ANTONIO CAMPI A TORRE PALLAVICINA

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ANTONIO CAMPI A TORRE PALLAVICINA

Questa pubblicazione è stata realizzata in occasione della mostra

Antonio Campi a Torre Pallavicina

L’Oratorio di Santa Lucia

Torino, Musei Reali

7 dicembre 2023 – 10 marzo 2024

in collaborazione con:

A cura di Eleonora Scianna con l’assistenza di Alysson Bustamante

Progetto grafico e impaginazione Marco Delmiglio

Stampa Service Lito, Persico Dosimo (Cremona)

© 2023 Galleria Canesso / Musei Reali di Torino

ISBN 979-12-81461-05-5

Printed in Italy

ANTONIO CAMPI A TORRE PALLAVICINA

L’Oratorio di Santa Lucia

a cura di Eleonora Scianna

Con grande piacere i Musei Reali ospitano, nella sala al primo piano della Galleria Sabauda dedicata al manierismo internazionale, la seconda tappa della mostra dossier “Antonio Campi a Torre Pallavicina”, già esposta presso il Museo Diocesano di Cremona. Si tratta di un’importante iniziativa che mette luce sull’attività del pittore cremonese per l’Oratorio di Santa Lucia a Torre Pallavicina, presentando quello che rimane di una grande ancona a tema cristologico della quale facevano parte i due pannelli di Antonio Campi con l’Andata al Calvario e la Resurrezione, appartenenti alle collezioni della Pinacoteca di Torino, accostati per la prima volta alle due tavole con l’Orazione nell’orto e Cristo davanti a Caifa riemerse dopo cinquant’anni presso la Galleria Canesso, che ne ha gentilmente concesso il prestito anche per la sede torinese.

Acquisite dallo Stato nel 1957, evitandone l’esportazione, e assegnate alle collezioni della Galleria Sabauda con un’attribuzione a pittore fiammingo intorno alla metà del Cinquecento, le due opere sono state riconosciute da Marco Tanzi come significative testimonianze della pittura preziosa, elegante e splendente dell’artista cremonese, nelle quali sono ben visibili i debiti verso la maniera del Nord e le invenzioni düreriane. La provenienza ora sicura dalla cappella Pallavicino dà conto anche dello stato conservativo in cui un tempo dovevano trovarsi le opere, trattandosi di due di quelle tre tavole che nel 1802 l’abate Ramon Ximenes ricordava tolte dall’oratorio a causa dell’umidità del luogo e dell’incuria in cui era tenuto. Interventi mirati sui supporti lignei hanno permesso in questi anni, e ancora in occasione della mostra, di mettere in sicurezza le opere e di restituire la loro sfavillante cromia e l’originaria stabilità.

Dall’accostamento dei quattro pannelli colpisce senza dubbio la poliedricità di Antonio Campi e la sua capacità di muoversi con disinvoltura tra una pittura accesa, raffinata e luminosissima di ascendenza manierista ed effetti chiaroscurali notturni di grande modernità, preludio di esiti caravaggeschi, che caratterizzano anche un’altra tavola coeva anch’essa conservata in Galleria Sabauda raffigurante San Gerolamo penitente e allestita nella stessa sala.

Chissà che, grazie a questa mostra itinerante, non possano riemergere nuovi pezzi di quella straordinaria ancona con 15 o 25 episodi della Passione di Cristo, ora difficile da immaginare, ma che un tempo doveva incantare i fedeli.

Annamaria Bava

Direttrice Galleria Sabauda

Faccio questo mestiere da quarant’anni con immutata passione. La scoperta di opere rare, la loro valorizzazione e promozione rendono la vita di un mercante d’arte stimolante e di certo mai ripetitiva, anzi, a volte quasi avventurosa. Uno dei momenti più emozionanti del mio lavoro è quello che precede la prima visione di un’opera, quando l’attesa è densa di speranza.

Quando vidi le due tavole di Antonio Campi presentate in questo catalogo per la prima volta, oltre al sollievo di trovarle in un ottimo stato di conservazione, mi colpì la loro potenza espressiva. Questi dipinti testimoniano la fase più sperimentale e innovativa della maturità di Antonio Campi: pur nel buio della notte i colori acidi e brillanti così tipicamente cremonesi danno ai dipinti una grande modernità.  È sempre per me una grande soddisfazione quando l’attività della Galleria Canesso – in questo caso la sede milanese che ho inaugurato due anni fa proprio esponendo questi due bellissimi notturni – innesca o contribuisce a nuove ricerche scientifiche. Marco Tanzi, con l’aiuto di Monica Visioli, ci ha fatto scoprire che fecero parte di un ampio ciclo e che altre due sono conservate fin dagli anni Cinquanta nei Musei Reali di Torino.

Cosí è nata l’idea di dedicare una mostra alle quattro tavole superstiti dell’Oratorio privato di Palazzo Pallavicino Barbò (ma chi sa che altre non giacciano dimenticate o incomprese in una soffitta!). Ci è sembrato giusto proporre il progetto a Cremona, città natale di Antonio Campi, a pochi chilometri da Torre Pallavicina. Con entusiasmo Don Gianluca Gaiardi, Direttore del Museo Diocesano della città, ha accolto l’idea promossa dalla mia collaboratrice Eleonora Scianna. Fondamentale poi la collaborazione con i Musei Reali di Torino e in particolare con la conservatrice responsabile Annamaria Bava che, dopo aver risposto positivamente alla richiesta di prestito per Cremona, ha voluto portare l’esposizione anche a Torino.

Grazie al lavoro di tutti le quattro opere sono visibili insieme e questa è una bella soddisfazione.

Maurizio Canesso

Galleria Canesso

Parigi - Milano

Nelle pagine precedenti:

Antonio Campi, particolari delle grottesche, 1557, Torre Pallavicina, Palazzo Pallavicino Barbò

Courtesy Francesca Rivetti Barbò

Sommario

15 Un omaggio campesco a Maria Luisa Ferrari

Marco Tanzi

21 La «Maniera de’ Campi cremonesi» a Torre Pallavicina

Maria Luisa Ferrari

43 Per la memoria e la salvezza dell’anima:

l’oratorio di Santa Lucia a Torre Pallavicina

Monica Visioli

57 Albrecht Dürer per Antonio Campi

Eleonora Scianna

65 Mezzo secolo di studi e qualche nuova osservazione (1974-2023)

Marco Tanzi

80 Bibliografia

Nelle pagine precedenti:

Antonio Campi, Cristo nell’orto, 1570-1578 circa, Milano, Galleria Canesso

Antonio Campi, Cristo davanti a Caifa, 1570-1578 circa, Milano, Galleria Canesso

Antonio Campi, Andata al Calvario, 1570-1578 circa, inv. 989, Torino, Musei Reali – Galleria Sabauda

Antonio Campi, Resurrezione, 1570-1578 circa, inv. 990, Torino, Musei Reali – Galleria Sabauda

Un omaggio campesco a Maria Luisa Ferrari

Ho tentato tante volte, nell’arco dei quarantacinque anni che corrono dalla prematura e straziante scomparsa, di tracciare un profilo critico dell’attività di storica dell’arte di Maria Luisa Ferrari: non ci sono mai riuscito, infilando soltanto qualche breve brano qua e là, per la intensa onda emozionale che ogni volta, altissima e vorticosa, inevitabilmente, mi sopraffaceva; tanti e tali erano i ricordi familiari affettuosi che si riaffacciavano e mi impedivano di affrontare la pagina bianca. Chi ha avuto la pazienza di leggere i miei scritti conosce bene il rapporto di parentela, ma soprattutto quello di affetto, che mi legava alla zia Luisa, mancata nel febbraio 1978. I miei non sono ricordi di cui fa parte la storia dell’arte: ci sono i giochi di bambino e le gite insieme, l’avermi portato per la prima volta in una biblioteca (facendo sì che io non mi separassi più dai libri) o avermi voluto con sé, ancora con i pantaloni corti, ai concerti di musica classica, soprattutto per piano, del Ponchielli (ricordo ancora, non so come, che mi appassionò tantissimo quello di Friedrich Gulda); o quando, più grandicello, andavo a trovarla in vespa a Esmate, luogo magico nella mia memoria. Così ora, pur lontano e isolato da tutto e da tutti, non avendo mai coltivato il culto dei Lari e dei Penati, sento quasi più personali i ricordi, i personaggi e gli episodi di casa Ferrari che non quelli della mia famiglia. Come accennavo, sono per me troppo vivi e pungenti i ricordi e non sarei mai stato in grado di scrivere il profilo della zia Luisa così come me lo porto dentro: ci è riuscita da poco, per quanto concerne gli aspetti dell’attività di studiosa, mia figlia Beatrice, che essendo nata nel 1991 non ha avuto la fortuna di conoscerla e di godere del suo meraviglioso, dolcissimo affetto1 .

Nel 1974 Maria Luisa Ferrari scrive tre opere fondamentali per la conoscenza del Cinquecento a Cremona, tre contributi diversissimi tra loro e, per vari aspetti, indimenticabili: l’emozionante monografia sulla chiesa di San Sigismondo e due

1 Tanzi 2022, pp. 315-330.

saggi pubblicati sugli «Annali della Scuola Normale di Pisa»: i documenti del ‘Giornaletto’ della fabbrica di San Sigismondo e La «Maniera de’ Campi cremonesi» a Torre Pallavicina sugli affreschi di soggetto profano realizzati negli anni Cinquanta in due ambienti della villa voluta da Adalberto Pallavicino alle Torri, nella cosiddetta Calciana, il territorio posto ai margini sud-orientali della provincia di Bergamo, al confine con quelle di Brescia e Cremona, che prende il nome dal comune di Calcio un tempo sede dell’omonima pieve della diocesi di Cremona 2. Tre modi differenti tra loro ma complementari di fare storia dell’arte sullo stesso argomento: il volume sul tempio gerolamino come pretesto per un consuntivo rigoroso, e scritto benissimo, della Maniera cremonese e dei suoi protagonisti secondo una chiave di lettura ancora attualissima, non dimenticando il capitolo, per molti aspetti rivoluzionario, sull’architettura del complesso monastico e, più in generale, del

Rinascimento a Cremona; il regesto documentario, ricco di spunti e di notizie di prima mano, della vita del cantiere, e il saggio bellissimo e fondante sui Campi manieristi e non ‘precaravaggeschi’, che schiudeva le porte sulla Milano profana di metà Cinquecento. Con questa triade la studiosa inaugurava a nemmeno un lustro dalla prematura, straziante scomparsa, una nuova stagione di studi su Cremona, dopo quella degli anni Cinquanta su «Paragone», dove aveva esordito ragazza, a neanche trent’anni, in mezzo ai nomi di Mina Gregori, Federico Zeri, Ferdinando Bologna, Alfredo Puerari e dello stesso Roberto Longhi. La congiuntura dagli anni Settanta in avanti avrebbe avuto come protagonista principale il disegno, con dispute critiche anche veementi, e spunti di iconografia sul versante delle tematiche umanistiche e religiose: sarebbe stata l’epoca degli inediti, soprattutto per il capitolo della grafica, sulla scorta della tradizione dei grandi connoisseur anglosassoni.

La riemersione sul mercato antiquario dei due masterpieces di Antonio Campi resi noti dalla zia nel 1974 e il collegamento documentario con altre due tavole della Galleria Sabauda facenti parte del medesimo «ornamentum magnum […] artificiose elaboratum» nell’Oratorio di Santa Lucia di Torre Pallavicina – e che proprio io pubblicai, ignaro, nel 1994 –, mi invita a recuperare un argomento tanto caro con il pudore e la devozione di chi ha sempre considerato Maria Luisa Ferrari una maestra di vita e di studi, pur non avendo mai potuto seguire nemmeno una sua lezione. E riprendere, in questo modo, un discorso artistico giocato su toni molto elevati, andando al cuore di quel capitolo della storia di Antonio Campi funzionale all’impalcatura longhiana dei Quesiti caravaggeschi e dei precedenti lombardi del Caravaggio: ormai è passato quasi un secolo. È giusto però, per mille motivi, aprire questa pubblicazione proprio con il saggio del 1974 della zia Luisa.

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2 Ferrari 1974a; Ferrari 1974b; Ferrari 1974c. Palazzo Pallavicino Barbò di Torre Pallavicina in una cartolina degli anni Cinquanta

*In «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», 1974, serie iii, vol. iv/3, 1974, pp. 805-816; riedito in M. L. Ferrari, Studi di storia dell’arte, a cura di A. Boschetto, Firenze, 1979, pp. 313-323, figg. 199-200.

