdown a Dardago

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Spesse volte ci si lamenta della vita frenetica e della mancanza di tempo. Ma solo quando la nostra quotidianità è costretta ad un ‘ritiro forzato’ riusciamo a dar libero sfogo alla nostra fantasia. Leggere, studiare, cucinare o semplicemente dedicarsi a ciò che da tempo si desiderava fare. Basta guardare ‘in giro per casa’...

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Mai stata così tanto tempo consecutivamente a Dardago da quando mi sono sposata nel 1973 ed ho iniziato la mia nuova vita a Milano! Il tutto è cominciato dopo il 20 di febbraio 2020 con la chiusura delle scuole prima, seguita da quelli degli uffici che hanno lasciato a casa figlie e generi alle prese con lo smart working e con i bimbi da badare, non potendoli portare dai nonni, essendo potenziali trasmettitori di coronavirus, anche se asintomatici, e noi anziani soggetti a maggior rischio. I virologi, che allora non conoscevamo così bene, davano continuamente in TV queste indicazioni e suggerimenti e loro pronti a metterli in pratica. Ogni giorno i casi crescevano e sempre più vicino a noi, tanto da

Pignata de rame con composizione floreale.

di Ida Zambon

raggiungere un’impennata che imponeva via via maggiori ristrettezze. Ormai le nostre famiglie non si potevano neanche più incontrare, ognuno doveva stare a casa propria ed uscire solo per necessità impellenti. Io pensavo già che finalmente avrei potuto fare un po’ d’ordine soprattutto nel PC, migliorando la sistemazione della marea di foto degli ultimi anni nelle varie cartelle, spazzandone un po’ e stampando quelle più belle e significative. Trapelavano notizie circa la chiusura delle regioni, quasi sicuramente la Lombardia. Le nostre figlie, ben informate sulla gravità della situazione (tramite anche un loro amico medico anestesista, per l’emergenza man-


dato proprio nel reparto di terapia intensiva di Crema), preoccupate per la nostra salute, insistevano che andassimo a Dardago, il nostro paese con bassa densità di popolazione, e soprattutto in una casa indipendente dotata di ampi spazi all’aperto, dove saremmo stati più sicuri, liberi di muoverci godendocela anche un po’. Ed è stata la scelta giusta arrivare poco prima del lockdown. Consapevoli e responsabili, provenendo da una regione in testa per la diffusione del virus e da Milano, dove erano già in atto maggiori limitazioni e controlli, ci siamo chiusi in quarantena, senza incontrare parenti o altre persone. Di solito quando venivo a Dardago, dedicavo la maggior parte del tempo in particolare ai miei genitori, quando c’era ancora papà, poi alla mamma a casa sua o mia, ed ora in casa di riposo. In quel momento (come a tutt’oggi) le visite erano sospese, ogni contatto era stato annullato, per fortuna con mamma potevamo sentirci al cellulare che lei ancora è in grado di usare. Più avanti, hanno attivato le video chiamate, poi le visite dal vetro e alla fine a distanza in giardino oltre il cancello; misure molto dure, ma necessarie che hanno efficacemente impedito che gli ospiti fossero contagiati (come notoriamente accaduto in altre RSA). Ritornando al mio arrivo a Dardago ai primi di marzo, ho dedicato il primo periodo, come molti, credo, alle pulizie casalinghe un po’ più a fondo, alternando momenti di relax, misti a preoccupazione nel seguire in TV gli aggiornamenti e sviluppi del Covid, partecipando alle iniziative di preghiere, suppliche, Sante Messe col Papa nazionali e mondiali che ci facevano sentire uniti e vicini, pur a distanza. Avevamo iniziato a fare qualche passeggiata tra i sentieri delle nostre montagne, apprezzandone le bellezze ed i miglioramenti apportati all’ambiente circostante, sco-

prendo anche altre posti che io sinceramente non avevo mai raggiunto, tipo Sant’Agnol. Programmavamo di percorrerne altri, ma i video del sindaco imponevano il divieto, per cui la nostra casa /cortile/orto erano diventati i luoghi più sicuri e graditi. Si usciva solo per la spesa che facevamo durare oltre una settimana, inoltre nessuno poteva entrare, solo contatti virtuali. Bisognava cogliere il lato positivo, quando mai sarebbe capitato un periodo così tranquillo e indisturbato! Potevo sbizzarrirmi e dare sfogo alla mia creatività con attività non realizzabili in appartamento. La mia mente, come canta Figaro nel Barbiere di Siviglia, ‘...un vulcano diventò’. Il solaio mi aspettava per il recupero e la messa in sesto di vari oggetti che avevo gelosamente custodito pensando un giorno di farli rivivere riportandoli alla luce. Ed eccomi vestita ad hoc, a grattare cialdiere di varie dimensioni, nere ma nere di cialin che neanche le mascherine protettive per gli insetticidi riuscivano a trattenere la fuliggine sottile che usciva. Passando anche alla carta vetrata, il lavoro era comunque lungo e faticoso, ci doveva essere un altro modo...! Certo il trapano! Sono andata alla grande dopo aver imparato ad usarlo con gli appositi dischetti, raggiungendo risultati soddisfacenti in un tempo ragionevole. Mentre procedevo anche con il cialderin, il secio, il ciavedal, vedevo già l’utilizzo e la realizzazione. Nel primo cialderon seminavo girasoli, il secondo lo riempivo con i vasi di surfinie sopravvissute dallo scorso anno, in quello medio raccoglievo tutte le piante grasse formando un insieme davvero gradevole. E dai cialderins appesi agli alberi con catene usate per i vitellini, trovate ravanando nella ex stalla, sbordavano le portulache rosse, mentre dai musiai appesi tra la vite americana pendevano fiori gialli di piante semigrasse. Occupavano i due cerchi dell’alzata del

ciavedal verniciato fresco di nero, due vasetti con penzolanti piantine succulente. La base di una macchina per cucire d’epoca Singer di mio papà, diventava nuova, color canna da fucile, ed un vecchio piano di marmo di Carrara sosteneva la cassetta di gerani rampicanti diventando una fantastica macchia di colore rosa intenso nel prato verde. La vecchia voliera arrugginita invece è stata ripristinata in due riprese, perché dopo aver dato l’antiruggine, per fortuna disponibile nel laboratorio di Antonio, dove c’è veramente di tutto, ha dovuto aspettare la riapertura dei negozi prima di essere verniciata di lilla, il colore predominante scelto per gli arredi. Si è rivelato un lavoro certosino perché ha richiesto l’uso di pennellesse e pennellini per la rete e uno sforzo per raggiungere parti interne irraggiungibili, attraverso l’unica porticina. Naturalmente non poteva rimanere vuota e neanche con uccellini vivi, essendo noi presenti a Dardago solo in modo intermittente. A questo avevo già pensato anni fa, dando ai miei nipotini il compito di cercare, collezionare, uccellini finti, qualora li trovassero nei

Base macchina per cucire con geranei rampicanti.


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loro giri turistici/vacanze. Ne avevamo raccolto già in quantità sufficiente ed io ho aggiunto anche qualche nido abbandonato dai merli tra i gelsomini. Rimaneva spoglio l’angolo del vecchio forno della casa vecchia, col suo grosso buco che ho coperto col fondo di un tino per posarvi sopra l’ultima pignata di rame riempita, nel periodo pasquale, dai molti rami dell’ulivo, piantato nell’anno 2000: un bonsai portato da Milano dopo averlo benedetto il giorno delle palme, lasciato poi crescere normalmente. In giugno i rami di ulivo ingialliti sono stati sostituiti da un mazzo di spighe colte nei nostri campi e arricchito con rossi papaveri finti formando una simpatica composizione. Sopra, appesi al muro spiccano le ceste del papà intrecciate con i fili di rafia bianchi e azzurri con cui si legavano le balle di fieno. Un altro bel ramo di ulivo scelto tra quelli potati, è diventato il mio alberello pasquale con appesi ovetti e coniglietti di pannolenci bianco e lilla, tagliati e cuciti a mano col punto rincia. Ah il cucito...! Dimenticavo le mascherine! Appena iniziata la pandemia, si faticava a trovarle. Su Google, trovato un modello di mascherina che mi soddisfaceva, ardevo dalla voglia di realizzarlo, ma con le mercerie e negozi di stoffe chiuse, bisognava trovare risorse interne, qui però avevo meno materiale a disposizione che a casa mia a Milano. Rovistando tra federe, biancheria, alla fine mi hanno convinto delle camicie belle di cotone scartate per il collo consunto. Naturalmente hanno superato la prova candela: soffiando attraverso, la fiamma non si spegneva, e allora via a misurare, tagliare e stavolta a cucirle a macchina. Esauriti anche gli elastici! Un po’ di attesa, ma alla fine ce l’ho fatta a portarle a termine. Per la prima volta ho spedito un pacchetto ad entrambe le fami-

Il Centro Estivo, denominato GEMG dalle iniziali dei nomi dei nipoti, è inaugurato con una crostata.

glie a Milano, ma quanta prudenza anche alla posta! Le mascherine hanno avuto successo tanto che ne sono seguite altre più avanti, con belle fantasie e su misura per i nipotini. Mai apprezzato e usato tanto le nuove tecnologie informatiche. Dalla rete ho attinto e sperimentato nuove ricette: dal pane, lievito permettendo (introvabile), ai biscotti, torte dolci e salate e altre leccornie che hanno addolcito le nostre giornate, per fortuna senza incidere sul peso. Anche l’isolamento e la lontananza dai nostri cari sono state ridotti e riempiti dai collegamenti Skype, Zoom, ecc. Ci hanno permesso di festeggiare i compleanni dei nipotini che cadono tutti tra aprile e maggio. La prima volta abbiamo assistito mentre il festeggiato con famiglia gustava la torta, ma le volte successive ci siamo organizzati, preparandone una anche noi, magari la stessa, così era come se fossimo presenti. Ho potuto anche seguire le lezioni di yoga, con l’insegnante che s’era attivata per la pratica a distanza. Naturalmente con l’arrivo della primavera ci siamo spinti anche nell’orto per la solita potatura e cura degli alberelli da frutto. Eravamo diventati quasi stanziali, peccato non fare l’esperienza della messa a dimora delle piantine di pomodori, zucchine, cetrioli, offerte gentil-

mente dal nostro vicino esperto agrario che ci consigliava anche di piantarle vicino al confine per un eventuale innaffiamento in caso di nostre partenze. Ha provveduto ad un’energica vangatura, essendo tutto impradit, il consorte, a cui va tutto il merito dei più che soddisfacenti risultati, quasi quasi l’allievo ha superato il maestro! Non che fossimo digiuni e sprovveduti, ma le nostre colture risalivano alla giovinezza e sempre con le mamme in prima linea, noi tutt’al più coglievamo i prodotti belli pronti. Così come hanno fatto i nipotini quotidianamente nel periodo della maturazione divertendosi e apprezzandone anche la bontà. Scemando i contagi e terminando le scuole online, la gente Voliera ripristinata per gli uccellini finti.


era più libera e in grado di spostarsi, pur con le dovute precauzioni, e così anche i nostri ci hanno raggiunto: i genitori come pendolari nei fine settimana, soffermandosi ogni volta qualche giorno in più, potendo lavorare in smart working. I nipotini invece rimanevano con noi, in attesa della partenza per le vacanze estive. Che bello per tutti, alzarci e trovarci subito in cortile all’aperto per la colazione, i giochi, il pranzo la cena, senza bisogno di preparativi per uscire, senza mascherine e precauzioni ulteriori. Inizia il Centro Estivo battezzato, già negli scorsi anni, GEM dalle iniziali dei loro nomi: Giorgia, Edoardo, Mattia, diventato quest’anno GEMG con l’arrivo di Giacomo ultimo nato. Si inaugura la festa con lo striscione GEMG appeso nel cortile formato dalle loro quattro lettere gonfiabili, la prima rosa e le altre tre azzurre, seguito da una ricca crostata personalizzata con le loro iniziali di pasta frolla, manipolate da manine esperte. Il programma prevede momenti di impegno nei compiti adeguati, un’infinità di giochi: nascondino, corse in bicicletta, salto alla corda, altalena, pattini, skate, monopattini, giochi in scatola, a carte soprattutto alla sera in compagnia dei grandi; nei giorni caldi, pronti nei colorati costumi per i giochi

d’acqua con gavettoni e pistole a spruzzo e in ammollo nelle due piscinette in cortile. Si sono entusiasmati poi nel laboratorio col nonno ad andar di lima e di pennello su piccole assi, fino ad ottenere scudi e spade. Il ricordo della mia passione da piccola per i trampoli ha innescato curiosità e voglia di provare a realizzarli col nonno, prima un paio, poi due per poter confrontarsi, imitarsi e gareggiare. Davvero una bella invenzione che li ha visti determinati nell’acquisire equilibrio sempre più duraturo, fino a percorrere alla fine con scioltezza il lungo cortile, senza cadere. Forse sono servite anche le mie esibizioni, convinta che con l’esempio si ottengono maggiori risultati. Nella caccia al tesoro abbiamo inserito anche i giochi preferiti a cui avevano partecipato il giorno di ferragosto nel cortile delle scuole: in primis la mela galleggiante nel mastello da addentare mentre si spostava nell’acqua, vedendoli alla fine inzuppati ma felici, rosicchiandola di gusto. Percorsi vari tra i birilli per il riempimento di bottiglie e altri con palline in equilibrio e il gran finale tutti nell’orto a cercare le farfalle di pasta disseminate tra l’erba fino al raggiungimento di 800 gr su 1000 sparsi, obiettivo per il premio. Naturalmente in tutto c’è sempre stato il prezioso ruolo di Giorgia (indi-

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Il gruppo GEMG al laghetto Pinal.

spensabile qui più che mai nella lettura dei biglietti) con la sua passione, disponibilità, organizzazione e creatività da piccola, ma autorevole maestrina. Le gite con zainetto in spalla per borraccia e merenda, li vede progredire e aumentare la loro resistenza fino a spingersi sempre un po’ più lontano, in alto: dal laghetto Pinal, amato per la moltitudine dei girini, all’Artugna con i suoi sassi bianchi di tutte le dimensioni, scoprendosi, senza timore di far danni, provetti lanciatori di sassi. Credo che abbiano anche imparato il significato della ben nota frase :«nol trova niancia un sas in te l’Artugna». Si prosegue lungo il Ruial divertendosi a togliere rametti e foglie che frenavano l’acqua e fantastico vederla ripartire abbondante, scoprendo i cornioli con i frutti rosso carminio che lo fiancheggiano, fino ad arrivare alla cascata Perer, scommettendo sempre sulla quantità d’acqua che avremmo trovato: cascata o cascatella? Altra meta, gli Agaroi con l’affascinante grotta, per concludere alla chiesetta di San Tomè nello spiazzo per un meritato riposo sui lunghi tronchi fatti a panchina. Sosta che però non dura a lungo poiché li aspetta un bel gelato, gusto cioccolato preferito da tutti, al Rifugio Chalet Belvedere che dà loro la carica per il ritorno più facile in discesa e allietato dai giochi del parchetto Ciampore, deserto essendo un giorno infrasettimanale. Purtroppo, i giorni volano e arriva quello del rientro a Milano. Tergiversano un po’ per ritardare la partenza, ma alla fine tutti a bordo, salutano un’ultima volta con le mani tese dal finestrino, le guance rigate da lacrime che scendono da sole, un nodo che chiude la gola ma non abbastanza da impedire loro di gridare: «Dardago è il più bel mare del mondo»! La forza di questa bellezza è il ritrovarci e convivere qui tutti insieme.

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A noi basta il sorriso dei nostri pazienti, quel sorriso che ci dà l’energia di cui abbiamo bisogno, da sempre.

‘ Si vede... e io lo so

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di Manuela Zambon

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Abbiamo raccolto la testimonianza di una dardaghese che vive e lavora a Milano, una delle zone più colpite dalla seconda ondata della pandemia. Le parole di Manuela, figlia di Fernanda e Raffaele Zambon Momoleti, ci fanno riflettere su come hanno vissuto e stanno vivendo tutti gli operatori sanitari impegnati in prima linea per fronteggiare il Covid.

