Uno per tutti

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UNO per TUTTI

Antologia di Racconti degli Alunni del Liceo “Aristosseno” di Taranto per il concorso letterario “Scintille”

A cura del Progetto “Amico Libro” Professoresse Anna Caricasole Giuseppina Pergola Lucia Schiavone


Premessa

I Ragazzi dell’Aristosseno, dopo dieci anni di promozione della Lettura prima e della Scrittura creativa poi, gli anni del Progetto Amico Libro, scrivono e si propongono alla lettura dei coetanei e degli adulti con questa pubblicazione: nasce per l’occasione una comunità di lettori e scrittori di Racconti, che compone e legge e discute con passione su temi esistenziali importanti, valuta gli scritti propri ed altrui, si esprime con autenticità e spontaneità, in piena sintonia ideale con gli educatori adulti. I giovanissimi narratori hanno scritto per confermare legami con le proprie radici (IL MARE), con la Famiglia, gli affetti più radicati ed inossidabili, i valori, il mondo e gli uomini che lo abitano. Per esprimere ideali o sostare per un attimo nella dimensione dell’evasione (SOGNI). Per uscire da se stessi ritrovandosi, tra analisi dei propri trascorsi e progetti futuri (PROSPETTIVE E RETROSPETTIVE). I nostri giovani Scrittori scrivono dopo aver letto o mentre leggono Altri, i Grandi,coloro i quali hanno scritto, descritto, profetizzato Mondi. I criteri primi di composizione della nostra Antologia sono l’inclusione e la valorizzazione della sincerità d’intenti, in vista della condivisione di emozioni ed orizzonti: per questo l’ampiezza e la maturità delle sezioni della Raccolta è varia ed ampia è quella intitolata PRIMI PASSI, quelli tutti da fare o da rifare, ma sempre, per noi, da avviare con fiducia,da accompagnare. Le Insegnanti


IL MARE

Erika Laddomada Il mondo stretto in una mano Francesco Zippo Attraverso la notte Emanuela Miccoli (A)mare! Alessandro Pallotta Tra uomini ed eroi c’è di mezzo il mare


IL MONDO STRETTO IN UNA MANO Vi propongo un gioco. Chiudete gli occhi, respirate a pieni polmoni, cercate di non pensare a chi vi sta accanto, alle lancette dell’orologio che corrono veloci, a tutti gli impegni che avete, e provate a rispondere a questa domanda: QUAL È IL VOSTRO LUOGO FELICE? Attenzione, però, perché ne potete scegliere uno solo e non fare una classifica che non finisce mai. Potete scegliere ciò che volete. Una volta lo chiesi ad una ragazza con cui uscivo e lei mi rispose che erano gli aeroporti, qualunque aeroporto di qualunque città. Siamo stati insieme due anni e poi lei è partita con un volo di sola andata. Comunque sono davvero un maleducato a non essermi ancora presentato, chiedo scusa a tutti voi. Mi chiamo Andrea e ho quasi ventinove anni, una barba incolta per dimostrarlo, e faccio il musicista. Mi dispiace dover deludere tutti quelli che associano a questa parola la tradizione melodica italiana e che appena la sentono pronunciare cominciamo a rispolverare i testi di Mina (io preferisco di gran lunga Battisti), ma la mia è musica elettronica, per intenderci quella che i ragazzi ballano in discoteca e che voi adulti trovate tanto strana solo perché non ci sono parole ma solo suoni. Ecco io, ora, vorrei che voi proviate a fare uno sforzo per capire la mia musica, proprio come si fa davanti a un’opera d’arte contemporanea. Il compito di un cantautore o di un cantante è quello di cantare, con parole scelte con molta attenzione, ciò che prova,vive, ha vissuto, vivrà o spera. Insomma in ogni canzone si racconta una piccola storia. Il cantante trasforma le sue emozioni in parole. Io, invece, in suoni. Non è banale o commerciale come sembra. Come fareste voi, ad esempio, ad esprimere in suoni la gioia in una domenica di sole? La nostalgia per ciò che si è perso e la rabbia per ciò che non si può cambiare? La sensazione di perfetta armonia che si prova nel fare l’amore con chi si ama? È abbastanza complesso a pensarci bene, è come se bisognasse mettere in equilibrio ogni nostra emozione, sensazione, ricordo e istinto. Non per vantarmi, ma io sono piuttosto bravo a farlo, lo faccio ancora ma non nella stessa maniera di prima. Mi piace pensare di essere maturato e di aver imparato dalla vita. Già all’ultimo anno del liceo ero un affermato dj e avevo il mio giro di discoteche e pub fissi in cui esibirmi. Mi piaceva da morire, ma io sognavo la fama, le serate di cui non ricordi nulla, le ragazze che fanno la fila per te e poi avevo una curiosità innata che spesso mi aveva portato a trovarmi in brutte situazioni. Scrivere nuove tracce era per me di una facilità assoluta, avevo un segreto: il mare. Anche se a quel tempo non ne ero a conoscenza, il mio subconscio era dipendente da lui. Sono cresciuto in un paesino a due passi dalla spiaggia e il mare è sempre stato la mia seconda casa. Mi bastava sedermi su una duna e ascoltare i suoni di quello che per me era l’equivalente dei Campi Elisi. Lo sciabordio delle onde che si mischiava a piccoli gorgoglii, il vento che spostava i pochi alberi che facevano ombra sulla passerella e intanto rubava un po’ di profumo alle piante di rosmarino, dei bambini che giocavano con un cagnolino, più in là i baci e le risate soffocate di una giovane coppia e ancora molto più lontano un pescatore che ritirava le sue reti … Riaprire gli occhi e trovare quell’eterna e immensa distesa azzurra, mischiata al colore del tramonto o dell’alba, che si divora il sole di mezzogiorno e la notte poi corteggia le stelle. È sempre stato quello il mio luogo felice e ci sono sempre stato legato in modo così stretto che, quando sono andato via, ho rischiato di perdere la mia vita. Dopo aver vinto un concorso internazionale di dj, mi sono trasferito a soli diciannove anni a Berlino. Lì la realtà era completamente assurda, le serate per noi più devastanti per loro erano roba da ragazzini. Io continuavo a fare carriera e, a solo un anno dal mio arrivo, ero diventato famoso ed


ero entrato in un bel giro. Produttori, registi, musicisti, modelle, pittrici, fotografi, macchinoni, vestiti da capogiro, luci, bevute e strette di mano. Era il mio Paese dei Balocchi ed era pieno di tanti Lucignolo. Dopo qualche mese di vita sfrenata, però, non riuscivo più a scrivere. Ogni suono mi sembrava lo stesso e la città al di fuori della mia finestra un alveare di rumori. Avevo abbandonato il mare che era la mia fonte d’ispirazione e ora il mio genio creativo aveva fatto i bagagli. A molti sorprende quanto ognuno di noi è legato al proprio luogo di pace, di quanto spesso anima e corpo si alleino per tornare a casa. Anche se il luogo è una stazione di servizio o una chiesa in rovina, vi appartiene. E io a soli vent’anni come potevo rimediare a questa viscerale mancanza? Avevo l’acqua alla gola, anzi stavo decisamente colando a picco: se non componevo mi rimandavano indietro. Una mattina avevo appena finito di disperarmi con il mio amico Herman quando lui con assoluta semplicità mi suggerì una soluzione aprendo il palmo della mano: eroina. Lui si drogava da tre anni, ma se la passava ancora bene. In realtà in giro potevi trovare senza troppo sforzo molto peggio, la moda dell’ultima settimana si chiamava flux. Il primo buco fu una totale spirale di luci fortissime, colori, suoni amplificati all’infinito che si spegnavano pigramente nel silenzio assoluto. Era la prima volta che mi drogavo, perché io continuo a non considerare gli spinelli una droga, ora più che mai. L’eroina aveva sostituito la forza della natura. All’inizio funzionò. Ripresi a scrivere e i miei pezzi piacevano molto, ma io mi accorgevo di quanto la mia musica stesse cambiando. Prima trovavo ispirazione nella bellezza selvaggia e nobile del mare e la mia musica era così pura da sembrare evanescente. Ma la droga l’aveva sporcata, marchiata a caldo, ci aveva fatto un bel taglio nel mezzo da cui sanguinavano tutti i miei ideali. Tutto questo durò per cinque anni, poi una mattina trovai Herman morto per overdose. Aveva la testa rovesciata nella vasca da bagno del nostro appartamento e la siringa ancora nel braccio. Era il mio migliore amico. Quel giorno mi decisi a guardarmi allo specchio, a guardarmi veramente: ero un cadavere vivente. Due profonde e nere occhiaie circondavano i miei occhi spenti, i capelli erano unti e arruffati, la barba rada, la pelle grigia e la lingua una poltiglia bianca. Basta! Io in uno schifo di bagno non volevo morirci, rivolevo la mia vita ed essere padrone di me stesso, anche se questo significava perdere fama, divertimento e soldi. Quello che avrei trovato una volta a casa sarebbe stato molto meglio. La notte di quello stesso giorno ero di nuovo in Italia. Dall’aeroporto presi un taxi e chiesi al tassista di portarmi al mare, era l’una passata ma a me non importava. L’uomo titubò e mi guardò come se fossi pazzo, ma a me non importava niente, lui non poteva capire e non poteva giudicarmi. Feci la passerella di corsa lanciando le mie scarpe per aria, quando i miei piedi nudi toccarono il bagnasciuga piansi. Il mare, lo stesso che avevo amato e abbandonato, si estendeva senza fine solo per abbracciarmi, per perdonarmi e darmi il benvenuto. Feci il bagno nudo al chiaro di luna e mi sembrava di fare l’amore, e mai ho avuto un’amante così limpida come l’acqua del mare quella notte. Era come se fossi stato purificato e fossi rinato. Mi era stata concessa un’altra possibilità. Avevo il cuore che batteva a mille e voleva uscire dal petto, e temevo che le tempie mi scoppiassero. Era tutto così travolgente, forte e vero, quasi sacro, e non poteva neanche essere paragonato al disgusto che mi ero lasciato a Berlino. Quella notte iniziò la mia disintossicazione, feci tutto da solo e non entrai mai in una comunità, ci riuscii con le mie sole forze. Ma in realtà fu il mare a salvarmi. Mi addormentai sulla spiaggia, con le onde che suonavano per me una dolce ninna nanna. La mattina quando mi svegliai ero incantato, innamorato di quel luogo alla follia, e solo in quel momento realizzai di quanto mi fosse mancato e di quanto ne avessi bisogno per essere in pace con me stesso. Avanzai di qualche passo e lasciai che l’acqua mi lambisse le caviglie, intorno il silenzio totale. Erano le prime luci dell’alba. Strinsi fra le dita un pugno di sabbia. Vi assicuro che avevo il mondo intero stretto in una mano.


Erika Laddomada

ATTRAVERSO LA NOTTE Quando le luci della città iniziano a spegnersi una dopo l’altra, da qualche parte un nottambulo vorrebbe fare lo stesso, ma proprio non ce la fa, così è costretto a muoversi, fare qualcosa, pur di non cedere alla noia che comunque lo lascerebbe sveglio. Così, delle ombre vagano solitarie per le strade, silenziose, si comportano come turisti al museo e osservano meravigliati, camminando lentamente, la grande tela che si allarga dove l’occhio arriva e mira. Vagano finché non è così notte tarda da divenire mattina presto, spesso vedono l’alba, brindano col sole che sorge con un sorriso o un pensiero che gli lanciano contro per vederlo risplendere sotto la luce dei suoi raggi freschi sull’orizzonte davanti a loro. Alessandro quella notte non aveva dormito per nulla: dopo essersi steso nel letto ed essersi rivoltato due o tre ore nelle coperte senza trovar pace, aveva deciso di mettersi qualcosa e uscire e camminare un poco sotto la luce dei lampioni che ormai erano diventati il suo sole di plastica da qualche tempo a questa parte. Mise un jeans ed una maglia di lana che coprì con una giacca a scura e pesante pescata a caso dall’armadio e uscì di casa dando un’occhiata all’orologio davanti all’ingresso: le due di notte. Scese per le scale in silenzio per tutti i tre piani e quando mise piede in strada lanciò il suo sguardo ovunque il suo collo gli permettesse. La vita del giorno è distratta, rumorosa, sta in qualche cartaccia lasciata per terra e calpestata, in qualche bicchiere vuoto ben nascosto sotto la luce di un lampione, nelle case piene di buio tutt’intorno; la vita della notte sta nel guardare ciò che il giorno rende accecante col suo sole lontano nello spazio che splende a milioni di gradi. Forse è meglio una stella a duecentoventi volt. Dopo essersi seduto al centro della strada, dove poche ore prima persone di tutte le età camminavano e chiacchieravano, solo per poter invidiare meglio quelli che riuscivano a dormire quella notte, andò a mettere i suoi pensieri sotto l’arco che gli alberi sul lungomare formavano lievemente sospinti dal vento e iniziò a canticchiare. Fra un passo e l’altro Alessandro fu corroso da una domanda dolorosa: cosa sognerei se potessi dormire adesso? Si appoggiò con una spalla al palo che segnalava la fermata dell’autobus e aspettò che una linea qualsiasi si fermasse e aprisse le portelle, la destinazione era ben poco importante: voleva solo del tempo per poter pensare a quella domanda. Cosa sognerei se potessi dormire adesso? Dopo una ventina di minuti a pensare a quella domanda e maledire i trasporti pubblici, si rese conto che erano le tre e che a quell’ora gli autobus non circolano, così dissimulò l’imbarazzo con la folla di foglie sparse a terra per come potessero deriderlo e scese sulla spiaggia appena a due passi dal lungomare. Come un invitato che non sa quando è il momento di lasciare la festa, l’inverno non voleva lasciare spazio alla primavera, si era accomodato con molta risolutezza fra le vie della città, fra gli alberi che cercavano il sole tutto il giorno cercando di spostare le nuvole muovendo le frasche al vento. Alzava la voce e rideva forte scuotendo le spalle ad Alessandro, che intanto aveva abbottonato il giubbotto fino al collo; per il gran freddo che il suo tocco portava e non se ne andava, gli restava dentro, sopra il petto, sulle spalle, nella pelle. Alessandro scese i gradini di marmo un po’ consumati e sporchi facendo attenzione a dove metteva i piedi perché la luce dei lampioni iniziava a scemare e quando arrivò a metter piede sulla sabbia fredda si sfilò le scarpe, fece una piccola piega ai pantaloni e si avventurò a piedi nudi, poco sorpreso del freddo che dai piedi gli saliva alle gambe, verso le barche attraccate al molo lì vicino. Affondando piedi nella sabbia sentiva tutto il freddo del mare di cui ai pesci del mare non doveva importare proprio nulla, difesi dalle correnti d’acqua più calda. Si avvicinò alla riva e si sedette sulla sabbia a scegliere le pietre più lisce e levigate da poter far rimbalzare sull’acqua, occupò così una decina di minuti, cercando, lanciando, contando. Provò a sentire le parole della mamma nelle onde, si stese per raccoglierle dal bagnasciuga che gli lambiva i piedi quando qualche onda più audace si spingeva verso terra.Non sentì la sua voce chiamarlo per nome, non la sentì rimproverarlo per essersi coperto troppo poco