Il testo è stato adeguato formalmente ai criteri editoriali del presente catalogo eliminando i riferimenti alle immagini della prima pubblicazione e contraendo, nelle note, le voci bibliografiche.

La «Maniera de’ Campi cremonesi» a Torre Pallavicina*

Pochi chilometri a nord di Soncino, sulla riva destra dell’Oglio in territorio di Bergamo, la residenza di Torre Pallavicina ci è più nota da quando Luca Beltrami1, sul finire del secolo scorso, ne illustrò le sommarie vicende storiche e artistiche, sussidiate da un buon corredo di tavole in eliotipia che ancora adempiono con successo il loro compito documentario.

Si tratta della villa e sue adiacenze, con la torre più antica ad essa incorporata, che il marchese Adalberto Pallavicino «post tantam voluntariae ac rarae servitutis oblivionem ne ingratos amplius sequeretur principes [ ... ] otii ac quietis sedem sibi et amicis erigendas curavit», secondo la scritta in belle lettere capitali che corre sul marcapiano della facciata esterna. Una scritta allusiva a segreti disinganni, ad amarezze e ingratitudini sofferte che le fonti antiche lasciano soltanto immaginare, avare come sono di notizie sul personaggio che, uomo d’armi al servizio della Repubblica Serenissima e del duca Francesco Maria della Rovere, fin quasi alla metà del Cinquecento, abbandonò improvvisamente l’esercizio della guerra per dedicarsi alle opere di pace, come l’incremento agricolo, attraverso grandi imprese d’irrigazione, della zona di Torre Pallavicina2

L’edificio prende corpo secondo i canoni di un gusto rinascimentale aggiornato sui caratteri che sono propri dell’area figurativa settentrionale, e di questa in particolare al trivio fra Cremona Bergamo Brescia, che non fu insensibile agli apporti veneti.

1 Beltrami 1898, pp. 53-56. Cf. anche Cantù 1858, v, p. 1055; Sacchi 1872, pp. 336-337; Perotti 1931, pp. 96 e 101.

2 I possedimenti costituivano un feudo sforzesco i cui privilegi erano stati rispettati dagli Spagnoli anche dopo l’estinzione della dinastia ducale nel 1535. La sua origine era legata alle intemperanze amorose di Francesco Sforza: da Tristano, infatti, suo figlio naturale, discendeva Elisabetta che nel 1485 recò il feudo in dote a Galeazzo Pallavicino, marchese di Busseto, di cui era illegittimo anche Adalberto (cf. Litta 1838, xli, tavv. xxi, xxiii e xxxiv; Sansovino 1609, p. 388).

Una costruzione semplicissima, autonoma – anche se ad essa collegata – rispetto alla cosiddetta torre di Tristano, elemento della dimora originaria, che conserva l’impronta tipica del castello/residenza sforzesco sotto il rivestimento cinquecentesco. Sul frontone della finestra centrale, la data 1550: che è tutto quanto sappiamo circa il tempo della costruzione.

Per quanto tocca il suo autore, non va sottovalutata la testimonianza, sebbene tarda, dello Zaist3 che ne riferisce il ‘disegno’ ad Antonio Campi, in una con quello di Palazzo Vidoni che a Cremona costituisce il momento di maggior deferenza al gusto mantovano dell’architettura cinquecentesca della città 4 . La fronte della villa manifesta tuttavia una sobrietà che elude il plasticismo accentuato e una certa enfasi decorativa della facciata di Palazzo Vidoni, dove in ogni caso, sovrastanti le finestre del piano nobile, compaiono le orecchie dei timpani che figurano anche nelle scene del fregio ad affresco della sala di Torre Pallavicina.

Ritmati da pilastri a capitelli dorici, i sette archi del piano terreno della villa legano i conci a raggera in un gioco di perfetta geometria prospettica con le linee di caduta di ogni motivo aggettante: le mensole marmoree allo stacco degli archi, i capitelli al sommo delle lesene e, su di essi, le doppie mensole allineate agli scudi in marmo per maggior respiro al marcapiano con la scritta dedicatoria. Anche se privo del profondo significato ‘proporzionale’ che ad esse spetta, par di leggere nel prospetto una delle tavole dei Quattro Libri di Andrea Palladio che, a questa data, son di là da venire; meglio forse richiamando alla memoria le parole di Giorgio Vasari su di una porta del Sanmicheli, «tutta di

3 Zaist 1774, p. 171.

4 Puerari 1955 (foto 60 e 61) ne ha messo in evidenza le analogie con l’opera pittorica di Antonio per l’uso del ‘bugnato bucherellato’ e soprattutto per certi tratti prebarocchi, oltre che «per la fantasia e la libertà con cui i motivi decorativi, applicati ad una costruzione in cui ritornano richiami mantovani alla Giulio Romano, sono intesi». Questa fiducia sulla responsabilità di Antonio Campi fu però smentita in un successivo intervento (Puerari 1963, p. 689) in favore di Francesco e Giuseppe Dattaro che «sono i Campi dell’architettura cremonese e indicativa è l’attribuzione in passato di alcune loro costruzioni a Giulio e Antonio Campi». E tuttavia, nel catalogo tracciato dal Puerari in favore dei due Dattaro l’inserimento di Palazzo Vidoni non è pacifico, perché la sicura ascendenza mantovana vi subisce la variante di una declinazione esuberante, uno sperpero decorativistico – i frontoni a volute, le mensole abbinate, la ‘licenza’ del rapporto tra finestre e finte nicchie che in origine dovevano forse accogliere motivi ad affresco – in gran parte estraneo ai fatti più rilevanti dell’architettura cremonese del Cinquecento.

bozze ovvero bugne, non rozze ma pulite, e con bellissimi ornamenti»5. Al piano superiore, tra semipilastri ugualmente a bozze e con capitelli ionici, sette finestre trabeate e centrate su gli archi del porticato sottostante, con il solo ornamento delle sigle dell’ordinatore ad.ma.pa e la data mdl sulla finestra centrale: una data, qui occorre dirlo, assai precoce rispetto a quanto ci è noto della attività di Antonio Campi.

La storia dell’architettura cremonese nel Cinquecento è ancora una vexata quaestio, quasi tutta da sciogliere attraverso una revisione di fondo dei postulati che ne condizionano gli orientamenti6. Nel caso di Torre Pallavicina, basti rilevare che

5 Vasari 1550 e 1568, p. 110.

6 Per esempio, nel tempietto di Santa Margherita a Cremona (1547), che un’autorevole tradizione assegna a Giulio Campi, le memorie ‘romane’ non sembrano prescindere dalla declinazione lombarda delle proposte bramantesche del Cesariano e del De Fonduli (cf. Ferrari 1974d). E l’attività di Giulio

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Da L. Beltrami, Soncino e Torre Pallavicina, Milano, Ulrico Hoepli editore, 1898, tav. xxxix

il gusto del contrasto cromatico tra il paramento in cotto e gli inserti marmorei, il taglio netto delle finestre, di sapore quasi urbinate, ed il valore prevalentemente decorativo della scritta sembrano escludere attacchi con l’area cremonese o mantovana di stretta osservanza e alludere tentativamente verso la terraferma veneta7.

Certa è invece la nascita cremonese delle pitture nella villa e nella Cappella di Santa Lucia, l’oratorio che il Litta dice costruito nel 1569. Quasi irrecuperabili nel testo originale la decorazione al piano terreno, per i pesanti interventi che hanno ripreso e ‘ammodernato’ in forme neoclassiche gli affreschi della vòlta8, quelli della stanza al piano superiore si prestano meglio alla lettura anche se con qualche interruzione del dettato, per così dire. È da credere che l’intero complesso avrebbe richiamato l’attenzione dello storico bresciano Giulio Antonio Averoldo, ove gli fosse stato noto, inducendolo a commentare senza incertezze, come per le scene di giustizia nella «sala dei dottori Giudici collegiali» di Palazzo Pubblico a Brescia e per gli affreschi di Casa Calini, «questa è maniera de’ Campi cremonesi».

Ma dopo lo Zaist e il Beltrami, o la più recente citazione di catalogo da parte di Aurelia Perotti9, il ciclo di Torre Pallavicina non ha trovato fortuna, relegato nel limbo delle cose perdute o trascurabili. Forse per le difficoltà dell’accesso alla dimora eccentrica, o addirittura per le censure del cavalier Muoni10 che stigmatizzava «gli affreschi dei fratelli Campi esprimenti le scene più lubriche e licenziose della mitologia», in linea probabilmente con le convinzioni dei

come architetto, comprovata dall’epigrafe sepolcrale ma non ricordata nella ‘historia’ di Antonio, è ancora tutta da recuperare: magari portando l’indagine, suscettibile di fornire rilevanti appoggi, sulla sua opera grafica per progetti di altari, ancone e monumenti sepolcrali. Come nel disegno dell’Art Institute di Chicago restituitogli da U. Middeldorf, che conosco attraverso una fotografia del Kunsthistorisches Institut di Firenze.

7 Una grande varietà di soluzioni annovera il territorio bresciano (cf. Peroni 1961, pp. 841 e sgg., 878) dove ai ricordi di Giulio Romano si mescolano spunti che traggono dalla presenza nel territorio stesso e nel capoluogo dei protagonisti della civiltà veneziana. Proprio a Orzinuovi, a poche miglia da Torre Pallavicina, forse operò il Sanmicheli allorché generalissimo delle armate venete era Francesco Maria della Rovere sotto il quale militava quale «valoroso e coraggioso capitano e luogotenente» (Sansovino 1609, cit.) Adalberto Pallavicino.

8 Sono riprodotti, allo stato di conservazione che si può leggere, alle tavv. xlii-xliv del Beltrami 1898, cit

9 Si veda alle note 1 e 3.

10 Muoni 1871, p. 216.

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L. Beltrami, Soncino e Torre Pallavicina, Milano, Ulrico Hoepli editore, 1898, tav. xl
Da

tardi discendenti di Adalberto che avevano autorizzato o voluto gli interventi ‘moralizzatori’ di restauro11

L’inagibilità dell’archivio presso gli attuali proprietari conti Barbò non consente recuperi auspicabili nell’àmbito documentario, obbligandoci a chiamare in causa la preziosa ‘charta confessionis et finium’ pubblicata dal Sacchi12 nella quale, alla data 9 aprile 1575, le parti in causa – cioè Fulvia Martinengo (moglie di Galeazzo del fu Adalberto Pallavicino), per sé ed eredi, e Antonio Campi per sé, il fratello Vincenzo e gli eredi del defunto Giulio Campi – convengono il saldo del terzo della somma pattuita «pro pingendis Cameris in loco Turris Calcianae» e stabiliscono le modalità di pagamento per la decorazione dell’Oratorio, da completare «infra triennium proxime futurum». Abbiamo insomma la conferma che gli affreschi nelle stanze della villa, già compiuti, erano opera dei Campi e che la cappella mancava ancora delle pitture. Per la cronologia abbiamo pertanto disponibile un lasso di quasi venti anni, dal 1557 (cfr. la nota 11) al 1575: certamente eccessivi per un’impresa che varie ragioni consigliano di restringere in un decennio o addirittura in un lustro, soprattutto perché il punto di stile che vi si coglie è in pieno accordo col momento dell’attività congiunta di Giulio e Antonio tra il 1560 e il 1565 circa. In questi anni la loro società si articolò su di una convergenza di opinioni figurative che possiamo verificare in almeno tre momenti di notevole impegno: le storie di San Paolo nel presbiterio della chiesa omonima a Milano (1564), le tempere citate già nel Palazzo Pubblico di Brescia e la decorazione della vasta navata di San Sigismondo a Cremona nel decennio 1557-156713.

In questa orchestrazione, diciamo così, a quattro mani le personalità dei due fratelli, lungi dall’annullarsi, risultano complementari: elezione formale ed eleganza dei sensi in Giulio, spiriti più focosi e propensioni alla realtà delle cose, non di rado esaltata nel grottesco, in Antonio. A far meglio intendere questa specie di gioco delle

11 Codesti interventi, condotti anche nella sala al piano nobile soprattutto sulle grottesche alle pareti, sembrano risalire alla fine del secolo xviii secondo la scritta letta e riportata dal Beltrami 1898, cit.: «incept. 1557 sub Adalb. completum fuit sub Galeat. vii an. mdccvc».

12 Sacchi 1872, pp. 272-273. L’omissione del nome del notaio estensore dell’atto non consente di recuperare nell’Archivio il documento originale.