S ono infermiera. Lavoro in Terapia Intensiva in un grande ospedale di Milano e con i mei colleghi (tutti: infermieri, medici, OSS, personale ausiliario) siamo impegnati nella «seconda ondata» della pandemia che, nonostante fosse attesa, ci ha travolto prima e in modo peggiore del previsto. Così ai primi di ottobre ci siamo ritrovati in pochi giorni a dover quadruplicare i posti letto di Rianimazione e riadattare organici, percorsi e procedure. Sapevamo come e cosa fare ma abbiamo dovuto fare tutto ancora più in fretta che nella primavera scorsa.

La prima ondata ci aveva lasciato stremati alla fine di giugno e ci auguravamo di non dover rivivere quella situazione non solo per la fatica ma anche per tutto il dolore che aveva provocato anche in noi. Ci hanno chiamato eroi, ma noi non ci siamo mai sentiti tali, anzi questo appellativo e una certa visibilità ci davano sinceramente fastidio. Eravamo consapevoli di avere fatto solo il nostro dovere, di aver lavorato al meglio delle nostre possibilità, misurandoci con problematiche a noi ben note da molti anni e che la pandemia ha solo moltiplicato e reso evidenti a tutti.


Tutti noi avremmo avuto ancora bisogno di tempo per riprenderci dallo tsunami che avevamo vissuto. Non è andata così. Abbiamo dovuto ricominciare a vestirci da astronauti per riscoprire che proprio grazie a quel rituale diventiamo più consapevoli di noi stessi, di quello che siamo e facciamo. Prima ti arrabbi, pensi che non ce la puoi fare a lungo in queste condizioni, che non sia giusto saltare i riposi o che ti siano negate le ferie; poi ti vesti, seguendo tutti i passaggi e, anche se lo fai ridendo e scherzando con i colleghi, quando apri quella porta, aldilà della quale ci sono i nostri pazienti, questi pensieri passano immediatamente in secondo piano e prevale il senso per cui hai scelto di fare questo lavoro: rispondere con tutti i mezzi che hai a disposizione al bisogno di salute delle persone e cercare di farlo nel modo migliore possibile. In primavera il nostro reparto e tutto l’ospedale era tappezzato di disegni, striscioni, messaggi di solidarietà con cui le persone ci facevano sentire la loro vicinanza, le aziende ci regalavano caffè, cibo e creme per il viso... Adesso no. Sembra tutto asettico e incolore, ci sembra di essere lasciati soli e in balia di polemiche e informazioni spesso superficiali e imprecise. Esattamente come prima della pandemia. E noi continuiamo a fare esattamente quello che facevamo prima, anche se con un maggiore carico di lavoro.

Allora emergono quelle peculiarità che sono da sempre la nostra forza, per cui ci sentiamo una famiglia in cui ci si capisce a sguardi o a gesti anche sotto le visiere e dentro tute che ci rendono goffi, ci si sostiene a vicenda, si gioisce tutti insieme per un valore che migliora e si tentano tutte le strade possibili quando questo non succede, e ci fa andare avanti con maggiore determinazione e senso di responsabilità. Di questa famiglia i nostri pazienti sono parte integrante... anche se incoscienti perché pesantemente sedati e di loro sappiamo ben poco, spesso solo i dati anagrafici e anamnestici. La loro vita è il senso di tutto quello che facciamo. Prima del Covid eravamo una «rianimazione aperta»: i familiari dei nostri pazienti potevano stare in

mane, ormai sveglio e cosciente, seguiva con un sorriso stampato in volto ogni nostro movimento (il reparto è un grande stanzone) e allora tutti ci siamo avvicinati per dirgli che eravamo davvero felici di vederlo così, che ci aveva fatto penare non poco e altre battute scherzose, lui ci guarda tutti e dice: «si vede... e io lo so». A noi basta questo, questo ci dà l’energia di cui abbiamo bisogno, da sempre. La pandemia ha richiesto maggiore impegno e abnegazione e noi non ci siamo tirati indietro, ma a emergenza finita qualcosa dovrà cambiare. Da troppo tempo a causa del blocco delle assunzioni lavoriamo con organici ridotti al minimo, con anni di ferie arretrate, nell’impossibilità di fare corsi di formazione e aggiornamento se non online.

All’interno del reparto Covid gli operatori sanitari si prendono cura dei pazienti.

reparto per 9 ore al giorno, insieme a noi e vicino ai loro congiunti, intorno ai letti c’erano disegni di figli o nipoti e piccoli oggetti, simboli della vita di ciascuno di loro. Abbiamo condiviso storie drammatiche e momenti di gioia, costruito relazioni profonde e bellissime e ricevuto un mare di affetto. Ora non è così e questo aspetto ci manca tremendamente, e non basta una videochiamata. Qualche giorno fa ci siamo resi conto che F., nostro giovane paziente che era da noi da tre setti-

Ci auguriamo che a tutti i livelli si comprenda davvero che una «sanità» efficiente, competente e sicura non può prescindere da un effettivo investimento in risorse umane e che finalmente si passi dalle parole di questi mesi ai fatti.

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Foto a sinistra. Terminata la procedura di vestizione, l’equipe di operatori è pronta per iniziare il turno. Alle loro spalle si intravvede la porta di accesso al reparto Covid. Manuela Zambon è la seconda da sinistra.

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Co-housing a Budoia

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Questo articolo ha lo scopo di informare la comunità di Budoia sull’apertura, nei primi mesi del 2021 di una nuova realtà di abitazione condivisa (co-housing) nel nostro territorio.

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Il comune di Budoia partecipa alla gestione associata del Servizio Sociale dei comuni «Livenza- Cansiglio-Cavallo» assieme ai comuni di Sacile, Aviano, Brugnera, Caneva, Fontanafredda e Polcenigo. In tale contesto è attivo dal 2011 il piano locale per la domiciliarità, cioè un sistema integrato di interventi sociali e socio-sanitari con l’intenzione di sviluppare sul territorio progetti in favore delle persone anziane mirati a percorsi di domiciliarità innovativa. In questo contesto l’Assemblea dei Sindaci ed il comune di Budoia stanno realizzando una comunità a bassa soglia, localizzata a Santa Lucia di Budoia, in Via Lachin 1. La casa, di nuova realizzazione, è costituita da 2 camere doppie con bagno privato e spazi ad uso comune, compreso un bel giardino. Vi è inoltre una camera con bagno per

eventuale assistente familiare. La comunità, organizzata secondo il modello del co-housing, ospiterà persone di età adulta e/o anziana, in necessità di una condizione di domiciliarità protetta per favorire la riappropriazione di autonomie personali e nella speranza di una risposta comunitaria di bassa soglia nella co-gestione col territorio. Il progetto di co-housing «Casa Possibile», sviluppato proprio all’interno del piano locale per la domiciliarità, nasce dalla necessità di mitigare nuove forme di marginalità sociale che talvolta colpiscono le persone anziane e le fasce più deboli, tanto da comprometterne il ruolo sociale. La cooperativa sociale ITACA, in qualità di Partner del progetto insieme all’amministrazione comunale e il Servizio Sociale dei Comuni «Livenza, Cansiglio, Ca-

vallo», hanno iniziato a promuovere questa nuova realtà emergente sul territorio attraverso la sensibilizzazione di tutte le realtà culturali e associative già esistenti, con la finalità di stimolare una riflessione ed una cooperazione tra esse. Quando parliamo di Terza Età, non possiamo correre il rischio di minimizzarla e di relegarla ad un ruolo marginale; da un lato infatti è da sottolineare l’aumento esponenziale della sua rappresentanza sul territorio, dall’altro, in un’ottica più sociale, il suo valore intrinseco di narrazione storica della nostra tradizione. È per questa ragione che «Casa Possibile» nasce con l’auspicio di coinvolgere e integrare quanto più possibile le diverse realtà e fasce d’età, facendo rete. Come primo passo, infatti, sono state coinvolte le scuole primarie di Budoia con l’idea di stimolare la


Lasciamo i nostri contatti per chiunque fosse curioso di saperne di più, sperando che sia l’occasione per far fiorire nuovi progetti di comunità.

Katia Gavagnin cell 3282131782 k.gavagnin@lavorosociale.eu Azzurra Lanfranconi cell 3476900492 azzurralanfranconi@hotmail.com

i 90 anni di Berto de Theco

fantasia dei bambini che saranno coinvolti in un concorso di disegno grazie al quale verrà scelto il logo e il nome di questa struttura, in modo da renderli protagonisti in un atteggiamento inclusivo. È molto importante che i bambini per primi possano, aiutati dai genitori e dagli insegnanti, fare una riflessione su quanto sia ricco e interessante il ruolo degli anziani nella propria vita, ma anche e altrettanto che l’intera comunità si interroghi su quali siano le risposte e le risorse che può attivare per rendere vivace questa nuova realtà. Questo è un momento particolare in cui le distanze sociali dovute alla pandemia hanno reso molto più complicata l’interazione tra le persone, quindi ci sembra ancora più fondamentale la necessità di coesione e di solidarietà. Per tale ragione, l’idea sarebbe quella di promuovere riunioni in cui ciascun interprete della realtà locale possa immaginare il proprio coinvolgimento nel progetto, proponendo idee di collaborazione e relazione con «Casa Possibile» e con le persone che ci andranno ad abitare. A questo mira specificamente il contributo richiesto alla Fondazione Friuli, attraverso il quale sono state attivate due figure di promotrici di comunità che si impegneranno nei prossimi mesi a sviluppare il coordinamento e l’attuazione delle diverse fasi progettuali, nonché alla costruzione di rete tra le tante e stimolanti realtà già esistenti.

di Pietro Ianna Il 15 settembre Alberto Ianna, meglio conosciuto come Berto de Theco ha compiuto i suoi 90 anni di vita. Berto: una persona conosciutissima a Dardago e direi anche nei paesi vicini per la sua giovialità e piacere di stare insieme con quel modo tutto suo. La sua è stata la vita che hanno fatto i nostri padri: lasciare il paese ancora giovani per trovare un lavoro in città italiane o all’estero. Berto rimane a Dardago fino ai 16 anni e aiuta la famiglia nei lavoro dei campi. Le nostre due famiglie erano molto unite in quanto barba Tita era fratello di mio nonno Piero e le loro mogli, la Mariuta e la Gusta erano sorelle per cui Berto veniva ad aiutare anche in casa nostra in quanto mio papà era in guerra e poi anche lui ha preso la valigia di cartone ed è partito in cerca di fortuna. A 16 anni Bertino parte per Milano come manovale e vi rimane un anno; poi a Feltre con Gino Glir. Allora servivano i documenti della prefettura per attestare la moralità della persona in quanto erano in tanti che cercavano lavoro. Nel 1951 torna a Dardago e lavora come muratore con le varie imprese edili dardaghesi. Due anni dopo parte per Berna dove vi rimane un anno e nel 1954 cerca lavoro in Francia con Savino Zambon Tarabin, Gino Bastianello Thisa e un certo Sergio da Budoia. Partono da Budoia con la littorina fino a Udine e poi fino a Milano dove sono sottoposti a visita medica assieme a 200 operai: dei budoiesi solo Berto e Savino possono espatriare. Tre lunghi giorni di treno e arrivo a Clermont Ferrand dove li attende un camion per portarli in cantiere dove li aspetta una baracca con una misera branda e una candela: alle 7 di mattina partenza per il lavoro, ognuno deve provvedere a prepararsi la gavetta e lavarsi la biancheria. Poi il salto di qualità: Parigi, ma per loro rimane una fredda baracca, una branda senza lenzuola, un gabinetto all’aperto e, sempre all’aperto, acqua fredda per lavarsi. Berto e molti compaesani lavorano con due impresari dardaghesi: Toni e Gabriele Ciampaner. Il lavoro in Francia gli dà diritto ad una cospicua pensione di 100 euro al mese. Nel 1958 rientra a Dardago. In quell’anno nel Comune di Budoia si inizia ad asfaltare le piazze ed alcune strade principali e Berto, per un anno, lavora per la ditta incaricata. Nel 1959 la svolta: Bertino parte per Venezia, non più come muratore ma come facchino ai piani e vi rimane fino al 1976 quando ritorna a Dardago per lavorare come muratore con Spedito fino alla pensione nel 1991. Nel 1971 dopo un lungo fidanzamento, Bertino aveva sposato la Clara. A celebrare il matrimonio fu don Evaristo. Rimasto vedovo, nel 2019 Sposa Raissa che lo accudisce con notevole attenzione ed affetto e lui, nonostante gli acciacchi dovuti all’età, vive serenamente. Da quanto si evince la vita di Bertino è stata di duro lavoro e sacrificio specialmente negli anni passati all’estero. Bertino è una persona generosa e difficilmente sa dire di no a chi gli chiede un favore e sa ricambiare con generosità un favore ricevuto. A significare come fosse dura la vita dei nostri emigranti, Berto mi raccontava spesso un aneddoto di un nostro compaesano che, appena arrivato Berna, si reca dal calzolaio con le scarpe da festa malandate ed esordisce così: risiolir, brochetir, per diman dopo diman fertic. Ho riportato esattamente quanto mi ha raccontato me santol Berto che, a 90 anni, ha una lucidità invidiabile: a lui ancora tanti anni di vita serena.


Fratelli tutti l’enciclica di don Maurizio Busetti In passato, nel mondo cattolico, quando ci si trovava di fronte ad un pronunciamento del Papa, anche se non strettamente di natura infallibile, c’era un assenso, consenso generale. Era il Vicario di Cristo sulla terra che parlava con la sua autorità apostolica, insegnando in materia di fede e di morale e non si poteva replicare. Oggi, in largo strato dell’orbe cattolico, non è più così. Di fronte ai pronunciamenti del Papa sorge abbondante discussione. Si leggono i suoi interventi sotto l’angolatura politica o addirittura partitica affibbiandogli questa o quell’altra posizione. Si vorrebbe, da parte di qualche frangia conservatrice ad oltranza, giudicarne l’ortodossia del pronunciamento o squalificarlo come non proponente un insegnamento teologico o morale ma unicamente dettato da un approccio filosofico umano. E così anche quest’ultima enciclica viene così giudicata da una frangia di lettori e commentatori. Se però ci accostiamo al testo senza preconcetti possiamo vedere che la realtà è molto diversa. Ci accingiamo a darne una lettura, seppure a vol d’uccello, ma speriamo di valido aiuto ad entrarne nello spirito. Intanto il Papa passa a spiegare qual è l’intento di questa lettera apostolica. L’esigenza di cercare la fratellanza e l’amicizia sociale. Ci troviamo di fronte ad un mondo diviso, lacerato dalle guerre e dalle ingiustizie sociali che fanno diventare i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, soprattutto con i nuovi e

potenti mezzi di comunicazione e di diffusione di idee, mentalità e modelli di vita che sembrano aver creato una globalizzazione capace di accomunare tutta l’umanità nell’acquisizione di un benessere sempre più generalizzato, che poi, invece, si realizza solo per pochi. La globalizzazione che potrebbe essere un mezzo atto a costruire rapporti e a condividere beni comuni di culture diverse apportatrici di valori diventa un mezzo invece per omologare tutti in una cultura del consumo, a distruggere diversità arricchenti e a sottomettere il povero considerandolo merce inutile. In questa situazione il Papa ci parla di fratellanza costruita sul dialogo, in maniera fondamentale. Per questa lunga carrellata (287 paragrafi) parte da un episodio lontano nel tempo ma a lui molto caro perché richiama il Santo patriarca dei poveri da cui ha preso il nome, come Papa e che venera molto e, nel cui Santuario di Assisi, ha voluto firmare questa enciclica. Parte dunque il pontefice dall’episodio della visita di san Francesco al sultano d’Egitto Malik-al-Kamil. Una visita non facile sia per le difficoltà del viaggio in tempi nei quali spostarsi da un posto all’altro, soprattutto con grandi distanze, non era cosa semplice, ma anche per i pericoli che comportava andare in paesi con diversa lingua, cultura e religione, essendoci, peraltro, in corso le Crociate contro i musulmani. Ma Francesco non va a compiere una guerra dialettica per imporre una dottrina ma vuole comunicare un messaggio di pace e fratellanza.