quella sera, non la sentì gridargli contro di andare a letto perché era tardi. La prima volta che Alessandro aveva provato la tortura dell’insonnia era proprio dopo la morte della madre; voleva poterla almeno sognare, crederla ancora viva, in quei frammenti di vita diurna che nella notte si mischiano coi ricordi, le paure più intime, i desideri più celati. Non gli restava che restare sveglio e rivolgerle qualche pensiero tenero per tenerla viva nella sua memoria. Ogni uomo ha la sua grande paura, e più grande è l’uomo, peggiore è la paura: Alessandro non voleva dimenticare. Combatteva ogni giorno contro la paura di dimenticare il testo di una canzone che non sentiva da tempo, dimenticare dove aveva lasciato le chiavi di casa, il nome di una vecchia conoscenza, un dettaglio d’infanzia… Ricordarsi di essere Alessandro, ricordarsi della sua vita era ciò che lo rendeva Alessandro, quell’Alessandro in quel momento, in quel luogo, con quella storia alle spalle, con quella storia davanti, con quel momento di ansia, smarrimento e insonnia fra le mani. Era la madre ad avergli messo in testa la paura di dimenticare: la vide sparire e farsi sempre più sottile sotto le coperte sempre più spesse, poggiando la testa su un cuscino che le fece dimenticare sempre più cose, fino a farle dimenticare del proprio figlio. Provò fortissimo a sentire la voce della madre nelle onde, ma o forse il cielo e il mare si toccano troppo lontano all’orizzonte, o forse lui non fu capace di ascoltare sua madre nemmeno quella notte di Marzo. Prese la testa fra le mani e si mise a guardare due pescatori, forse padre e figlio, che, non molto distanti, iniziavano a preparare l’attrezzatura per la pesca. Per noia si avvicinò a loro e fu terzo fra cotanta famiglia. Diede anche lui una mano a preparare la barca, così, fra una nassa da pulire e una rete un poco aggrovigliata da riordinare, i tre parlavano fra loro in dialetto del più e del meno, ridevano, scherzavano, dimenticandosi dei loro problemi: insonnia e crisi. Anche i pescatori si erano ridotti a non dormire la notte in attesa del giorno: poco pesce, troppe bocche da sfamare. Anche la loro era di troppo a volte, così la dovevano lasciar vuota per riempire di più quelle della famiglia. Spinsero la barca in acqua dopo una buona mezz’ora di lavoro e chiacchiere che proseguirono mentre prendevano il largo. Con“ un clandestino” a bordo i remi si facevano più pesanti, ma non di molto, nelle spalle e nelle braccia allenate dei due pescatori, ma Alessandro si offrì comunque di sostituire il più giovane. Dopo aver fatto girare la barca due volte su se stessa Alessandro si mise a ridere coi suoi compagni e lasciò di nuovo il remo al ragazzo, così tornarono a procedere dritti, anche se con qualche scossone come su una mulattiera dei mari. Andavano lontano, oltre il mare che la vista esclude dalla riva. Andando verso il sole, spezzando le onde contrarie, ad Alessandro pareva di andare a prendere il sole per i capelli e portarlo a forza sul palcoscenico delle cinque del mattino. Alessandro capì tutto da sdraiato, mentre ascoltava un racconto d’infanzia del più vecchio dei due pescatori. Gli occhi si facevano pesanti.Capì le stelle, capì la terra, capì i pesci, il mare, l’amore, il capire: era tutto legato… Poi l’alto ed il basso delle onde si fecero notte negli occhi di Alessandro e finalmente trovò la forza di abbandonarsi al sonno giunto con l’alba della prima vera primavera che apparve quell’anno. Con l’alba Alessandro perse anche ciò che il dormiveglia gli aveva detto: le stelle e la terra tornarono gli opposti, i pesci tornarono in mare, il capire abbandonò l’amore, ma Alessandro prese a sognare abbastanza forte tanto che il mare, sotto, s’agitò intuendo il tesoro che teneva in sella e lo lasciò andare oltre di sé, dove le stelle e la terra si baciano, dove i pesci camminano sulle acque e dove finalmente si capisce l’amare. Francesco Zippo


(A)MARE! “Saperlo non fa la differenza, Linda!”. Questa è la frase che ricorre più spesso nella mia vita. La prima volta fu quando avevo 11 anni, l’età in cui mi sentii come un esploratore che scorge qualcosa di spettacolare, come uno scienziato che si accorge di qualcosa più grande di lui, come un pasticciere che scopre una nuova ricetta per le sue paste. “Tesoro, tu sei stata adottata…”. “Adottata”: quel termine rimbombava nella mia mente senza alcun significato, in fondo che importanza c’è nello stare con una famiglia che ti ha dato alla luce e una che la luce continua a fartela vedere ogni giorno? Entrambe hanno fatto qualcosa per te.Poi ci pensai su, e mi domandai perché io non dovessi ricambiare questo gesto, perché non potessi gratificare chi mi aveva fatta nascere e dato inizio alla prima pagina della mia vita, visto che da sempre nella mia attuale famiglia ho cercato di dare il massimo in tutto.“E allora da dove provengo? Perché sono qui?” chiesi e la mamma probabilmente non si aspettava la mia domanda improvvisa, così come mio padre, vista la sua improvvisa uscita dalla stanza in cui eravamo. “Saperlo non fa la differenza, Linda!”. Allora l’esploratore era come se avesse scorto qualcosa di spettacolare che non potesse raggiungere, lo scienziato si fosse accorto di qualcosa di grandioso che non poteva portare avanti e il pasticciere avesse scoperto una nuova ricetta che non riusciva a realizzare. Ma raccontarvi tutto quello che feci per arrivare ad avere qualche indizio, cari Lettori, sembra solo una storiella strappalacrime narrata da chi di queste cose non se ne intende per niente; per questo vi dico che un modo per conoscere qualcosa sulla mia famiglia d’origine lo trovai grazie all’aiuto di Davide, qualche documento e tanta volontà perché, diciamocelo, la volontà fa i 50% del lavoro per raggiungere un obiettivo.Sardegna, Olbia, Via Moratti, 2 Maggio 1995, Marta Veiano, Mariano Solito. Queste erano le uniche cose di cui ero a conoscenza…Italia! Dunque avevo solo un anno e per questo i miei ricordi non potevano che essere vaghi. Compagno di vita è il mio migliore amico Davide, che mi aiutò come nessuno seppe fare in questa nuova avventura. Valigie pronte, biglietti per il traghetto presi di nascosto, tanto buon umore e…si parte! “ Io la differenza voglio farla, bisogna essere la differenza nel mondo se si vuole essere migliori. Sapete dove trovarmi baci”. Testuali parole sul post-it che lasciai sulla mia scrivania per i miei genitori. A dire il vero non so nemmeno quale scusa abbia trovato Davide per venire con me. Il traghetto partì e mi sentii quasi come Lucia nei Promessi Sposi nel momento in cui dovette lasciare la sua città per scappare a Monza, anche io non seppi trattenere qualche lacrima, non so se per emozione, dolore o commozione.“Non è bello da morire?” “Chi?” “Il mare intendo, non è bello da morire?” Davide amava il mare, poteva rimanerci giorni a fissarlo senza distogliere il suo sguardo. Davide è il mare: immenso, bello anche se incolore, che ti trasporta ovunque coi pensieri e con il corpo, agitato se i tempi sono duri e calmo se è a suo agio. Davide è il mio mare. “Ti assomiglia”, gli confidai. “Ognuno di noi ha circa l’80% di acqua dentro di sé quindi…sì, dovrei assomigliarci”. Ecco qualcos’altro in comune al mare: le battute di Davide erano insapore, come le sue acque. Il traghetto si blocca. Avaria. Panico. Non credevo ai miei occhi, nessun danno, un semplice blocco causato da qualcosa che non riuscivo a capire. Davide scese a controllare, io non ne avevo la forza, non ci credevo sul serio, un obiettivo prefisso che non poteva andare avanti ancora una volta. Molte persone cercavano di chiarire le proprie idee chiedendomi cosa fosse successo. “Saperlo non fa la differenza”. Lo avevo detto davvero? Proprio io, che volevo essere la pecora nera del mondo? Quella che voleva cambiare le cose? Davide risalì. “Restiamo calmi, il conducente ha avuto un malore, il mezzo è intatto e ben funzionante, attendiamo solo che un secondo conducente prenda il


suo posto e il primo si riprenda”. Un coro di sospiri si sentì sul mezzo, ed ecco la fatidica chiamata della mamma: “Hello!” Dall’altra parte del telefono mi arrivò un’intervista del David Letterman Show: “Sei forse impazzita, Linda? Dove sei? Con chi sei? Dove ti raggiungiamo?”.“Saperlo non fa la differenza, mamma!” Ci avevo preso gusto nel rispondere così ormai, in effetti non era poi così male. Le spiegai e aggiunsi che Davide era con me e a quel punto il suo animo si placò come per magia. L’ho detto io, Davide è il mare di tutti. Chiusi la chiamata e sospirai angosciata. “È la prima volta che prende il traghetto, Signorina?” un’assistente che portava da bere a tutti si accorse della mia ansia rivolgendomi la parola. “Beh, sì, Signora…” focalizzai bene lo sguardo sul suo cartellino e poi esclamai “Marta!” “Ah, Signorina cara, la mia prima volta su questo traghetto fu tragica… credevo che fosse tutto facile, che fosse come in auto, ma invece… C’è questo mare che ci divide e se qualcosa va male, solo lui saprà il nostro destino, solo lui potrà decidere le nostre sorti…”. Io e Davide ci guardammo e un po’ per gioco e un po’ per saggezza ridacchiammo. “Se avete bisogno chiedete pure. Con permesso” aggiunse. Una Sarda DOC, lo si deduceva dal suo accento prettamente nasale, tipico del luogo. “Linda, qualche domandina alla Signora, così, per scrupolo? Potrebbe sapere qualcosa!” schiacciai Davide con uno sguardo senza precedenti: come poteva una donna su un’intera popolazione sapere qualcosa sulle mie origini?! “Tentar non nuoce” disse alzando le spalle e sistemandosi gli occhiali sul naso. “Vuoi, no, fare la differenza? Provaci!” Girai in lungo e in largo tutto il traghetto e finalmente trovai l’assistente intenta a sistemare le ultime cose. Era ormai sera. “Signora Marta, chiedo scusa”. Si voltò come se fosse felice che qualcuno le stesse parlando. “Cara! Hai bisogno di qualcosa?”, mi chiese con un sorriso che le riempiva il viso. “Signora Marta..” “Chiamami Marta, dai” mi interruppe “Beh sì…lei è Sarda, non è vero?” mi sedetti al margine del battello poggiando le braccia lungo le ringhiere e fece lo stesso anche lei, sedendosi accanto a me. “Il mio accento è davvero forte, eh? Sì, sono Sarda e ne sono fiera! Come mai questa domanda, cara?” “ Sono alla ricerca di una persona che non vedo da tempo, ma tutto ciò che ho sono il nome di due individui e una Via.” “Oh, per Bacco! Potresti essere davvero fortunata, ragazza!” Il mare era agitato tanto quanto lo ero io e Davide era di fronte a me quasi in contrasto: calmo, placato e sicuro. “Via Moratti le dice qualcosa?” Ma anche lei divenne mare. Un mare agitato e in vena di portare via con sé qualche vittima. “Chi cerchi, signorina? Com’è che ti chiami?” “Linda, Signora”. Si alzò di botto, un’onda fece muovere un po’ il traghetto. Erano quasi tutt’uno adesso, come se lei e il mare fossero un’unica cosa. “Conosco quella via, e probabilmente anche te”. Un’altra onda, questa volta era la mia. “Signora…Marta Veiano?”. Davide aveva quasi consumato le unghie a furia di mangiarle per la tensione. “Cerchi qualcosa in particolare da lei?” mi chiese. “Volevo solo ringraziarla per avermi fatta nascere, tutto qui.” La Donna abbassò il capo, ma di scatto lo rialzò per osservare il mare e rimase così a lungo. “Neanche se ti dicessi che ti ha abbandonata?” non ero in grado di rispondere, a che gioco voleva giocare? Era lei la “Marta”? Semplicemente la conosceva? Confusione, un mare nella mia mante in cui i pensieri eravamo noi, navigatori di quell’immensità d’acqua. “Signora, Marta, Signora Marta o come vuole lei, ho solo bisogno di ringraziare questa persona, qualsiasi cosa abbia fatto, niente di più, niente di meno”. Silenzio per qualche istante. “Accolgo i tuoi ringraziamenti, cara”. Mi fissò negli occhi e i miei fissarono i suoi e chissà perché anche questi erano mare ora, mare che traboccava, mare che spiegava attraverso uno sguardo, mare che, pur essendo immenso, ricongiungeva due vite che si appartenevano senza esserne a conoscenza. Ognuno di noi ha un mare da attraversare, ognuno di noi è mare da attraversare…


Emanuela Miccoli

TRA UOMINI ED EROI C’E’ DI MEZZO IL MARE Era una calda e soleggiata mattina di Luglio, Mark e Jim insieme a Roby e Isaac sedevano vicino alla banchina ad osservare il mare limpido e calmo,come fosse un manto luccicante.L'emozione tra i quattro regnava sovrana, da lì a poco Jim e Isaac avrebbero partecipato alla regata di barca a vela che ogni anno si teneva nel loro paesino situato nei pressi della città di Perth,sulla costa sud-ovest australiana.Questa volta, però, non sarebbe stata una semplice regata,infatti,durante la competizione,sarebbero stati scelti anche gli atleti che avrebbero gareggiato per i campionati mondiali. Per Jim e Isaac sarebbe stata una grande occasione e, dopo un anno di preparazione,erano pieni di entusiasmo e di desiderio di vittoria. Benché mancassero poche ore all'inizio della gara erano lì, fermi ad ammirare la sovranità del mare con i gabbiani che danzavano in un volo trionfante sulle loro teste come se volessero festeggiarli.“Il mare è la mia vita.” disse Jim.”E credo che appena potrò mi comprerò un peschereccio.”“Ben detto!” replicò Roby.”Tu hai il mare nel sangue.”“E tu,cosa vuoi fare da grande?” chiese Mark ad Isaac.Senza esitare rispose:”Vorrei partecipare ai campionati mondiali di regata e, se arriviamo primi oggi in questa gara,ho ottime possibilità che ciò possa avvenire ancora prima che io diventi grande.”I quattro scoppiarono a ridere e, dopo essersi abbracciati,s'incamminarono lungo il pontile che li portava alla banchina dov'era ormeggiata la barca a vela che Jim e Isaac avrebbero pilotato.Sulla banchina si era radunata più gente del solito ad osservare la loro partenza.“Grazie al cielo abbiamo il vento favorevole!” disse Jim.“Dai, che, se tutto andrà bene, torneremo vittoriosi!” replicò Isaac.I due presero i loro posti e… via,lo spettacolo ebbe inizio.Le barche avanzavano velocemente sul mare,tagliando le onde e lasciando dietro di loro scie schiumose di spruzzi d'acqua,diventando pian piano sempre più piccole finché svanirono alla vista.Il vento fresco sfiorava il viso dei due giovani e entrambi, benché fossero concentrati nel pilotare la barca,non potevano rimanere indifferenti a tanta bellezza.Da quella distanza la costa era semplicemente stupenda e l'odore del mare era come un soave profumo per il loro olfatto.Il sole era così alto che permetteva di ammirare parte del fondale e i gruppi di pesci che nuotavano rendevano lo spettacolo più vivo e meraviglioso.Poco dopo sarebbero passati tra una serie di faraglioni,alte rocce di colore chiaro che si ergevano maestose nell'azzurro mare.“Siamo davanti a tutti!” esclamò Jim.“Tira la vela verso di te,così prendiamo più velocità”disse Isaac.I due si destreggiavano tra le onde come dei veri lupi di mare,ascoltando la dolce sinfonia che lentamente li avvolgeva,lasciandosi cullare dal dolce suono delle onde. Solo sul mare si sentivano liberi.“Jim, guarda in mezzo al mare: mi sembra di aver visto qualcuno!” disse sorpreso Isaac.Lo sguardo dei due si posò su un puntino che si muoveva nell'immensità del mare,un braccio si agitava e simultaneamente si udì un grido d'aiuto.Qualcuno era in pericolo e chiedeva aiuto. I due ragazzi si guardarono negli occhi e, senza parlare, iniziarono a cambiare rotta tirando la vela verso destra per deviare il percorso.Le onde sbattevano contro la barca,formando una schiuma bianca che cresceva sempre più.“Il vento sta cambiando, Isaac,più veloce,più veloce!” supplicò Jim.Il tempo durante il tragitto pareva essere infinito. Giunti vicino all'uomo,notarono che non riusciva più a restare a galla, così Jim con determinazione si tuffò mentre Isaac lanciò un salvagente.“Ma è un ragazzino!” gridò Jim.Lo afferrò,gli infilò il salvagente e lo trascinò verso la barca che Isaac abilmente riuscì a mantenere stabile nonostante il vento e il mare agitato.Con fatica riuscirono a tirarlo su. Dopo quei concitati momenti, la calma e la commozione presero il posto dello spavento e dell'agitazione.“È vivo,siamo arrivati giusto in tempo!”esclamò Isaac.Jim sorrise e disse “Dai, rientriamo : si staranno chiedendo tutti che fine abbiamo fatto”. Una presenza immensa di gente popolava la banchina e il pontile,un padre ed una madre cercavano disperatamente loro figlio tra la folla.Ormai le barche ad una ad una,erano rientrate tutte in porto,tranne una…Giunti in porto,furono accolti da un caloroso applauso accompagnato dalle grida di gioia della madre del


piccolo naufrago che abbracciò suo figlio, avvolgendolo con una giacca per riscaldare il suo corpo infreddolito.Lacrime di gioia rigavano le sue guance .