13 Per gli estremi della decorazione della prima campata di San Sigismondo rinvio alla documentazione ricavata dal ‘Giornaletto per la Fabrica di Santo Sigismondo’ (A.S.N.S.P., in corso di stampa) ed alle note della parte terza del mio volume sull’Abbazia sforzesca. Da L.Beltrami,Soncino eTorre Pallavicina,Milano,Ulrico Hoepli editore,1898,tav.liii e liv

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parti son proprio i dipinti di Torre Pallavicina, per di più nel momento importante di una collaborazione che vedrà di lì a breve termine le strade dei due artisti, ormai svuotata di significato e convinzioni la loro società, divergere in direzioni opposte14.

Nella sala quasi quadrata al piano superiore, l’illustrazione degli amori degli dèi, condotta in gran parte sulle Metamorfosi di Ovidio, si snoda per episodi lungo l’alta fascia alla sommità delle pareti, sotto un soffitto a cassettoni che è parte integrante della decorazione15. Pausate dalle mensole intagliate e fortemente aggettanti che sorreggono agli angoli e ai quattro bracci della crocera il soffitto ligneo, otto coppie

14 La svolta è segnata con la Decollazione del Battista per la cappella omonima di San Sigismondo (Sacchi 1872, pp. 238-239, e la nota relativa nel mio volume, alla parte terza).

15 I motivi a greca sulle cornici ed i rosoni campeggianti nei cassettoni (si vedano le tavv. xlv e xlvii del Beltrami 1898) svolgono in modo più complesso e accusato quelli della vòlta del citato tempietto di Santa Margherita. Le grandi mensole a mascheroni che pendono ossessive hanno lo stesso fasto sontuoso e greve di quelle a mazzi d’acanto dorato nella Sala di Psiche del palazzo mantovano del Tè (cf. Hartt 1958).

di divinità campiscono uno spazio forse esiguo per le loro forme quasi sempre possenti, e tuttavia reso più profondo e agibile dal gioco prospettico delle ‘orecchie’ in finta architettura che si arricciano nella iterazione dei chiari e degli scuri. Al centro di ogni scena, sotto il ghigno o lo sberleffo di un mascherone appeso a un festone vegetale, un episodio del mito che ad una o a entrambe le divinità si riferisce, anch’esso nei segmenti di un’incorniciatura a volute.

Il gusto illusivo, il turgore delle modanature, quella certa esuberanza che riduce le pause, le spaziature, fin la stessa misura delle cose, sembrano indicare che l’invenzione risalga ad Antonio (e proprio Palazzo Vidoni verrebbe a costituire il passaggio di questi pensieri in un’architettura vera). Non più ipotetica è invece per me la responsabilità dello stesso Antonio nel bel camino tra le due finestre verso il giardino: in marmo rosso di Verona, le mensole e la trabeazione di semplice elegante disegno denunciano l’ascendenza mantovana, che poi scompare nella cappa. Qui, la decorazione a stucco modella con vigore i due festoni, il fauno e la ninfa in funzione di raccordo agli angoli, le sfingi alate e l’Ercole con la clava alla sommità,

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Antonio Campi, Saturno e Demetra, 1557, Torre Pallavicina, Palazzo Pallavicino Barbò Antonio Campi, Diana e Apollo, 1557, Torre Pallavicina, Palazzo Pallavicino Barbò

quasi a tutto tondo, richiamando senza incertezze la vòlta della Cappella di San Giovanni nell’Abbazia di San Sigismondo a Cremona, interamente decorata da Antonio Campi «plastice ac pictura» dopo il 155716.

Gli affreschi nella fascia vanno certamente ripartiti equamente tra i due fratelli17. Desistendo dal tentativo di leggere dentro la scena di Giove e Giunone , con la folgorazione dei Giganti nella targa sul fondo, a causa del malaccorto intervento di restauro, alla pennellata fluida di Giulio si può attribuire l’eleganza morbida e pretestuosamente sensuosa di Anfitrite, nonché il rovello plastico del compagno Nettuno, entrambi in rapporto con le figure a monocromo sui due lati del grande rettangolo nella prima campata della vòlta di San Sigismondo, o alle figure in stucco

16 La decorazione della vòlta precede cronologicamente tutti gli altri dipinti della cappella ed è forse già eseguita nel 1557, come pare attestare il ‘Giornale’ della Fabbrica in un pagamento a Giulio Campi (cf. alle note relative della parte terza del mio volume citato).

17 Effettivamente, la distinzione delle mani sul piano stilistico consente di affermare che ciascuno dei fratelli eseguì alternativamente una coppia di divinità con relativo episodio.

sul coronamento degli archi delle cappelle dove le memorie michelangiolesche svariano nelle eleganze parmensi. Così Diana , contrapposta ad Apollo citaredo e bambolone – sul fondo il supplizio di Marsia – nell’acconciatura elaborata e nel sorriso lievemente enigmatico ripropone le sembianze della ‘Pace’ che fronteggia la ‘Fede’ sulla ‘vòlta grande’ dell’Abbazia sforzesca. Anche le forme non più tanto esasperate di Cronos/Saturno che divora i suoi figli, dentro la targa l’esercizio dell’agricoltura, e le vesti manierose sul corpo gigantesco di Cerere/Demetra sono nella linea delle inclinazioni prevalentemente decorative della maniera di Giulio durante l’intensa stagione di San Sigismondo, specialmente con gli affreschi conservatissimi della navata. Una via alla distinzione di mani nell’impresa di Torre Pallavicina è quella di cogliervi il fare pittoricamente più corposo che è proprio di Antonio, del suo intendere gli aspetti naturalistici delle cose mescolando le riflessioni sulla realtà con la finzione dei contenuti, ora sdrammatizzati altrove inverati per grazia d’invenzione e di materia. La raffigurazione di Venere e Vulcano – nella scena al centro la dea si abbandona alle effusioni di Marte – il dio del fuoco, tralasciato ogni decoro, è un

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Antonio Campi, Proserpina e Plutone, 1557, Torre Pallavicina, Palazzo Pallavicino Barbò Antonio Campi, Vulcano e Venere, 1557, Torre Pallavicina, Palazzo Pallavicino Barbò

vecchio collerico sul punto di fare a pezzi, anziché forgiare, l’elmo che gli sta davanti, fra le gambe accosciate e in iscorcio, i piedi puntati sul bordo del cornicione per maggiore verità di azione, accentuata dal battito della luce che perlustra la forma poderosa. Peccato che un intervento maldestro del restauro abbia irrigidito le articolazioni della dea e un po’ tutto il suo corpo, sul quale la stessa luce doveva in origine dar risalto a un modellato di grande sapienza e bellezza, per la cui restituzione possiamo fortunatamente contare su un altro dipinto certo di Antonio negli stessi anni: intendo la tempera con la storia di Susanna nella Pinacoteca bresciana18. Qui, i ‘valori’ verso i quali l’artista tendeva tra il 1560 e il ‘65 trovano bellissima evidenza in tutta parte destra dell’opera le pietre bugnate della fontana, le forme sode di carne vera della protagonista, la luce e l’ombra che scolpiscono veridicamente la statua della naiade sul ripiano della sorgente, la tunica rovesciata che Susanna si accinge a indossare e par fusa in vetro, col grande rovello delle pieghe di toni lattei ed ombre colorate; e la giovane servente, indimenticabile, che emerge contro il vano della porta. È vero, il profilo delicato di questa figura trae dal noto modello di Giulio nella Vergine della Presentazione al Tempio a Santa Margherita di Cremona, ma Antonio sa renderlo più accostante e cordiale, anche quando lo trasferisce nella testa paciosa di Proserpina addosso alla quale possiamo finalmente leggere integro un viluppo di panni studiosamente veri: e l’estro grottesco del pittore nel cipiglio del volto di Plutone, tra veneranda canizie.

E rileveremo, seguitando, che Dejanira, fronteggiata da un Ercole alquanto dimesso e addobbata regalmente da una veste azzurra cangiante trova agevolmente posto nella galleria dei personaggi femminili di Antonio, bastando al confronto la Santa Giustina della pala di San Pietro a Cremona; oppure che nella scena con Ares e Pallade in tenuta di guerra, gli elmi, i pennacchi e l’enfasi stessa degli dèi – in una parola, il corredo ‘romano’ – sono i medesimi che conosciamo dentro gli affrreschi del presbiterio di San Paolo a Milano, giustamente collegati da Giulio Bora alle tempere bresciane19.

18 Per questo dipinto esiste un bellissimo disegno al Worcester Art Museum (cf.Visions 1968, p. 20, n. vi) ritenuto «a master drawing by Antonio Campi» da Tietze Conrat 1939, pp. 160-163). Ma si veda sul dipinto e sulla collaborazione di Giulio alle tempere bresciane l’opinione di Bora 1971 (note 32, 33 e 34) che condivido interamente.

19 Cf. alla nota precedente.

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In gran parte cancellate, e spesso irrimediabilmente, dal restauro grossolano sono la carica di umori quasi insolenti ch’era affidata in origine ai mascheroni tra i festoni vegetali, e la pittura corsiva degli episodi mitologici nelle targhe al centro delle singole scene. Ed è ancora a San Sigismondo che occorre rifarsi per intendere il gradus decorativo e la temperie squisitamente pittorica di codesti inserti tutt’altro che marginali: là appunto dove il Lanzi istruiva la via «alla unità, e per conseguenza alla bellezza» del ricco apparato anche attraverso la profusione di «picciole istorie, cammei, stucchi, chiaroscuri, grotteschi, festoni di fiori»20 che ci trasmettono intatte la ricchezza degli umori e la vena demistificante che distingue Antonio Campi sul punto di farsi autonomo, nonché il suo estro giocoso e talvolta irriverente verso i solenni modelli del classicismo togato. Sono questi particolari che forzano le regole della correttezza o dell’armonia, delle ‘belle maniere’ insomma, del fratello Giulio, ed insieme un chiaro sintomo, a mio avviso, dell’indirizzo preso da Antonio verso l’area figurativa bresciana21

Una conferma del suo incontro stimolante con le ‘cose bresciane del Cinquecento’ è nel fortunato recupero delle due tavole già nell’oratorio o cappella di Torre Pallavicina22, fattemi note per buona sorte prima d’inabissarsi nei gorghi del mercato antiquario. Accertata con sicurezza la loro provenienza, non era difficile collegare le due opere al documento citato del 1575 che impegnava l’artista nella decorazione

20 Lanzi 1828, vol. iv, p. 147.

21 Io non dubito infatti ch’egli doveva conoscere molto bene quel certo espressionismo ante litteram divulgato dal Romanino nei suoi anni tardi sui muri di Palazzo Averoldi (cf. Ferrari 1961, tavv. 103-106), dove un collaboratore di primo piano era stato Lattanzio Gambara i cui rapporti con i Campi negli stessi anni – anche Antonio aveva operato a Brescia – sono esplicitamente documentati nelle mitologie dei camerini adiacenti il salone di Palazzo Maggi a Cadignano, che son fresche memorie di Giulio Campi, della sua tavolozza brillante nella Pentecoste sulla navata di San Sigismondo (cf. Le fatiche d'Ercole del primo camerino). Non di Lattanzio, in ogni caso, ma di un bresciano vicino a Luca Mombello è la vòlta del salone centrale. I rapporti tra i Campi e Lattanzio investono soprattutto la ritrattistica di quest’ultimo, celebrata da Giorgio Vasari, dopo le prime battute deferenti verso il Romanino (si veda il presunto suo auto ritratto di Budapest, che è di Lattanzio come dice la scritta rettamente decifrata «al mio maestro Jeronimo Romani pictore bresciano» e soprattutto il confronto con il donatore P. A. Ducco nella pala del Gambara a Santa Maria in Silva di Brescia). Un argomento sul quale intendo tornare producendo fatti nuovi.

22 La loro provenienza mi è confermata dalla attuale proprietaria della villa. I dipinti sono ricordati in elenco dalla Perotti 1931 (p. 96) con l’attribuzione a Giulio Campi e l’errata indicazione del soggetto per uno di essi: L’ultima Cena invece della Preghiera nell’Orto.