Il dialogo diventa, per il Papa, il metodo indispensabile per comunicare nel nostro tempo. Un dialogo aperto tra le varie culture dell’Occidente e dell’Oriente che favorirebbe lo scambio di elementi positivi presenti in ambedue le culture, respingendo ciò che è negativo. L’autentico dialogo, sostiene il Papa, presuppone la capacità di rispettare il punto di vista dell’altro, accettando la possibilità che contenga delle convinzioni o degli interessi legittimi. A partire dalla sua identità, l’altro ha qualcosa da dare ed è auspicabile che approfondisca ed esponga la sua posizione perché il dibattito pubblico sia ancora più completo. Ancora, le differenze sono creative, creano tensione e nella risoluzione di una tensione, consiste il progresso del cammino dell’umanità. Papa Francesco si riferisce anche al suo incontro con il Grande Imam Ahmad-Al-Tayyeb con il quale ha firmato un documento sulla pace e la fratellanza, avvenuto nell’ambito del viaggio apostolico negli Emirati Arabi dal 3 al 5 febbraio 2019 per dire che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Se queste cose avvengono e il Papa non è uno sprovveduto, sa che avvengono e, purtroppo la storia ne registra tantissimi casi da ogni parte, queste sono sciagure, frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dall’uso politico delle religioni e anche dalle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato dell’influenza, in alcune fasi della storia, sui cuori degli uomini che li seguivano.


del Papa: spigolature Il Papa si rifà ad un racconto evangelico notissimo, la parabola del Buon Samaritano (Lc. 10,25-37). Si tratta della risposta a un maestro della Legge che vuol tentare Gesù chiedendogli chi fosse il prossimo che dovevamo amare. Dal racconto che Gesù fa, il prossimo è ogni persona che incontriamo anzi è l’umanità intera che ha bisogno di aiuto, di attenzione e di misericordia. Nel racconto di questa parabola potremmo vedere racchiuso tutto l’insegnamento di questa enciclica. Il malcapitato rappresenta l’umanità sofferente, bisognosa, povera che non sa a chi rivolgersi per trovare aiuto, che è fuori dagli interessi di chi gestisce il grande capitale e non vuol essere disturbato. Il grosso capitale che è capace di dare a questi poveri specchietti di allodole: telefonini cellulari ultimo modello, playstation, orologi di marca, occhiali da sole marcati ma non certamente partecipazione ad un benessere diffuso. Il povero non conta, è un intralcio al progresso, va messo a tacere se non addirittura eliminato. Ci sono poi i sacerdoti e leviti. Sono coloro che fanno finta di non vedere la sofferenza e la miseria. Non vogliono essere disturbati, non vogliono perdere tempo per gli altri, sono infastiditi da quella presenza scomoda e tirano oltre, cambiando strada. E infine c’è il buon samaritano che ha compassione e, anche se straniero e nemico, si china a fasciare le ferite, a condividere il suo denaro, a curare e assistere questo fratello che ha bisogno. Perché è nel bisogno che si riconoscono i fratelli, anche se di altra razza e stirpe. Questo progetto deve

essere portato avanti dai cristiani: non soci o compagni ma fratelli. Questa realtà, dice il Papa, non deve essere vissuta solo a livello individuale ma anche comunitario e sociale. Da questo insegnamento Francesco fa derivare tutta una serie di raccomandazioni. Oltre al già citato dialogo fondamentale per risolvere i problemi nei rapporti umani, troviamo la non assolutizzazione del valore della proprietà privata che deve essere resa disponibile a chi è nell’estremo bisogno anche con il diritto di costui di chiederne conto con forza perché dare al povero è, secondo i padri della Chiesa e conformemente a tutto il magistero della Chiesa, restituire ciò che gli è dovuto. Non è insegnamento marxista, come qualcuno ha ventilato, ma dovere cristiano. Riguardo alla «vexata quaestio» degli immigrati il Papa non entra nella disputa polemica in atto ma chiede che a tutti sia data la possibilità di vivere umanamente nella propria terra con l’aiuto dei paesi più ricchi ai più poveri, con lo sviluppo delle condizioni economiche nei vari paesi, anche se non si può negare la possibilità a ciascun uomo di emigrare per trovare condizioni migliori di vita e accogliendo chi fugge da situazioni di guerra e di pericolo, dando loro la possibilità di trovare condizioni favorevoli di accoglienza e chiedendo a questi il rispetto delle leggi che regolano la vita del paese che li accoglie. Il Papa ripudia il ricorso alla guerra nelle controversie internazionali ma chiede che queste siano risolte diplomaticamente con l’intervento di organismi internazionali preposti a questo scopo.

La guerra non può mai essere considerata giusta perché, oltre che provocare danni irreparabili sopprime tantissime persone innocenti. Da questo insegnamento deriva il dovere del perdono che non vuol dire non riconoscere di aver ricevuto un torto e di chiederne eventualmente il risarcimento ma concedere a chi ha commesso il torto di poter riconoscere il male fatto ed essere aiutato a non commetterlo più. A questo punto il Papa parla della pena di morte che, per molto tempo, è stata utilizzata come deterrente a commettere crimini e a punire quelli più efferati ma, molte volte, ha soppresso persone innocenti che non hanno avuto modo di provare la propria innocenza ed inoltre molte volte la pena di morte è stata utilizzata per reprimere e combattere il dissenso politico e sociale verso il dominante. Il criminale deve certamente subire le restrizioni della legge ma questa non deve sopprimerlo né mutilarlo ma aiutarlo a comprendere il male commesso e a cambiare vita. Si conclude così questa enciclica che non rappresenta certamente una novità nell’ambito magisteriale ma richiama al tradizionale insegnamento della Scrittura, dei Padri della Chiesa e dei vari interventi di Papi precedenti o vescovi. Il Papa ha sentito il dovere di ribadire questo indirizzo pastorale per le gravi situazioni che ci troviamo a vivere in questo nostro tempo tracciandoci la strada verso una retta interpretazione del nostro essere cristiani.


Michelangelo Caravaggio. La Flagellazione di Cristo.

Quando si dice essere fortunati! L’autore dell’articolo, allora giovane studente universitario, alloggiava a Napoli in un pensionato alquanto particolare.

San Domenico Maggiore e Caravaggio di Alessandro Fontana

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F ra le grandi città del mondo, senza essere certamen-

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te una megalopoli, Napoli ha diverse peculiarità che la rendono uguale a città ben più grandi e popolose. È fornita di diversi musei, ha il mare punteggiato da isole tra le più belle del mondo, un caos del traffico tra i più fantasiosi ed emozionanti, teatri carichi di gloria, palazzi antichi – reali, aristocratici e borghesi – gonfi di storia, vulcani attivi e spenti, politici coinvolti in bassezze, poeti, scrittori e commediografi della più bell’acqua, castelli di adamantina nobiltà, dintorni che fanno piangere di gelosia parecchie metropoli e intere nazioni, malavita e malavitosi, densità di abitanti da incubo, un Santo il cui sangue da ben diciotto secoli si scioglie quasi a volontà popolare, lusso e miseria entrambi indicibili. Sul momento non mi sovviene di altre città che abbiano contemporaneamente nel loro «palma res» tutto quanto suddetto, nel bene e nel male. Ma al di là di ogni altra celebrata o vituperata attrattiva, Napoli ha delle oasi che credo pochi conoscano, a meno di non avere avuto la ventura di averle frequentate così come mi accadde al tempo dell’università. Queste zone protette rendono Partenope unica e perciò diversa da tutte le altre città. Parlo delle oasi del silenzio. Certamente questa affermazione può sembrare uno stridente anacronismo: ma come? Napoli silenziosa?

Lo stesso concetto base di Napoli è l’esatta antitesi del silenzio, e io non lo nego. Non nego che questo stereotipo sia una grande verità; ma non al cento per cento. Le oasi del silenzio esistono e proprio nel cuore antico, nevrotico e pulsante di Napoli; una di esse è la Basilica di San Domenico Maggiore. Delimitata dalla vivacissima Spaccanapoli, cioè via Benedetto Croce, dalla via San Severo (il duca stregone) e a nord dalla via Tribunali, la Basilica è circondata da alte mura e da cortili limitati da grandi portoni sempre chiusi. L’unico suo accesso è infatti proprio dalla piazza omonima. L’entrata divide i visitatori in due flussi che accedono all’interno attraverso due scaloni a semicerchio che sorprendentemente sbucano sui due lati dell’altare maggiore. Già appena si entra in chiesa il rumoroso respiro della città si è già attutito e l’udito che si credeva di aver perduto all’esterno ora fa avvertire anche l’eco dei propri passi. Pochi metri, un altro mondo. Accedere nella immensa sagrestia contribuisce all’ulteriore riduzione del livello sonoro ma se si salgono le scale che portano al refettorio e poi alla celle dei preti ecco che si comincia a credere che il mondo fuori si sia del tutto fermato. Prima di entrare in pensione a San Domenico Maggiore avevo la mia stanza da universitario, al quarto piano senza ascensore, nella non lontana


da Andrea Vaccari e proprio perché speculare, era intitolato «La beffa al Maestro». C’era di che sognare a occhi aperti! Pensate: un Michelangelo da Caravaggio tutto per me, quando volevo io! (bastava che accendessi l’unica, anche se misera, lampadina della cappella di cui conoscevo l’interruttore nascosto) Ma non è certo finita! Girando le spalle a questa cappella sempre sotto la stessa navata di sinistra a circa dieci passi c’era una specie di grande edicola contenente un altro quadro di generose dimensioni rappresentante un’Annunciazione. L’autore del dipinto era Tiziano Vecellio. La bellezza della Madonna dai rossi capelli era mozzafiato e il quadro era anche più apprezzabile perché godeva, rispetto al Caravaggio, di una migliore luce spiovente dalle alte vetrate del lato destro della Basilica. Godetti appieno la irripetibile magnificenza della flagellazione merisiana quando venne in Basilica una troupe televisiva dotata di

Tiziano Vecellio. L’Annunciazione.

potenti lampade per un servizio sul Caravaggio. Potei finalmente apprezzare il ghigno bestiale degli aguzzini di Gesù e la straziante sofferenza del suo volto ma soprattutto capii la differenza tra i due dipinti; sotto la luce dei riflettori il Vaccaro veniva ridimensionato al ruolo di buon copista almeno nell’immediato confronto con il maestoso Caravaggio. Ho saputo che oggi i due quadri per motivi di sicurezza sono conservati nel rinnovato Museo di Capodimonte. Ma io, mentre da un canto sono contento di sa-

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via San Sebastiano. Questa via è famosa per essere larga non più di quattro metri e lunga circa duecento metri, senza marciapiedi e totalmente incassata tra palazzi di almeno cinque o sei piani. Questa specie di budello è a senso unico in salita dal Monastero di Santa Chiara fino a Port’Alba ed è percorsa da auto e camion spesso in fila indiana con l’acceleratore a tavoletta, giorno e notte, per via della ripida pendenza. È un fiume di anime che parlano, ridono, chiamano, urlano e che si amalgamano al frastuono meccanico. Alle ore tredici di ogni giorno si aprivano (non so se ancora oggi sia così) le porte degli istituti scolastici adiacenti (tanti!) da cui sciamavano battaglioni di studenti in perenne stato di erezione vocale, felici e perciò vocianti per la riconquistata libertà. Non c’era verso di difendersi da quel continuo rombo di sottofondo esaltato ed esasperato dal continuo tentativo di decollo delle auto e dall’urlo di Peppeniello (anche lui: uno dei tanti!) che chiamava dalla strada la mamma abitante al sesto piano. Anche le finestre chiuse non alleviavano il dolore ai timpani inferto dai decibel prodotti nella strada: all’epoca non esistevano certo i doppi vetri! (ma quante cose non c’erano ancora nel 1959? Non c’era la plastica, non c’erano i jeans né le Timberland, non c’erano i computer né Internet né i telefonini, non c’era la droga né le discoteche, non c’era lo Shuttle e l’uomo non aveva ancora disturbato la luna; e questo solo per citare qualche mancanza...). Ecco perché San Domenico rappresentava un’oasi salvifica per le orecchie e per la concentrazione necessaria a qualsiasi lettura e in particolare agli esami universitari d’ingegneria. I Padri Domenicani a Napoli avevano la conduzione apostolica di San Domenico Maggiore ed erano stati consigliati di organizzare un pensionato per studenti a causa della forte riduzione delle vocazioni che aveva vuotato molte delle loro ampie e spartane celle. Io avevo così la mia stanza, meglio la mia cella, proprio di fronte a quella che era stata occupata per tanto tempo addirittura da San Tommaso d’Aquino. La sua cella era tenuta in perfetto ordine, pulita giornalmente dai preti addetti, ed era tenuta con la porta aperta perché chi vi passasse davanti potesse segnarsi in memoria del grande dottore della Chiesa. Altre cose mirabili erano conservate allora all’interno della Basilica e la mia curiosità mi portava spesso ad ammirarle quando la chiesa chiudeva al pomeriggio e i preti facevano il loro riposino. Uscendo dalla grande sagrestia e passando davanti l’altare maggiore si entrava in una cappella, prospiciente la navata di sinistra, ove c’erano due quadri perfettamente speculari, tanto che guardando d’un botto prima a destra e poi a sinistra o viceversa si credeva di guardare in uno specchio. Il quadro di sinistra, alto quattro metri e largo almeno due, rappresentava Cristo flagellato, caduto sotto il peso della croce, dipinto da Michelangelo da Caravaggio mentre l’altro era stato dipinto

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...Ma questa è un’altra storia.

Giorgio Igne, J’accuse, 29x72 cm.

Giorgio Igne

ricordo dello scultore

pere che nessuno può attentare alla loro vita e bellezza immortali, dall’altro mi sembra che la Basilica si sia intristita come un albero cui abbiano strappato i propri meravigliosi frutti. Un altro percorso che ogni tanto mi concedevo mi portava sul ballatoio della monumentale sagrestia dove in lignei e vellutati sarcofaghi dormivano re Aragonesi. Uno di questi feretri, dalle dimensioni ridotte, conteneva un bambino regale che spesso mi riguardavo perché il coperchio del feretro era aperto, senza alcuna serratura. Spero sia chiaro che non sto facendo promozione turistica della Basilica angioina ma solo tentando di trasmettere l’emozione, la mia, di studente libero e solo, vagante tra tante meraviglie quando tutti, preti e studenti, dormivano. Non hanno mai sospettato il mio furtivo e gratuito vagare pomeridiano in quella sorta di mio personale museo. Ma il ricordo di San Domenico è anche legato ad un avvenimento che, poco più di un anno dopo il mio arrivo, mi costrinse ad una precipitosa partenza senza ritorno. Da alcune chiese campane e abruzzesi erano stati trasferiti a Napoli, a San Domenico, taluni sacerdoti in età non più giovanile. Ciò per il normale avvicendamento che era una delle regole dell’ordine dei Padri Domenicani. Io avevo conosciuto alcuni di questi sacerdoti ad Avellino all’età di dieci o undici anni quando al pomeriggio frequentavamo assieme ad altri compagni di scuola la locale sede dell’azione cattolica. Uno di essi era un sacerdote in odore di santità, nella considerazione del popolo; era stato nominato al rango di Generale dell’ordine. Molti dicevano che portasse il cilicio. Altri due erano dei formidabili predicatori che avevo sentito in chiesa più volte tuonare dai pulpiti su cui interpretavano i ruoli di Lucifero e dell’Arcangelo Gabriele in una irripetibile alternanza di argomenti contrari e favorevoli a Dio. I due si scagliavano l’un contro l’altro con veemenza e con incredibile veridicità. La contesa appassionava letteralmente non solo il sottostante uditorio di gente matura ma anche noi ragazzi che mai ci saremmo sognati tali prestazioni da individui che sapevamo pacifici e sereni. Tutti noi astanti seguivamo la battaglia con le bocche aperte e con la testa che si muoveva come il batacchio di una campana seguendo la vicenda da un pulpito all’altro. Ovviamente la tenzone oratoria si concludeva sempre con la inevitabile sconfitta di Lucifero che abbandonava il pulpito ancora una volta con vergogna. Era quindi inaspettato e sorprendente il fatto che ora rincontrassi a Napoli i due predicatori – io essendo ormai ventunenne – dopo almeno otto anni di lontananza che ne avevano sbiadito la memoria. Ero abbastanza contento di rivedere persone che avevano fatto parte anche se marginale del panorama della mia fanciullezza ma non mi sarei mai aspettato di...