Alessandro Pallotta


SOGNI

Claudia Lupoli Il nome dei giorni Raffaella Granata L’uragano Francesco Zippo Fil di ruota Antonio Giannotte Ala destra Alessia Pascadopoli Cara Madre


IL NOME DEI GIORNI Non poteva dirsi un quindici febbraio fuori dal comune. La neve scendeva a tratti, depositandosi ai bordi delle strade e l’aria vagamente umida la lasciava rapprendersi e diventare ghiaccio liscio e limpido. Ancora alcune ore e la sua giornata sarebbe finita, avrebbe aspettato che l’ultimo cliente lasciasse il locale, avrebbe dato una sistemata ai tavolini e al retro del bancone. Un pezzo storico, quel bancone, tanto quanto storici erano i graffi e le scheggiature che ne ricoprivano la superficie e ne smussavano gli angoli. Se non fosse stato per le decine, quasi centinaia di piccoli poster e annunci scolastici, a nasconderne i difetti, avrebbe fatto di certo una terribile figura. Michael si dondolava appena da un piede all’altro, mentre controllava l’ora, o cambiava stazione radio, o asciugava dei bicchieri. Serviva ai tavoli, tornava dietro il bancone, salutava chi entrava o usciva. Così, per tutta la sera. E ogni volta che alzava lo sguardo, lui era sempre lì. Un ragazzo, poco più piccolo di lui, a occhio e croce. Era stato seduto allo stesso posto per quasi – diede un’occhiata all’orologio da polso - cinque ore. Cinque ore seduto a leggere un libro, uno di quelli sottili, o a leggere e scribacchiare quello che sembrava essere un vecchio diario. Era la prima volta che metteva piede lì dentro, Michael lo aveva capito subito. Ogni giorno, da quasi sei anni, vedeva più o meno sempre le stesse facce. Cambiavano solo all’inizio di ogni anno, per via degli studenti laureati che cedevano il posto alle matricole. Chiunque altro non si sarebbe stupito più di tanto nell’avere un nuovo cliente, ma Michael faceva eccezione. Era straordinariamente metodico, nonché acuto. E curioso. Terribilmente curioso, tanto che in quelle cinque ore la sua mente non aveva fatto che formulare ipotesi, autonomamente, su cosa stesse facendo quel ragazzo, seduto così appartato. Forse aspettava qualcuno. Sì, probabilmente. Ma aveva tranquillamente occupato tutto lo spazio del tavolo, e la sedia libera alla sua destra. E non guardava né l’orologio, appeso proprio sulla parete di fronte a lui, né tantomeno la porta.Allora era solo uno studente. Uno studente mai visto che beveva caffè americano – quattro tazze - e leggeva piccoli libri. Non era plausibile neanche questo.Michael continuava a rimuginare su quello sconosciuto tanto da non accorgersi che egli aveva chiuso di botto il diario, si era infilato il parka con fare frettoloso e si avviava verso l’uscita. Fece appena in tempo a rendersi conto di quello che era appena successo che il giovane era già sparito oltre la porta di legno e vetro pesante. Rincorse quello strano ragazzo fuori dal locale, per poi arrivargli di soppiatto a pochi metri. Non era scappato senza pagare, dato che aveva lasciato praticamente tutto sul tavolino. Si era seduto sul marciapiede, incurante del sottile strato di ghiaccio che lo ricopriva. Il suo volto era riconoscibile solo per la piccola luce rossastra della sigaretta che si era appena acceso e il suo sguardo era rivolto al lato opposto a dove si trovava Michael. Dopo alcuni secondi, la voce del ragazzo arrivò flebile alle orecchie di Michael, i cui occhi erano fissi ad osservagli il volto semi in ombra. «Fumi? » I loro sguardi si incrociarono, Michael si lasciò sfuggire uno sguardo interrogativo, seguito da un “uhm” poco convinto. Il ragazzo si spostò di pochi centimetri, quasi a voler lasciare spazio a Michael sul marciapiede ghiacciato sul quale ebbe qualche esitazione a sedersi. Dopo aver accettato una sigaretta dal pacchetto un po’ schiacciato, si voltò verso di lui, in modo che l’altro potesse accendergliela. Non era proprio solito fumare, se ne concedeva giusto una ogni tanto, quindi era totalmente sprovvisto di accendino.«Pensavi volessi scappare senza pagare, vero? Ti ho visto seguirmi con lo sguardo mentre uscivo, mi dispiace. Volevo solo prendere un po’ d’aria. ». Colto sul fatto, Michael abbassò un po’ la testa, cercando le parole giuste. «Io ..»« È un bel posto. Fai un buon caffè. ». Tenendo la sigaretta tra le labbra, si infilò una mano in una delle grandi tasche del parka che indossava, tirandone fuori un taccuino abbastanza grande, di un rosso intenso, le cui pagine erano divise quasi nel mezzo da una matita logora e con poca punta. Si guardò un attimo alle spalle e segnò il nome del locale inciso tra le geometrie delle vetrate. «Sei un turista, o qualcosa del genere? » Il suo locale era lì da forse quindici anni, gestito prima da suo zio poi da lui. Tutti lo conoscevano, era una sorta di ritrovo comune, un luogo tranquillo per gli universitari. «Diciamo di sì.» Un sorriso un po’ triste prese forma sulle sue labbra, un po’ arrossate per via del freddo. «Tendo a segnarmi più cose possibile. »


«Infatti mi sembrava di non averti mai visto da queste parti. Studi qui? » diede un altro tiro alla sigaretta, quasi totalmente dimenticata. «No, vivo dall’altra parte della città, a dire il vero. Mi sono spinto da queste parti per puro spirito d’avventura. Di solito rimango in quella zona. Mi…perdo facilmente.» Diede un’ ultima boccata, per poi buttar fuori il fumo e lanciare via la sigaretta che terminò a pochi metri dai suoi piedi. Piccole scie bluastre continuarono a levarsi dal mozzicone, prima che il gelo delle strade lo spegnesse definitivamente.Michael si lasciò andare ad un risolino divertito, perché pensava che quella fosse per davvero una battuta. Ma lo sguardo che l’altro gli rivolse, tristemente serio, fece spegnere quella risata come il ghiaccio della strada aveva spento la sigaretta del ragazzo. Un leggero colpo di tosse cercò di smorzare l’imbarazzo. «Mi chiamo Joshua, comunque. » Il ragazzo, Joshua, tornò a guardare dal lato opposto.«Michael ». Stava per dire qualcos’altro, stava per chiedergli se magari voleva rientrare, perché lì fuori si congelava, o per scusarsi per aver detto o fatto qualcosa di sbagliato. Ma un secondo prima che le parole uscissero dalla sua bocca, Joshua riprese a parlare,senza però girarsi nella sua direzione.«Amnesia ». Solo dopo averlo detto, si girò di nuovo verso Michael, che lo guardava con la bocca semiaperta, lo sguardo interrogativo. Cercava di mettere insieme i pezzi, di far combaciare il senso delle sue frasi, di darsi delle risposte alle domande che durante quella serata si era posto. “Chi è questo ragazzo, aspetta qualcuno, cosa legge, cosa scrive?In cinque secondi tutto aveva un senso.« Ti basta come risposta? Credi non mi sia accorto dei tuoi sguardi sempre su di me? Ho pensato che in qualche modo ci conoscessimo, che magari fossi già venuto in questo posto», fece volare lo sguardo verso l’ingresso del locale «ma qui non c’è scritto niente e.. ». Iniziò a far girare velocemente le pagine del diario, che risuonarono, prima di ritornare dove la matita lo divideva a metà «e quindi non capivo. Sei un maniaco per caso? » indietreggiò con la schiena lo guardò dalla punta dei piedi fino a incrociare il so sguardo, lievemente accusatorio. «Cosa?! Scherzi, vero? » Michael scoppiò in un’allegra risata.«Ero solo curioso, sono terribilmente curioso, perché vedo le stesse facce da anni, ed era la prima volta che ti vedevo. All’inizio non ci avevo nemmeno fatto caso, ma poi ho notato che sei rimasto seduto per cinque o sei ore ». L’espressione di Joshua si ammorbidì un po’. «Cercavo solo un posto tranquillo. Di solito, come ho detto, tendo a rimanere vicino casa.. ». «Cosa ti ha spinto a venire qui, allora? » . «Non ne ho idea. O forse lo so..è solo che mi sono sentito in trappola. Ho letto il diario, le note che mi lascio sul comodino, o sul frigo, e ho capito che per anni,per tre anni, ho fatto sempre le stesse cose. »Aprì di getto una pagina del diario «Ecco: 23 luglio 2010 5 dicembre 2013 Questa notte le stesse onde della notte scorsa mi hanno fatto annegare, ma mi sono risvegliato nel mio letto e non su un letto di sabbia umida. Ho trovato delle note sul frigo, e vicino allo specchio. Sono da solo in casa. I miei genitori non ci sono. Il frigo è vuoto, ho fatto la spesa. Ho comprato un libro di cui avevo già una copia. Non mi ricordavo di averlo acquistato. Ci sono sedici cappotti gettati sul divano.Ho comprato un altro cappotto, perché oggi è il cinque di dicembre, e sono uscito di casa in t-shirt.I miei genitori sono morti il 27 ottobre 2011.Soffro di amnesia anterograda. Ho letto il diario, c’è la stessa data di ieri, 23 luglio, che poi ho cancellato. Perché ieri.. oggi, non è luglio, ma dicembre. » Joshua leggeva quelle righe con voce monotona, come se le avesse lette per giorni e giorni. Una nota di rassegnazione nella sua voce.«È sempre così, ogni giorno. Se aprissi un’altra pagina, ci troverei quasi le stesse cose scritte. A volte faccio qualcosa di diverso, ma piccole cose. È frustrante. Ho ventidue, anzi,venticinque anni. Avrei voluto girare il mondo e mi ritrovo bloccato nello stesso giorno, ogni giorno. Non esiste neanche un nome possibile! Come potrei chiamare “ieri” qualcosa che per me non è “ieri”!? » La sua voce si stava via via intensificando, ma non stava urlando. Erano solo le sue parole ad essere più forti. Michael gli posò una mano sulla spalla, senza sapere cos’altro fare. Joshua si ammorbidì di nuovo, allentando la presa che aveva stretto intorno al taccuino. Poi riprese a parlare, più tranquillo.«Chi soffre di amnesia è come se vivesse ogni giorno come fosse un sogno, uno di quelli surreali, ma velati di familiarità. Non so dirti se è sempre così,


ma credo di sì. O almeno è quello che provo. Ogni mattina mi sveglio in una stanza che so essere la mia, ma ci trovo fuori la neve, come questa mattina, mentre il mio ieri era un’afosa giornata di luglio. Non capisco come faccio a trattenere una sanità mentale che ancora sono sicuro di avere..ma giorno per giorno mi costruisco un oggi diverso, cerco di fare quello che farei normalmente.. tento di darmi delle sicurezze. Cerco di annotarmi i posti che credo siano cambiati, o aggiorno un calendario. E scrivo su questo diario. È l’unico modo che ho per sentirmi nel posto giusto, anche se al momento sbagliato, per così dire. Perché non è il momento giusto, non il giorno, né l’anno giusto. Certi giorni, come oggi, sento sia tutto troppo insensato, e vorrei solo morire. Perché in questo modo mi sveglierei da qualche altra parte. Sarebbe terribilmente semplice. Questa città è piena di palazzi altissimi che ieri non c’erano, e non penso sarebbe difficile buttarmi di sotto. Come in quei sogni allucinanti, dove credi di stare per cadere e ti risvegli un attimo prima che accada. Forse dovrei cadere, ma da molto in alto, perché questo sogno è durato fin troppo. » Michael non riusciva a capire come questo ragazzo affianco a lui potesse parlare di suicidio mantenendo un volto così sereno. Ma, allo stesso tempo, pensava non fosse così semplice comprendere tutte le macchinazioni mentali di chi, come Joshua, perde ogni giorno la più grande certezza umana: l’esserci, l’avere dei ricordi.«La cosa che mi pesa di più, ad essere sinceri, è il dover fare sempre lo stesso sogno. Perché ogni notte è lo stesso incubo, e su questo dannatissimo diario, ogni pagina inizia allo stesso modo. Il giorno in cui caddi in acqua, e battei contro uno scoglio. Ecco. È la prima delle ultime cose che ricordo. Pensa a quanto sia frustrante: non solo non ricordo un accidenti degli ultimi tre anni, ma l’ultima cosa che ricordo non è il sorriso di mia madre, o l’abbraccio di mio padre, ma un dannatissimo pezzo di pietra, e la terribile sensazione di affogare. Affogo ogni notte, Michael..e.. » lasciò che la sua testa gli cadesse tra le mani. «E sono stanco. » Michael, al contrario di ogni altra possibile situazione in cui si fosse mai trovato, non ebbe nulla da dire. Non riusciva a pensare a nulla che suonasse confortante, o almeno, sensato. Perciò disse la prima cosa che gli venne in mente.«Io..io non so come sia tutta questa faccenda di non ricordarsi nulla. Però un modo lo conosco.. per entrare nei tuoi panni, intendo. » Il tono della sua voce era basso, cadenzato, come a cercar di smorzare l’aria pesante di quella situazione, e fu capace di fare la cosa che meglio gli riusciva, oltre a fare degli ottimi caffè: fare l’idiota.Gonfiò il petto, assumendo una ridicolissima posizione da super-eroe, e con voce solenne, annunciò:«Questa sera, ci ubriacheremo come mai era accaduto nella storia di questa stupida città. Andremo a letto tardi, o meglio, non ci andremo. L’unico modo che avrai per affogare sarà nel vedere oceani di strade e luci, e ponti che danno su orribili laghi ghiacciati. E domani mattina, ricorderai che giorno sarà, mentre io, l’unico barista sulla faccia della terra a non reggere l’alcol, non ricorderò nemmeno il mio nome». Mentre parlava descriveva folli piani notturni, muoveva le mani da una parte all’altra descrivendo orbite di pianeti inesistenti, o scuoteva le spalle mentre sulle labbra di Joshua stava pian piano nascendo un sorriso divertito e gli occhi formavano due mezzelune perfette. Trascinato in piedi da Michael, prese a saltare, e lanciò in aria il diario, la sua bussola, l’unico modo che aveva di non perdersi, in quel mondo che lo intrappolava tra ieri e domani. Le decine di pagine si strapparono dalla rilegatura consunta e presero a vorticare nel vento appena accennato. «E che così sia», si dissero. Michael si affacciò appena nel locale per gridare un «Alain! Brutto idiota! Occupati tu del locale e non far sparire troppe bottiglie!» e lanciò quasi alla cieca un mazzo di chiavi che teneva nel grembiule nero. Prese Joshua per le spalle, guardandolo dritto negli occhi. «Cosa vuoi fare? Dimmelo e lo faremo! Costruiamoci dei ricordi che durino solo una notte! Dimmi cosa! Cosa vorresti sognare questa notte, Joshua, cosa? ». Preso alla sprovvista, e affondando le mani negli avambracci di Michael, iniziò ad urlare «Voglio ..voglio vedere il mare. Voglio sentirne l’odore, e sentirmi abbastanza al sicuro da immergerci i piedi. Non mi lasciar affogare, okay? » Si mise a ridere a squarcia gola, stringendo le braccia di Michael che lo ascoltava come fosse la prima volta che sentiva parlare un essere umano. «Va bene. Andiamo. Ma tu sei pazzo, comunque sei pazzo. E lo sono anche io, perché, anche se non affogherai –prometto che non ti farò affogare - ci