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della cappella; ma ciò che più colpisce è l’esplicita testimonianza che esse danno della svolta segnata da Antonio Campi al suo modo d’intendere e fare pittura. L’Orazione nell’Orto è un antecedente dell’argomento svolto nel dipinto della galleria dell’Arcivescovado a Milano, restituito all’artista cremonese da Gian Alberto Dell’Acqua 23 , rispetto al quale la tavola già a Torre Pallavicina presenta talune soluzioni formali ancora deferenti alla maniera di Giulio, come il ritmo lento delle pieghe nella tunica del Cristo e il suo volto anodino, l’una e l’altro tuttavia quasi sommersi in un’invenzione luministica inconfondibile di Antonio dopo il 1565. L’episodio evangelico è ambientato per modo di dire fra gli ulivi, che compaiono emblematicamente con due tronchi soltanto e per di più sospinti fuori campo per lasciare spazio alla libera scelta del Campi di una Gerusalemme ‘romanizzata’ negli edifici contesi dall’ombra riflessa e dall’incidenza del lume lunare saettante fra le nubi. Memorie di una certa maniera classicistica: non però quella fatiscente e inquietante dei recuperi archeologici di un Giulio Romano, certamente ben noto al pittore cremonese; anzi, una ripresa in tutto personale delle «oscurità con mille discrittioni ingegniosissime e rare»24 del bresciano Savoldo. Il fiotto di luce che squarcia le nubi, illustra gli edifici fantasiosi delineandone i contorni e mette in chiaro, con i due tronchi, gli apostoli addormentati, convive col plasma del bagliore soprannaturale che intride l’angelo portacroce e riverbera, scolorandola, la tunica rossa del Cristo implorante. La pittura cremonese non aveva conosciuto finora un modo tanto esemplare di dare tenuta profondamente poetica all’intensità di un dramma senza azione. Passando all’altra tavola – qui allo stato nel quale mi si offrì al primo ed unico nostro incontro — con la scena di Cristo davanti a Caifa, non è da tacere che l’evento ha luogo davanti a una tenda da campo parata al modo di quella che si stiaccia dietro Erode in uno degli stucchi della Cappella di San Giovanni a San Sigismondo 25 ,

23 Dell’Acqua 1957, p. 712. L’altro identico soggetto di Giulio Campi nella Pinacoteca Ambrosiana, illuminante fra altro la ‘pietistica’ di San Carlo (cf. G. Bora in II Seicento 1973, p. 16), indica una precedenza ancora una volta soltanto tematica, senza cioè «le basi di un nuovo stupore pittorico, le fondamenta dello stile di macchia» di cui si dichiara assertore Antonio Campi «...sempre più infervorato, incaponito se volete, in queste sue ricerche d’illusione luministica...» (Longhi 1928-1929, p. 127).

24 Pino 1548, p. 134.

25 Ritengo questi stucchi entro medaglioni contemporanei o di poco po steriori all’affresco con la Cena in casa di Simone sulla parete laterale della stessa cappella (si veda ai passi relativi nella parte terza del mio volume citato sull’Abbazia sforzesca) del 1577.

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che io credo coevi dei dipinti già Pallavicino. Ma le propensioni naturalistiche di Antonio, ancora frammentarie nel rilievo cremonese dentro il contesto di dottrina allineata sulle mode ‘romaniste’, emergono nella pittura con ben altro vigore dal costume moderno di Caifa (quasi un omaggio alla grande provincia veneta di Giambattista Moroni e di Lorenzo Lotto), dal fanciullo tedoforo (motivo caro alla maniera riformata del Campi), dal bordo della tenda fortemente intriso di lume e, infine, dall’energico controluce che profila con bellissima evidenza l’armato di spalle presso il Cristo. Una verifica della realtà che coinvolge tutta la scena ‘finta di notte’ in accordo con la sequenza temporale dei racconti evangelici (la comparizione davanti a Caifa si accompagna alle negazioni di Pietro, prima del nuovo giorno) che il pittore fa propria per maggiore verità dei fatti. Anche per questo Antonio si dimostra libero da qualunque ventilato precorrimento del fratello, tacendo

dell’invenzione pittorica che rinnova la ‘discrittione’ delle oscurità o, dobbiamo ripetere, della realtà nei modi che Giulio mai intende assumere in proprio per l’innata sua deferenza, quasi una pregiudiziale, ai ritmi lineati ed elusivi. Antonio qui lascia indietro di parecchio quasi tutte le remore della ‘maniera’ classicistica e prevede le più alte conclusioni che dopo il 1580 figureranno su gli altari delle chiese di San Paolo e di Sant’Angelo a Milano.

Dell’impegno di Antonio per la tavola ora illustrata attesta anche un disegno degli Uffizi 26 che mi è gradito far noto per una controprova dell’attribuzione. Su una delle facce compaiono infatti gli studi esemplari per le mani e il volto di

26 II disegno (1636 Orn, cm. 19x26) è in carta azzurra e matita nera. La scritta antica sul recto con l’attribuzione a Giulio Campi del gioco dei putti è correlativa ad altri schizzi per San Sigismondo nella stessa raccolta degli Uffizi e certamente di Giulio: ma proprio il confronto con questi dice che l’altro è soltanto di Antonio.

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Antonio Campi, Gioco di putti, 1636 Orn., recto, Firenze, Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe Antonio Campi, Due studi di teste e tre studi di mani, 1636 Orn., verso, Firenze, Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

Caifa, per la mano con l’indice proteso del soldato di schiena, il pollice fiottato di luce come nel dipinto. Sull’altra faccia, una rissa di amorini e la scritta al nome di Giulio Campi che non convince sebbene il disegno sia chiaramente un pensiero per la decorazione delle lesene fra le cappelle della navata di San Sigismondo: proprio là dove Antonio, anche se il motivo non vi appare tradotto esplicitamente, nelle invenzioni più realistiche dei giochi di putti sfrenati cominciava a prendere le distanze dalle ambite misure classicistiche di Giulio.

E per la paternità di Antonio Campi un altro rilievo interessante. Fra gli studi preparatorî del quadro Pallavicino figura al centro del foglio la testa finemente delineata di un uomo anziano con tutte le caratteristiche del ritratto, che sono fortemente tentata di leggere come un primo abbozzo per l’autoritratto del Campi che, tradotto nella stampa in rame, figurerà sull’edizione 1585 della ‘Cremona fedelissima… rappresentata in disegno... et illustrata d’una breve historia delle cose più notabili… da Antonio Campi pittore e cavalier cremonese’.

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Un particolare ringraziamento a don Paolo Fusar Imperatore per aver facilitato le mie ricerche presso l’Archivio Storico diocesano di Cremona e al conte Oreste Rivetti per avermi concesso di consultare l’archivio Pallavicini Barbò, conservato presso il palazzo di Torre Pallavicina.

Per la memoria e la salvezza dell’anima: l’oratorio di Santa Lucia a Torre Pallavicina

Monica Visioli

Già nel 1557, il marchese Adalberto Pallavicino (1498? – 1570) aveva stabilito di costruire una cappella dedicata a Santa Lucia nei pressi del suo nuovo palazzo, nel territorio della Calciana, lungo il fiume Oglio, nella località allora denominata Torre di Tristano, in memoria dello Sforza che lì aveva vissuto1. Nel testamento del 7 ottobre 1557, infatti, il Pallavicino dispone che, qualora egli non fosse riuscito a far costruire la cappella prima della sua morte, avrebbero dovuto provvedervi a loro spese i suoi eredi legittimi: il figlio di Angela Moroni, Galeazzo, e i suoi fratellastri Antonio Maria e Pallavicino, entrambi figli della seconda moglie, Bianca Trivulzio2. Il legato risponde alla precisa volontà di Adalberto di trasmettere il suo ricordo ai posteri e, soprattutto, di provvedere alla salvezza della sua anima3. Infatti, presso l’altare dell’oratorio avrebbero dovuto essere celebrate messe quotidiane «in remedium anime testatoris» per garantire le quali alla cappella è assegnata la rendita di trentacinque pertiche di terra in località Villanova. Pare che l’unica preoccupazione del marchese fosse quella di indicare le parole che il sacerdote avrebbe dovuto pronunciare durante la celebrazione: «ut animam famuli tui Adalberti Pallavicini».

1 Covini 2018, pp. 461-463.

2 Su Adalberto Pallavicino e i suoi discendenti: Litta 1838, xli, tav. xxxiv; Seletti 1883, i, pp. 314315 e 327, ii, pp. 62-64; Soliani, Allegri, Capelli 1996, pp. 91-94.

3 Se la cappella era stata eletta come luogo della memoria e delle preghiere per la salvezza della sua anima, Adalberto già nel 1557 aveva individuato come luogo di sepoltura la chiesa di Santa Maria di Campagna, che si stava costruendo poco distante dal palazzo insieme all’annesso convento. Il terreno era stato donato nel 1534 dallo stesso marchese ai frati Serviti (Fonti storico-spirituali 2008, p. 224, doc. 526; Grandi 1858, ii, p. 227). Nel testamento si fa riferimento ad un sepolcro che gli eredi avrebbero dovuto far realizzare nella chiesa per accogliere il cadavere di Adalberto, subito dopo la sua morte. Tali disposizioni non vengono più riprese nel testamento del 1569.

Dopo il 1557, in momenti diversi, Adalberto Pallavicino ripensa alla sua eredità e detta svariati codicilli testamentari ora per escludere, ora per includere i figli legittimi, gli illegittimi e le diverse amanti4. Il legato relativo alla costruzione della cappella di Santa Lucia non è però mai modificato fino all’ultimo testamento, dettato il 3 settembre 1569, a poco meno di un anno dalla morte. Eredi designati nelle ultime volontà del marchese sono il figlio Galeazzo e i nipoti Cesare, Sforza e Manfredo, figli del defunto Girolamo, avuto con la prima moglie Angela Moroni.

Nel documento del 1569, della struttura dell’oratorio, o cappella, non si fa alcun cenno e nemmeno si descrivono la decorazione o gli arredi interni. Anche la dedicazione dell’oratorio a santa Lucia non trova facile spiegazione, non essendo nota alcuna Lucia nella famiglia del testatore. Il campo rimane così aperto a molteplici ipotesi: dal richiamo ad un luogo di culto preesistente, ad una devozione dettata da una malattia degli occhi, di cui però non abbiamo alcuna notizia. La prima informazione circa la decorazione pittorica dell’oratorio è in un già noto documento del 9 aprile 1575, rogato a Cremona presso la dimora di Galeazzo

Pallavicino nella vicinia di San Nicolò, alla presenza di Antonio Campi e della marchesa Fulvia Martinengo Pallavicino, moglie di Galeazzo5

Antonio Campi, anche a nome dei fratelli Vincenzo e Giulio, quest’ultimo defunto da due anni, dichiara di ricevere quel giorno da Fulvia Martinengo altre 122 lire, un terzo del compenso «pro pingendo cameris in loco Turris Calciane», cioè per gli affreschi nel palazzo, e per aver dipinto stendardo e pennoni del defunto Girolamo Pallavicino, già capitano di cavalleria pesante della Serenissima Repubblica di Venezia. Gli altri due terzi della somma dovuta ai Campi dovevano essere versati rispettivamente dai figli dei fratelli di Galeazzo, cioè Girolamo e Antonio Maria, secondo quanto stabilito da Adalberto in merito alla suddivisione della sua eredità. Nello stesso documento Antonio Campi dichiara di aver già ricevuto dai Pallavicino 400 lire di acconto «pro pingendo et conficiendo oratorio» e si impegna a portare a termine la decorazione della cappella in tre anni, e cioè entro il 1578.

4 ASCr, Notarile, Gariverti Nicola, fz. 506, 2 novembre 1558 e fz. 507, 29 luglio 1560.

5 La trascrizione del documento fu pubblicata per la prima volta da Sacchi 1872, pp. 272-273 e successivamente segnalata da Robert Miller in Regesto 1985, p. 470, n. 251. Si veda ora Tanzi 2023, pp. 74-89 (con bibliografia precedente).

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Antonio Campi, Ritratto della Diocesi di Cremona, 1577, inv. II.002, Cremona, Museo Diocesano

In assenza di ulteriori informazioni sulla costruzione e sulla decorazione pittorica della cappella, sono i resoconti delle visite pastorali a fornire notizie utili sull’oratorio di Santa Lucia.

Nella laconica descrizione del vescovo Cesare Speciano, in visita a Torre Pallavicina nel 1601, si ricorda l’«ecclesia simplex Sancte Lucie». La definizione allude a una ben precisa tipologia di aula ecclesiale descritta da Carlo Borromeo nel capitolo xxx delle Instructiones: si tratta di un piccolo edificio ad aula unica, con copertura a volta, abside piatta e presbiterio quadrato di larghezza leggermente inferiore alla navata6. L’oratorio risulta dotato di tre finestre e di un ampio altare addossato alla parete di fondo dell’aula.

Dalla relazione della visita del vescovo Pietro Campori, del 1624, si comprende che l’oratorio è rivolto ad est e dunque l’accesso avveniva all’epoca dalla corte interna del palazzo e non, come oggi, dalla strada. Campori ricorda cinque finestre, delle quali quattro laterali e una tonda sopra la porta d’ingresso 7 Le notizie più importanti, tuttavia, riguardano l’altare e l’area circostante: sull’altare è collocato un tabernacolo di forma quadrata, in legno dorato, nel quale sono conservate delle reliquie, in particolare una sacra spina e il legno della croce. Nel resoconto si precisa che tali reliquie non sono state però riconosciute e approvate dal vescovo e questa è forse la ragione per cui lo

Speciano non ne aveva fatto alcun cenno. Al posto della tradizionale ancona, il visitatore ricorda un

ornamentum magnum […] artificiose elaboratum cum diversis picturis Mysteriorum vita Domini nostri diversis locis distinctibus.