«Lo scultore senza frontiere», il caro amico e artista Giorgio Igne si è spento il 7 febbraio di quest’anno, all’età di 86 anni, lasciando un grande lutto nel mondo dell’Arte, quella con la «A» maiuscola!


LO SCULTORE SENZA FRONTIERE con i suoi gentili zampilli d’acqua: la Mostra era intitolata «D’amore e di dolore»: cinque sculture di donne frutto del pensiero e dell’arte di Igne: uno stile espressionista, diretto e immediato, di un realismo tormentato per esprimere angosce, dolori e lacerazioni: sentimenti veri e profondi efficacemente espressi da queste Madri con il figlio ben stretto in grembo. Sculture vibranti, che non lasciano indifferenti e coinvolgono con la loro epica sacralità. Molte le mostre personali in Italia e in Europa: scultore notissimo ed apprezzatissimo, troviamo le sue opere collocate in spazi pubblici ed edifici civili e religiosi, anche in Provincia di Pordenone. Le sue opere, una volta viste non si dimenticano più, avvincenti e convincenti: sono il risultato fecondo del suo profondo sentire, sono il frutto del pensiero calato nella sue opere e percepiamo in esse lo spirito che vibra nella materia (il cemento armato, in pochissimi esemplari, numerati, due o tre!): sculture che non lasciano indifferenti, per la loro fattura e la «bellezza»: che parlano

alla mente e al cuore del visitatore, ed esprimono la tormentata vicenda della multiforme condizione umana: Madre e figlio, vita, dolore e struggente doloroso amore! La Donna, forza vitale, centro di umanità e di amore, ma anche oggetto di sofferenza e di dolore, e spesso anche di violenza! Una mostra, quella a Roveredo, percepita e ammirata come un grande atto di amore, ed anche un pressante invito ad una presa di coscienza di quella che è la triste realtà. Un personale ricordo, l’ultimo nostro incontro a casa sua a Cavolano, il 27 gennaio 2019: al termine della nostra visita con mia moglie ci ha donato un recente Catalogo delle sue opere, con questa affettuosa dedica in prima pagina: «Ai miei carissimi amici Tina e Sergio, vostro amico per sempre, Giorgio». Sì, caro Giorgio «per sempre»... per sempre nel nostro ricordo e nel nostro cuore! Questo il mio commosso ricordo di Giorgio, da molti decenni un grande Amico, un grande Uomo, un grande Artista.

Giorgio Igne riceve la targa a ricordo dal Sindaco di Roveredo in Piano, signora Mara Giacomini. Accanto gli amici: l’autore Sergio Gentilini (il primo a sinistra), Toni Colombera con la moglie Luisella Costa e altre amiche.

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Nato a Milano nel 1934, da tanti anni abitava nella sua abitazione-laboratorio a Cavolano di Sacile, fucina di idee e luogo di ispirazione per le sue innumerevoli opere sparse in tutto il mondo, in Europa e in America. Dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte a Venezia, e conseguito il titolo di «Maestro di scultura in pietra», si era diplomato in scultura all’Accademia di Brera a Milano, sotto la guida dei maestri Francesco Messina e Francesco Wildt. Dal 1950, oltre all’attività di scultore, aveva insegnato discipline artistiche nelle Scuole, poi negli anni ’90 aveva lasciato l’insegnamento per dedicarsi al volontariato nell’ex Jugoslavia devastata dalla guerra. Poi prima del rientro in Italia per continuare la ricerca artistica, aveva soggiornato a lungo in Argentina, Bolivia, Brasile e Ciad, realizzando opere monumentali che testimoniano il suo profondo impegno sociale. Principale oggetto della sua ricerca artistica è stato l’Uomo, con una continua e approfondita rappresentazione dei temi da lui più sentiti: il Crocifisso, la ruota della vita, la condizione umana e in particolar modo la Donna, che accoglie, soccorre, favorisce e custodisce la vita. Amico di tutti, questo ‘gigante buono’ era anche uno Scout e faceva anche parte del Masci, il Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani. Anche Roveredo ha avuto il privilegio e l’onore di ospitare nel dicembre 2018-gennaio 2019 alcune sue opere, collocate in Piazza Roma sul nuovo piazzale antistante il sagrato della Chiesa di san Bartolomeo, esposte in bella vista, accanto alla fontana che elegantemente si esibisce

di Sergio Gentilini

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Giorgio Igne

ricordo dello scultore

L’ANARCHICO VIAGGIANTE di Lorena Gava

L’indagine intorno all’uomo è il perno centrale della ricerca artistica di Giorgio Igne. Al linguaggio classico delle prime realizzazioni (inizi anni Cinquanta), legate ad un impianto naturalistico e mimetico e ai materiali tradizionali quali bronzo, marmo e gesso, l’artista sostituisce presto uno stile più immediato e diretto, meno attento all’armonia generale

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Giorgio Igne, Ruota della vita, 44x46 cm.

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della composizione e rivolto piuttosto all’esaltazione di una forma di matrice espressionista nordica. Prende corpo un realismo tormentato, marcato, pungente, talvolta esagerato nell’intento di esternare emozioni viscerali. Giorgio Igne sceglie come materiale il cemento, duro, resistente, impermeabile, dello stesso colore delle rocce nude e delle cave che circondano l’aspro paesaggio friulano dell’Alto Livenza, luogo di provenienza della famiglia Igne. Sul finire degli anni Cinquanta, si alimenta l’interesse straordinario dell’artista per alcune tematiche che rimarranno, nel corso degli anni, una cifra stilistica autentica, una potente e fulgida ossessione, strenuamente difesa

nel complesso e intricato panorama artistico della seconda metà del Novecento. Basta sfogliare qualcuno dei cataloghi editi negli anni Sessanta o Settanta in occasione di importanti mostre in Italia o all’estero, e leggere l’indice delle opere esposte, per ritrovare, in anni recenti, la rivisitazione e rielaborazione dei medesimi assunti. I titoli parlavano – e parlano, aggiungiamo noi – di «Crocifisso», «Donna», «Madre», «Madre e figlio», «Condizione umana», «Ruota della vita», «J’accuse», «Attesa», «Partecipazione». Dentro c’è tutta l’opera di Giorgio Igne, quel suo incoercibile, incessante affondo nell’esistenza umana, fatta di errori, di angosce, di dolore, di ripensamenti e di tensione continua verso un’«umanizzazione del sacro» fortemente sentita e partecipata.

Giorgio Igne, Maternità, 60x108 cm.

QUEL GESTO INCREDULO VISTO DALLO SCULTORE La chiesetta di San Tomè, a Dardago in Val de Croda, custodisce l’ultima opera – di grandi dimensioni – di Giorgio Igne. Nel giorno dell’inaugurazione, al termine della cerimonia prima di ripartire, guardando la chiesetta lo scultore ha confidato: «È una parte di me che lascio lì».

*** [...] dentro quella statua, ho voluto ricordare l’apostolo Tomè (Tommaso) per la sua ostinata incredulità sulla divina Resurrezione di Cristo. Ho voluto caratterizzarlo con occhi sbarrati per indicare lo stupore e il dubbio, non solo suo, ma di tutto l’essere umano, il dito proteso per accertarsi che le ferite della croce fossero presenti, la bocca spalancata in quel grido: «mio Signore e mio Dio», parole pronunciate dall’Apostolo quando riconosce in quell’Uomo il Cristo Risorto. La tensione delle vesti, la postura del corpo piegato in avanti, la smorfia del viso, le spalle rinchiuse e le gambe nodose esprimono un animo contrastato, una nervosa sospensione tra l’umano dubbio e la mistica rivelazione [...]. DA UN DIALOGO TRA GIORGIO E VITTORIO

Giorgio Igne, San Tomè, 120 cm (h).


Nell’occasione del 75° anniversario della morte del pittore dardaghese, presentiamo tre opere dell’artista a noi inedite, raccontando le vicende che hanno portato alla loro ‘scoperta’.

Umberto Martina quella ‘promessa’ che diventò una sfida

«Non scopriremo mai niente, se ci accontentiamo delle scoperte già fatte»: così ammonisce il filosofo Seneca. Con questa massima nel cuore – unita ad una promessa mai dichiarata – ho dato avvio alle mie ricerche. Cominciamo però dall’inizio di questa storia, datata 1985 ed ambientata nel contesto dei festeggiamenti per il 7° Centenario della Pieve di Santa Maria Maggiore. L’allora pievano don Giovanni Perin e uno sparuto manipolo di redattori de l’Artugna si accingevano ad organizzare una mostra di pittura con le opere del loro illustre compaesano Umberto Martina, artista nato a Dardago nel 1880 ed operante, per gran parte della sua vita, a Venezia. Il reperimento dei quadri attinse a diverse fonti. Innanzitutto don Giovanni qualche tempo prima, trovandosi nell’Istituto dei PP. Cavanis di Possagno (Treviso) per un corso di esercizi spirituali, notò al-

Umberto Martina, San Marco Evangelista e Santi, pala d’altare, parrocchiale di Marco (Trento).

cune opere che ricollegò immediatamente al Martina. Non solo ne ebbe conferma, ma gli fu anche indicata l’ampia raccolta, appartenente alla Congregazione e custodita in alcune loro case di Venezia e di Lucca. Proprio quel gruppo di opere di carattere religioso, «inedite» alla critica, costituirono il nucleo della mostra che ebbe come titolo Umberto Martina. Opere del ciclo Cavanis e altri inediti in mostra a Budoia. Tra i diversi incontri utili per l’allestimento dell’esposizione, ‘obbligato’ fu quello avvenuto a San Vito al Tagliamento con Virgilio Tramontin, allievo ed estimatore dell’artista. Sarà stato per la nostra giovane età o per l’entusiasmo che intravvide in quei ragazzi scesi a valle dalla Pedemontana, Tramontin non solo ci prese in simpatia, ma si prodigò non poco nell’aiutarci segnalando diverse opere e ci intrattenne con spassosi aneddoti sul suo maestro. Ed ancora ci propose una

sua prima bibliografia artistica sulle opere che fu poi integrata, dopo la mostra, dalla nostra redazione e in seguito ulteriormente perfezionata dal critico e storico dell’arte Giancarlo Pauletto. Verso la fine del colloquio colsi nello sguardo di Tramontin una sottile malinconia. «Che bello sarebbe – ci disse – se qualcuno raccogliesse il testimone e continuasse nella ricerca dei dipinti di Martina. Non sarà un’impresa facile perché, essendo stato soprattutto ritrattista, chissà su quante e quali pareti di case private sono esposti...». «...ricordo bene – concluse Tramontin rievocando un episodio – quel turista tedesco a Venezia prossimo al rientro in Germania. Il maestro riuscì a malapena a terminarne il ritratto che, ancor fresco di colore, fu portato via dal committente in gran fretta». Lo ascoltai con interesse e provai a pensare in che modo avrei

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di Vittorio Janna Tavàn

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Umberto Martina, Crocifisso, olio su tela, 204x152 cm, parrocchiale di Santa Maria Maddalena, Scurelle (Trento).

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potuto esaudire il suo desiderio. Quel desiderio che dentro di me si stava tramutando in sfida. Ma, poco avvezzo alle questioni d’arte, come avrei potuto? Nel tempo mi sono messo più volte alla ricerca, raccogliendo dati e notizie che mi sembravano utili, confrontandoli spesso con la bozza di quella prima bibliografia che il pittore sanvitese aveva stilato. Un giorno trovo uno scritto di Armando Fanzago di Portogruaro che, parlando di Umberto Martina, segnalava la presenza di un’opera a «Marco in Valgarina». Confronto l’informazione con la lista di Tramontin e trovo citato un bozzetto per la Chiesa di «Marco in Val Lagarina». Le due note mostravano una curiosa convergenza. Fanzago accennava inoltre a un’altra località: «Telve in Valsugana». Si apriva così la ‘pista’ trentina. Pian piano decisi di percorrerla. Fortunatamente in quella regione ho qualche conoscenza. Chiedo aiuto a mio nipote Claudio, che prontamente favorisce un contatto con uno studioso roveretano abi-

Umberto Martina, Madonna Assunta, olio su tela, Istituto PP. Cavanis, Possagno (Treviso). A sinistra. Umberto Martina, Maria Assunta in cielo con angeli, olio su tela, 235x122 cm, parrocchiale di Telve (Trento), 1923.


Umberto Martina, Crocifisso tra la Madonna, San Giovanni e la Maddalena, carboncino e guazzo su cartone, 190x128 cm, collezione privata, 1944.

tante a Marco: Guido Modena. «Certo… nel nostro paese c’è una bella pala d’altare del Martina che raffigura il patrono San Marco, attorniato da altri santi, mentre scrive il Vangelo. Il dipinto fu donato nel 1923 dall’Opera di Soccorso di Venezia alle chiese rovinate dalla guerra». Un primo punto fermo fu annotato nel mio taccuino. Rimaneva aperto ora l’altro fronte: quello di «Telve in Valsugana». Il supporto stavolta mi venne dal professor Vittorio Fabris, autore di diversi scritti critici, curatore di mostre d’arte e profondo conoscitore di Martina. Alle mie domande senza indugi rispose: «Sì, a Telve è presente una sua opera, l’Assunzione di Maria, dipinta ed esposta nel 1928 in sostituzione di un analogo soggetto di Pia Buffa andato perduto durante la Grande Guerra». Il Trentino ci regalava una seconda sorpresa. «E non è tutto – continuò Fabris – in Valsugana, all’interno della Chiesa Parrocchiale di Scurelle, campeggia anche il quadro di un Crocifisso del 1915 che, sebbene la firma sia deteriorata, sento di attribuire con certezza alla mano del

Martina. Gli stilemi della sua arte e il confronto con opere analoghe successive non lasciano adito a dubbi». Il critico mi inviò foto e anche uno scritto dove specificava meglio l’affermazione. Vi si leggeva: [...] e il drammatico e sulfureo Crocifisso appeso alla parete dell’abside [...]. L’attribuzione [...] è dovuta, oltre alle evidenti affinità stilistiche con l’Assunta di Telve, alla impressionante rassomiglianza del dipinto con analoghi lavori del Martina tra cui un bozzetto del 1944 in collezione privata, raffigurante un identico Crocifisso tra la Madonna, San Giovanni e la Maddalena [...]. Ben presto mi resi conto della notevole somiglianza non solo tra il Crocifisso di Scurelle del 1915 e quello a bozzetto del 1944, ma anche con il Crocifisso del capitello di Spilimbergo e con quello di una collezione privata di Pordenone. Così pure la postura delle mani della Vergine Assunta di Telve ricorda quella della Madonna Assunta di Possagno, individuata tanti anni fa dal nostro pievano don Giovanni Perin presso i PP. Cavanis. Tutte sembrano vivere del medesimo respiro pittorico.

Umberto Martina, Crocifisso, olio su tela, 35x59 cm, collezione privata.

Oggi, un ‘pezzetto’ di quella promessa forse è stata mantenuta. La strada è certamente ancora lunga, quasi impossibile da percorrere, ma il desiderio di individuare ancora opere di Umberto Martina non mi abbandona. La conoscenza di queste tre opere ‘trentine’ è un piacere che desidero condividere con i lettori de l’Artugna, unito al doveroso omaggio all’illustre pittore nel 75° della sua morte.

...non so come e da che parte incominciare... andrò a braccio, sperando che nessuno me ne voglia per eventuali involontarie dimenticanze. RINGRAZIO DI CUORE CLAUDIO FELLER il mio ‘gancio’ trentino CRISTINO GERVASI e GIULIANO VOLTOLINI per i ‘ponti’ telefonici GUIDO MODENA e VITTORIO FABRIS per il materiale fotografico inviatomi e per i loro preziosi suggerimenti FABIO MARTINA per chiarimenti e conferme

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Umberto Martina, Crocifisso, Capitello, Spilimbergo (Pn).