congeleremo i piedi, perché oggi è il quindici di febbraio, e ci sono meno due gradi. » Il tono della voce era un po’ canzonatorio, ma per nulla preoccupato. Si sporse appena, annullando quasi totalmente la lontananza tra i loro volti.«Non dire sciocchezze » con un sorriso di sfida, a un centimetro dal suo viso, Joshua sussurrò:« Oggi è il ventitre luglio. » Claudia Lupoli

L’URAGANO Mi chiamo Alice e oggi compio 17 anni. Sono circondata da parenti che mi fanno gli auguri e da amici che forse si fingono tali. Sono circondata da gente che mi sorride. Da gente che dice di volermi bene. Mio padre mi abbraccia e mia madre intrattiene gli ospiti con degli stupidi aneddoti di quando ero piccola. Sono circondata da gente che fa tanto rumore, ma dentro di me trovo solo silenzio. Il loro sguardo ora è rivolto verso di me, si aspettano qualcosa dalla ragazza che loro reputano strana, ma non avranno nulla di più di un pezzo di torta. Quella stupida canzoncina mi rimbomba nelle orecchie, ho 17 anni, non 4, smettetela di cantare, smettetela! Il peggio sembra passato quando invece mia zia urla “E il desiderio?”. Che ho fatto di male per meritarmi tutto questo? Io la festa non la volevo nemmeno fare, ma mamma ci teneva così tanto! E così chiudo gli occhi, spengo le candeline ed esprimo il desiderio, riapro gli occhi e urlo “Ce l’ho fatta!” e così ritrovo la stessa gente di prima che mi fissa, ma non mi sorridono più, ora mi guardano come se avessi un problema, come se fossi pazza. Prima mi dicono di esprimere un desiderio e poi mi trattano come una malata di mente se lo faccio. Sembrano loro i veri matti! L’unico che ancora mi sorride è Marco. Lui ha capito tutto, come sempre. Ma per spiegare questa situazione, devo tornare un po’ indietro nel tempo... 23/11/14: Era un noioso giorno qualunque in un noioso mese qualunque quando a scuola feci nascere una questione con una mia professoressa. Continuava ad affermare che ai ragazzi basta vivere di pane e sogni per stare bene, senza pensare ai reali problemi che ci circondano. Certi discorsi non mi sono mai piaciuti, soprattutto quando so di passare i pomeriggi a logorarmi la testa per capire cosa poter fare per migliorare me stessa e subito dopo passare a migliorare gli altri e il futuro di tutti. Gli adulti sanno sempre come scoraggiarci per eliminare ogni traccia di speranza e di ottimismo dicendo che viviamo di sogni, quando in realtà l’unico reale sogno che noi ragazzi abbiamo è cercare di trovare un’aspirazione, un sogno che ci faccia volare alto, ma non lo facciamo per paura di cadere giù in picchiata. “Noi ragazzi siamo vuoti, siamo senza sogni! Ed è colpa vostra!”. Non so bene da dove mi uscì quella voce, quella forza, quel coraggio. Ma qualcosa dentro me si mosse. Molti si misero a ridere in classe, molti altri rimasero perplessi o indifferenti. La professoressa, invece, non la prese per niente bene. Insomma finii dal preside che chiamò i miei che chiamarono una psicologa. Il viaggio in auto dalla scuola a casa sembrava non finire mai, nessuno parlava, l’aria si faceva pesante e la tensione aumentava. “Vostra figlia ha bisogno di aiuto, in classe sta sempre sola, in disparte, come se non ricevesse alcun tipo di stimolo dalla vita”. Sentivo le parole della professoressa risuonarmi in testa. I miei non avevano mai capito che dentro di me c’era un uragano che mi stava devastando. Avevo voglia di piangere, ma non lo feci, ormai dimenticavo come si facesse per il troppo tempo passato facendone a meno.


4/12/14: E fu così che andai per la prima volta dalla psicologa, pur controvoglia. Ne uscii sapendo di essere oneirofobica: avevo paura di sognare, ed è per questo motivo che cercavo scuse, incolpavo gli altri, in realtà la colpa era solo mia e forse del mondo in cui tutti viviamo. Capii così che il mio uragano aveva un nome, il nome di una fobia. Più cercavo di capire il motivo per il quale ce l’avevo dentro, più si agitava, più volevo trovare una soluzione, più invece l’uragano distruggeva ogni cosa che trovava sul suo (e quindi anche sul mio) cammino. Amicizie, amori, sorrisi, ogni traccia di minima felicità portata via, strappata. Chi voleva starmi accanto, invece, era stato cacciato da me, gli uragani distruggono anche le persone che cercano di avvicinarsi ad esso e, sinceramente, non ne valeva davvero la pena. 9/01/15: La psicologa è davvero brava nel dare consigli, nel credere in ciò che ha studiato, dice tante cose belle e positive, ma io la pago per trovare una soluzione eppure dopo un mese l’uragano è ancora qui, a tenermi compagnia, almeno lui per me c’è sempre, dovrei rivalutare la situazione a mio vantaggio, ho un migliore amico che non mi lascia mai da solo! Ok, non sono credibile, forse devo farmi curare... ah, è vero, sono già sotto cura. Menomale che mi è rimasta l’ironia!Non ce l’ho fatta più, ho detto alla dottoressa della mia voglia di “guarire” e bloccare il mio “uragano”. Le ho chiesto una soluzione. Lei mi ha guardata strano e alla fine mi ha risposto con un sorrisetto: “Io non posso darti la soluzione, ma posso aiutarti a trovare gli elementi affinché tu da sola, con le tue forze, possa arrivare a placare quello che tu chiami il tuo uragano”. Abbiamo parlato più del solito, non è stata la solita seduta, niente affatto. È stata più una chiacchierata tra due amiche che si sono confidate. Ho parlato ininterrottamente per due ore: ha persino scovato una traccia di speranza, un germoglio di sogno nascosto in me, che l’uragano, a quanto pare, non è riuscito a portar via nonostante la sua forza devastante. Quel germoglio rappresenta la voglia stessa di avere un sogno, la voglia di farcela, la voglia di rinascere. Ho anche elaborato una definizione della parola “sogno” che farebbe invidia al miglior vocabolario in circolazione. Un sogno è qualcosa più grande di noi stessi, nasce da noi e muore con noi, ma esso non muore mai se portato a compimento e se altri, prendendoci come esempio, lo portano alla sua realizzazione. E così un sogno non muore mai. Un sogno è sempre vivo, per questo, per la vita del nostro sogno, dobbiamo aprirci alla gente che ci è accanto, parlare, confrontarci, elaborare concetti, ipotesi, idee. Un sogno senza l’aiuto o l’appoggio degli altri non sarà mai un sogno, sarà una battaglia contro noi stessi e di conseguenza contro tutti, perché incoscientemente ci sembreranno tutti nemici ai quali interessa solo appropriarsi del nostro sogno, faticosamente ottenuto. Ma non è così, un sogno messo in condivisione diventa un sogno più grande, ma più facile da ottenere. E oggi va così, oggi sono felice. 16/03/15: L’uragano dentro me sembrava essermi diventato quasi amico, non faceva più tanto rumore quando cercavo di avvicinarmi agli altri. E iniziai a parlare con i miei compagni di classe, non erano così male come credevo. Sembravo una persona diversa, ma io sapevo che in realtà ero sempre io. La solita Alice piena di dubbi. Di incertezze. Di paura. La solita Alice senza sogni e speranze. La solita Alice con l’uragano. 27/03/15: Dal nulla decisi di parlare con un ragazzo della mia classe, nessuno conosceva la sua voce, anche lui si era sempre isolato da tutto e tutti ed io ero certa saremmo andati d’accordo. “Ehi” ,gli dissi. Sembra assurdo quanto un semplice “ehi” possa far nascere qualcosa come quella che sarà una grande amicizia. Il suo nome è Marco. È un sognatore. Ha occhi castani in cui ti perdi facilmente quando ti parla della sua passione: il suo sogno è diventare un chitarrista e sa di potercela fare. Senza sogni la vita non ha senso, secondo lui. Io gli ho raccontato un po’ di ciò che


sto passando, è rimasto sconvolto, non avrebbe mai creduto che ci fosse qualcuno che non crede nelle proprie passioni e non ha la minima idea di cosa significhi sognare. E invece eccomi qui. Ma lui alla fine, sorridendomi, mi ha detto: “Fammi conoscere il tuo uragano, ti farò conoscere i sogni, quelli veri”. È davvero assurdo quanto un semplice “Ehi” possa far nascere una grande amicizia. 5/04/15: La dottoressa mi ha fatto delle domande strane, era lei molto strana. Era tesa. Disse che voleva che io le parlassi delle cose cambiate dalla prima seduta ad oggi. E io così feci. Iniziai a raccontarle di quanto ora fossi più tranquilla, di quanto per me ora fare amicizia sia un po’ più semplice. Le raccontai di Marco che giorno dopo giorno mi dà il sostegno per proseguire questo cammino, di lui e dei suoi sogni che mi trasmettono speranza. A fianco a lui mi sento anche un po’ io sognatrice. Mi sento anche io un po’ folle. Ho capito stando a fianco a lui che i sogni non sono così male, che credere in qualcosa ci rende anche più felici e che i sogni, differentemente da ciò che credevo io, non bisogna condividerli con la gente qualunque. Bisogna condividerli con gli amici. E io ora un amico l’ho trovato, mi manca solo un sogno, ma giuro che lo sto cercando, io ce la sto mettendo tutta, perché io ho capito che un sogno ci può far viaggiare ad occhi chiusi, ho capito che in fondo alla nostra generazione sono rimasti realmente solo i sogni. Allora perché non usufruirne? La psicologa mi sorride e mi dice: “Mi ha fatto piacere conoscerti, ma credo non ci sarà più bisogno di vederci”. Il mio sorriso era incontenibilee dai miei occhi iniziarono a uscire lacrime di gioia. 6/04/15: Raccontai tutto a Marco, lui era quasi più felice di me. Iniziavo a provare sentimenti finalmente belli, la paura stava lasciando spazio alla speranza e alla felicità. Nella mia testa si susseguivano immagini di ciò che avrei potuto realizzare, di ciò che avrei potuto essere. Mai mi era successo fino ad allora! “Mi piace leggere poesie, potrei provare a scriverne qualcuna. Mi piacerebbe anche cantare, potrei prendere lezioni e fare dei duetti con Marco, questa è davvero una bellissima idea!”. Tutto oramai sembrava passato, ma ancora non avevo mai espresso un desiderio, un sogno, in cui credi tanto e vuoi con tutta te stessa che si realizzi. Mai. 19/05/15: Ed eccoci qua, il mio 17esimo compleanno, che fatica! Che anno stancante, ma ne è valsa la pena se sai che ne arriveranno di migliori! Sono circondata da parenti che mi fanno gli auguri e da amici che forse si fingono tali. Sono circondata da gente che mi sorride. Da gente che dice di volermi bene. Mio padre mi abbraccia e mia madre intrattiene gli ospiti con degli stupidi aneddoti di quando ero piccola. In mezzo a loro c’è Marco che sta seduto in un angolo e ogni tanto mi lancia un sorriso imbarazzato. Ecco il momento tragico, la torta, iniziano a cantare “Tanti auguri a te” e, mentre sento quella canzoncina imbarazzante, capisco di essere cambiata. Alla fine mia zia mi urla “E il desiderio?”. E così chiudo gli occhi, spengo le candeline e ed esprimo il desiderio, riapro gli occhi e urlo “Ce l’ho fatta!”. Marco è l’unico a sorridermi ancora. Mi si avvicina quando tutti iniziano ad andarsene. Mi continua a sorridere come se abbia fatto la cosa più sorprendente al mondo. “Ho solo espresso un sogno” gli dissi. “No”, mi rispose.“Hai fatto molto di più. Tu ci hai anche creduto.” Mi guardava come se non mi avesse mai vista in tutto quel tempo, come se ci fosse qualcosa di nuovo in me.“Ce l’hai fatta, non ci credo. Ma io voglio sapere il desiderio che hai espresso!”.“Ma se te lo dico non si avvera più!” “Non crederai sul serio a certe cose! Il TUO sogno non dipende da quelle 17 stupide candeline su quella torta ricoperta di cioccolata. Dipende da te, solo da te lo sai”.“Non mi convincerai, non te lo dirò.”“Sai bene che posso insistere a vita. Dimmi il tuo sogno.”“Il mio unico sogno, l’unico reale che avrei mai potuto esprimere davanti a tutta quella gente e davanti a te, poteva essere solo uno: il


mio sogno è averti accanto per sempre, devo tutto a te.”Mi guardò negli occhi per l’ennesima volta. Erano lucidi. Mi abbracciò come si abbracciano le persone quando le stai per perdere, ma io ero lì, sarei stata lì per sempre, per lui e per i nostri sogni. Perché sì, i sogni sarebbero aumentati, in quantità, in qualità, in coraggio, in impegno. Ma noi saremo sempre qui per loro, a difenderli e proteggerli. Un sogno una volta trovato, non si butta via. Cercare un sogno era diventato un incubo, ma niente più era ormai paragonabile a un incubo nella mia vita: avevo un sogno, un migliore amico e 17 anni. Potevamo conquistare il mondo.“Dio, quanto ti voglio bene!” mi disse. Il mio uragano era lì, a godersi la scena. In silenzio. Raffaella Granata