È una testimonianza decisiva per conoscere il soggetto iconografico scelto per la decorazione della cappella e il suo supporto: non si trattava di affreschi ma di diversi pannelli raffiguranti singoli Misteri della Passione di Cristo8. Non

6 Per la definizione della tipologia della simplex ecclesia si rinvia ancora allo studio di Garzoli 1973, pp. 13-23.

7 Non rimane traccia delle finestre originarie dopo l’intervento di rotazione dell’asse della cappella ad ovest. Anche l’attuale volta a botte, molto ribassata, non corrisponde all’originaria copertura.

8 Tanzi 2023, pp. 74-89.

possiamo sapere se la definizione di «ornamentum magnum» alludesse a una particolare cornice a intagli o a una struttura di sostegno nella quale i dipinti erano inseriti.

Nel 1678, il vescovo Pietro Isimbardi redige un resoconto più dettagliato ed esplicito sull’aspetto dell’oratorio: descrive un’intelaiatura, o una grande cornice, di legno che si estende dall’altare lungo i lati dell’oratorio, rivestendo le pareti dal pavimento fino all’imposta della volta e all’interno della quale sono collocati i dipinti raffiguranti i Misteri della Passione. Dieci anni più tardi, la visita del vescovo Ludovico Settala conferma quanto descritto dal suo predecessore.

Si tratta di un arredo e di una decorazione decisamente originali, soprattutto per le notevoli dimensioni, e risulta difficile individuare possibili modelli di

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Oratorio di Santa Lucia, Palazzo Pallavicino Barbò, Torre Pallavicina

riferimento. Certo l’abbinamento delle reliquie con la raffigurazione della Passione di Cristo rivelano una chiara adesione ai dettami borromaici, in stridente contrasto con la decorazione profana dai toni esplicitamente erotici delle sale del palazzo antistante.

Nel secondo decennio del Settecento, nel manoscritto preparatorio per la stampa, mai avvenuta, della Accademia de’ pittori cremonesi con alcuni sculptori ed architetti pure cremonesi, il monaco e storico Desiderio Arisi celebra l’opera di Antonio Campi a Torre Pallavicina e ricorda che

la Cappella, o sia Oratorio del detto Palazzo è arricchito della rappresentazione de 15 (25)9 Misteri della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, che non si può vedere di meglio espresso da un pennello.

Nel corso del Settecento la cappella andò incontro ad un progressivo degrado che comportò man mano la rimozione delle tavole e quindi la loro dispersione. L’abate Ramon Ximenez, gesuita spagnolo approdato in Italia nel 1767 a seguito della soppressione della Compagnia di Gesù e successivamente assunto a Cremona dal marchese Gian Francesco Ala come precettore dei suoi figli, di passaggio da Torre Pallavicina nel 1802, scrive di aver visto

tre tavole levate dall’Oratorio di quella antica e signorile villa de’ Pallavicini, ove andavano a perire per l’umidità del luogo e per l’incuria e balordaggine de’ contadini […]. Rappresentano uno la Crocefissione di Nostro Signore: altro l’Incontro del Redentore colla Veronica quando andata al calvario, ed il terzo la Risurrezione. La bella invenzione, la rotondità delle figure che sembrano di rilievo, la verità del colorito e insieme la vaghezza; l’arditezza di alcune mosse, e la fierezza di altre fanno piacere e maraviglia a un tempo.

Apprendiamo così che nel palazzo di Torre ancora erano conservate una Crocifissione, una Andata al Calvario e una Resurrezione, queste ultime due giunte nel 1957 ai Musei Reali di Torino. Se le tavole furono sottratte al degrado in cui versava l’oratorio,

9 A causa di una leggera abrasione della carta, le cifre non sono completamente leggibili.

nulla sappiamo invece dell’«ornamentum ligneum» nel quale erano inserite e che probabilmente ebbe una sorte peggiore.

Nel 1819 la visita pastorale di Omobono Offredi ricorda frettolosamente che nell’oratorio c’era solo un dipinto «di buon pennello» raffigurante la Passione di Cristo, senza specificare meglio il soggetto.

L’anno successivo il Dizionario odeporico di Giovanni Meroni da Ponte attribuisce a Giulio Campi due dipinti ancora in loco, l’Ultima cena e Cristo davanti a Pilato che «hanno alquanto sofferto dalle ingiurie del tempo» informando che altri sette dello stesso autore erano stati «altrove trasportati» dal marchese Giuseppe Pallavicino, per garantire la loro conservazione10.

Ben presto anche le ultime tavole abbandonarono definitivamente l’oratorio e nel 1832 il marchese, approfittando della presenza a Torre Pallavicina dell’architetto

10 Maironi Da Ponte 1820, vol. iii, p. 141.

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Oratorio di Santa Lucia, Palazzo Pallavicino Barbò,Torre Pallavicina, in una cartolina degli anni Cinquanta

Carlo Amati, chiamato nel 1827 per il restauro della chiesa di Santa Maria di Campagna 11 , fece trasformare radicalmente l’oratorio, capovolgendone l’orientamento. In una lettera del 27 maggio 1832 il Pallavicino ringrazia l’Amati per la celerità con cui si stanno svolgendo i lavori all’oratorio, dove è stato posizionato il nuovo altare ed eretto il pronao in stile neoclassico che ancora oggi si affaccia sulla strada provinciale e sul canale Vacchelli12. Scompariva così ogni traccia dell’antica cappella che Adalberto Pallavicino aveva voluto per la salvezza della sua anima e per lasciare ai posteri memoria di sé.

11 T. Borroni in Il Fondo Amati 1997, pp. 226-229.

12 C. Mutti in Il Fondo Amati 1997, pp. 293-307, in particolare p. 301.

Criteri di trascrizione dei documenti: Dei documenti che seguono, prodotti in epoche e in contesti diversi, si propone una trascrizione diplomatica. Si sono sciolte le abbreviazioni, si sono separate le parole e si è introdotta l’interpunzione secondo esigenze moderne. La lettera “y” e la lettera “j” sono state trascritte con “i” semplice, così come le “ij” con “ii” e la “u” fonetica con “v”. Si è introdotta la maiuscola dopo ogni punto fermo. La mancata comprensione del testo è indicata da un numero di puntini corrispondente alle lettere non trascritte, tra parentesi tonde: (…); gli interventi di integrazione sono inseriti tra parentesi quadre: [ ]; lo scioglimento di compendio incerto è inserito tra parentesi tonde: ( ). Per segnalare l’omissione di una parte del testo si sono utilizzati i tre puntini tra parentesi quadre: […].

1557, ottobre 7, Torre del Signor Tristano, in territorio Calciana

Testamento del marchese Adalberto Pallavicini

ASCr, Notarile, Gariverti Nicola, filza 506

Ibique Illustris dominus Adalbertus Marchio Pallavicinis filius quondam Illustris domini Galeaz (sic) Marchionis Pallavicini felicis recordationis habitans loci Turris appellatur La Torre del Signor Tristano territorii Calziane, episcopatus Cremone per Dei gratiam sanus mente et corpore et bone memorie ac animi desposicionis […] fecit et facit suum presens testamentum nuncupatur quod voluit, iussit et ordinavit debere perpetuo valere […] Item prefatus Illustris dominus Testator dixit, iussit, voluit etc. Quod prefati Magnifici domini Galeaz, Antonius Maria et Pallavicinus tantum heredes particulares instituti ius testamenti comunaque et expensis comunibus inter eos post obitum prefati Illustri domini Testatoris construere seu construi facere in dicto loco Turris, in loco apto unam capellam cum altari habilem et idoneam ad celebrandum missas, ubi prefatus dominus Testator eam construi non fecerit in eius vita, sub tituolo seu vocabulo Sancte Lucie in qua singula die in perpetuum per unum idoneum sacerdotem superinde presentandum per praefatos magnificos dominos Galeatium, Antonium Mariam et Pallavicinum et eorum descendentes celebretur una missa in remedium anime prefati Illustri domini Testatoris et descendentium suorum in qua missa dictus sacerdos

dicere teneatur orationem unam pro anima prefati Illustri domini Testatoris semper in dicta oratione exprimendo nomen prefati Illustri domini Testatoris alta et intelligibile videlizet nomen Adalbertus Pallavicini et in eius memoriam […] Illustris dominus Testator legavit pertichas trigintaquinque, tabulas septem vel circha terre aratorie et vidate et irrigatorias alias acquisitas ab heredibus Ambrosii de Rizzo in loco Villenove, que alias erant iuris Comiti Alexandri de Covvo […]

1569, settembre 3, Polesine San Vito

Testamento del marchese Adalberto Pallavicini ASCr, Notarile, Gariverti Nicola, filza 508 (del testamento esiste una copia in ASCr, Notarile, Comenducci, Giovanni Pietro filza 1021 e una copia a stampa presso l’Archivio Barbò di Torre Pallavicina)

Ibique Illustris dominus Adalbertus Pallavicinus Marchio filius quondam Illustris domini Galeatii in presentiam habitans in dicto loco Polexini, sanus mente et corpore, […] volensque dum vacat posteris suis per viam ultime voluntatis providere et testamentum suum nuncupatum idest sine scriptis condere et facere tale suum testamentum condidit et condere et facere procuravit […] Item iussit et gravavit prefatos heredes suos, scilicet prefatum Illustrem dominum Galeatium pro dimidia et prefatos dominos Cesarem et fratres pro altera dimidia ad construendum seu construi

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faciendum in dicto loco Turris in pallatio novo capellam seu oratorium sub titulo Sancte Lucie et eidem capelle seu oratorio legavit illas pertichas trigintaquinque et tabulas septem vel circha terre aratas, irrigatorias et vidatas sitas in loco predicto Ville nove Calziane inferioris quas prefatus Illustris dominus Testator alias emit ab heredibus Ambrosii de Ritio et que alias erant iuris comiti Alexandri Covi cum iuris irrigandi eas ex aquis prefati Illustris domini Testatoris cum domo super eis a prefatis illustris dominis Galeatio pro dimidia ac Cesare et fratribus pro altera dimidia construenda et quam iussit a prefatis illustris dominis Galeatio ac Cesare et fratribus construi et deinde ad capellam seu oratorium predictum iussit ellegi sacerdotem probe vite qui singulis diebus celebret in dicta capella seu oratorio […] et iussit ut ipsa capella et eius benefictium sit iuris patronatus prefati illustri domini Galeatii et descendentium et videlizet possidentium seu possidentis dictum pallatium novum utsupra legatum qui quidem sacerdos qui celebravit missam utsupra teneatur et debeat in singulis missis dicere orationem unam in remedium anime prefati Illustri domini testatoris exprimendo alta et intelligibili voce nomen et cognomen prefati illustri testatoris per hec verba videlizet: “ut animam famuli tui Adalberti Pallavicini etc.

1575, aprile 9, Cremona in casa di Galeazzo Pallavicino in vicinia San Nicolò

ASCr, Notarile, Picio Pietro Martire, filza 2982

Ibique dominus Antonius de Campo filius quondam domini Galeatii, vicinia parrochiae Sancti Nicolai Cremone, suo nomine proprio necnon nomine et vice dominorum Galeatii et fratrum de Campo, filii quondam Iulii ac domini Vincentii etiam de Campo pro quibus se constituit […] confessus fuit et manifestavit ad interrogationem et instantiam illustris domine Fulviae Martinenghae Marchionissae

Pallavicinae, filia quondam illustris domini Francisci et nunc uxor illustris domini Galeatii Marchionis

Pallavicini […] et mei notarii infrascripti uti publicae personae […] necnon etiam illustrium dominorim Caesaris et Manfredi fratrum etiam Marchionum

Pallavicinorum, filii quondam illustris domini Hieronimi et illustris domini Antonii Mariae etiam Marchionis Pallavicini, filius quondam alterius illustris domini Antonii Mariae […] se dominum Antonium et praefatum quondam dominum Iulium habuisse et recepisse ante praesens instrumentum a praefato illustre domino Galeatio seu a dicto quondam illustre domino Adalberto Marchione

Pallavicino libras quadringentas imperialium in causam solutionis partis mercedis prefato domino Antonio et quondam domino Iulio per dictum quondam illustrem dominum Adalbertum conventae et premissae pro pingendo et conficiendo oratorio praefato illustre domino Adalberto seu eius heredibus […] Et ulterius praefatus dominus Antonius confessus fuit et manifestavit etiam ad interrogationem et instantiam prefatae Illustris dominae Fulviae et mei notarii […] se dominum

Antonium habuisse et recepisse a prefata domina

Fulviadante etc. nomine et de pecuniis dicti eius mariti pro ut dixit etc. […] libras centumviginti duas et soldos decem imperialium in causam completae solutionis tertiae partis librarum trecentarum sexaginta septem et soldorum decem imperialium residui mercedis per prefatos quondam Illustrem dominum Adalbertum dicto domino Antonio conventae et promissae pro pingendis cameris in loco Turris Calcianae inferioris diocesis Cremonae, et pro pingendo vexillo seu stendardo ac pennonibus Illustris quondam domini Hieronimi Marchionis Pallavicini, olim capitanei equitum graviae armaturae Illustrissimae Dominationis

Venetae, necnon pro expensis per praefatum dominum Antonium in emendis coloribus, auro et similibus circa dictos stendardum et pennones factis et cuius debiti librarum trecentarum sexaginta septem et soldorum decem imperialium dictum

fuit ex dispositione testamenti praefati quondam Illustris domini Adalberti, tertiam partem spectare ad praefatum Illustrem dominum Galeatium, aliam tertiam partem praefatis Illustribus dominis Cesari et Manfredo, et aliam tertiam partem dicto Illustri domino Antonio Mariae […].