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NEL NOSTRO TERRITORIO

lo scultore Antonio Pigatti

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di Mario Del Maschio

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Forse non tutti sanno che a Budoia esiste un laboratorio di restauro di legni antichi, mobili e dorature, restauro e riproduzione di cornici antiche, omologato all’albo Artigianato Artistico della Camera di Commercio di Pordenone. È il laboratorio Art–Legno di Mario Del Maschio. Il titolare, dopo la maturità tecnica, si è formato con l'antico metodo dell'andare a bottega, arricchito da specializzazioni conseguite presso l'Istituto Spinelli di Firenze su diagnostica artistica, restauro del legno, antiquariato, doratura e restauro dell'opera dorata. Possiede il riconoscimento regionale dei titoli di Maestro Artigiano e di Restauratore dei beni culturali. Il laboratorio di restauro Art-legno, che vanta un'antica tradizione familiare, opera nel settore del recupero e conservazione di legni antichi quali arredo sacro, mobili, cornici e pianoforti (per la parte armonica, strutturale ed estetica); il tutto commissionato da privati, da parrocchie o Fondazioni. Per i beni notificati, ciò avviene sotto controllo delle Soprintendenze ai beni culturali. Opera sia in Italia e all’estero. Tra i restauri vanno ricordati molti arredi ecclesiastici come sacrestie, canterani, fonti battesimali, corali, cornici di pale d’altare, banchi scolpiti ecc. in Friuli e in Veneto. Al laboratorio sono stati affidati anche restauri di altro tipo come il complesso di arredi lignei intarsiati, tavoli da gioco e biliardo di Massimiliano d’Asburgo nel Castello di Miramare di Trieste

e il restauro conservativo e strutturale del mobile di pianoforti e fiortepiani storici tra cui uno appartenuto al Maestro Ruggero Leoncavallo.

D urante i numerosi anni di lavoro spesi nel restauro di beni culturali lignei notificati della nostra bella regione e del Veneto, ho assunto la consapevolezza che, ogni volta che inizio la progettazione, è indispensabile e preliminare ad ogni intervento un’approfondita attività di ricerca e che mi permetterà non solo di risolvere i problemi inerenti lo studio delle tecniche migliori atte alla conservazione, ma mi farà incontrare anche il piacere della scoperta che ognuno di questi lavori racchiude in sé. Infatti, ogni opera d’arte che ha superato le traversie dei secoli ha raccolto elementi, fatti, storie che spesso si possono rileggere e ricostruire scoprendo così collegamenti inaspettati. Tra i vari restauri realizzati negli ultimi anni, vi è la corale della parrocchiale di Visnà di Vazzola: la chiesa di San Martino, in piazza Dante, ricostruita per la quarta volta nella sua lunga storia nel 1921, dopo le distruzioni della prima guerra mondiale. Vi si trova l'altare di Sant'Anna, in legno dorato, di fine Seicento,

Statua di Sant’Andrea a Visnà di Vazzola.

sormontato dalla pala della Madonna del Rosario, realizzata dal pittore veneziano Antonio Arrigoni. Ma l’opera più preziosa e conosciuta della parrocchiale è il coro ligneo con le sue dodici formelle raffiguranti i fatti più celebri della vita di san Martino, tratti soprattutto dalla Legenda Aurea.

Statua di Sant’Andrea dell’altare maggiore della Chiesa di Dardago.


Questo capolavoro è opera dell’intagliatore Antonio Pigatti di Colle Umberto che fu aiutato da suo figlio Giovanni e da Giacomo Rossetti, falegnami. Il periodo di realizzazione di quest’opera è tra il 1709 ed il 1711. È strutturata in dodici sedili con dossali e formelle scolpite in bassorilievo negli schienali, divisi da paraste figurate con frutti e putti, tutti diversi, il tutto sormontato dalle statue lignee in cirmolo di Cristo benedicente e dei dodici apostoli. Tra questi sono identificabili con sicurezza solo Pietro per le chiavi e Giovanni per l’aquila. Il terzo dei sei sedili addossati alla parete di sinistra è riservato al sacerdote. Tra i sei della parete opposta il quarto non ha piano e funge da porta per la sagrestia. La famiglia nobile ed aristocratica dei Pigatti ha origini molto antiche. Il primo riscontro della casata si ha con Bernardino di Serravalle nel rogito di acquisto di terreni nel marzo del 1566 dove viene definito di origine vicentina. La storia della famiglia continua nei secoli sino al ramo coneglianese che più ci interessa, in questo caso, con il nome di Giovanni Pigatto di Conegliano che nel contratto di acquisto di una casa in Borgo Vecchio viene indicato di professione intagliatore del legno, e come fondatore della bottega dei Pigatti, famosi poiché considerati

eredi del Ghirlanduzzi. L’estensione della famiglia è tale che nel 1668 risulta esistere un’area che in Conegliano viene definita Borgo Pigatti: «In luoco detto Le case de’ Pigatti». Ma veniamo al collegamento tra Dardago e la corale di Visnà. Nel corso del restauro, ci si è posti il problema dell’attribuzione certa di tutti gli elementi della corale, che se per quanto riguarda la struttura risulta firmata con firma autografa incisa su di un dossale da Antonio Pigatti stesso, (la cui copia è ora nella disponibilità anche della Parrocchia di Dardago); non era altrettanto certa per il gruppo delle 13 statue di Santi e nostro Signore che sormontano l’opera. La finezza dell’intaglio ed il dinamismo delle figure poteva essere caratterizzante anche di altri insigni scultori, per cui è stato effettuato un percorso di analisi di gruppi analoghi, sia dei Pigatti che di autori diversi. Nel corso di questo studio ho letto su più di un testo, (vedi bibliografia), che due loro belle statue lignee policrome sono collocate nelle nicchie dell’altare di Dardago. Il confronto tra il modellato di queste ultime e di quelle della corale in restauro ha aiutato ad indentificare l’attribuzione pressoché certa al laboratorio Pigatti anche del gruppo scultoreo di Visnà. Infatti, pur nella diversità, lega-

Per chi volesse approfondire, propongo un elenco delle opere note di questi scultori ed il luogo dove visionarle Refrontolo – Parrocchiale di santa Margherita: Ciborio. Cappella Maggiore – Chiesa parrocchiale Beata Vergine del Rosario: Santa Maria Maddalena e San Tiziano (attribuzione). Zoppè – Chiesa Parrocchiale Santi Pietro e Paolo: Crocifisso ed asta intagliata. Conegliano – Chiesa di San Martino: due angeli lignei dell’altar maggiore. Conegliano – Chiesa di San Rocco: sedili e statuine del coretto. Conegliano – Chiesa di San Francesco: tabernacolo. Oderzo – Sommità del campanile: ostensorio ed angelo.

BIBLIOGRAFIA

Guida artistica del FVG – G. Bergamini – Poligrafiche Friulane – 1999. La famiglia Pigatti. Ricerca di F.G. Gobbato. Varie fonti ed Archivio di stato di Vicenza.

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Coro ligneo della Chiesa di San Martino a Visnà di Vazzola.

ta alle differenze dimensionali ed alla policromia, sono evidenti affinità posturali ed alcuni particolari significativi come la forma del manico della coppa di Santa Lucia, del tutto identico a quello di San Giovanni o come la forma delle dita con il loro movimento nervoso e «slogato». Le opere dei Pigatti sono contraddistinte da un intaglio fine e raffinato che cura con ossessione i dettagli, ad esempio evidenzia le peculiarità dell’età dei soggetti scolpiti, le particolarità dei mantelli, delle barbe e soprattutto della dinamica dei corpi che non si presentano mai rigidi ma mossi negli atteggiamenti più consoni al loro canoni. Tutti elementi ben evidenti anche nelle statue di Santa Lucia e Sant’Andrea di Dardago, che direi ora di guardare con attenzione e con uno sguardo diverso, anzi potrebbe essere interessante farne oggetto di uno studio più approfondito dal punto di vista storico artistico e materico.

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Se si sogna da soli è solo un sogno, se si sogna insieme è la realtà che comincia...

Il video «Tra acqua e crode», proiettato su maxi schermo, apre la serata.

SAPER GUARDARE OLTRE di Adelaide Bastianello

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28 dicembre 2019: tutto è pronto per la presentazione ma – scaramanticamente – si preferisce, il giorno unico ed esclusivo del nuovo anno bisestile, il 29 febbraio. Nel frattempo scoppia l’epidemia Covid. «Io resto a casa», così sintetizza il decreto governativo che blocca ogni manifestazione pubblica al fine di frenare il contagio. Solo nella settimana di Ferragosto, con l’ausilio delle autorità e nel rispetto delle norme vigenti, è possibile concretizzare l’evento.

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12 agosto 2020: presentazione del libro «Saper guardare oltre»... Piove? Non piove? Pioverà? Ce la faremo? Queste sono state le amletiche domande che ci si faceva scrutando il cielo, le nuvole, i notiziari meteo di quella giornata di agosto... le preghiere. Il giorno precedente aveva piovuto e le previsioni non erano favorevoli, però speravamo che ci risparmiasse almeno quel mercoledì 12, giorno scelto e indicato come da programma del Comune per la sua presentazione ufficiale. Infine incrociando tutte le dita, alle ore 16 la decisione definitiva: «Si fa!». La piazza di Dardago è lo scenario ideale per rendere merito a questo evento agostano e a questo bel volume che racconta tanto di Dardago, di volontariato, di riscoperta e difesa del territorio e, come scrive Moreno Baccichet nella postfazione «...racconta la

nascita di una Comunità di Progetto, l’inizio di una rinascita». Quindi alle ore 16, Euridice, Gigi, Santino, Claudio, Luciano, Giorgio e altri volontari con metro alla mano predisponevano le sedie a distanza regolamentare, secondo le disposizioni per il Covid-19 mentre Stefano controllava scrupolosamente che tutto fosse riIl presidente Euridice Del Maschio conduce e coordina i momenti della serata.


La poetessa Milena Priviero presenta il volume.

Cinzia Del Col è protagonista con il suo flauto ‘magico’ degli intermezzi musicali.

presenta il volume, analizzando la copertina, la struttura e la suddivisione delle parti. Un libro fotografico... ma non solo, perché racconta e fa rivivere la storia locale e quella dei nostri antenati e testimonia come il Comitato abbia allargato i suoi interventi e programmi: dalla Festa del Rujal all’invenzione di «Dardago fior di zafferano», dal sogno di trasformazione della vecchia strada Venezia delle Nevi, all’intervento concreto delle autorità competenti per l’attuazione della ciclopedonale Dardago-Piancavallo. Molti sono stati i sogni e molti, speriamo momentaneamente, ne restano ancora in cantiere. Tutto è documentato in «Saper guardare oltre». La presentazione è allietata e arricchita con le note musicali del flauto di Cinzia Del Col e con gli interventi di alcuni volontari che portano la loro testimonianza spie-

gando il loro personale sentire e le motivazioni per cui hanno dato inizio a questo lavoro di ripristino. La bella serata prosegue con il videomessaggio del professor Andrea Maggi, autore della prefazione, e con l’intervento di Moreno Baccichet, dottore di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica, che ha sottolineato l’importanza del progetto per la salvaguardia e rivalutazione dei luoghi che caratterizzano il paesaggio di Dardago. Euridice Del Maschio conclude ringraziando tutto il pubblico presente, i vari volontari del Comitato Ruial che si sono succeduti negli anni, la Parrocchia, il Comune e la Protezione Civile. E come si suol dire che «tutti i salmi finiscono in gloria», a ricordo dell’evento, ai partecipanti è stato distribuito un sacchettino contenente dolci frollini a base di zafferano di Dardago.

Il professor Andrea Maggi, impossibilitato a partecipare causa impegni televisivi, è ‘presente’ con un simpatico videomessaggio, con il quale sprona i volontari a proseguire.

Moreno Baccichet, instancabile studioso del paesaggio e di storia insediativa del territorio friulano, polarizza il pubblico con il suo intervento.

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spettato. Quante sedie? Cinquanta? No, azzardiamo... cento. Qualcuno scrollava la testa, sorridendo... Cento? Illusi! Tutto è pronto e all’imbrunire la gente incomincia ad arrivare. Dotata di mascherina, si dispone in fila per la «sanificazione» delle mani e la registrazione da parte dell’assessore alla sanità, dr. Paolo Cimarosti. Ora può entrare e prender posto... ben presto l’area disponibile si esaurisce e molte persone, sempre debitamente distanziate, restano in piedi oltre le transenne. La soddisfazione di vedere «tutto occupato» ripaga gli sforzi e le fatiche del lungo lavoro organizzativo. Apre la serata la proiezione su maxi schermo di «Tra acqua e crode», un video di Agostino Palazzo e Pino Gaudiano con la collaborazione di Paolo Burigana che ha emozionato e tenuto con il fiato sospeso i presenti. Davanti ai nostri occhi scorrevano dolcemente le immagini della nostra bella Pieve, con riprese della Madonna della Salute, dell’Assunta, dei nostri altari, del sagrato, del campanile, della piazza e via via su per le strade di Dardago fino a raggiungere il clou di questo progetto... il restauro del Rujal, poi il laghetto Pinal, gli Agaroi. Un lavoro importante portato a buon fine con l’aiuto di molti volontari dardaghesi e non, di amici, che pur di differenti caratteri, ideologie e nazionalità (anche una squadra di americani USAF) hanno partecipato con entusiasmo, perché hanno capito la bellezza e l’importanza di ciò che stavano facendo. Tutti insieme, tutti uniti hanno dato origine al detto «co’ un sass a paròn, se pol fa un masaron!», per i non locali... ‘se ognuno porta una pietra, presto feremo un grande cumolo’ ovvero... l’unità fa la forza. Euridice Del Maschio, presidente del Comitato Ruial, coordina gli interventi delle autorità prima di lasciare la parola alla poetessa Milena Priviero di Pordenone che

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RIFLESSIONI SU TEMI ECOLOGICI

facile come bere un bicchiere di latte? scopriamolo insieme!

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di Gaia Emi Del Maschio, Nicole Fiorot, Erika Zambon

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Non succede spesso che su l’Artugna appaiano articoli firmati da giovani. Questa volta, mentre il periodico sta per entrare nel suo 50° anno di vita, abbiamo il piacere di pubblicare il lavoro di tre studentesse delle scuole superiori. Le autrici ci pongono di fronte a scelte consapevoli, spesso sottovalutate o peggio ignorate in particolare dal mondo adulto, non sempre attento alla salvaguardia dell’ambiente; ci fanno riflettere sui temi ecologici tanto sensibili alla grande maggioranza dei giovani d’oggi (i disinteressati sono meno del 15%, secondo il sondaggio condotto dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Giuseppe Toniolo). La redazione si augura di ricevere ancora tanti e tanti articoli dalle

nostre diciottenni e da tutti i nostri ragazzi. Si potrebbe dare avvio ad un ciclo di argomenti per la salvaguardia del pianeta e per la costruzione di un nuovo modello sociale e di sviluppo, più sostenibile e con meno squilibri, bisognoso del protagonismo positivo delle nuove generazioni. Dobbiamo ringraziare Silvano Scarpat, il diacono che segue la gioventù delle tre parrocchie nel cammino verso il sacramento della Cresima, per aver condiviso questa iniziativa, confidando in un proseguimento nei prossimi numeri. L’Artugna ha – e avrà sempre di più – la necessità di contare sulla collaborazione continua e propositiva dei ragazzi e delle ragazze, il futuro dei nostri tre paesi.