FIL DI RUOTA Le vele erano gonfie e felici di seguire il vento, non rifiutavano la frizzante brezza marina che soffiava. Il vento soffiava con dolce insistenza e scompigliava i capelli lunghi e castani di Alessandro, che di tanto in tanto cercava di riordinarli con una mano. Una giornata perfetta per uscire in mare con la sua modesta barca a vela. Alessandro puntava all'Isola di San Pietro e non mancava molto ormai, era in navigazione all’incirca da un'ora. Vide arrivargli incontro il profilo della costa, la spiaggia, la vegetazione. Un gabbiano volò con lui per qualche secondo, poi gli virò davanti e riprese la sua strada verso l'alto, verso il sole, le nuvole; quanto sarebbe piaciuto ad Alessandro avere un paio d'ali. Il sole splendeva dritto sopra di Alessandro, nessun'ombra si allungava attorno alla barca. Il vento lo permetteva, Alessandro ci voleva provare e si sentiva tranquillo: voleva mettersi col vento in poppa, a fil di ruota. Spostò il timone con un lento movimento di braccio, ma costante, per arrivare dolcemente ad avere il vento completamente sullo specchio di poppa. Mosse il fiocco e fece in modo che fosse dal lato a dritta della barca, lasciando che la randa rimanesse lì di fronte a lui. Lascò le vele quel che bastava e iniziò a sentire il caldo sulla pelle, fino a quel momento mitigato dal vento che lo rinfrescava prendendolo lateralmente. Ora sarebbe bastato un minimo errore per perdere quell'andatura, la più difficile di tutte. La Oceano, come aveva deciso di chiamare la sua barca, era una modesta bagnarola a vela da tre o quattro posti, ma governabile anche da soli nelle giuste condizioni atmosferiche. Un giocattolino che gli aveva regalato lo zio. Su quella stessa barca, da piccolo, lo zio lo aveva portato per la prima volta a solcare il mare e sempre con quella barca,grazie allo zio, aveva imparato a governare approfittando del tempo libero che le vacanze da scuola gli lasciavano. Alessandro si stava godendo la pace del lieve planare della Oceano sul mare, un silenzio liquido che giusto ogni tanto si sentiva gorgogliare più forte quando prendeva un'onda un po' più alta. Lo zio di Alessandro, zio Mario, gli diceva sempre "questa qui non ha bisogno di motore per correre, ha bisogno di un motore per fermarsi!", mentre dava una pacca allo scafo, sorridente. Il nome allora fu facile da scegliere per Alessandro. Se non posso fermarla, aveva pensato, la lascio andare fin dove vuole: l'oceano è casa sua, e io la voglio chiamare così, Oceano. Lo sguardo di Alessandro era stato rapito dal gabbiano che poco prima lo aveva seguito, e che ora stava tornando indietro verso la barca. Volò proprio sulla testa di Alessandro, poi accelerò e andò verso la costa. Ecco, la costa. La mente di Alessandro si affollò di mille pensieri: il lavoro, gli amici, i parenti, gli appuntamenti, le scadenze, il passato e il futuro. Tutto era lì, ad aspettarlo sulla costa per saltargli di nuovo addosso. Ciascuno di quei pensieri aveva una sua maschera grottesca e paurosa, poteva vedere


quelle facce deformate dalla collera, dall'ansia, dalla paura, sempre meglio man mano che si avvicinava alla costa. Il dolore era ora l'unica ombra che si allungava su Alessandro, era una condanna da vivere passo su passo sulla terra ferma. Angoscia, quanta angoscia sentiva Alessandro premergli il petto! Non poteva respirare, si sentiva circondato da quella massa di pensieri e paure, li sentiva venirgli sempre più vicino fino a mettergli le mani al collo. Cercava una via di fuga nella sua testa da quella sensazione di oppressione, così contrastante con il senso di libertà che il mare gli aveva dato fino a quel momento. I suoi occhi vagavano disperati e senza una meta, pensieri amari sbattevano contro le pareti del cervello. Alessandro iniziò a sentire il vento andargli di lato, aveva spostato troppo il timone e perso il fil di ruota, quella delicata andatura che lo faceva andare così rapidamente. Sul fil di ruota, Alessandro aveva perso un equilibrio più importante di quello che gli teneva il vento in poppa; un equilibrio che lo aveva mantenuto sereno fino a quel momento, un equilibrio che lo distaccava dai suoi problemi e che lo stava, in fondo, solamente preparando alla velenosa vista della costa. I suoi problemi erano più grandi di quanto ricordasse, più spaventosi, minacciosi. In fretta e furia assecondò la Oceano, che voleva strambare per fermarsi e mettere la prua al vento, ma la corresse con maestria e la portò ad andare col vento di traverso, così che il vento gli venisse dritto sulla faccia. Si perse per strada un paio di lacrime e tanta sofferenza, ma il mare non lo abbandonò mai, lo riportò alla sua riva di partenza, sulla spiaggia davanti casa sua, l'unico luogo che i suoi problemi non riuscivano mai a raggiungere: troppo traffico anche per loro, o forse la stradina in cui abitava Alessandro non era sulle loro carte.. O forse era solo l'effetto dei numerosi bei ricordi che aveva in quella casa. Si gettò sul letto dopo aver mischiato troppe volte la vodka con l'acqua tonica e le lacrime. Si gettò sul suo letto come si getta un sacco della spazzatura: senza pensar troppo a cosa si sta facendo e con un lieve senso di schifo, di sudicio, sporco. Ore dopo Alessandro si svegliò in posizione fetale, il cuscino bagnato di lacrime e forse saliva o qualche rigurgito alcolico. Andò in bagno, si tolse di dosso la maglia, gli slip e aprì l'acqua. Si stese nella vasca e aspettò che l'acqua tiepida lentamente lo ricoprisse. Prese a lavarsi con gesti lenti e meccanici, forzati quasi. Improvvisamente lo rapì un lieve sonno, giusto un attimo che gli chiuse gli occhi e lo fece restare come in trance, adagiato con la schiena al lato della vasca. Sentì il corpo sbandare di lato, un vento inesistente soffiargli sul viso. E in un attimo quel vento immaginario che gli aveva fatto frescura sul viso lo riportò alla realtà. Schiuse le labbra e disse, a metà fra quel sogno così leggero e la realtà, una frase che solo le sue stesse labbra riuscirono a sentire per quanto parlò piano. Disse soltanto "Non lasciarmi mai". Poi il sonno lo strinse di nuovo nel suo abbraccio e Alessandro non fece resistenza. La vasca intanto continuava a riempirsi senza controllo e la stanza si allagava dell'acqua a cui Alessandro aveva rivolto la sua preghiera. L'acqua, di tutta risposta, iniziò a sembrare salata ad Alessandro che si sentì, in cuor suo, rispondere con un dolce "Eccomi". L'acqua che scorreva senza controllo attorno alla vasca ascoltò il sogno dell'equilibrio che Alessandro tanto cercava standosene zitta, in terra. Qualche goccia diceva alla vicina tutta preoccupata che quello che lui sognava era difficile, quasi impossibile da ottenere. Equilibrio? Stabilità? Sarebbe stato come andare a fil di ruota con la Oceano, e senza timone per di più! Ma la saggezza dell'acqua veniva sempre a galla e mai evaporava, nemmeno sotto il sole più cocente. Quell'acqua rimase così in terra, ad ascoltare il sogno di Alessandro. Il sogno sul fil di ruota. Francesco Zippo


ALA DESTRA Il pullman è ormai vicino allo stadio e mancano circa 3 o 4 minuti, almeno nella testa di Enrico, al tunnel che porta i giocatori negli spogliatoi. Quel maledetto ronzino, come lo chiamava Sebastiano, un difensore della squadra, ce ne mette 6 di minuti. Enrico, mentre scende dal pullman, non guarda nessuno, neanche i tifosi che, con un block notes ad una mano ed una penna nell’altra, cercano disperatamente un autografo, più o meno come dei bambini in Ruanda cercano un pasto. La squadra arriva finalmente negli spogliatoi. Ormai sanno che cosa devono fare, l’hanno ripetuto troppe volte col mister in allenamento: pressione sulla punta e marcatura a zona quando le ali corrono e cercano di convergere o di crossare, poi diagonali e ripartenze dal centro, aiuti sulla trequarti dal mediano, contrasti, dribbling eccetera eccetera… Questi sono lavori per difensori e centrocampisti, però, lavori noiosi, non certo per un’ala destra, non certo per Enrico Garoni. Si siedono tutti sulla panca. Alban, il terzo portiere tedesco, incita chiunque gli si pari davanti. “Enri’, i tuoi parastinchi” “Grazie, Pietro”. Come sono belli quei parastinchi. Il nostro attaccante li aveva fatti personalizzare 4 giorni prima; c’è la foto della sua famiglia, un’immagine che lo estranea dallo spogliatoio e lo fa viaggiare nei lontani ricordi. Ci troviamo a Borgo Brancaro, 14 settembre del 2005. Enrico Garoni, di 17 anni, torna dal primo giorno di scuola. Frequenta il quarto anno di istituto tecnico per geometri, come avevan fatto suo padre e suo nonno. Nella strada del ritorno passeggia con Paola, la sua ragazza. Crede di amarla tantissimo, lo crede fermamente perché quei sentimenti non li ha mai sentiti per nessuno. Prima di lasciarla davanti l’uscio di casa, la abbraccia e la bacia come se fosse la prima volta, e quando la vede entrare gli pervade un sentimento di tenerezza e nostalgia. Sì, l’ama. Tornato da scuola, non desidera altro che mangiare la cotoletta di mamma Ada, necessariamente abbrustolita da sotto come piace a lui. Nonostante mangiasse solo quello, per lui è come un antipasto. A cosa, vi starete chiedendo. Ma ovviamente all’allenamento: non puoi farlo a stomaco vuoto ma neanche a stomaco tanto pieno. Ad accompagnarlo c’è sempre lui, suo padre. Michele, questo il suo nome, accende la vecchia Panda e si dirige in via Scirea, dove ci sono gli unici (e lontani) campetti del paese. Sì, paese, perché Borgo Brancaro è un francobollo sperduto e arretrato, della serie “Alessandro Magno si è fermato al Borgo”. Enrico lì si diverte, anche quando Mister Sasà li fa lavorare come dei sottopagati in miniera. Si diverte semplicemente perché è quello che vuole fare, perché non immagina una vita senza corse intorno al campo, una serata senza acido lattico nei polpacci, una mattina di sabato senza il desiderio di fare una tripletta. Proprio questo sabato la sua squadra, che è anche la compagine Under-20 del team cittadino, deve affrontare la capolista del girone. Mettiamo subito le cose in chiaro: la S.S. Brankaro era riuscita a malapena a superare la Promozione, l’ultimo livello della piramide calcistica regionale (eh sì, neanche nazionale), e naviga in metà classifica; l’Under-20 non è da meno, anche se è seconda nel proprio campionato… Insomma dovete capire che si tratta di dilettanti... La squadra si accinge a sfidare la prima in classifica, il Real Sopracornola, ed Enrico vuole assolutamente segnare. Dopotutto è il capocannoniere, cosa rara per un’ala. La partita è, senza usare eufemismi, perfetta: vincono 7 a 1, con 5 gol di Enrico, che da quel giorno viene chiamato Ala d’Argento. A vedere la partita c’è una pezzo grosso dello scouting calcistico: Federico Provi. Il nostro ragazzo torna a casa contento e motivato: vincere le regionali non è un’idea poi così assurda. DIN DON! Il campanello frena la sua fantasia e lo costringe ad alzarsi dal letto, luogo dove ogni sua immaginazione prende vita. Apre la porta e vede Franco, il postino del paese. “Questo è per te” “Grazie Fra”


Era una lettera dalla Football Scouting Association, la FSA. La mostra ai genitori, i quali la leggono e rimangono sbalorditi: al loro ragazzo è stato offerto un contratto da professionisti dalla Pilapolis United, una delle squadre più importanti della nazione. Insomma ha vinto qualcosa come 26 scudetti, 13 coppe e 5 Champions League. Ad Enrico non sembra vero. Tempo una settimana e tutto è pronto per il trasloco: dalla piccola Borgo Brancaro alla metropoli Pilapoli è una grande passo avanti, ma soprattutto giocare nello United è qualcosa al di fuori di ogni speranza. Certo, tutto ciò ha avuto un prezzo, i genitori hanno versato l’intero fondo risparmio e sono andati in rosso, ma a questo punto che importa? Enrico è nella rosa di un Top Club e tutto va per il meglio. Il suo sogno si sta avverando. L’unica cosa per cui soffre è Paola: non riesce a non pensare all’immagine di lei che, con gli occhi rossi e singhiozzando, abbozza dei complimenti che sanno di addio. Le aveva promesso che, una volta diventato ricco, avrebbe comprato un appartamento per entrambi a Pilapoli. Passano tre anni, la nostra ala intanto ha girato in prestito in Serie B facendosi le ossa, imparando come si lavora veramente. Nel mentre ha aiutato la sua famiglia coi soldi, ne ha tenuti da parte per la casa e si è anche opposto ad un tentativo di combina. “Non li farò mai” continuava a ripetere. Ora è però arrivato il momento di affermarsi. A 20 anni Mister Duca gli dà fiducia. Eh, Mister Duca: una leggenda nel mondo del pallone, famoso per i suoi scatti d’ira improvvisi, ma soprattutto per le sue vittorie e per la capacità di dare alle proprie squadre uno smalto perfetto, dal 1° al 90° minuto. Enrico fa la conoscenza dei suoi compagni di squadra: su 31 uomini con creste e tatuaggi assurdi, rimane colpito dalla punta Pietro Vallonetta, quello “fuori dalle righe” che ha ogni squadra che si rispetti. Sarà perché il suo compito è servirlo, sarà per deformazione professionale, l’Ala d’Argento fa subito amicizia con lui. La distanza con Paola, che aveva in questi anni limato con sporadici incontri, non sembra fargli così poi tanto effetto. Pietro lo porta dovunque, gli fa vedere la vera Pilapoli: feste e mondanità in ogni quartiere, in ogni angolo, e qualsiasi tipo di gente. Il mondo è lì, ed è un mondo bellissimo agli occhi di Enrico. I due entrano in una discoteca, ed lui fino ad adesso non aveva mai visto così tante belle ragazze in un solo luogo; non fa altro che fissarle. “Guarda che una la puoi avere” dice l’amico, indicando una cubista a caso con un gesto quasi di sufficienza. “Io… io sarei impegnato” biascica. “Come tutti d’altronde”, dice Pietro mostrando l’anulare adornato da una fede. Dopo queste parole chiama a sé una giovane bionda che lo segue in un separé. Enrico rimane un attimo sbigottito, decide che ormai (sono quasi le 3.00) è ora di tornare a casa, ma prima manda un SMS al compagno circa la sua decisione… “Prima o poi lo dovrà leggere” pensa. Due settimane dopo inizia la quinta giornata di campionato, Enrico viene finalmente schierato titolare, e all’esordio per giunta! Non sta più nella pelle: ritrovarsi nel tunnel che porta al rettangolo di gioco di una squadra di Serie A è una cosa che aveva solo sognato. È il momento: la squadra entra in campo, e l’emozione di vedere quei migliaia di tifosi è indescrivibile. Enrico trema, suda ancor prima di iniziare a correre e quasi si commuove nel vedere uno spettacolo simile. Pensa che quello che sta vedendo è e sarà sempre casa sua. Ma non c’è tempo per queste smancerie, l’arbitro sancisce l’inizio del match e ora conta solo vincere. La squadra avversaria, la Grevista FC, non è un ostacolo difficile, ma c’è da stare attenti. Il Mister ha preparato al meglio la sfida, che infatti comincia nel migliore dei modi: un tiro dalla distanza del centrocampista croato Karejic si trasforma in gol. Lo United domina la partita, ed Enrico fornisce un assist per il definitivo 3 a 0. È una vittoria per la squadra, ma soprattutto per lui: da allora sarà l’ala destra titolare del team, segnerà 11 gol, farà ben 19 assist, e, anche grazie al suo procuratore, avrà come sponsor la Nike. Con tutti questi guadagni comprerà finalmente quella casa per lui e Paola, ma anche quella per i genitori. “Io vivo un sogno, la mia vita è perfetta!” pensa una volta