Et ulterius […] convenit et promisit praefatae Illustri dominae Fulviae […] perficere dictum oratorium infra triennium proxime futurum […].

1601, ottobre 24

Visita pastorale di Cesare Speciano ASDCr,Visite pastorali, 45, p. 261

Visitata fuit Ecclesie simplex Sancte Lucie loci Turrium Dominorum Pallavicinorum sub plebe Calcianae inferioris. Que ecclesia est parva, congruentis tamen amplitudinis una constans navi fornicata, et dealbata, illuminata tribus fenestris munitis clathro ferreo. In eius capite est altare parieti posteriori adherens amplum […].

1624, maggio 7

Visita pastorale di Pietro Campori ASDCr,Visite pastorali, 58, p. 575

[…] Visitavit oratorium privatum Illustrissimi Marchionis domini Galeatii Pallavicini situm intra fines eius domus, quod oratorium versus ad orientem et forma quadrata, fornicatum, dealbatum, capax octuaginta vel centum personarum circiter, stratum pavimento testaceo cum porta in frontispicio munita valvis, et fenestra orbiculari et aliis quattuor fenestris lateralis obductis tela, et papiro.

[…] Pro icona ornamentum magnum invenitur artificiose elaboratum cum diversis picturis Mysteriorum vita Domini nostri diversis locis distinctibus.

Super altare tabernaculum quoddam ligneum forma quadrata inauratum intra quod loculum satis ornatum in quo ordine distincte, et recondite nonnulle reliquie et presertim de Spina ut credunt corone Domini Nostri, de ligno crucis, obductum craticula ferrea inaurata cuius clavis custoditur a Domina Marchionissa, que (…) reliquie non fuerunt ab ordinario recognite, et approbate.

1678, maggio 21

Visita pastorale di Pietro Isimbardi ASDCr,Visite pastorali, 104, pp. 249-253

De Oratorio Sancte Lucie vulgo Sancte Iulie. Successive visitatum fuit Oratorium Sancte Lucie extructum in loco Turrium Pallavicinorum, membrum ecclesie parrocchialis Sancte Marie Campanea.

Hoc Oratorium positum ad horientem fornicatum et dealbatum est cum pavimento testaceo et illuminatum fenestris quattuor, una orbiculari cum crate ferrea in frontispicio super ianuam et tribus lateralibus cum cratibus ferreis, et telaribus papiraceiis. […]

Loco iconae est Reliquiarium in quo sunt plures

SS. Reliquias incluse in eleganti armariolo inciso inaurato et depicto posito supra altare cum crate ferrea inaurata.

Post quod est Ornamentum ligneum eleganter incisum ad utrumque latus oratorii extesum et a pavimento usque ad fornicem in quo depicta sunt Misteria Passionis Christi Domini.

Altare est instructum mappis duabus, quarum inferior duplicata est cruce lignea cum Crucifixo. Tabella secretorum aliquantulum indecente cum corinice lignea, candelabris quattuor ex auricalco. Palio ex serico diversi coloriis.

Ad hoc altare est erectus titulus beneficii sub invocatione S. Lucie iurispatronatus Illustrissimi domini Marchionis Adalberti Pallavicini […].

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1688, marzo 13

Visita pastorale di Ludovico Settala ASDCr,Visite pastorali, 124, pp. 323-325

De Oratorio Sancte Lucie exstructu in loco Turrium de Pallaviciniis.

Hoc Oratorium (...) vergit ad orientem constatque unica nave fornicata et dealbata cum pavimento testaceo. Illuminatur fenestris quattuor oblungis cum crate ferrea et papiro obductus, una orbiculari super ianua. […]

Loco iconae est reliquiarium in quo osservantur plures Reliquias incluse in armariolo eleganter inciso, inaurato et depicto posito supra altare cum crate ferrea, post quod est ornamentum ligneum eleganter incisum ab uno latere ad aliud oratorii, et a pavimento usque ad fornicem in quo distincta depicta sunt Misteria Dominice Passionis.

Altare est instructum mappis (…..) cruce cum Crucifixo ligneo depicto, candelabris quattuor ex auricalco, tabella secretorum sine coronice, tabella Evangelii Sancti Ioannis in coronice.

Palio ex corio depicto propulvinari scabello ligneo. […]

Ad hoc altare erectus est titulus beneficii simplicis sub invocatione S. Lucie iurispatronatus potenti domini Marchionis Galeatii Pallavicini […]

Primo quarto del XVIII secolo

Desiderio Arisi, Accademia de’ pittori cremonesi con alcuni scultori ed architetti pur cremonesi, ii Los Angeles,The Getty Research Institute, Special Collections, ms. 930055, c. 416

[…] Fece vedere ancora, che sì come sapeva colorire d’architettura, che la sapeva mettere anche al pari in pratica, e tralasciando molte belle fabriche di sua invenzione, passarò solo a quella maestosa del grandioso Palazzo di Torre Pallavicina nella Calzana del fu Marchese Galeazzo Pallavicino, che fa

conoscere quale fosse l’animo generoso del Cavaliere (……), e qual fosse la bravura dell’ingegnosissimo Architetto. Questo è fabricato in un sito con così bell’arte […]. Resta parimente tutto dipinto dalla mano forte d’Antonio, e si può dire, che quando questo grand’uomo non avesse dipinto altro a questo mondo, che sarebbe sempre immortale il di Lui nome. Il salone è tutto pennelleggiato di storie con figure grandi al naturale e fra le altre credesi un Vulcano, che è il terrore dell’Arte. La Cappella, o sia Oratorio del detto Palazzo è arricchito della rappresentazione de 15 (25) Misteri della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, che non si può vedere di meglio espresso da un pennello.

1802, novembre 25, Erbusco

Lettera di Ramon Ximenes a Daniele Ala ASCr, Archivio Ala Ponzone Cattaneo, busta 581

Quanto mi sarebbe piacciuto, caro Daniele, l’essermi ritrovato alla Torre Pallavicina con un valente proffessore di pittura, o con uno di que’ gustai, che conoscono appuntino il carattere, la maniera, lo stile, e come dicono, il fare d’ogni Maestro; e che ti sanno dire per l’a punto: questo quadro è del Mantegna; quest’altro della prima maniera del Rafaello; quello là è del Correggio, questo del Parmeggianino; quel altro è una copia del Tiziano, e tali altre sentenze e denominazioni battesimali, appunto come se avessero preparato la tavolozza a que’ maestri! Ho veduto ivi tre tavole levate dall’Oratorio di quella antica e signorile villa de’ Pallavicini, ove andavano a perire per l’umidità del luogo e per l’incuria e balordaggine de’ contadini; che se portassero un Antonius Allegri faciebat non ismentirebber certo la segnatura: tanto sono graziosi, morbidi, e belli in tutte le loro parti. Rappresentano uno la Crocefissione di Nostro Signore; altro l’Incontro del Redentore colla Veronica quando andava al Calvario, ed il terzo la Risurrezione. La bella invenzione, la

rotondità delle figure, che sembrano di rilievo, la verità del colorito e insieme la vaghezza; l’arditezza di alcune mosse, e la fierezza di altre fanno piacere e maraviglia a un tempo; e fan credere l’opera uscita dalle mani del Correggio, o almeno dello Schidone. Io certo vorrei sentire uno che mi provasse con buone ragioni, che una tale credenza non sia conforme al vero. Nella tavola, ove è rappresentata la Crocefissione, v’ha una Maddalena (voi sapete che il Correggio era il pittor di questa eroina dell’amor divino) che sola basta a caratterizzare per correggesca tutta l’opera. Essa è in atto di assistere la Madonna svenuta; e mentre con una man la sostiene voltando la faccia e istendendo il braccio al Salvatore Crocefisso par che amorosamente gli rimproveri l’immenso dolore della Madre, e che invochi in di lei aiuto la tenerezza dell’onnipotente figliolo. Io veggo nel delicato e amoroso pensiero quel Correggio del quadro dell’Academia, della Madonna così detta della Scodella, e que’ ripieghi di graziosa poetica sensibilità propri del pittor delle Grazie, e che lo è per eccellenza della Maddalena, che in questo quadro, come in quello del San Girolamo, è la prima figura che ferma l’occhio dello spettatore.

Scrivo in fretta … ed in fretta vi dirò avere pure veduto nella Torre Pallavicina una sala dipinta da Bernardino Campi, ma ristaurata da qualche pittor moderno. Come il nostro valente concittadino ha prostituito il suo pennello al depravato gusto del suo mecenate! L’ornato è qual appunto era quello delle Terme di Tito, adottato dal gran Raffaello, e in tante guise variato nelle Loggie Vaticane: ma le figure introdottevi rappresentano tutte le infamità della Teologia pagana […]

1819, agosto 6 Visita pastorale di Omobono Offredi ASDCr,Visite pastorali, 193, p. 399

Il quarto Oratorio [della parrocchia di S. Maria di Campagna, vicariato di Calcio] è posto in corte della Nobile famiglia Pallavicini alla Torre suddetta. Questo fu eretto per Testamento del Marchese Adalberto Pallavicino il giorno 3 settembre 1569 […] In questo Oratorio evvi un quadro di buon pennello rappresentante la passione del Salvatore, come pure la reliquia della Sacra Spina in teca d’argento […]

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Albrecht Dürer per Antonio Campi

Eleonora Scianna

Il rapporto tra la cultura pittorica cremonese del Cinquecento e la produzione a stampa tedesca è tema noto: è un caso esemplare la navata centrale del Duomo della città. Gli episodi della Vita della Vergine e di Cristo , affrescati nel secondo decennio del secolo, infatti, devono molto ai modelli della Grande Passione, della Piccola Passione e della Vita della Vergine di Albrecht Dürer (1471-1528)1. Le serie del maestro tedesco, da subito diffuse anche in Italia, forniscono ai pittori attivi nella cattedrale precisi riferimenti per la scansione iconografica e un repertorio figurativo ricchissimo.

Anche nel caso specifico di Antonio Campi, la conoscenza delle incisioni del maestro tedesco è già stata più volte argomentata. Nel catalogo della mostra cremonese del 1985, Bert W. Meijer e Giulio Bora mettono in luce, per esempio, la dipendenza della Morte della Vergine del trittico Cusani (1577) in San Marco a Milano dallo stesso episodio della Vita della Vergine di Dürer2. E giustamente Meijer sostiene come nelle incisioni tedesche, a quell’altezza cronologica, sia da ricercare soprattutto il punto di partenza per l’impostazione compositiva, il che vale anche per la Fuga in Egitto dello stesso grande trittico.

Negli stessi anni, tra il 1570 e il 1578, Antonio è impegnato a dipingere il ciclo di episodi della Passione di Cristo per la cappella di Santa Lucia a Torre Pallavicina e, senza sorpresa, anche in questo caso Dürer si rivela ineludibile riferimento per il pittore cremonese. Si può dire che i repertori düreriani siano, ancora nell’ottavo decennio del secolo, la fonte naturale per una serie sul tema della Passione.