N ella nostra cultura, prevalentemente di tradizione agro-pastorale, il latte rappresenta un importante componente alimentare: se non siamo soliti berlo per colazione, lo troviamo in molti degli alimenti che mangiamo quotidianamente. Ma vi siete mai chiesti quale sia il percorso che il latte effettua? Pochi sono a conoscenza di come avvenga il procedimento di imbottigliamento e di cosa ci sia dietro alla semplice azione di bere un bicchiere di latte. Il suo percorso parte dalle vacche. La loro giornata è molto semplice: nessuno ha sicuramente visto una vacca leggere un libro o organizzare una partita di calcio


Mucche al pascolo nella malga Cercenedo in Croseta (Caneva). Tipici recipienti utilizzati, fino al secolo scorso, dai contadini-allevatori per portare il latte in latteria. La mungitura e la consegna in latteria avveniva due volte al giorno, il mattino presto e la sera.

condizioni poco salutari delle stalle (dove contraggono malattie) e del fatto che non escano quasi mai. Tutto questo le porta a vivere circa 6-7 anni: un’età incredibilmente bassa rispetto a quella che raggiungerebbero negli allevamenti estensivi (che si aggira intorno ai 20 anni). La mucca da latte più allevata in Italia è la Frisona, poiché produce più latte delle altre ma vive di meno. Due volte al giorno, tutti i giorni (compresi quelli festivi), gli allevatori si assicurano che le vacche vengano munte. Al giorno d’oggi questo processo è interamente meccanico nella maggior parte delle fattorie in Italia. Dopo la mungitura il latte viene trasportato con dei mezzi specifici – i quali presentano caratteristiche complesse per preservarne le qualità e la temperatura – negli stabilimenti, dove verranno sottoposti a uno dei due trattamenti termici che ne garantiscono la sicurezza: la pastorizzazione o la sterilizzazione. Nel primo processo vengono raggiunte temperature minori di 100 °C, che servono a ridurre la flora microbica senza agire in profondità sui microrganismi. Nella sterilizzazione invece le temperature raggiunte sono molto superiori, quindi, se da un lato l’estremo riscaldamento del latte rende il prodotto sicuro e allunga i suoi tempi di conservazione, dall’altro ne modifica le componenti chimiche e nutrizionali. In seguito si possono scegliere tre principali opzioni di contenitore: la bottiglia di plastica, quella di vetro e il cartone in tetra pack. La confezione, dopo che il latte è stato acquistato e utilizzato, dove va a finire? Se il contenitore è in tetra pack (e se fate correttamente la raccolta differenziata), può essere riciclato fino al 100%, inoltre contiene si-

curamente una bassa quantità di materiali plastici. Se acquistate latte in bottiglie di plastica, non state facendo un favore all’ambiente, né alla vostra salute. Questo materiale, infatti, inquina sia l’aria che il suolo a causa della sua produzione e del suo smaltimento; soltanto una piccola percentuale della plastica prodotta viene effettivamente riciclata. Inoltre, non solo gli animali la ingeriscono e – non digerendola – si intossicano, ma la sua decomposizione dura mille anni e, se gettata nell’oceano, forma isole di plastica, dove la fauna marina rimane intrappolata. Se invece la bottiglia è di vetro, si può riutilizzare molto di più. La sua produzione inquina, ma la si può riciclare fino al 100% (anche se effettivamente è circa il 70% del vetro a venire riciclato). Un’ottima soluzione è quella di prendere latte sfuso, preferibilmente biologico o a km 0, riutilizzando le bottiglie di vetro, che permettono un risparmio economico e un minor impatto ambientale. L’alternativa più sostenibile rispetto al latte vaccino è il latte vegetale, poiché qualora si segua una dieta equilibrata non ci priva di nessun beneficio che ci concederebbe quello di vacca. Per esempio un bicchiere di latte di mandorla usa circa la metà dell’acqua che si utilizzerebbe per produrre la stessa quantità di latte vaccino, oltre ad avere il vantaggio di rilasciare nell’aria meno gas serra. Al supermercato o nelle botteghe abbiamo una vasta scelta di tipi di latte da poter acquistare, ma nel prendere questa decisione apparentemente semplice, oltre alle nostre personali esigenze, dovremmo soffermarci a pensare all’impatto che ha avuto e che avrà quella bottiglia di latte sull’ambiente.

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insieme ad altre mucche, infatti non praticano molte attività, ma sono fondamentali per la produzione di prodotti caseari. La loro vita consiste nel nascere, essere fecondate artificialmente, partorire, produrre latte e partorire di nuovo, fin quando non muoiono a causa dei trattamenti, delle continue inseminazioni, delle

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’N TE LA VETRINA Gita scolastica d’altri tempi... Primavera 1951. Le due foto (tra loro simili) mostrano gli alunni delle cinque classi della scuola elementare di Dardago in una giornata di vacanza: una passeggiata-escursione alla chiesetta di San Tomè attorniata da una natura quasi spoglia. Altri tempi. Si osservi come sul retro dell’edificio sacro, la cengia posta sotto il «Crep» sia priva di alti arbusti così pure il sottostante declivio e la montagna che sale verso il «Saùc». Molti di quei ragazzi e ragazze oggi sono nonni e i più giovani di allora hanno superato i 75 anni. Gli scolari ritratti sono nati tra gli anni 1941 e 1945. Con fatica si è cercato di riconoscerli.

La loro individuazione a volte è riuscita, altre no. Pubblichiamo le due foto perché i personaggi, offrono in una o nell’altra maggiore o minore possibilità di riconoscimento. Per il prosieguo dell’operazione di identificazione chiediamo l’aiuto dei lettori e gentilmente gli invitiamo a comunicarcelo. Grazie sin d’ora per la collaborazione. I maestri che in quel giorno accompagnavano le scolaresche sono Armando Del Maschio Cùssol e Giacomo Zanchet. Il terzo maestro, Umberto Sanson, non appare perché autore delle foto.

Gli alunni si erano distribuiti in ordine «sparso» quindi l’elenco dei nomi individuati non può seguire una sequenza lineare. Pubblichiamo i loro nomi in ordine alfabetico. Filippo Basso, Luigino Bocùs Frith, Ferruccio Bocùs Frith, Omero Bocùs della Rossa, Paolo Bocùs Frith, Stanislao Bocùs Dolfìn-Cunìcio, Arnaldo Busetti Caporàl, Roberto Busetti Caporàl. Euridice Del Maschio Cùssol, Loretta Grassi, Franco Ianna Barnardo, Giuseppe Ianna Tavàn, Luisa Ianna Bocùs, Marisa Ianna Cianpàner, Mirella Ianna Cianpanèr, Sergio Ianna Barnardo, Vittorio Janna Tavàn. Paola Melocco, Claudio Puppin Freàl, Maria Rigo Moreàl, Pietro Rigo Moreàl, Regina Rigo Vendramìn, Renato Rigo Barisèl, Enrico Spina, Franca Vettor Cariòla, Luciana Vettor Cariòla, Maddalena Vettor Muci. Aldo Zambon Vialmìn, Battistina Zambon Colùs-Pèrtia, Bruno Zambon Momoleti, Bruno Zambon Tarabìn-Trucia, Corrado Zambon Tarabìn, Giovanni Zambon Scròc, Girolamo Zambon Tarabìn-Modola, Graziella Zambon Pinàl-Nòntholo, Graziosa Zambon Pinal-Nontholo, Luigia Zambon Marìn, Luigi Zambon Scroc, Mario Zambon Momoleti, Pietro Zambon Marin, Pietro Zambon Tarabìn, Renato Zambon Biso, Renato Zambon Tarabìn, Rizieri Zambon Marìn, Rosanna Zambon Biso, Silvana Zambon Pètol, Vincenzina Zambon Pètol e davanti a tutti il piccolo Giacomo Del Maschio Cùssol.


Quarant’anni fa... «Non diciamo a nessuno che abbiamo sessant’anni!» Queste furono le parole pronunciate da Papa Giovanni Paolo II, quarant’anni fa in occasione della visita che i coscritti della classe del 1920 del Comune di Budoia fecero al Santo Padre, loro coetaneo. Per ricordare i sessantenni di allora, che oggi sarebbero centenari, ripropongo alcuni momenti dell’incontro avvenuto nel mese di maggio del 1980. In quell’anno, un gruppo di coscritti e i loro familiari organizzarono un pellegrinaggio a Roma inclusa l’udienza al Santo Padre, vero scopo del viaggio. «In quei momenti memorabili – così mi raccontava mio padre – ci sentivamo a disagio ma nello stesso momento gioiosi di poter incontrare la persona più autorevole della cristianità», poi eletta alla Santità.

Dardago, presso il Bar Montecavallo Cariola anno 1970 o 1971, Cavalieri di Vittorio Veneto del comune di Budoia. Seduti da sinistra a destra: Angelo Del Maschio Burela, Angelo Bastianello Thisa, Pietro Cecchelin Scatirot, Giuseppe Carlot Puina, Angelo Zambon Luthol, Giuseppe Bastianello Thisa, Alfonso Busetti Caporal, Ferdinando Cecchelin Scatirot e Amerigo Soldà. In piedi da sinistra a destra: Antonio Vettor Cariola, Osvaldo Zambon Marin, ?, ?, Antonio Fort Cocol, sindaco Ferdinando Del Maschio, Celeste Busetti Caraco, Romano Zambon Vialmin, Arturo Vettor, Giuseppe Zambon Pinàl, Vincenzo Janna Tavàn, Giacinto Zambon Bonaparte e Sante Janna Tavàn.

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R.Z.

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ADHÉS VE CONTE SERIE DI RACCONTI E ANEDDOTI IN PARLATA LOCALE, ACCADUTI NEI NOSTRI PAESI

Continua la pubblicazione dei racconti in parlata budoiese

Mino Mos’cion di Fernando Del Maschio

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M ino Mos’cion (Beniamino Del

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Maschio) ’l era fiol de Bepo, chel che ’l é rivat a 104 ains (finora el pi vecio de Budhuoia). De mestier el feva el murador e ’l era ancia bravo e laorador. Al à laorat a Milan e tanti ains in Frantha. Pal rest ’l era fat a modo sio: el diseva che ’l era comunista (a la so maniera!) e soradhut ’l era reversario de dhut chel che saveva de glesia. Quan ch’el vigneva a ciatà so pare e so mare el dormeva in te ’na ciambruta, che ’l era stadha de l’agna Maria Monega (agna de Bepo e chela che ’l à fat fà a spese soe el capitel de la Madoneta). L’agna Maria la veva lassat in te la ciambra un bel Crist de lenc che ’l era ’na meravea (alt pì de un metro e de segur el veva un bel valor). Un bel dì la Taresa, cugnadha de Mino, i lo veith vignì do de la ciambra col Crist, el se met sul thoc e col manerut el lo fa a tocs e li buta in te la stua disent: «Ti n’à ciapat tant freit, come mi, in te chela ciambra, adess te scialde pulidho».

L’antica casa dei Del Maschio Mos’cion, nel Ghet.

Par san Giusepe (’na volta el 19 de mars) don Alfredo el veva scominthiat l’usantha de portà in portession la statua del Sant e dopo el feva la benedithion dei trators e de le machine. El mat de Mino l’à strassinat in platha un vecio ciaridhel mieth rot e el se à metut danant vestit da festa par ciapà la benedithion. Don Alfredo ’l à vitat de passà dongia e a la fin Mino ’l à fat un comissio sul «proletariato contadino e l’egemonia papalina» (s’el se meteva, ’l era bon da parlà ancia da sior!). ’N altra i l’à combinadha el dì de le Ceneri. Al à implenit un vecio ciadhin de thenisa e co la pala del fogher el deva par le boteghe

dimandant: «Aveo ciapat le sante benedete ceneri?». La pì part i respondeva de no e lui: «Soi ca mi aposta» e dho una miedha pala de thenisa sul ciaf. El dì de l’ulif el se à prensentat in platha co ’na ramadha de uliver alta tre metri e intor i canais de Moscjon. Robe che a don Alfredo no i vigne un colpo. Pora Sior el se à sfogat in te la predica parlant de le punithions del Signor contre i reversari, ma chel altro el se la ridheva. In chel temp mi veve 16 o 17 ains e le me idee le era chele de sempre. Sicome i Moscjons i steva dongia ciasa mea (son ancia parenth) e a mi me à sempre plasut discute de politica, spess e


volentiera mi e Mino se sciadeane col parlà. Me pense che quan che mi i diseve la gran diferentha fra noi e la Russia, lui el respondeva: «Vardha, Nino, che in Russia i à tanta

bondantha de formai, butiro e vuof che i fa ’na fortaia pì granda de chela dei mericans». Quan che Mino el se ciapava col beve, oltre che fà comissi che no i feneva pì, therte volte el rom-

peva un got, el mastiava bin i vieri e dopo li inglotiva e parava dho co miedha ombra. Chista i me l’à contadha, ma no stente a credhela parchè i n’ai vedhut un altro fa instess.

’na «fava» de novant’ains fa... di Flavio Zambon Tarabìn Modola

S arà stat la fin de i àni vinti de ’l novethento, l’era ’l dopomesdì, dopo vespre, de ’na dominia de metà novenbre e ’na diesena de dovenath sui cuindese-disdoto àni i era a bagolon pa la platha de Dardaĉ, schei in scarsela no i ’n aveva, magare pa dhì a comprasse qualche carobola la de Milanes, i veva altre che la bocia pa contasse calcossa o pa discute su i fati del paeis. Tra ’na parola e l’altra a un de chisti dovins i à vignùt in ment de contà che ’l veva savut che un dovin l’aveva fat la proposta de fidansamento a ‘na dovena, ca non ston s dise ’l nome de chisti doi parchè no ’l è bel, e sta dovena i ’veva dita de no a chel dovin. Alora scuasi duth insieme i veva proponut de fa la «fava» a chei doi dovins. In cuatro e cuatro oto i se à metut d’acordo de fala al sabo che vin, duncue dopo ’na stemana. Par chi che no saves chel che ’l è la «fava» adess ve spiegaròn de che che se tratava; l’era un schertho che ’l consisteva ’n tel fa dei muciuth de tera o strisse de ciarbòn o thenisa su la strada che deva tra le ciase de un dòvin e de ’na

dòvena che da poĉ i se veva lassàt o che un de i doi ’l aves rifiutàt chel altre. In platha, tains àni fa davanti la vasca e dopo davanti al monumento, senpre par tera, vigneva scrìt calcossa che feva ride ’n te i confronti de i doi dòvins e dut intor vigneva metut de le verdhe come che fos dei flors. Chi che feva la «fava» però no i veva da fasse cognosse ne prima ne dopo avela fata, parché senò al schertho no ’l sarave riussit benòn. Ma tornòn a i nostre dòvins de la «fava», un l’ à tacàt a dise: «Bisogna che trovòn ’na careta e la tera pa fà i muci e dopo bisogna che trovòn le verdhe», ’n altro al fa: «Mi le verdhe sae ’na ciatàle, dòn ’n tel ort de ’na me agna e i le porton via, tanto i na cussì tante che no la se inacordarà se in manciarà ’na diesena!» Un altro al dis : «Pa la tera podòn dhì a tola ’n tel ciamp de me pare ’na che ’l à pena darat, ma mancia la careta!» «La careta podòn domandaila, chela a piato, a Nible Batistela, vedareit che no ’l ne dis de no, anthi de sigur al volarà vigne ancia lui a giudàne». Aveit da savè che Nible Batistela l’era de

’na diesena de àni pi vecio de chisti dovenath, al feva de mestier al bòter, al feva bòt, brentele, mastei, insoma l’era brao ’n tel so mestier, no l’era sposàt e al steva volentiera co i fantath pi dòvins de lui. A proposito de sti dòvins se pol ancia scrive chi che i era, tanto l’è passat un grun de àni e ormai i è duth morth, alora l’era Gino de ’l Nonthol’, Nani ‘Simon’, Nani Bonaparte, Gino ‘de la Modola’, Chile ‘Marin’, ‘Gildo e Nani Cariola’, Terensio ‘Pinal’, Nani ‘Vialmin’, Camilo ‘Pinal’, Bino ‘Frith’... e qualche altro che no ricordòn al nome. Alora duth contenth i va da Nible a domandai se i prestava la careta, sto Nible cuàn che l’à sentut che i voleva fa la «fava» l’à dita suito de si e anthi l’à dita: «Vigne ancia mi a giudave e a menà la careta» Menà la careta voleva dise che cuàn che se deva de riva in dhò un al se sentava davanti de la careta, al tirava su le stanghete e co le mans ’l guidava la careta come che ’l voleva. Intant passa ’na stemana e riva al sabo, cuan che ’l è stat verso le diese de sera la compagnia dei dovins e Nible i se à ciatat la de «Batistela» e i à deciso come fa pa fa sta «fava», un poci intant i era duth a to le verdhe e chi altre pian pianin thentha fa rumor i e duth un poĉ fora de ’l paeis a to la tera. L’era ’na not co un poĉ de freit e duta la dhent l’era ormai a dormì, in giro, pa fortuna de sti dòvins, no ’l era nessun parché no ’l era niencia nessun che deva in fila, cussì dhent no i ’n era in giro.

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Storie, pacassàde, scherthi, de Dardaĉ de ’na volta...