finita l’ultima partita stagionale (che peraltro lo incorona campione), ma subito dopo ricorda ciò che il Mister continuava a ripetere durante gli allenamenti: “Non esiste una squadra perfetta, nella vita nulla è perfetto”. Siamo all’inizio della nuova stagione: la vittoria del campionato consente alla squadra di partecipare alla Champions League. Tutti sanno che ci vorrà il doppio della fatica, ma Enrico è fiducioso: confrontarsi con le migliori squadre del continente gli farà sicuramente salire l’adrenalina al massimo! Al ritiro nella piccola Frestole, paesino nelle montagne, Pietro Vallonetta raduna nel pieno della notte i compagni tramite What’s App, intimandoli di venire di nascosto. I giocatori accettano, chi con malavoglia chi con curiosità. Entrati nella camera che Pietro condivide col portiere Sergi Neto, la punta esce dal bagno con una felpa, incappucciato. “Nah, raga’, è arrivato il pusher!” urla a bassa voce Sebastiano con fare buffonesco. “Deficiente, stai zitto!” digrigna , poi si mette le mani in tasca ed esce un barattolino. “E quello che sarebbe?” chiede Enrico, mentre Pietro estrae una manciata di pilloline. “Dobbiamo giocare due o anche tre volte a settimana, no? Se ingoiamo queste prima delle partite non ci stancheremo mai e allora sì che potremmo vincere la Champions!” “Dove le hai prese? Chi te le ha date?” “Enri’, non rompere, me le ha date un amico, sono sicure. Pensate che le hanno create per passare i test anti-doping! Fantastico no?” A questo punto cala il silenzio tra i presenti: c’è chi non sa che pensare, chi è entusiasta e fa sorrisi d’intesa, chi, invece, è decisamente contrariato. “Pietro, butta immediatamente quel barattolo, o giuro che lo riferisco al Mister e ti faccio passare guai seri!” grida adirato Francesco Patrido, il capitano di lunga data. Vallonetta sospira, sorride beffardo e lo lancia a terra “Contento?” Dopo questa scenata, i calciatori vanno a dormire, ognuno nella propria stanza. Enrico ripensa a quel barattolo. “Spero non capiti mai più una cosa del genere” pensa, e dopo pochi minuti si addormenta lasciandosi andare in un sonno che spera gli faccia dimenticare quella serata. Eccoci alla prima di campionato, solito schema, solito tunnel e solito, meraviglioso tifo assordante. Enrico è naturalmente titolare, e mostra a tutti di cosa è capace: doppietta e assist per Vallonetta. Tutto va per il meglio, anche con Paola: in estate si sono sposati e adesso aspettano un bambino. Le partite di Champions si fanno sentire sulle gambe, ma non è un problema, almeno fino a novembre. A novembre, in alcuni giorni, sente proprio di non farcela, e si chiede come possano essere al meglio alcuni compagni. Non ci vuole molto a fare due più due. La partita successiva spia Pietro prima dell’allenamento e lo vede infilarsi giù per la gola i confetti, in compagnia di altri otto compagni. Nel dubbio decide di non dire nulla per ora, gli può accadere qualsiasi cosa dopotutto. La stagione continua e il tempo passa, ed Enrico non ce la fa a stare al passo con gli altri: fa una brutta prestazione dietro l’altra. Mister Duca lo toglie dai titolari, relegandolo in panchina. Da qui ha inizio un periodo che l’ala destra non avrebbe mai immaginato. Non giocando più, non riceve i bonus che il contratto gli riserva e, come se non bastasse, scade il suo contratto con la Nike. Enrico non ci vuole credere: non riesce a pagare le tasse sulla casa (che più che altro è una reggia) e le altre spese. È in una situazione scomoda, ma ecco che arriva all’improvviso ciò che può sistemare tutto. Viene offerta alla squadra una possibilità: perdere con l’ultima in classifica e intascare ciascuno 100.000 euro. Viene offerta loro una combina. Enrico è titubante, ma è costretto ad accettare. Il giorno dopo, la squadra gioca (anzi finge di giocare) male, anche Enrico, che finalmente è titolare… peccato che sia tutta una farsa. A fine partita si vede fischiato dai tifosi, e torna negli spogliatoi con una tristezza tale da non riuscire a spiccicare due parole. “Non voglio più deluderli” pensa con rabbia “Devo riprendermi il posto da titolare che mi è stato tolto”. Il giorno dopo contatta Pietro, gli dice che ha bisogno delle pillole, e da allora ne prende una prima di ogni partita. Ora si


può ragionare: riprende il posto da ala destra titolare e torna a segnare e a fornire assist. Il fatto di fare tutto ciò di nascosto gli dà una scarica di adrenalina incredibile, quasi ne è compiaciuto. Ah, i confetti hanno una piccola controindicazione: aumentano il testosterone. Potete capire cosa può significare questo se passi le serate con Pietro Vallonetta. Enrico infatti a casa non c’è mai, comincia a frequentare nuovi Night Club con nuove pupe e, visto che c’è, non disdegna guadagnare un po’ di grana extra a discapito del risultato. In questo modo passano tre anni. Paola, che già nutriva prima dei dubbi, ora è certa. I due litigano violentemente, e, un po’ per stress un po’ perché in balia delle pillole, ad Enrico vola uno pugno, il tutto davanti ad un disperato figlio. “Vai via e non farti più vedere!” urla piangendo la donna. In effetti l’ala realizza dopo quello che ha fatto; schifato se ne va a casa di Pietro con una valigia fatta alla buona. “Forse devo togliermi dalla mente questo episodio” pensa “tra tre giorni c’è la finale di Champions”. Rieccoci nello spogliatoio, dove Enrico contempla quella foto sui parastinchi. Ancora non crede a quello che sta vivendo; aver inseguito il suo sogno lo ha portato a perdere di vista ciò per cui aveva sempre creduto: l’amore, la famiglia e lo sport. Il suo mondo è diventato tutto una farsa, abbellita da doping, combine e prostituzione. Si accorge che il centro della sua esistenza non è più il suo sogno, il calcio, bensì quello che viene dopo. Perché a sognare siamo tutti bravi, ma una volta avverato un sogno, cosa ci rimane? Una vana speranza di una vita perfetta? Una routine perfetta nella sua regolarità? Enrico non sa che pensare ma forse non pensare in questi casi è meglio. Dopotutto c’è la finale a Wembley che lo sta attendendo. In galleria stringe la mano ad un bambino, osserva il suo sguardo sognante e si rivede quando, piccolo come lui, diceva al padre di sognare di fare il calciatore. Enrico capisce la ricetta per diventare un vincente: al posto di quel manto d’erba verde vede un campo sterrato, al posto di quei 90.000 tifosi vede i suoi genitori dietro la grata del campetto. Cammina a grandi passi verso il centro del campo. Si mette in posa. Ascolta l’inno epico della Champions. Ripensa a ciò che ha fatto per arrivare fin lì, gli allenamenti, i sacrifici suoi e di mamma e papà, i crampi, gli infortuni, il sudore, i gol, le urla, i pianti, la sua famiglia… Si sistema davanti al cerchio di centrocampo in attesa del fischio dell’arbitro. In quel momento ha capito la cosa più importante del calcio: che, nonostante tutto, c’è sempre un nuovo calcio d’inizio. Antonio Giannotte

Cara madre Cara madre, perdonami se dalla mia partenza non ho più avuto modo di contattarti. Come sai, io non so scrivere, per questo mi sto facendo aiutare da un amico che, non ci crederai, abitava proprio in un villaggio vicino al nostro ed è partito insieme a me; per qualche strano paradosso non l’ho mai incontrato se non una volta giunto qui. Lui è un nobile ma, se c’è una cosa che ho imparato subito dopo la mia partenza, è proprio che le caste per noi emigranti non esistono, per gli abitanti di questo paese siamo tutti uguali. Il viaggio è stato lungo e difficile, posso assicurarti che dal nostro villaggio fino al mare il percorso è stato davvero lungo e faticoso, per fortuna l’abito buono e le scarpe le avevo messe in


una sacca, così non si sono rovinate. Ti dicevo del viaggio, quello via terra è stato duro, ma ancora peggiore è stata la navigazione. L’imbarcazione era piena, eravamo tutti ammassati: uomini, donne, bambini. Per passare il tempo alcuni intonavano i canti della nostra assolata ed arida terra, ma la maggior parte temeva di finire i suoi ultimi giorni nel fondo degli abissi; qualcuno diceva che era già successo in passato. Abbiamo trovato burrasca, molti hanno iniziato a pregare, altri urlavano che gli spiriti maligni avevano maledetto quella nave e tutti quelli che c’erano dentro. Una maga ha officiato alcuni riti purificatori, alcuni di noi, presi dal panico, volevano salire in coperta, ma uomini armati ci hanno trattenuto nelle stive. Ho avuto paura, poi il tempo è migliorato e d’improvviso dentro di me ho sentito una gran malinconia; tu lo sai madre, se avessi potuto rimanere lo avrei fatto. Ma la guerra a volte ti colpisce anche quando fai di tutto per evitarla: in questo triste mondo ti ero rimasto solo io, ma tu hai preferito piangere la mia lontananza piuttosto che la mia morte. Avrei tanto voluto portarti con me, nella terra dei sogni, dove c’è il lavoro, dove c’è ricchezza, dove non c’è la guerra, dove i campi si arano con potenti macchine e gli uomini non si ammazzano per un po’ d’acqua. Ma ora che sono qui sono contento che tu non sia venuta. Non voglio mentirti, madre, temo di essere sbarcato nella terra sbagliata. Qui le strade sono piene di insegne luccicanti e musica, ma in realtà tutto è duro, difficile, violento. Appena siamo arrivati ci hanno fatto sedere a terra, poi ci hanno chiesto i documenti (molti di noi non li avevano e sono stati duramente interrogati), uomini armati si sono piazzati davanti a noi, ci controllavano per evitare che qualcuno di noi tentasse la fuga. Poi ci hanno fatto alzare e, uno ad uno, ci hanno sottoposto a delle visite mediche. Alcuni di noi sono rimasti nella stanza del dottore troppo a lungo, erano debilitati, ed è stato come se dentro di me sentissi che alcune di quelle persone in realtà quell’infermeria non l’avrebbero mai più abbandonata. Nei miei incubi sento ancora le loro voci. Per giorni sono stato chiuso in questo centro di permanenza su un isolotto in mezzo al mare. Poi insieme ad un amico siamo riusciti a fuggire. Forse ho sbagliato, da allora mi sento braccato. Ho trovato un impiego, ma il lavoro è difficile e pesante, di certo non meno pesante del lavoro con il quale mi spezzavo la schiena nell’amata terra mia, terra di cui mi manca ogni cosa: i colori, gli odori, i sapori, ma soprattutto tu, cara madre. Il suolo arido della mia cara terra, la fatica delle lunghe passeggiate verso il pozzo con i carichi d’acqua che servivano per dissetare tutta la comunità. Nella città in cui ora mi trovo faccio il muratore. Carico “pezzi” sulle spalle dalla mattina alla sera, ma non tutti i giorni. La mattina aspetto assieme agli altri vicino al cantiere, se sono fortunato, lavoro, altrimenti devo sperare nel giorno dopo. Non posso lamentarmi per come ci trattano: qui vivo nascosto, se ti lamenti quelli chiamano la polizia e ti fanno arrestare. La notte la passo in un dormitorio insieme ad altri connazionali e a cittadini di altre terre lontane. La gente del posto è vestita bene, pulita, elegante, ma ci guarda con diffidenza e disprezzo. Non vive negli stessi posti dove abitiamo noi, anzi, quei posti li evita. L’amico a cui sto dettando questa lettera, uno colto, mi ha fatto vedere un giornale, mi ha detto che per i cittadini di questa nazione siamo tutti stranieri, ma alcuni di noi sono peggio degli altri. Noi siamo tra quelli peggio. Dicono che la mia gente insulta le donne, le tratta male, le picchia e le uccide, dicono che siamo negroidi con poco cervello, che se la nostra terra è così è perché ce lo meritiamo. Il mio datore di lavoro lancia epiteti contro quelli come noi, lo fa ridendo, crede di essere simpatico, ed infatti tra di loro ridono. Gli insulti sono le prime cose che ho appreso di questa


lingua così strana e difficile. Eppure madre tu mi hai insegnato a rispettare le donne, ad amare colei che a mia volta sarà la madre dei miei bambini, allora perché questi uomini ci ritengono così brutali ed arretrati? Perché ci giudicano con tanta superficialità? Sì, c’è violenza nel nostro paese, molti dei nostri connazionali sono delinquenti ed hanno provocato molti morti, ma non siamo tutti uguali. Io vivo nella paura, temo il futuro, la mia terra mi ha rifiutato, la terra dei miei sogni anche, ed ora mi sento figlio di nessuno. A volte penso che sarebbe più semplice se facessi anch’io il delinquente, tu mi hai insegnato a vivere onestamente, eppure madre la fame, che pure conosco da quando sono nato, si fa sentire sempre più forte. Sono solo, e se non fosse per tutte le altre persone come me, nelle quali trovo conforto, sarei già impazzito. Le cose non cambiano, nella nostra terra alcuni nostri connazionali dediti alla delinquenza ed al malaffare ci maltrattavano, ci sfruttavano, spesso ci uccidevano. La crudeltà mi ha costretto alla fuga, la crudeltà mi costringe ora a vivere da reietto. Perché ora quegli stessi connazionali li ritrovo qui, dediti alla delinquenza, intenti a fare del male al prossimo, ma soprattutto a noi; ed anche qui, come nella mia terra, nessuno ci tutela e ci protegge. Siamo alla mercé della polizia, dei nostri connazionali delinquenti, del razzismo della gente. Mamma, il nostro popolo deve essere maledetto, forse gli spiriti maligni ci hanno fatto il malocchio, ma non preoccuparti, la mia tempra è dura, ce la farò, anche se è davvero difficile essere un emigrato in questo nuovo mondo. Una cosa ti prometto, se il Signore vorrà concedermi questa grazia: a mio figlio insegnerò il rispetto e l’amore per il prossimo, chiunque esso sia, proprio come tu e nostro Signore mi avete insegnato. Che Dio ti protegga.