In effetti, nelle due tavole torinesi3 l’influenza nordica è talmente forte che le

1 B. W. Meijer, in I Campi 1985, pp. 25-32; Lusi 2020.

2 B. W. Meijer, in I Campi 1985, p. 25; G. Bora, in I Campi 1985, p. 183.

3 Musei Reali di Torino – Galleria Sabauda, invv. 989, 990.

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opere furono giudicate di «pittore fiammingo del 1540-1550» quando, a Firenze nel 1957, le acquistò lo Stato italiano. I due dipinti furono destinati ai Musei Reali di Torino per entrare nelle collezioni sabaude, le più ricche in Italia di pittura del Rinascimento dell’Europa settentrionale. Nel 1994 Marco Tanzi, quando riconosce in Antonio Campi il loro autore, mette le due tavole con L’andata al Calvario e la Resurrezione in relazione con le fonti a stampa provenienti dal nord Europa4. In particolare, rintraccia nella prima significative citazioni dal corpus düreriano, tanto dalla Piccola Passione su legno che dalla Grande Passione: tra queste, il personaggio che regge sulle spalle la scala è un prelievo diretto e puntuale dallo stesso episodio di quest’ultima serie e dalla stessa incisione deriva anche la posizione di Cristo, appoggiato con la mano sinistra su una pietra. Ancora, nella parte sinistra della tavola, invece, la coppia di figure in azzurro e verde (ma a disposizione invertita) e Maria e Giovanni ricalcano personaggi del Calvario düreriano nella versione della Piccola Passione. Non c’è dubbio, quindi, che il cremonese avesse a disposizione le due serie del genio di Norimberga e le usasse entrambe sia per l’impostazione compositiva che come repertorio figurativo.

Analoghe conclusioni si possono trarre sulle tavole Canesso, con Cristo nell’orto e Cristo davanti a Caifa, mai finora messe in rapporto con le fonti a stampa. Per la prima, un soggetto frequentatissimo nella Lombardia borromaica e spesso richiesto anche ai fratelli Campi, Antonio sembra meno legato alle fonti nordiche. Dall’episodio della Piccola Passione su legno sembrano ispirati, sullo sfondo, Giuda e i soldati che escono dalla porta della città e l’idea dell’apostolo barbuto addormentato con il profilo illuminato violentemente dalla luce dell’angelo. La tavola con Cristo davanti a Caifa di Torre Pallavicina si rifà, ancora una volta, al prototipo di Dürer e anche in questo caso l’esemplare della Piccola Passione è il modello privilegiato. Rispetto alla xilografia, rimangono quasi identici il soldato al centro con il pugno alzato e quello all’estrema sinistra, con il cappello a punta, che chiude la scena; il personaggio in primo piano che indica Caifa è come ruotato per dare le spalle allo spettatore. Un dettaglio secondario conferma che la maggiore dipendenza dalla versione incisa su legno è una scelta non obbligata: dal margine sinistro le prime due armi dipinte da Campi sono tratte precisamente dallo stesso episodio su rame,

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4 Tanzi 1994. Albrecht Dürer, Cristo davanti a Caifa (dalla serie Piccola Passione su legno), 1509-1510, xilografia

la seconda coppia, invece, ripete quelle della Piccola. È lecito forse ipotizzare che lo splendido dettaglio della materia ruvida della manica del soldato che, nel dipinto, porta lo scudo nel dipinto sia suggerito dal già citato soggetto düreriano con il pugno chiuso.

Un altro caso di citazione puntuale è quello della splendida tavoletta (41 x 27,5 cm) con le Tentazioni di Sant’Antonio, già in collezione Sadolin, quindi presso Galleria Canesso, oggi in collezione privata: il Santo è infatti identico a quello nella xilografia di Albrecht Dürer con Sant’Antonio Abate che visita San Paolo Eremita nel deserto (1504).

Un lavoro approfondito sulla produzione campesca, non solo di Antonio, che studi il rapporto con le fonti a stampa tedesche sarebbe di sicuro interesse per comprendere l’evoluzione della cultura manierista cremonese.

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Antonio Campi, Le tentazioni di Sant’Antonio Abate, 1568, collezione privata Albrecht Dürer, Sant’Antonio Abate visita San Paolo Eremita nel deserto, 1503-1504, xilografia Albrecht Dürer, Andata al Calvario (dalla serie Grande Passione), 1498-1499, xilografia

Mezzo secolo di studi e qualche nuova osservazione (1974-2023)

Ora che Monica Visioli, con la capacità e la passione che le sono proprie, ha trovato e svelato le carte, molte tessere relative a quattro tavole di Antonio Campi eseguite per l’oratorio di Santa Lucia nella villa di Adalberto Pallavicino a Torre Pallavicina sono andate al loro posto. Tutto sembra più facile, ma è stato per tanti anni un enigma contro il quale, un paio di volte almeno, mi sono scornato dimostrando, eufemisticamente, scarsa attenzione. Cosa fare, in questa circostanza, se non mettere insieme brani dei miei contributi del 1994 e del 2023 alla luce delle nuove scoperte, che si sono susseguite, a valanga, quando il mio articolo per «Paragone» era già in stampa e non potevo più metterci mano. C’è l’uso consapevole di due testi molto distanti nel tempo, tenuti insieme da qualche riflessione più meditata, qualche nuovo aggancio e, soprattutto, dalla conferma di una consapevolezza che avevo già da tanti anni ma che non mi si era mai palesata in proporzioni così macroscopiche: l’abilità diabolica di Antonio Campi di giocare le sue carte su più tavoli, secondo un numero di registri espressivi davvero rimarchevole. Non dimenticando mai che questa storia nasce nel 1974, grazie a Maria Luisa Ferrari.

Quando, all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, Ezio Benappi mi suggeriva di guardare come possibili opere cremonesi le due tavole della Galleria Sabauda di Torino con l’Andata al Calvario e la Resurrezione (invv. 989, 990) riferite a “Pittore fiammingo del 1540-1550 circa” – acquistate dallo Stato presso l’Ufficio Esportazione di Firenze per diritto di prelazione nel 1957 e destinate al museo torinese per accrescere il patrimonio di pittura d’Oltralpe – non feci molta fatica a riconoscere due smaglianti capi d’opera di Antonio Campi che avrei datato intorno o poco prima il 1560, destinati alla devozione privata1. Dopo averne

1 Rispettivamente 130 x 58 e 128,5 x 57,5 cm. Si vedano: Guide 1993, p. 77;Tanzi 1994, pp. 55-61, tav. ii

rilevato l’elevata qualità, l’approccio fortemente nordicizzante e illusionistico e la tavolozza smagliante, compii l’errore di giudicarle elementi di un trittichetto destinato alla devozione privata e non di un insieme più ampio. Soprattutto, in maniera superficiale, non le misi in rapporto con le altre due tavole dedicate alla Passione di Cristo pubblicate da Maria Luisa Ferrari nel bellissimo saggio del 1974 che abbiamo ritenuto utile riprodurre in questo catalogo: Cristo nell’orto e Cristo davanti a Caifa un tempo nell’oratorio dedicato a Santa Lucia nella villa di Adalberto Pallavicino a Torre Pallavicina2. Ero comunque in buona compagnia, perché nessuno degli agguerriti studiosi dei Campi, c’era arrivato: solo in tempi recentissimi un giovane e bravo studioso, Giovanni Renzi, l’aveva adombrato nella sua tesi di dottorato per poi confermarlo nella prima monografia, fresca di stampa, su Antonio Campi3.

Me la potrei sbrigare ora facendomi facile scudo della giustificazione che la studiosa non aveva fornito le dimensioni dei due dipinti (132 x 56 cm ciascuno): avrei dovuto capirlo comunque, allora o, almeno, pormi il problema nel corso dei lunghi anni in cui i Campi hanno rappresentato magna pars delle mie ricerche. Invece, niente. Ci volevano i capillari e tignosi affondi archivistici di Monica Visioli – che, quando intravede la preda, non la molla finché non è riuscita a farla sua – perché solo ora si squarciasse il velo e mi si potessero aprire finalmente gli occhi sull’appartenenza delle quattro tavole a un medesimo complesso – e che complesso – del quale facevano parte numerose (25 o, più verosimilmente, 15) altre tavole con episodi della Passione di Cristo, collocate in un ambiente di dimensioni ridotte, inserite in una struttura che fatichiamo a immaginare, soprattutto dopo gli interventi architettonici del XIX secolo. Non si trovano modelli simili nella Milano dell’epoca, o almeno a me così pare: forse bisognerebbe pensare alle pareti dell’aula ricoperte da una boiserie con inserite le tavole dipinte, ma bisogna comunque ipotizzare un ambiente molto esclusivo e dalla struttura insolita. Comunque, la laconica descrizione del 1624 nella Visita Campori, con quel «artificiose elaboratum» risulta di per sé piuttosto significativa: «ornamentum magnum […] artificiose elaboratum cum diversis picturis Mysteriorum vita Domini nostri diversis locis distinctibus».

2 Ferrari 1974a.

3 Renzi 2022, I, pp. 10-11, nota 3.

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Quante parole a vuoto ho speso, nel corso del tempo, sui diversi registri espressivi che Antonio riusciva a mettere in campo con abilità virtuosistica nelle sue opere: questo del dimenticato oratorio pallavicino è forse il caso più eloquente. Maniera, Nord, vero di natura, artifizi luministici, patetismo borromaico: una miscela che si potrebbe definire esplosiva per la seconda metà degli anni Settanta, quando già vent’anni prima nella villa, nella sala del piano superiore, Antonio realizza la grande fascia con gli Amori degli Dei, uno dei monumenti più alti della pittura profana in Lombardia, che dovrebbe farci da viatico anche per comprendere meglio la temperatura erotica ribollente della decorazione perduta dei principali palazzi milanesi, prima dell’arrivo di Carlo Borromeo sulla cattedra di Ambrogio e del suo perentorio extra omnes per un certo tipo di figurazione. Per confortare l’attribuzione ad Antonio, nel 1994 scrivevo che le due tavole della Sabauda: sono un collage molto abile di elementi pittorici tipicamente campeschi, ma come rimontati in un contesto fortemente nordicizzante, con un debito scoperto, soprattutto per quanto riguarda l’Andata al Calvario, nei confronti della grafica di Albrecht Dürer. Se infatti vogliamo esaminare la produzione del maestro di Norimberga, troviamo la fonte diretta nella xilografia con il medesimo soggetto della Piccola Passione. Credo comunque necessario, a questo punto, tentare una serie di confronti incrociati con le opere più note di Antonio Campi per supportare questa ipotesi: la curiosità più rilevante sta nel fatto che i dipinti più in sintonia con le due tavole della Sabauda si scalino proprio nel settimo decennio del secolo – quello solitamente definito “sperimentale” dalla critica, sulla scorta delle osservazioni di Roberto Longhi – a partire dalla Resurrezione del 1560 in Santa Maria presso San Celso a Milano, una sorta di versione iper-compressa del quadro torinese, fino alla Crocefissione con scene della Passione del 1569 al Louvre, passando attraverso dipinti come il Ritrovamento della Croce in una collezione modenese (1566), ed esperimenti luministici come le Tentazioni di Sant’Antonio abate già Sadolin (1568).

In questo gioco di confronti, tuttavia, la parte di maggiore spicco spetta agli affreschi con le Storie di San Paolo in San Paolo Converso a Milano, che Antonio e Giulio Campi eseguirono nel presbiterio dell’aula pubblica del tempio entro il 1564.

Non va taciuta l’eleganza della tavolozza fredda e luminosa, oltre che ricca di cangianti molto acidi, con alcuni brani di raffinatezza estrema, come le due figurette diafane contro

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il fondo abbagliante della Resurrezione, o le lacche preziose e gelidamente madreperlacee che creano stacchi cromatici di particolare ispirazione in entrambe le tavole. Sono inoltre da stabilire ulteriori confronti con altri dipinti ben noti di Antonio: lo scorcio del soldato in primo piano nella Resurrezione è quello del Cristo nella Pietà tra Sant’Antonio di Padova e il Beato Facio del 1566 nel Duomo di Cremona, di quell’illusionismo prospettico caro ai cremonesi grazie al Pordenone della controfacciata; mentre nell’Andata al Calvario va evidenziato il tópos ricorrente nella pittura campesca, ancora una volta di matrice pordenoniana, del cavallone imbizzarrito in primo piano. Nella Resurrezione, l’armato che si china trova paralleli sia negli affreschi di Torre Pallavicina che nel San Vittore della pala oggi sull’altare maggiore di San Pietro al Po (1575); mentre quello che si scherma con lo scudo – ripreso da Giulio Romano nella Sala di Troia – oltre che nell’affresco in San Paolo Converso trova un preciso riscontro nell’analogo dipinto in Santa Maria presso San Celso.

