Psichiatria settembre dicembre 2012

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F. BOCCI - S. CIARDI ET AL.

fatto che la nozione di preadolescenza sia utilizzata con cautela da parte degli studiosi dell’età evolutiva, non godendo della stessa fama delle nozioni di pubertà e adolescenza (Bosi, Zavattini, 1982). In letteratura si riscontra un certo accordo sul fatto che esistano delle differenziazioni fra una prima e una seconda fase dell’adolescenza (Rosanna, 1984; Palmonari, 1997). Tuttavia, alcuni autori (De Pieri, Tonolo, 1990; Huston, Alvarez, 1990) considerano la preadolescenza come la fase iniziale dell’adolescenza e sono concordi nell’affermare che si tratti di un periodo abbastanza definito e specifico, distinto dall’adolescenza vera e propria, mentre altri (Blos, 1979) non riconoscono questa fase intermedia e fanno decorrere l’adolescenza dall’inizio della pubertà. Gli stessi criteri di definizione rispecchiano questo dibattito: in alcuni casi ci si avvale del criterio cronologico, che pur con varie fluttuazioni da autore ad autore situa la preadolescenza tra i 10 e i 14 anni; in altri casi si assume il criterio biologico, che pone come centrali le trasformazioni somatiche che avvengono in questa fase evolutiva. Quel che è certo, è che ci si trova dinanzi a quella che taluni studiosi indicano come età delle grandi migrazioni (De Pieri, Tonolo, 1990). In questa fase l’individuo inizia a emanciparsi dal suo corpo infantile, prende le distanze dalla famiglia e si aggrega con più sicurezza al gruppo dei pari, passa gradualmente dalla logica concreta a quella formale, rielabora criticamente le proprie convinzioni, la propria personalità, la propria identità sociale non raggiungendo, pur tuttavia, l’integrazione e la consapevolezza critica tipica dell’adolescente. La condizione dei ragazzi dai 10 ai 14 anni, dunque, ha la caratteristica della transitorietà: i preadolescenti non sono più bambini e non sono, tuttavia, ancora adolescenti. Questo susseguirsi di trasformazioni fisiche, psicologiche e sociali, profonde e irreversibili nel segnare lo sviluppo dell’individuo, rischia però di essere relativamente invisibile. L’impressione è che ci si trovi dinanzi a crescite nascoste, piccoli momenti impossibili da identificare con chiarezza. Questa indeterminatezza fa anche sì che non siano sempre di facile interpretazione i segnali di difficoltà, quando non di vera e propria sofferenza, inviati dai ragazzi di questa età (Montuschi, Palmonari, 2006). D’altro canto, gli stessi protagonisti hanno sentimenti ambivalenti rispetto ai sintomi, e il senso di colpa nonché la dipendenza nei confronti del mondo adulto possono spingerli a mascherare (anche a se stessi) la portata di quanto sentono (Camuffo, Costantino, 2009). Va anche detto che non sempre gli insegnanti della Scuola Media o i genitori hanno strumenti adeguati per cogliere le richieste di aiuto poco eclatanti e attivare, o semplicemente dare avvio, a forme di supporto tempestive ed efficaci (Tomassetti et al., 2008). Si aggiunga, anche, che il riconoscimento da parte degli adulti di una sofferenza a carico di un ragazzo è ancora fortemente condizionato da stereotipi socio-culturali e dal grado di dissonanza che la difficoltà provoca nell’ambiente circostante. L’insieme di questi fenomeni comporta un grave ritardo nella segnalazione, ai servizi di competenza, dei problemi dei preadolescenti. Per cui ci si trova spesso di fronte a disturbi ormai conclamati o a strategie di compenso, più o meno adeguate, messe in atto dal ragazzo.


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