Alessia Pascadopoli


PROSPETTIVE E RETROSPETTIVE

Racconti di Francesco Zippo Curami Raffaella Granata Perché non ce la insegnate? Simone Perrone Storia di un Irlandese a Boston Giulia Loconte 30 Luglio 1916 Sabrina Adamo Dance in the dark: american oxigen Estefany Fanelli Dall’odio all’amore e ritorno


CURAMI Ogni notte, ti prego, prendimi, stringimi, quando c'è il temporale farò finta di avere paura per un tuo bacio, non lasciarmi a terra, qui, steso, inerme, scomposto, cadavere. Dormirai e ti sorveglierò il sonno da sveglio, fra un assolo e l'altro di questa canzone che mi suona in testa chiuderò gli occhi e vedrò te, i tuoi capelli, passarmi davanti, velarmi per un attimo il viso. Farò finta di dormire con un braccio sul tuo corpo, perché svegliandoti tu rimanga ancora un poco accanto a me pur di non spostarmi, per non lasciarmi nella nausea che ogni abbandono porta, per non lasciarmi da solo con la carta e la penna per non scrivere queste cose, queste righe sbronze, per non batterle al computer pensando di suonare il piano anziché la tastiera, trovando il mio tempo, facendo l'accordo dei verbi e dei soggetti dimenticando i diesis della logica e suonando coi tasti scassati senza senso che le mie mani battono fregandosene, andando avanti, affamate dello spazio a destra di ogni parola precedente, di ogni lettera. Ed io vorrei solo che finisse l'attesa per rivederti, per ingannare il tempo mi vesto per uscire a fare un giro a piedi: la maglietta no, la felpa no, la camicia sì, camicia di forza? No, metto la giacca, esco e sento la luce, vedo l'aria, tocco il mio disagio e finisco gamba dopo gamba a pestare i piedi alle onde del mare sul bagnasciuga e torno a casa quando sento la fame farsi viva in questo corpo morto, torno su per le scale e vorrei non tossire così quando la polvere cerca di uccidermi… “A baciarsi sotto la pioggia ci si prende la ruggine”… Fanculo ai film! Vorrei che questo stridere continuo ed incessante si fermasse nelle mie orecchie, questo rullare di tamburi infinito che non porta nessun colpo di scena, nessun momento cruciale, niente, niente, NIENTE, solo altra attesa per attendere in un angolo. La rabbia dei ragazzi del '68 mi percuote l'animo, i dissidi interiori dei migranti sui barconi, la disperazione del conto in banca del mio vicino, veleni, acidi, disturbi dissociativi, depressioni, ansie latenti, complessi di Edipo silenti, shock importanti, colpi al cuore, colpi di scena, colpi di pistola, tutto, tutto, TUTTO mi invade, avvelena, corrode, uccide, lacera, sfilaccia, divora, colpisce, squarcia, affligge:Guernica cerebrale. Poi una luce da guardare per sempre che anche i ciechi vedrebbero e, vedendone, prenderebbero ad accomodare gli occhi su ogni dove in ogni luce, guariti… Hai varcato di nuovo la porta di casa e sei di nuovo qui. Mi sollevi da terra e mi chiedi che scrivo e perché piango. Ora che sei qui, loro, quelle cose, quei pensieri sono via, annullati come l'ombra alle dodici. In menteuna tabula rasa. Elettrificata. Loro verranno al contrattacco con elmi ed armi nuove. Ma intanto, adesso, CURAMI. Francesco Zippo PERCHE’ NON CE LA INSEGNATE? Mi gira la testa o forse è ciò che mi circonda a girare intorno a me. Sono caduta, non riesco a rialzarmi, il vento mi graffia la pelle con la sabbia tanto amata. Il rumore del mare mi culla, nonostante io sia per terra. Grandi, infinite nuvole sopra la mia testa. Una prima goccia di pioggia sulla sabbia, la bagna e la fa diventare di un colore più scuro rispetto al resto della spiaggia, una seconda, ora una terza. Piano piano la pioggia aumenta e insieme ad essa mi sento a mio agio, mi ricorda che anche il cielo ogni tanto piange, e io con lui. Rabbia. Quel vortice assurdo che quando ti prende, non te ne liberi più. È qui. E io sono sua. Corro, ma dove credo di andare? E dove mi porta questa strada? Dove mi porta questa vita? Un tunnel oscuro, in lontananza. Oscuro come me, come il mondo in cui vivo, come la mia anima.


Un’anima sempre affamata, bramosa di divorare tutto ciò che trova, anche a costo di fare del male al corpo che la tiene rinchiusa. Divoratrice. E come lo spieghi alla gente il bisogno irragionevole di scrivere, di leggere, di ascoltare, parlare, suonare, cantare? Il bisogno di vivere, come glielo spieghi? Il bisogno di essere qualcuno, di essere ricordato. L’immortalità e la morte. Vivere attraverso gli altri, una volta terminato il tuo percorso, vivere magari in modo migliore. Altrimenti vivere e basta, vivere o niente, vivere la vita come ci è stata data. La vita… Anche se rimanere in vita è continuare a morire. Ogni giorno. Questo desiderio di morte, che poi è solo voler vivere davvero, almeno per un altro po’, un altro giorno, un’ora, ma anche solo un minuto. Un minuto di vita e potrei essere felice per almeno tanti anni, quanti quelli che ho vissuto fino a questo momento. Il problema reale è che la gente non capisce, la gente non ascolta. Urlo, ma la gente sembra essere sorda. I miei occhi li hai visti? Urlano aiuto. Un disperato bisogno di aiuto. E di affetto. O amore. E se proprio questo non lo merito mi accontento di un abbraccio, dato anche per pena. Forse ho solo bisogno di essere felice e di qualsiasi altra cosa implichi questo mio desiderio. Quasi non ricordo il sapore di quando uno è felice. Come si sta? Piange per caso? O ride? Canta come gli viene? Cosa fa? Io non faccio nulla di tutto questo. Forse sono solo vuota, non funzionante, forse ho solo qualche valvola fuori posto. Forse. E sono qui, a mare, con la sabbia che continua a graffiarmi le gambe, la pelle. E solo sola. E sono io. Come ho fatto a ridurmi così? Non lo so, ma l’ho voluto io, ho fatto in modo che accadesse e ora non so più come uscirne. È come un disagio, un vuoto irrisolto e irrisolvibile, dipeso da tutti, ma soprattutto dipeso da me. Mi si chiudono gli occhi, ho sonno, no, sono stanca, ma non ho sonno. Non ne ho mai. Mi stendo sulla sabbia, che ora è diventata quasi mia amica, quasi sorella. Chiudo gli occhi. Allontanarsi dalla realtà. È questo il trucco. Ma oramai non funziona neanche più questo. Vuoto, buio, solitudine, tristezza. A cosa possono portare? All’autodistruzione. Ebbene sì, cara me, mia cara e straziata me auto-semi-distrutta dalle tue stesse emozioni. Oggi sono a mare e voglio pensare a tutto ciò che ho fatto per arrivare fino a questo misero e orrido punto. Penserò a tutte le mie colpe e a questa mia guerra persa fin dalla partenza, a tutte le mie battaglie finite sempre tragicamente. Due occhi giganti e un caschetto di capelli castani. Nata da un’onda di malinconia, in una spiaggia deserta. Forse è per questo che sono così legata a tutto ciò che riguarda il mare e l’infinito. I miei non mi aspettavano, non ero in programma, come direbbero loro, ma mi vogliono comunque bene, come direbbero sempre loro. Ed eccola la mia prima battaglia persa: sono stata una delusione per le persone dalle quali avrei dovuto farmi amare sopra ogni cosa, dapprima ancora che conoscessero il mio volto. Inutile parlarne ancora. La mia battaglia, la più dura e difficile sarà sempre e solo questa, conquistare almeno un po’ la stima e la fiducia dei miei, di mia madre che mi guarda come se non avessi mai fatto qualcosa di buono, come se non le fossi mai piaciuta. E la capisco, non mi piaccio neanche io. È raro che io possa piacere, sono una tipa strana, diffidente, è quasi impossibile che io possa essere amata da qualcuno. Ma la leggenda narra che un’altra inutile battaglia persa fin dall’inizio fu


mettersi con un ragazzo più grande di me, non troppo, ma neanche pochissimo. Troppa felicità, davvero troppa in quel periodo, e io non l’ho mai meritata, quindi mi preparavo a qualcosa che prima o poi sarebbe arrivato, di molto difficile da affrontare. Lui era fin troppo per me, c’era sempre, anche quando cercavo di allontanarlo dicendogli che con me avrebbe solo sofferto, sarebbe solo stato male. E così andò. Io non piacevo ai miei, sarebbe mai potuto accadere che questo ragazzo fosse piaciuto loro? Mi avrebbero permesso ancora di uscire di casa e frequentarlo una volta scoperto ciò che non avrei mai voluto che si scoprisse? No. Il mio unico e vero pezzo di felicità andava distrutto, per sempre. Ma io non meritavo nulla, avrei dovuto ricordarlo. Nulla. E fu così che tra una cosa e l’altra persi un’altra persona importante per me. Quella che reputavo la mia migliore amica, la persona alla quale avevo affidato una mia parte di cuore e di anima. Si stava allontanando da me. Come tutti. Ero sola, mi sentivo sola, non sapevo come raccogliere i miei cocci da terra, non sapevo come riattaccarli da sola, non sapevo come rialzarmi da questa ennesima, immensa caduta. Le battaglie sono per chi può permettersele. Non per quelle come me. Mi rialzai, a fatica, ero distrutta, ma nessuno se ne accorse, la gente davvero non capisce. Iniziai a cercare invano negli altri ragazzi qualcosa in comune con il mio piccolo pezzo di felicità. Qualcosa che mi avrebbe ricordato lui, ma questo non funziona mai. Nessuno sarà mai lui e i vuoti non si colmano con gente a caso, i vuoti hanno forme e colori e suoni e dettagli e profumi precisi. Poi una sera, per caso, conobbi l’alcol, mi aiutò molto, o almeno credevo lo facesse. L’alcol è veleno e dentro di me c’era qualcosa di davvero orrendo che volevo uccidere, che avevo la necessità di avvelenare. Ma purtroppo non morì. Vomitando tutto ciò che avevo ingerito iniziai a piangere. Furono attimi di una tristezza così profonda da lacerarmi. Furono attimi di pura angoscia. Le lacrime continuavano a rigarmi il volto. Il vomito non aveva liberato o lasciato andare i miei demoni, loro erano ancora con me. Ero io, ed ero sola contro tutto ciò che mi stava distruggendo. Stavo diventando ciò che mai avrei voluto diventare. La mia vera autodistruzione iniziò in quel preciso momento. Le battaglie troppo dure non fanno per le persone deboli, e le persone deboli cercano sempre di scappare. La mia fuga, decisi in quel momento, sarebbe stata l’autodistruzione. Sono ancora distesa sulla sabbia, guardando la linea che separa questi due grandi infiniti che sono il cielo e il mare. Penso a così tante cose che mi dimentico di stare a pensare. Il pensiero, capii allora, era la mia più grande e vera autodistruzione. Ora, però, dopo il tanto rumore che la mia mente ha prodotto in questa dolorosa autoanalisi, sto bene, penso. Forse piangerò, ma sto bene. È davvero molto raro trovare la felicità nelle persone piene di pensieri e di dubbi o incertezze. È anche molto raro trovare la felicità negli stessi posti in cui la si è persa. È molto raro soprattutto trovare una reale felicità. I professori insegnano di tutto, riescono a farci credere che qualsiasi materia sia utile e serva nella vita, quindi non sarà un problema per loro rispondere a una mia semplice domanda che ho deciso di fare il primo giorno di scuola: “…E la felicità, prof, perché non ce la insegnate?” Raffaella Granata


STORIA DI UN IRLANDESE A BOSTON “Sin da bambino ho sempre voluto fare il gangster, caro giudice”. Era una sera come tante del 1920 e una famiglia irlandese di Boston stava consumando la propria cena. Durante una conversazione qualsiasi il padre della famiglia, il Sig. Erik Mitchell, dice alla moglie Shaun -Cara, oggi stavo al bar di Sonny, sì, Sonny occhio guercio e stempiato- dice gesticolando con l’indice -Leggevo il Boston Express. E’ successo ancora: un altro di quei cani siciliani o calabresi ha assassinato il titolare di una piccola impresa.Fa una pausa per poi riprendere - Hanno abusato della figlia e riempito di botte la moglie - finisce la frase in tono funesto; la moglie rimane sconcertata così come il figlio Kane, il minore dei due fratelli. L’unica persona della famiglia a rimanere quasi incuriosito da quell’avvenimento è Edward, il fratello maggiore. I due iniziano a discutere e si ritrovano in un duello verbale: Kane sostiene la legge e i provvedimenti contro la mafia, Edward sostiene che la mafia sia un mezzo per far soldi, necessario in una famiglia povera come la loro. La discussione procede fino a quando il padre non manda entrambi i ragazzi a letto, accompagnati da un paio di ceffoni e da qualche parola di rimprovero.Appena entrati in camera i ragazzi iniziarono ad azzuffarsi; era solo una lite tra fratelli, ma comunque questo bastò a far intervenire il Sig.Erik, cintura di pelle alla mano.In famiglia non si toccò più l’argomento mafia, fino a quando i due coniugi Mitchell non notarono che Edward era sempre assente a casa, tornava tardi la sera. Una maledetta mattina del 22 gennaio 1921, il postino portò una lettera con su scritto: “Dall’istitutoA.E.Poe alla famiglia Mitchell. Vostro figlio è assente da scuola da circa un mese. Si prega di prendere provvedimenti”.Da quel giorno successero cose strane, cose da pazzi, che sconvolsero quella povera famigliola in modo irrimediabile.Edward quel giorno tornò a casa, pronto a prendersi quelle punizioni, per lo più corporali, che il padre gli inflisse. La sera stessa Don Michel Varrese scoprì che per colpa di un postino infame un suo iniziato, Edward Mitchell, era stato “sgamato e’ppestato”.La mattina dopo Don Varrese scoprì il nome del postino, la sua abitazione e il numero della targa della sua auto; inutile aggiungere che entro la giornata un sicario freddò quel povero postino, dicendo “pigghia questo, questo e pure questo, ‘nfam scheggiato”.Gli anni passarono per Edward tra un furto, un’auto bruciata, un po’ di sigarette spacciate. Il 19 dicembre 1926, Edward compì 23 anni, l’età giusta per un grande regalo da parte di Don Varrese e del suo nuovo amico Bob, detto il “mangiaspaghetti”. Non lasciamoci ingannare dal nome, Bob aveva iniziato coi “lavoretti” a nove anni, a dodici anni si era fatto la prima galera ed a sedici anni faceva già il sicario. A trent’anni era “ricco come il presidente americano”, o almeno così dicevano. Tipo strano Bob, molto generoso e stravagante. Ogni fattorino che gli teneva la giacca, ogni barista che gli portava da bere, ogni tassista, si prendeva cento dollari di mancia. Quel giorno Bob regalò ad Edward tremila dollari in banconote da cinquanta. Inutile descrivere la faccia contenta di Edward, pronto alla sua iniziazione nella “famiglia”.Il grande giorno fu il giorno di Natale di quello stesso anno; per entrare nella nuova famiglia bisognava prima “uscire” da quella di prima. Quel giorno Ed doveva portare con sé due amici; scelse Bob e Sal, un nuovo picciotto, fin troppo violento. La “cerimonia” iniziò quando casualmente la macchina della famiglia Mitchell, nella quale stavano madre, padre e fratello minore, si fermò in un vicolo buio. Da una parte del vicolo c’era un muro, da quella opposta c’erano i tre “compari”, con altri tre Thompson. Il Signor Erik scese dalla macchina per vedere cosa fosse successo al motore, ma appena mise il piede fuori i tre picciotti aprirono il fuoco. Ognuno di loro scaricò trenta colpi sulla macchina; nessun membro della famiglia si salvò.Il Natale per Edward ed i suoi amici si festeggiò assieme al grande capo, che per una sera non parlò di affari, ma pensò solo a mangiare, a bere e a guardare lo spettacolo delle ragazze che ballavano sul palco di uno dei migliori ristoranti di Boston, commentando ogni tanto con “che bella figghia”, oppure “Vid che forme!”. Quella notte Edward la passò a piangere: inizialmente per aver ucciso i suoi cari, ma poi per la gioia di essere entrato nella famiglia Varrese.