Vorrei per un attimo soffermarmi sul rapporto fra le due Resurrezioni di Milano e Torino per ribadire quella che a mio avviso sembra un’indubitabile prossimità cronologica: le due tavole, oltre a particolari comuni, hanno la stessa impostazione compositiva e, soprattutto una forte analogia cromatica, giocata su una tavolozza impreziosita in maniera accurata da lacche e accordi freddi di gran classe. La pala milanese, il dipinto della svolta romanista avvistata da Roberto Longhi, è un capolavoro assoluto e, per così dire, isolato nella produzione di Antonio con la straordinaria caduta sullo spettatore del gigantesco nudo in primo piano, di un’evidenza fisica, ottica e illusiva uniche nel percorso del maestro cremonese4

Con un salto di quasi trent’anni arriviamo a quest’altro brano del 2023:

Tornando alle due tavole pubblicate da Maria Luisa Ferrari, il riferimento ad Antonio Campi proposto nel 1974 è del tutto convincente e va di concerto con la loro elevatissima temperatura qualitativa, resa ancora più smagliante dal recente intervento di restauro. Occorre poi ricordare che spetta ancora alla Ferrari l’accostamento al Cristo davanti a Caifa di un notevole disegno a matita nera degli Uffizi (inv. 1636 Orn) con Due studi

4 Tanzi 1994, pp. 55-56.

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di teste e tre studi di mani nel verso e, nel recto, un Gioco di putti da collegare con altre opere di Antonio.

Ciò che maggiormente stupisce, ora che sappiamo che i dipinti di Torino erano parte dello stesso complesso, è l’abilità di Antonio nel concepire un articolato organismo pittorico nel quale poter giocare su più livelli espressivi e di invenzione, sapendo riunire in una miscela molto particolare e modernissima opere di momenti diversi: quelle “a lume di notte”, suggestive e corrusche, e le altre, impreziosite da una tavolozza gelida e brillante, luminosissima, con l’illusionismo prospettico a farla da padrone; strettamente legate ai vertici romanisti della Maniera e rese vieppiù fascinose per le citazioni precise dalle incisioni d’oltralpe.

Una volta assimilata l’importante novità dei quadri torinesi, restiamo su Antonio, ai massimi livelli, in questo caso, “precaravaggeschi”: sono solo suoi, in famiglia, i «quadri di notte e di fuochi», gli esercizi capziosi e studiatissimi dei notturni e del lume artificiale, tra fiaccole, lanterne, luna, luce divina, che incidono sui personaggi, sugli ambienti e sui paesaggi di rovine dell’antichità, in una memoria dell’antico metafisica e lunare. Dalla fine del settimo decennio del secolo si può contare una serie di dipinti di Antonio in cui l’artista da prova sbrigliata di questi artifizi luministici: dal grottesco della tavoletta con le Tentazioni di Sant’Antonio abate (1568), già nella collezione danese di Gunnar Asgeir Sadolin, alla Decollazione del Battista per San Paolo Converso (1571), alla Adorazione dei pastori di Santa Maria della Croce a Crema (1575). Tenendo conto, inoltre, che a una cronologia più o meno analoga si deve collocare il San Girolamo della Galleria Sabauda (inv. 801), non datato ma inserito in una visione di paesaggio al chiaro di luna magica e allo stesso tempo macabra, che è poi quella in cui è ambientato il Cristo nell’orto già a Torre Pallavicina.

Per le tavole già a Torre il documento del 9 aprile 1575 [vedi p. 54], non trattandosi di un contratto di allogazione, non consente una collocazione cronologica garantita ad annum e è necessario lavorare sui dati dello stile. Se la commissione «pro pingendo et conficiendo oratorio» è dovuta ad Adalberto Pallavicino, deve per forza essere datata prima della sua morte, che cade nel 1570, verosimilmente il Calvario e la Resurrezione di Torino potrebbero essere stati realizzati intorno alla fine degli anni Sessanta. Per il Cristo nell’orto e Cristo davanti a Caifa, invece, la realizzazione deve essere portata a termine nel giro di tre anni a partire dal 9 aprile 1575 dell’incontro cremonese tra Antonio Campi e Fulvia Martinengo Pallavicino. La forbice relativa all’esecuzione di tutto il

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complesso pittorico, quindi, appare piuttosto ampia, tra il 1570 circa e il 1578, ma si ha l’impressione che, per i quadri-Ferrari vada circoscritta agli anni tra il 1576 e il 1577 a causa delle vistose affinità stilistiche con le opere di questo biennio. Senza ripetere la sequenza appena elencata – e i punti di contatto sono soprattutto con la pala di Crema e il trittico Cusani, anche se nel Cristo davanti a Caifa si impone come per una sorta di flashback, nell’architettura compositiva, nelle scelte cromatiche e nell’incidenza della luce, il ricordo della Decollazione del Battista del 1571 –, alla quale aggiungo solamente, per lo strabiliante verde che emerge in varie tonalità, il San Sebastiano del 1575 al Castello Sforzesco di Milano (inv. 755) e la Cena in casa del fariseo affrescata nel 1577 in San Sigismondo a Cremona. Ricordo, inoltre, che al 1577 si data anche il Cristo nell’orto in Santa Maria della Noce a Inverigo, nel quale Antonio elabora un prototipo nuovo di questo soggetto, che ripeterà negli anni successivi e che, di conseguenza, potrebbe essere assunto come possibile ante quem, anche se sappiamo come il pittore ami spesso tornare sugli stessi motivi a distanza di anni e in mezzo a esperienze stilistiche diverse5

Come si diceva: due capolavori. Il Cristo davanti a Caifa si distingue per la tavolozza ricca, brillante e raffinatissima: se si è già notata la dominanza dei verdi, occorre rimarcare la qualità degli accordi cromatici tra l’azzurro della veste del giovanetto che regge la fiaccola e gli accordi preziosi di giallo melone, rosa chiaro che gira in viola erica e l’avorio chiaro variegato verso il perla dell’ampio collo di pelliccia. È strabiliante l’effetto della luce che corre frusciando sul pelo e sulla manica di lana increspata del manigoldo al centro che indica Caifa; sulle mani e sul volto, che va congestionandosi, del gran sacerdote, sul tirapugni metallico dell’altro carnefice, sul risvolto argenteo del padiglione. In nessun’altra redazione del Cristo nell’orto, invece, Antonio ottiene un risultato di così intenso e patetico misticismo, dovuto all’emersione in luce del solo protagonista, abbagliato dall’apparizione dell’angelo in un notturno di rara suggestione, con edifici fantasma che vanno liquefacendosi al lume lattiginoso della luna che appare squarciando le nuvole, con i tre apostoli addormentati come fusi tra loro in un impasto bruno verdastro di terre umide, facilmente malleabile. Per Maria Luisa Ferrari «la pittura cremonese non aveva 5 Tanzi 2023, pp. 74-89.

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Incisore certosino, Crocifissione, in  Missale secundum Ordinem Cartusiensium, Certosa di Pavia, 1561, Milano, Biblioteca Braidense

conosciuto finora un modo tanto esemplare di dare tenuta profondamente poetica all’intensità di un dramma senza azione».

Concludo con un accenno alla lettera – segnalatami ancora una volta da Monica Visioli [vedi p. 56] – spedita dal gesuita Ramón Ximenes, l’“istitutore aragonese” dei pargoli della nobile famiglia cremonese di Gian Francesco Ala a Daniele Ala, il primogenito, da Erbusco il 25 novembre 1802, nella quale il religioso ricorda che:

Ho veduto ivi tre tavole levate dall’Oratorio di quella antica e signorile villa de’ Pallavicini, ove andavano a perire per l’umidità del luogo e per l’incuria e balordaggine de’ contadini; che se portassero un  Antonio Allegri faciebat non ismentirebber certo la segnatura: tanto sono graziosi, morbidi, e bellini tutte le loro parti. Rappresentano uno la Crocefissione di Nostro Signore: altro l’Incontro del Redentore colla Veronica quando andata al calvario, ed il terzo la Risurrezione6

Non mancava dunque – e come poteva essere altrimenti – una Crocifissione, oltre ai due pannelli della Sabauda. Per un certo periodo ho pensato che potesse essere quella eseguita da Giulio in formato verticale presso la collezione Carutti di Cremona; un riferimento in qualche modo accettabile se non fosse che quest’ultima è una tavola assai più alta (200 x 75 cm) rispetto alle altre, oltre che un poco fuori clima se confrontata all’estro particolarmente sbrigliato dei dipinti di Antonio. Rivedendo l’Andata al Calvario, tuttavia, e ripensando al clima fortemente nordicizzante e ai riflessi dal mondo della grafica d’Oltralpe, mi è venuta in mente una scoperta molto recente di mia figlia Beatrice, che ne darà conto in un volume di prossima pubblicazione7. Ebbene, nel corso delle ricerche si è imbattuta in questa eccentrica xilografia raffigurante una affollatissima Crocifissione con Ferrante Gonzaga che orna il Missale secvndvm Ordinem Cartvsiensivm stampato In Cartusia Papiae monachorum

6 ASCr, Archivio Ala Ponzone Cattaneo, b. 581. Sullo Ximenes: Rangognini 2002.

7 Tanzi in corso di stampa. Il libro è dedicato alla Certosa di Pavia e, soprattutto all’ancona dell’altare maggiore dovuta ad Andrea Solario per la parte pittorica e a Paolo Sacca per la carpenteria lignea; verosimile committente (follow the money) l’ultimo duca Sforza Francesco II. Oltre alla questione solariana, tuttavia, vi si trova un numero davvero cospicuo di novità per la cultura figurativa lombarda del Cinquecento.

cura, 1561 die vigesimo octauo Septembris, nella quale si possono rilevare numerose consonanze proprio con certa pittura campesca di questo momento specifico. A questo punto la caccia resta aperta per gli «altri sette quadri dello stesso pennello [che] furono dal marchese Giuseppe Pallavicini altrove trasportati per la migliore loro conservazione», ricordati da Angelo Grandi a metà Ottocento e agli altri «Misteri della Passione di N. S. G. Cristo, che non si può vedere di meglio espresso da un pennello»8

8 Grandi 1858, ii, p. 299. La seconda citazione è da D. Arisi, Accademia de’ pittori cremonesi con alcuni scultori ed architetti pur cremonesi, i-ii, primo quarto del XVIII secolo, Los Angeles, The Getty Research Institute, Special Collections, ms. 930055, c. 416.

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Bibliografia

Abbreviazioni

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Ringraziamenti

Si ringraziano:

Annamaria Bava, Direttrice Galleria Sabauda e Enrica Pagella, Direttrice Musei Reali di Torino, oltre che Valerio Mosso, Barbara Tuzzolino, Sofia Villano e, in particolare, Alessandro Uccelli della stessa istituzione.

Don Gianluca Gaiardi, Direttore del Museo Diocesano di Cremona, e Stefano Macconi, Conservatore dello stesso Museo.

Ginevra Agliardi; Agostino Allegri; Paola Bergna; Jlenia Del Vecchio; Giada, Marco, Gabriella e Doriano Delmiglio; Stefano Porri, Biblioteca del Castello Sforzesco di Milano; Marco Rapuzzi fotografo; Giovanni Renzi; Alberto Saibene, Hoepli Editore.

Ringraziamo Francesca Rivetti Barbò per le immagini di Palazzo Pallavicino Barbò in attesa della pubblicazione del suo lavoro fotografico sulle grottesche affrescate da Antonio Campi nel Palazzo.

Un ringraziamento particolare a Marco Tanzi per avere seguito dietro le quinte vari aspetti della “confezione” di questo volume, non solo nel ruolo di studioso ma anche di memoria storica e familiare, delle vicende trattate.

Crediti fotografici

Copertina e pp. 62-63, 67, 68, 71, 72, 78-79: Giorgio Olivero, su concessione del MiC – Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda

pp. 6, 8: Francesca Rivetti Barbò

pp. 12, 18-19, 33, 35, 36, 41: © Fotostudio Rapuzzi Brescia

p. 13: Ernani Orcorte, su concessione del MiC – Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda

pp. 23, 25, 26: Per gentile concessione dell’editore Ulrico Hoepli, Milano (immagini realizzate in eliotipia dallo Stabilimento Calzolari & Ferrario – Milano)

pp. 28, 29, 30, 31:Vernasca, Archivio Gino Amieni

pp. 38, 39: © MiC – Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto Fotografico

p. 44: Cremona, Museo Diocesano

p. 60: Parigi, Archivio Galerie Canesso

p. 75: su concessione del MiC – Milano, Pinacoteca di Brera e Biblioteca Braidense

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II edizione

Finito di stampare nel mese di novembre 2023 presso Service Lito, Persico Dosimo (CR)

ISBN 979-12-81461-05-5

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