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Dopo avè cargat e portat in paeis la careta de tera, sti dòvins i à tacat a fa i muci da la ciasa de ’l dòvin a la ciasa de la dovena, intant chei de le verdhe, davanti al

La notte è già inoltrata, le strade sono deserte, sul paese è calato il silenzio... quando: «Avon ciatàt ’na tera come la creda, a lè ’na meraveia, la taca come al vis’c!». Sì, certo, questa era la materia prima per preparare i grumi di terra che – in successione – sarebbero partiti dalla casa della «bupata», che aveva manifestato il gran «rifiuto», e da quella del «fantat» respinto per arrivare sino alla piazza. Su ogni grumo erano poste foglie di verza e sugli ultimi delle grosse verze... Sulla piazza inoltre con la stessa terra venivano scritti i nomi dei due con aggiunta la dicitura «Lui sì», «Lei no». Tra il burlesco e l’allegorico la messa in scena aveva il carattere di nascondere, o meglio affievolire, il disinganno amoroso.

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Il paese doveva sapere...

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monumento i aveva scrit co i sass e co la tera parole pa coionà sti doi e i aveva metut dut intor a sto scrito ’na diesena de bele verdhe co le foie grande come ’na thesta. Aveit da savè che la dovena la stava in via Brait e al dòvin in via San Tomè, dhò pa la via Brait i aveva ormai fat duth i muci de tera adess i era drio vigne in dhò par la via San Tomè, insoma i aveva quasi finit de fa sta «fava», e anthi i era ancia stath bravi parché no i veva fat tant rumor da sveià la dhent ’n te le ciase però… si al è ancia un però, aveit da savè che sti dovenath i se era metuth d’acordo da fa un schertho a Nible, i aveva deciso ma ve lo disaròn dopo... Come che aveane dita i veva scuasi finit de butà la tera dho pa’ la via San Tomè i era rivath là de la

coperativa i manciava ’na ventena de metri pa’ rivà in platha, cuan che un dòvin i à dita a Nible de montà su la careta e de guidala intant che chi altre i fineva de fa i muci de tera su la strada. Nible che no ’l sospetava nient

dut la «fava» e duth i se domandava chi che i ’l aveva fata, i dòvins che i ’l aveva fata i se vardava bin dal dilo e ància Nible che tra l’altre no ’l à podùt fa nient contro stì dòvins parchè senò chi là i parlava e par lui no sarave stat bel fa savè a

al se à metut a guidà la careta, l’era ancia scur, parché in chei temps luce ’n te le strade no i ’n era, cuan che i era rivath là de le ciase de Bedin duti d’acordo i à tacàt a preme de svincia la careta, che la tacàt a core come un missile, Nible no ’l saveva pi che fa, insoma ’n te un atimo al se à trovat lui e la careta ’n te la vasca de la platha, chela gran vasca che adess no ’l è pi, i dovenath i era là che i se scoconava dal ride come i math, Nible l’era dut bagnat plen de freit e co la careta ’n te la vasca. Chisto l’era ’l schertho che i dòvins i se veva metut d’acordo da fai a Nible, cussì oltre che la «fava» i aveva ancia fat al schertho a Nible. Ma al bel l’aveva anciamò da vigne parché saveo che che i à fat dopo i dòvins? I è duth duti a ciasa soa e i à lassàt Nible da missol, cussì ’l à dovut lanpigà duta la not pa podè tirà fora la careta da la vasca de la platha, e dopo ’l à dovùt tirala fin a ciasa; co la bagnada che al se aveva ciapàt ’l se aveva rincurat ància un bel rafredor, ma lui i la parat via co cuatro bei biceroth de snapa. Al dì dopo duta la dhent ’l à ve-

la dhent che ància lui ’l era un de chei che i veva fat la «fava». I dòvins i era duth contenth pa la bela riussida de la «fava» e Nible ’l era content ancia lui ància se al se era rincuràt ’na bela bagnada e ’na bela sfadiada pa tirà fora la careta da la vasca! A proposito de fave ài da ricordave che l’ultima ’l è stadha fata ’n tel 1967 o ’68 chi che i ’là fata però no i à podut fala come ’na volta co la tera e le verdhe, parchè le strade ’l era sfaltade e verdhe in chel periodo (’l era in aost) no i ’n era. Alora i fantath che i ’l à fata, intant no ve die a chi che ’l è stada fata parchè chi che ’l era in chel tenp al dovarave ricordasse, i aveva scrit su l’asfalto de le strade co dela cialthina e in platha, davanti al monumento, tante bele parole e metut qualche flor e dopo i à metut qualche grumùt de tera ’n te la stradela che deva a ciasa dela dòvena. Comunque come che ve die chista ’l è stada ’l ultima «fava» fata a Dardaĉ adess se a i dovins i domandèit se i sa chel che ’l è ’na «fava» i ve risponth che no i lo sa, canbia le generathions e, insieme a lor, canbia i usi e costumi, forsi dise forsi ’l era meio ’na volta…


L’ARTUGNA PORGE LE PIÙ SENTITE CONDOGLIANZE AI FAMIGLIARI

LASCIANO UN GRANDE VUOTO

Fortunato Rui

A papà... Caro papà, per sessant’anni ti ho avuto come genitore e sono tanti gli episodi da ricordare che mi è difficile sceglierne qualcuno in particolare. Come la volta che da bambino avevo combinato una marachella facendoti arrabbiare e ci eravamo messi a girare intorno al tavolo della cucina perché mi volevi dare uno scapaccione sul sedere, poi il tuo sorriso mi ha perdonato, o quando, fresco di patente, mi hai dato le chiavi della macchina e io te l’ho acciaccata

subito e tu hai sopportato pazientemente i miei danni. In tutti questi anni mi hai sempre insegnato l’onestà e la correttezza, il rispetto delle regole e del prossimo, la dedizione al lavoro ma soprattutto l’amore per la famiglia. Hai lavorato tanto e con sacrificio, hai viaggiato molto per lavoro e per piacere ed eri una persona di grande cultura. Hai avuto accanto a te per sessantatré anni la mamma che ti ha sempre seguito con amore e dedizione totali, ancora di più in questi anni difficili della malattia che ti ha consumato e tolto pian piano le forze ma che non ha spento la lucidità della mente e la fermezza del carattere. Purtroppo questo terribile periodo non ci ha permesso di starti accanto le ultime settimane in ospedale e pochi giorni fa, intuendo la fine, abbiamo potuto salutarti solo attraverso uno schermo e dirti che ti volevamo bene. Lasci dietro di te tre generazioni, io, Andrea e il piccolo Jonah, tre generazioni che seguiranno sempre con orgoglio il tuo esempio e i tuoi insegnamenti. Ti piaceva viaggiare, stai andando in un luogo pieno di luce e amore. Buon viaggio papà. TUO FIGLIO

Anche la grande famiglia della nostra Parrocchia si unisce al dolore della famiglia Rui per la perdita del caro Fortunato. Dopo aver girato per lavoro mezza Italia e dopo la permanenza nel milanese, Fortunato è rientrato a Budoia, sua comunità da sempre amata, mettendosi subito a disposizione in Parrocchia, come aiutante, come corista, ma soprattutto, come componente del Consiglio Parrocchiale Affari Economici per ben 18 anni. Con Te, Fortunato siamo subito entrati in simpatia e in sintonia. Tornano alla memoria i bei ricordi di un impegno diuturno e sereno, teso a tenere principalmente alto

il prestigio della nostra Parrocchia e la cura e la gestione del suo patrimonio, principale attività che compete al Consiglio. Hai speso quei talenti che il Signore ti da donato nell’ambito familiare, lavorativo e nel sociale. Ti ricordiamo come una persona serena, pacata, onesta, mite, competente, riservata e sempre disponibile. Un vero gentleman, elegante e gentile. Moderato nel sorridere e nel parlare, dalla tua bocca mai una parola fuori posto; sei sempre stato positivo e altruista, donando sempre i migliori consigli atti a definire problematiche che non mancano mai. Ottimista per natura, hai sempre cercato di stemperare il pessimismo che talvolta, per stanchezza, rischiava di sopraffarci. Ti sei donato senza riserve, nel più puro volontariato. Come ci mancano, anche nella

nostra parrocchia persone come te, disponibili e cordiali! Sei stato un caro amico e ci hai aperto la tua casa, ospitati con grande signorilità sotto il bell’albero o nella tua taverna, e ci hai resi partecipi delle occasioni liete della tua Famiglia. Grazie Fortunato di tutto e per tutto e a te Rina, a te Primo e alla tua famiglia a tutti i vostri congiunti, le sentite condoglianze e la vicinanza cristiana del nostro Consiglio ai quali si aggiunge Sella Fernanda, che anch’essa, insieme a Fortunato ha condiviso parte di questo impegno. Ciao Fortunato. La terra ti sia lieve; riposa in pace. MARIO POVOLEDO

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...ti sei donato senza riserve

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L’ARTUGNA PORGE LE PIÙ SENTITE CONDOGLIANZE AI FAMIGLIARI

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Anna Luisa Bravin La mia mamma è in pace Sapevo che sarebbe arrivato questo momento, evento naturale quando si raggiunge una certa età e ancor più quando si lotta contro una malattia, evento per il quale non si è mai pronti abbastanza. La vostra partecipazione al funerale di mamma Luisa penso sia segno di riconoscenza per il dono di una persona semplice, libera, forte, coraggiosa e sincera. Ognuno di noi ricorda episodi, parole, esperienze, battute, risate... Oggi affidiamo al Signore la sua vita. Mamma, ti affidavi al Signore non per paura del Suo giudizio ma riconoscendo che la vita è un dono e che le difficoltà non sono un castigo ma uno dei modi attraverso cui Dio entra nei nostri cuori. Hai sempre detto si alla tua missione, sorretta dalla croce di Cristo, superando ogni prova senza far pesare al prossimo la tua sofferenza ma vivendo la parola del Signore che ti è stata affidata: «lasciate che i bambini vengano a me». Tu hai sempre accolto tutti coloro che ti chiedevano presenza di madre. La tua lunga vita non è stata facile ma hai sempre saputo risolvere le situazioni con dignità. Hai iniziato a lavorare presto in famiglia come era consuetudine ai tuoi tempi e poi fuori casa fino a spingerti in Russia dove l’esperienza vissuta ha allargato molto i tuoi orizzonti. Sei sempre stata orgogliosa del tuo lavoro e ci tenevi a dare il meglio facendoti apprezzare per onestà e laboriosità.

Il matrimonio: anni non facili trascorsi tra numerose fatiche e preoccupazioni che hai sempre affrontato e superato con compostezza, anni nei quali hai speso le tue energie migliori. Sei stata una donna accogliente verso le molte persone che hanno frequentato la tua casa che è stata spesso come un albergo per amici e parenti: era il tuo modo per dimostrare affetto. Finché hai potuto ti sei messa all’opera e quando qualcuno entrava a farti visita difficilmente lasciavi uscisse senza un caffè, un biscotto o un bicchiere di qualcosa. Sei sempre stata discretamente presente nella mia vita con quel sorriso e quell’ironia che fanno superare ogni difficoltà senza lasciare spazio alla disperazione: questo credo sia un grande dono che il Signore mi ha fatto attraverso te. Certamente non mi hai risparmiato rimproveri e critiche costruttive. In questi ultimi anni ho avuto la possibilità di accompagnarti nella malattia che hai affrontato con serenità interiore esprimendo fiducia verso i medici e gratitudine per il personale tutto del CRO di Aviano che per anni ti ha accolta e curata con professionalità, gentilezza, sensibilità e umanità facendoti sentire anche un po’ a casa regalandoti sorrisi e parole di conforto. Hai cercato di non essere mai di peso a me e alle persone che ti circondavano con la loro presenza e il loro affetto. In questi ultimi tempi eri bisognosa di tutto: mi rasserena sapere che ti siamo stati vicino curandoti con premura e pazienza. Vivo, viviamo questo inevitabile momento come un distacco doloroso ma ringrazio il Signore per quanto ci ha donato attraverso te. La malattia non ha mai tolto la luce dei tuoi occhi: che i tuoi luminosi occhi azzurri e il tuo sorriso continuino ad accompagnarci. Voglio custodirti come esempio, come dono prezioso. Ciao Principessa! LA TUA LIDIA


...addio a Luisa

Il saluto affettuoso degli Scout di Aviano a Luisa intimando ai dottori di posticipare le visite per permetterle di fare «il suo dovere» di cambusiera per i suoi lupetti. Luisa, se ne è andata nel giorno della Festa dei Nonni: davvero sarai per sempre la nostra Nonna Lupa. Ora ti immaginiamo ai fornelli della Cambusa del Paradiso e preghiamo perché tu possa vivere nella gioia e nella pace. Ti auguriamo un ultimo Buona Caccia, Nonna Lupa!

LEONTINA BUSETTI

Domenica (Meneghina) Dorigo Ciao nonna, sono tante le cose che ci lasci in eredità, ma la più importante, che non dimenticheremo mai, è il tuo AMORE incondizionato. Tu che sei rimasta orfana a soli 3 anni e che non hai mai conosciuto l’amore materno, hai poi voluto che tale mancanza diventasse il cuore della tua vita. Con la semplicità e il calore del tuo sorriso lo hai donato, senza riserve, a tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di condividere

con te il cammino terreno. Ora ci piace immaginarti, riunita ai tuoi affetti più cari, in un immenso giardino fiorito pieno di urla gioiose di bambini. Fisicamente non sei più con noi, ma un pezzetto di te continuerà ad accompagnarci perché il tuo amore resterà per sempre. Grazie di tutto: nonna, mamma, zia, amica! Un bacio. CHIARA E MAURO CON LE PRONIPOTI ANNA E GIORGIA, SIRIA E GIULIA

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Molti sanno che Luisa era particolarmente abile in cucina. Ha condiviso questo suo talento con molte persone, gestendo con grande autorevolezza la cucina in occasione di molti campi scuola. Rimarrà sempre nel cuore di tanti lupetti e Vecchi Lupi del Gruppo Scout di Aviano per essere stata a capo della Cambusa di quasi 30 Vacanze di Branco, tanto da meritare a tutti gli effetti il nome di caccia di «Nonna Lupa». Luisa si è distinta non solo per la sua autonomia e per la sua abilità culinaria nell’accontentare i gusti dei lupetti più difficili, ma anche per aver saputo fare crescere, con discrezione, tanti ragazzi e ragazze che le hanno dato una mano, con i suoi consigli sempre molto concreti e mai banali. Al campo del Trentennale a Piancavallo nel 2013 ha fatto di tutto per essere presente nonostante il male avesse già cominciato a lavorare dentro di lei,

Il giorno 2 ottobre Anna Luisa Bravin ci ha lasciati all’età di 85 anni. Una lunga vita spesa al servizio della propria famiglia e delle persone che ha incontrato nel suo cammino. La sensibilità e generosità di Lidia sono pari solo alla sua discrezione. Ha letto in chiesa una bellissima lettera, intima e personale, ed era perciò restìa a concederla perché fosse pubblicata su un periodico. Ci siamo permessi di insistere pensando che un messaggio così profondamente religioso, senza essere retorico, parlare della sua mamma senza esternazioni personali, meritasse di essere conosciuto.

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Rita Zambon

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Mamma, cercare di trovare le parole per dirti quanto ti amo e quanto mi manchi qua è qualcosa che non riesco a fare. Sei andata via in una giornata di tempesta e io sono convinta che quel giorno anche il cielo e la natura stessero piangendo e lanciando sassi. Mi hai amata di un amore così puro, profondo e assoluto che il dolore che è rimasto non poteva che essere di una forza straordinaria. Ma non avrei mai voluto che ci fossimo amate nemmeno un pochino di meno durante la nostra vita insieme per sentire meno la sofferenza adesso. Forse abbiamo avuto poco tempo perché abbiamo consumato tutto quello che dovevamo vivere in un’intera esistenza... In questi giorni una persona mi ha detto che nell’amore non ci sono solo le parole, ma ci sono i gesti e le piccole cose di ogni giorno. E tu sei stata capace di darmi tutto questo, ogni minuto della mia vita: non dubitarne mai. Hai riempito ogni attimo di così tanto amore, comprensione, dolcezza, abbracci e carezze che la tua presenza io la porto addosso. Siamo state fortunate perché abbiamo passato tanto tempo a dircelo sempre. Adesso io e il papà dovremo trovare un nuovo modo per camminare insieme; probabilmente saremo senza scarpe e ci sanguineranno i piedi. Ma voglio che tu sappia

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che tu sarai il balsamo che farà cicatrizzare le nostre ferite, perché sei sempre stata questo per noi: sei la persona che si è sempre presa cura della sua famiglia e troveremo in te e con te la forza per rimarginare. Mamma, ti voglio ringraziare per l’esistenza piena di amore e presenza che mi hai donato, è il mio tesoro più prezioso, un calore che sento dentro. Lo sai che secondo Platone sarebbero i bambini a scegliere i propri genitori? Ecco, io ho sempre amato Platone e sono sicura di aver scelto te e il papà. E ho scelto davvero bene... Mamma, ti amo con tutto il mio cuore e non ti preoccupare troppo perché io e te parleremo sempre e continueremo a fare a gara chiedendoci chi delle due vuole più bene all’altra. Hai sempre voluto vincere tu e per questa volta te la lascio passare. Sai bene che io e il papà «no ciatòn mai gnancia un sas ’n tel’ Artugna», ce lo dici sempre, ma io ti prometto che stavolta troveremo la strada. Ciao mamma, sei sempre qui: il mio cuore lo hai costruito tu insieme al papà e lui batte per te, per voi. SELENA

Claudio Zambon Sei andato via ma in realtà non ti abbiamo perduto. Ora sei vicino al Signore e splendi nella luce di Dio. Dopo 56 anni di matrimonio è volato in Cielo dopo tante sofferenze sopportate con tanta fede e offerte in dono affinché tutte le coppie raggiungano il nostro traguardo di vita comune. Abbiamo condiviso tutto, ci siamo scambiati tutte le sere il bacetto della buona notte ringraziando Dio per la giornata trascorsa, chiedendoci scusa e perdono per l’impazienza involontaria, soprattutto nell’ultimo anno di vita, scambiandoci tanti baci che neanche da fidanzati ce ne siamo dati. Ringrazio tutti i presenti per la partecipazione e tutte le persone che lo hanno assistito con tanto amore. LA MOGLIE IDA Trieste – Dardago


Caro Sandro, la tua scomparsa, il 23 settembre 2020, ha lasciato in noi tutti un grande vuoto e tanta tristezza nei nostri cuori.

I TUOI CARI Inghilterra – Budoia

IL LORO RICORDO NON SFUMA

Andrea Lacchin Padre Santino Bisignano Il 19 novembre scorso è mancato a Roma padre Santino Bisignano. Era nato a Budoia il 19 agosto 1932. Proprio l’anno scorso il numero natalizio de l’Artugna gli aveva dedicato un’intervista, la cui lettura può ricordare il suo grande impegno nel ministero sacerdotale. Ci piace ricordarlo attraverso alcune sue significative parole: in questi mesi – dice padre Santino – ho pregato tanto per le persone colpite dal coronavirus e ora il Signore mi fa il dono di poter essere vicino in modo speciale alla loro esperienza di dolore. Offro tutto per la Chiesa, la Congregazione e la comunità di Marino». Nelle ultime righe del testamento spirituale che padre Santino ha lasciato ha scritto: «...La Vergine

Maria mi ha sempre accompagnato nella mia vita fin dagli inizi. A lei mi sono affidato pregandola di prepararmi all’incontro, ‘vestito a festa’ come faceva mia mamma nel prepararmi la domenica per la Messa, a celebrare l’Eucarestia».

L’Associazione Budoia Solidale, ricorda il collega Andrea Lacchin ad un anno dalla sua scomparsa avvenuta il 14 dicembre 2019. Andrea è stato uno dei primi volontari, era già presente nel 2008 prima della fondazione dell’Associazione. Era un volontario part-time, presente da aprile a settembre in quanto trascorreva l’inverno a Roma, dove aveva passato la sua vita lavorativa. Dopo Pasqua ritornava a Santa Lucia e riprendeva il servizio di trasporto delle persone non auto sufficienti. Gli ultimi anni della sua vita li ha passati male; nel 2014 è stato costretto a ricoverarsi presso la Casa di Riposo di Sequals e poi in quella di Aviano. Lo ricorderemo sempre con grande simpatia per la sua innata cordialità, generosità e intelligenza. EZIO BURELLI Presidente Onorario di Budoia Solidale

L’ARTUGNA PORGE LE PIÙ SENTITE CONDOGLIANZE AI FAMIGLIARI

LASCIANO UN GRANDE VUOTO

Sandro Signora

Te ne sei andato in punta di piedi, dopo una vita di famiglia, di lavoro e di sacrificio, che da giovane ti ha fatto conoscere l’emigrazione. Padova, Venezia, Germania, Francia ed Inghilterra dove hai fondato la tua famiglia. Sempre disponibile e sorridente, eri aperto con tutti. Non ti sono mai mancati l’ottimismo e la serenità. Con semplicità e umiltà ci hai lasciato tanti insegnamenti, senza mai chiedere nulla. Questa fotografia fu scattata nel 2018 in Piancavallo, al tuo ritorno a Budoia in occasione della festa dei coscritti. Ci manchi, Sandro, ci manchi proprio tanto!


LA CRONACA DELLA COMUNITÀ DI DARDAGO / BUDOIA / SANTA LUCIA

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Prima Comunione 2020

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L’attuale periodo di emergenza sanitaria ci ha ormai abituato alle più disparate notizie negative. Tuttavia, c’è sempre qualcosa che porta serenità e buon umore: è questo il caso delle Prime Comunioni, che si sono svolte a Budoia e a Dardago, rispettivamente il 4 e l’11 ottobre 2020. La tanto attesa celebrazione era stata programmata per il giorno 24 maggio 2020, nella chiesa di Budoia ma a causa della quarantena è stato necessario e opportuno rinviare la data prestabilita. In un primo momento si era pensato di celebrare la Prima Comunione in un unico rito a Budoia, ma al fine di non creare assembramenti, il Consiglio Pastorale ha optato per la divisione dei 14 bambini in due gruppi, a seconda della loro provenienza. Le celebrazioni si sono svolte in un clima di gioiosa condivisione e serenità, nonostante le varie misure di contenimento. I riti di Budoia e Dardago sono stati per così dire «gemelli», e la loro ottima riuscita è stata garantita dall’attiva collaborazione dei Catechisti, dei genitori, del coro, di Don Vito e del Consiglio Pastorale. Il contributo più grande però lo hanno dato i bambini: Enrico Andreazza, Monica Biasutti, Elisa Carlon, Emma Cecchini, Riccardo Cecchini, Lorenzo Cigana, Laura Corrozzatto, Eva Ermacora, Giulia Ermacora, Guglielmo Fabris, Luca Piccoli, Manuel Pivetta, Franco Scarpat, Micaella De Faria e Alessandro Zambon. Dopo un percorso durato tre anni, sotto la guida del loro catechista Pietro e della sua aiutante Sonsia-

de, sono arrivati il giorno della loro Prima Comunione con grande emozione e consapevolezza. Nei loro occhi si leggeva la gioia pura dell’attesa e l’indescrivibile contentezza di portare a termine un percorso di condivisione e felicità. I tre anni passati a leggere, studiare e condividere la storia dei Vangeli ha reso quest’esperienza un vero insegnamento di vita, rendendo questi bambini più consapevoli di ciò che li circonda e soprattutto più aperti verso un mondo di continui cambiamenti. Essi infatti, hanno fatto proprie le parole di Gesù: «Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi». Amarsi veramente però, e non per modo di dire, sacrificarsi per gli altri anche quando non veniamo trattati come vorremmo, metterci al servizio di chi ne ha più bisogno, senza giudicare. Ciascuno di loro ha fatto un percorso di autoriflessione personale, giungendo alla conclusione che ognuno di noi può essere in grado di cambiare il mondo che ci circonda, con piccole ma incisive azioni altruistiche e caritatevoli. Al termine della cerimonia, i genitori hanno voluto ringraziare Pietro e Sonsiade, don Vito, Elena ed il coro e tutti coloro che hanno pensato alla pulizia e all’addobbo delle nostre bellissime chiese, contribuendo alla riuscita di queste splendide giornate. Questo traguardo è solo l’inizio del loro percorso di cristiani cattolici, e la strada per crescere e migliorare se stessi è ancora lunga. Il loro esempio può, tuttavia, dare la forza a tutti noi di credere più fer-

mamente e di amare il prossimo incondizionatamente, con la genuinità di un bambino. «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». (Marco 10, 13-16) PIETRO BOCUS

Un dono inatteso

«Ho voluto creare questo mantello per la Madonna della Salute perché ci aiuti ad uscire da questa pandemia... sono riuscita a finirlo in tempo... un ringraziamento a Gianni che con grande pazienza è riuscito a posarlo sulla statua...» così ci ha confidato Maria Grazia.


Nella Pieve di Dardago è arrivato, inatteso, un magnifico dono. La nostra bravissima Maria Grazia Zambon Beri, donna dalle mani d’oro e ricca di fantasia, i cui manufatti spesso abbiamo ammirato

sia sulle bancarelle che nelle sfilate per le strade del paese, ha confezionato e ricamato con maestria per la Madonna della Salute un regale e lungo mantello azzurro. Il mantello, posato sulla statua, ha

fatto bella mostra di sé durante la festa a Lei dedicata il 21 novembre impreziosendo ancor di più la nostra bella Pieve. Tutti noi ti ringraziamo Maria Grazia per il gradito pensiero.

Il nostro affezionato lettore, Aristide Puppin – che da molti anni vive in Alta Savoia (Francia) – da tempo desiderava condividere con i lettori del periodico la gioia per la nascita del nipote Calvin Puppin (21 luglio 2018), figlio di Nicolas e di Cindy Delemontez. Nel frattempo la famiglia è aumentata e il piccolo Calvin ci comunica l’arrivo della sorellina Liya, nata il 6 aprile 2020. Anche la nuova famiglia abita in Alta Savoia, a pochi chilometri dai nonni. Ad Aristide e a tutti i suoi cari vadano gli auguri della redazione e dei lettori.

AUGURI DALLA REDAZIONE! Marco Andreazza e Federica Fabris con gioia comunicano che il 6 agosto è nata la loro figlia Zelda.

Congratulazioni a Chiara Maccioccu! Il 29 settembre 2020 si è laureata in Scienze Motorie presso l’Università degli studi di Padova.

Gianna Signora nel giorno del suo compleanno, attorniata dai suoi cari. Il tuo sorriso e la tua vitalità sono la prova che davvero la tua giovinezza non è un fatto anagrafico ma dipende dal cuore e da come si affronta la vita. Buon 90mo compleanno, mamma, nonna, bisnonna, zia! MARIO E DIANA CON NIPOTE E PRONIPOTI

Sabato 12 settembre 2020 Lorenzo Bigai e Rosalia Bocus hanno festeggiato i loro 50 anni di matrimonio presso il Santuario di Castelmonte con parenti e amici.

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L’ INNO ALLA VITA

AIDE BASTIANELLO

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I NE À SCRIT... VIA DELLA CHIESA, 1 / 33070 DARDAGO [PN]

Lignano Sabbiadoro, 16 settembre 2020

Mi mancava! Grazie a tutti i collaboratori. CLELIA ZAMBON

Speriamo di non essere più costretti da eventi eccezionali a sospendere la pubblicazione del nostro periodico!

Susegana, 30 settembre 2020

«Che bel, xe tornada l’Artugna!». Queste le mie parole contente, aprendo la cassetta della posta. Grazie! Voglio dirvi che: – la foto con le mascherine al tempo della «Spagnola» è straordinaria e attualissima; – mi è piaciuto scoprire che c’è un simpatico maestro che porta il nome di mio padre, Pietro Bocus; – siete stati bravi a ricominciare con ancora più passione! Grazie 1000 e alla prossima! SILVANA BOCUS PISU

Grazie, Silvana: la forza per ricominciare e continuare ce la danno i fedeli lettori come Lei.

Monza, 10 novembre 2020

DICEMBRE 2020 / 151

Congratulazioni a tutta la redazione per l’impegno costante nella realizzazione di un’importante iniziativa di informazione per l’intera comunità.

46

@

DIREZIONE.ARTUGNA@GMAIL.COM

Certo le difficoltà sono molte e si sente la necessità che forze giovani credano nel progetto e si impegnino con l’attuale redazione per raggiungere altri traguardi.

dico, di dare il nome a un gruppo di bambini della scuola materna. Silvana ha scritto; «I bambini sono Luca del Maschio, Raffaella del Maschio, Claudia Zambon, Claudio Zambon, Fabio Zambon di Quinto, Alessandro Da Ros, Martina Zanussi e quello girato non so se è Simone Zambon. Con loro la maestra Roberta, in alto a sinistra, che mi ha detto i nomi».

Dalla «rete» i nomi dei bambini della foto pubblicata nel numero 149-150 de l’Artugna a pagina 35 (rubrica ’n te la vetrina).

Ilenia Zambon ha aggiunto che «il bambino di spalle è Mirko Fort di Budoia e sicuramente è un mix di diverse classi perché mio fratello (Fabio di Quinto), ad esempio, ha un anno in meno di Claudio».

Sul Gruppo di Facebook «Sei di Dardago Se», Silvana Cecchelin ha risposto alla nostra richiesta, sul precedente numero del perio-

ACCOMPAGNANO LE OFFERTE Budoia, 31 luglio 2020

La mia offerta per l’Artugna, in occasione del mio 90° compleanno. GIANNA SIGNORA

Gianna, Grazie! Moltissimi auguri di buon compleanno da parte nostra e dei nostri lettori!

❦ Castelnuovo del Garda, 23 agosto 2020

Per l’Artugna che leggiamo sempre con molto piacere. Complimenti! ROSELLA DEDOR FONTANA ED EMANUELA

Grazie a voi che ci seguite da sempre.

IL BILANCIO NUMERO 149-150 Situazione economica del periodico l’Artugna entrate Costo per la realizzazione

uscite 3.705,00

NADIA MARAVIGNA

Preconfezionamento e spedizioni Le sue parole sono uno sprone per proseguire il cammino verso il traguardo dei 50 anni di pubblicazione.

350,00

Entrate dal 15.07.2020 al 22.11.2020

3.825,00

Totale

3.825,00

4.055,00


PROGRAMMA RELIGIOSO

go da r Da

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GIOVEDÌ 24 DICEMBRE 2020

• Santa Messa in nocte

20.00

20.00

19.00

11.00

11.00

10.00

18.00

11.00

10.00

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17.00

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11.00

10.00

VENERDÌ 25 DICEMBRE 2020

SANTO NATALE • Santa Messa solenne SABATO 26 DICEMBRE 2020

SANTO STEFANO • Santa Messa GIOVEDÌ 31 DICEMBRE 2020

• Santa Messa e canto del Te Deum VENERDÌ 1° GENNAIO 2021

SANTA MADRE DI DIO GIORNATA MONDIALE DELLA PACE • Santa Messa solenne e canto del Veni Creator MARTEDÌ 5 GENNAIO 2021

VIGILIA DELL’EPIFANIA • Benedizione acqua, sale e frutta MERCOLEDÌ 6 GENNAIO 2021

EPIFANIA DEL SIGNORE • Santa Messa solenne

CONFESSIONI giovedì 24 dicembre

19.00-20.00

16.00-17.00 18.00-19.00

Auguri

foto di Paolo Burigana

BUON NATALE E FELICE 2021


Umberto Martina (Dardago 1880-Tauriano di Spilimbergo 1945). San Marco Evangelista e Santi, particolare. Chiesa parrocchiale di Marco (Trento). ❖ San Marco Evangelista mentre scrive il Secondo Vangelo, 1923. Olio su tela, cm 257x175. Nelle composizioni di Martina c’è sempre vivezza e movimento ed è proprio questo che colpisce maggiormente anche quando si tratta di pale d’altare con schemi compositivi obbligati. Sul dipinto in basso a sinistra si legge: «Dono dell’Opera di Soccorso per le chiese rovinate dalla guerra. Venezia 1923». In basso a destra: «Martina 1923». ❖ foto di Guido Modena


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