I lavori per la “famiglia” erano diventati sempre più divertenti e lucrosi quando il 26 marzo 1928, durante una vendita di liquori ad un barista, Edward si fermò a parlare con una bellissima ragazza americana, Jenna. Qualche uscita assieme, qualche cenetta romantica a lume di candela ed Edward subito decise di comprare una casa e di sposarla.La casa era una villa al mare, “regalatagli” dal padrino come dono di nozze. Il matrimonio fu degno di un re e fu pagato da Bob e Sal; il viaggio che seguì le nozze fu all’hotel casinò “Caesar” a Las Vegas.“Gli anni che seguirono furono i più belli, dal 29 al 45 vivevo spensierato, ero un vip per tutti, non dovevo fare file, al ristorante avevo sempre il tavolo migliore, al cinema sempre la prima fila, bottiglie di champagne in regalo ogni passo che facevo. La vera sfortuna iniziò l’11 gennaio 1946, ecco giudice, ve lo racconto nei minimi dettagli”.Quella mattina Edward fu inviato assieme a Bob da Don Tattaglia, uno spietato avellinese: i due avevano il compito di convincerlo a desistere dagli affari; come diceva Don Varrese “parlate cu quidducurnut e diciteglica nu vijimunudd da id. C’vole a guerra pe’ due negozietti schifosi amm’ fa a guerra”. Appena Don Tattaglia ricevette Edward e Bob, iniziò a fare un discorso su quanto fosse importante la fedeltà e l’amicizia, poi offrì ai due picciotti “una offerta che non potevano rifiutare”: loro avrebbero tradito Varrese ed in cambio avrebbero avuto un milione di dollari a testa. Bob non voleva accettare; Edward avrebbe voluto, ma prima di dire sì Don Tattaglia aggiunse: - Avanti Ed, non vuoi un milioncino pe’quella prostituta di tua moglie? -All’udire quelle parole Ed e Bob si alzarono e se ne andarono, senza dire nulla.Il giorno dopo, il 12 gennaio 1946, ore 20:45, Ed e Bob si introdussero in un piccolo appartamento, dove Don Tattaglia si stava divertendo con una donnina mulatta. Entrarono nella camera col letto dove stava il boss avversario, gli puntarono i loro revolver e Bob disse: -Figghia, iss prima c’a tagghaccid! - La donna scappò, sconcertata, ma fu comunque stesa da un colpo alla schiena sparato da Bob -non ce li voglio i testimoni! - si giustificò. Intanto il Don era pietrificato dalla paura sul letto: l’unica cosa che riuscì a fare fu mettersi dritto sullo schienale. Ora toccava ad Edward: -Di’ un’altra volta che mia moglie è una prostituta!- passarono alcuni secondi: -Dillo! - Tattaglia terrorizzato riuscì solo a dire: -ab…em…ud…- Poi scoppiò in un pianto isterico. Edward continuò: -Balbetta un’altra volta e ti sparo!- Don Tattaglia come da copione iniziò ad emettere alcuni balbettii confusi, così Ed gli sparò un colpo al ginocchio e uno alla spalla, tutto mentre Bob andava a sedersi per guardare la scena, ridendo. Edward era stufo di aspettare, così disse al Don: -Se hai il fegato, dimmi, cosa è mia moglie? - Il Don capì che stava per crepare, allora disse: -Tua moglie è ‘na grandissima p…- Non ebbe il tempo di finire la frase, Edward gli sparò un colpo in testa e due al petto.Un’oretta dopo i due caricarono il cadavere in macchina e lo seppellirono fuori città. “Vede, giudice, lo avevamo fatto, Don Tattaglia era morto, ma nel business non bisogna agire per sentimento, come facemmo noi, bisogna agire per affari… e guai a chi agisce per sentimento!”.Lo stesso mese Don Varrese convocò Bob -convocò per modo di dire - che fu sparato con una decina di colpi per aver agito di impulso e, quindi, contro la famiglia. Edward capì che dopo Bob sarebbe toccato a lui; così andò alla polizia, confessò tutto e, in qualità di pentito gli fu diminuita la pena, in cambio di tutte le sue confessioni. “Ecco perché adesso sono in questa sala, a confessare tutto. Ora faccio sempre la fila ovunque, vivo in un appartamento normalissimo, al cinema e al ristorante prendo posto dove capita, mi regalano qualcosa solo a Natale o al compleanno, ora sono una persona normale, uno di quelli che lavorano per portare il pane a casa, uno di quelli che prima chiamavo sfigati”.

Simone Perrone


30 Luglio 1916 Beatrice, sorella mia adorata, oramai sono trascorsi due mesi dall'ultima volta in cui ho avuto l'opportunità di godere delle tue braccia e del tuo dolce profumo di lavanda. Quel 30 Maggio é un giorno così distante quasi da sembrare inesistente. Da quando sono giunta qui, in territorio francese, non c'é minuto o secondo in cui non pensi al tempo trascorso lontano dalla nostra casupola nelle campagne verdi della Puglia. Oramai della quiete e pacifica vita che conducevamo nel nostro piccolo borgo non rimane alcuna traccia, come se fosse stato tutto un lungo e magnifico sogno. Ma la vita qui al fronte è tutt’altro che un sogno: ogni giorno sempre più feriti, ogni ora sempre più sangue, morte e distruzione. Sembra, però, che gli sforzi dei soldati francesi non siano vani e che stiano avendo successo nelle loro missioni. Preghiamo il nostro Signore misericordioso affinché quest’ inferno abbia presto una fine. Tre giorni fa l’ospedale ha ceduto ai continui e incessanti bombardamenti nemici, che da settimane hanno minacciato l’incolumità di centinaia di persone. Con più della metà dell’edificio distrutto, insieme alla metà delle scorte di cibo, acqua e medicinali e con la perdita di almeno cinquanta persone, tra soldati e crocerossine, siamo stati costretti a trasferirci in una nuova struttura, a soli 150 chilometri da Verdun. Come una tempesta burrascosa che spazza via le fondamenta di una casa, lasciando solo una landa desolata di polvere e deserto, così le atrocità a cui assisto ogni giorno stanno inesorabilmente prosciugando la fonte delle mie emozioni: il mio cuore. Il terrore mi invade, sorella mia, proprio qui, all’altezza del petto; mi prende e mi toglie il respiro durante quelle poche ore di sonno a cui le mie compagne mi costringono. Perfino rifugiarmi nel mondo dei sogni, non mi conferisce sollievo. Ed è proprio nei momenti in cui la stanchezza si fa sentire, i muscoli sono indolenziti, i dolori alla schiena si fanno più intensi, le dita sono arrossate e le palpebre sono pesanti, che la mia mente, invece, incomincia a produrre una serie di irrefrenabili pensieri: per quale motivo questa guerra ha avuto inizio? Che colpa hanno questi soldati per soffrire in questo modo? Perché le questioni non possono essere risolte attraverso mezzi pacifici? Perché l’uomo necessita della violenza per portare la pace? Perché gli uomini non si accorgono che se non si interviene repentinamente questa spirale di odio e sofferenza non si fermerà finché non avrà dilaniato tutti gli esseri umani? Perché i soldati rischiano la loro vita in una trincea per uccidere un proprio coetaneo? Perché,in fondo, proprio come dice il nostro Signore Gesù, siamo tutti uguali, tutti figli dell’Altissimo, quindi che senso ha combattersi ? Non riesco a frenare le lacrime, gli occhi mi bruciano e la tristezza e la frustrazione prendono il sopravvento quando divento consapevole del fatto che in un altro Paese, un piccolo bambino di soli cinque anni si sta chiedendo se la sua mamma e il suo papà stanno bene, sono vivi e se torneranno mai sani e salvi dalla guerra. Il mio dolce e piccolo angioletto… così simile al padre nell’aspetto quanto nei modi e nei gesti. I ricordi di una vita passata, una vita gioiosa fatta di pane appena sfornato, di tramonti rosei e di risate giocose, mi attanagliano lo stomaco stringendolo in una morsa ferrea, facendomi desiderare con tutto il cuore di abbandonare questo paesaggio losco di fumo e filo spinato. Solo il desidero ardente di rivedere il tuo dolce sorriso, o sorella bella, e di riabbracciare quel mio piccolo pargolo mi portano a proseguire lo scopo per cui ho deciso di intraprendere la via della crocerossina. Ricordi il giorno dell’assassinio di Sarajevo, il giorno in cui tutto ebbe inizio? Lo stesso pensiero ci sfiorò la mente: non potevamo rimanere con le mani in mano. Ricordo vivamente una sensazione di calore alla bocca dello stomaco, che mi dava una carica e un’adrenalina mai provata prima. D’un tratto mi sono sentita invincibile, le mani


iniziavano a tremarmi, vogliose di disinfettare e curare ferite. Sarà lo spirito impavido e altruista ereditato da nostra madre, ma ero disposta a qualsiasi cosa pur di aiutare e rendermi utile. Rimanere a casa nell’illusione che sarebbe andato tutto bene, che si sarebbe risolto tutto, e che la guerra fosse totalmente estranea al mio mondo quotidiano mi avrebbe portato alla follia. Inoltre se fossi entrata nella Croce Rossa Francese avrei avuto più possibilità di incontrare il mio amato Guillaume. Non dimenticherò mai il giorno in cui venne richiamato per difendere la madre patria. La mattina più brutta ma al contempo più bella della mia vita. Eravamo così terrorizzati dalla consapevolezza che forse non ci saremmo mai più rivisti, che bastò uno sguardo, i suoi occhi verdi brillanti nei miei color del miele, per capire che non ci sarebbe più rimasto molto tempo per essere felici. Quell’anello al dito, i baci, le carezze, gli sguardi, le lacrime, i sorrisi e poi… tutto svanito come un’illusione. All’ennesimo giorno trascorso sul fronte la fiamma che aveva animato il mio spirito si sta velocemente estinguendo. L'angoscia sta prendendo il posto della speranza. Ma nonostante le avversità continuerò ad essere fedele al Signore, a me stessa e ai miei principi, sia se sopravvivrò, anche se la mia vita non sarà più la stessa, sia se troverò la morte: avrò coraggio, per te, sorella cara, per il mio piccolo Filippo, per il mio Guillaume e per tutti coloro che pongono la loro vita a difesa di quella degli altri, combattendo a testa alta. Con amore e speranza che queste parole ti raggiungano, Luisa Giulia Loconte

DANCE IN THE DARK: AMERICAN OXIGEN Diciassette anni,caldo, afa e sì, c’era qualcosa di strano in lei sin dalla nascita:era andata a beccare il tre del mese più caldo dell’anno Agosto. Suo padre e sua madre non si accontentarono di un nome, ne scelsero altri tre. Da lì il tempo è volato:cresceva a vista d’occhio e iniziò l’inutile gelosia nei confronti del fratello maggiore che si trovava a dover tener testa alla superbia,all’astuzia e alla dittatura impostagli da una ranocchietta due anni più piccola di lui,ma con una personalità e un cervello già in avanti. Anche all’asilo esercitava la sua dittatura e, mentre gli altri sporcavano,lei puliva, loro usavano il punteruolo e lei faceva le moltiplicazioni. .. Famiglia grande,amici,feste,mente libera,felicità…Anche le elementari erano un mezzo per dimostrare le sue capacità di bambina determinata e testarda,anche se di quelle dieci pagine da “yo-yo” da leggere non ne voleva sapere. Il palco la affascinava,quelle quattro ore di danza tra tu-tu,scarpette,gonne da latini e tuta da hip-hop non gliele poteva togliere nessuno. Tanto maggiore era la sua passione,anzi la sua ossessione per il cibo: a viziarla contribuivano i suoi splendidi nonni un po’ all’antica e spaventati dal nuovo mondo, ma pieni d’affetto dalla testa ai piedi. Per non parlare delle sue due vicine adulatrici che non la lasciavano tornare a casa senza i bucaneve infilati nell’indice e le caramelle al miele. Le sue notti erano fatte d’incubi:serpenti nel letto,aghi che la pungevano…Saranno stati i film thriller di suo padre?Questo non se lo sapeva spiegare, però trovava rifugio solo nel letto di suo fratello che, anche se sottomesso, nutriva nei suoi confronti un grande affetto. Il tempo passava e il peso aumentava,ma fino a quando hai dieci anni poco t’importa di come sei soprattutto quando ti trovi a dover difendere tuo padre dalle critiche di una società superficiale solo perché non ha un fisico con un peso nella norma:in quei momenti non c’erano occhi, solo un cuore dotato di un amore che solo un’Elettra sa provare. Il catechismo non l’ha mai sopportato,più che altro perché era una cosa fatta con imposizione;eppure a soli dieci,undici anni si faceva tante domande sulla vita,sui misteri, su cose che non capiva…Si sentiva osservata,messa a


giudizio,come se qualcuno stesse scrivendo il destino al suo posto. Nel frattempo studiava e il peso su quella sedia aumentava. Una vita buia,ma come ci fosse finita dentro non se lo sapeva spiegare.Il liceo,pressioni dei genitori,degli amici e persino di sconosciuti:era come se il mondo si fosse accanito contro di lei.Dopo aver vissuto per molti anni in un appartamento di piccole dimensioni,si ritrova a vivere in una reggia di casa apprezzata da tutti poiché dotata di tanti agi;si sentiva un po’ come Cenerentola…Peccato che si rese conto di essere solo un rospo che sentiva solo il suo gracchio…La danza era sempre dentro di lei,era come una via di fuga:il corpo era fermo,la sua anima in movimento. Rabbia, invidia,i serpenti,quelle voci,quei perché rimbombavano nella sua testa, ma all’esterno non lo dava a vedere. Poi arrivò il ventuno Dicembre duemilatredici:i Maya dicevano che in quel giorno ci sarebbe dovuta essere la fine del mondo,ma probabilmente era solo una metafora che alludeva ad altro. Quella sera non mangiò nulla a parte una focaccina che le provocò una strana sensazione allo stomaco. Giorno dopo giorno il suo nutrimento divenne una questione di sopravvivenza e non un mezzo di godimento e,tra una lezione di zumba e una di palestra,le sue ossa diventavano sempre più evidenti e il suo armadio semrpe più pieno… Ben presto, però, quelle ossa divennero troppo sporgenti,quei vestiti troppo larghi,il cuore vuoto e insoddisfatto,la mente formicolante e la testa vuota che la portò a… cadere tre volte…e quella notte di domenica vinse la paura per gli aghi e si rimarginò la spaccatura del mento. Decise di usare la testardaggine,era una sfida tra sé e quell’animale socratico studiato in filosofia che è in ogni uomo.Passarono minuti,ore,giorni,un anno:era una bambina,poi un rospo,adesso una donna adolescente!Quei formicolii,quei vuoti,quella pressione,quella solitudine l’hanno fatta diventare una persona vera. Ogni persona ha una battaglia difficile da combattere e lei la sua l’ha vinta con dignità. Adesso ci sono il liceo,gli amici,le feste,il mare,i viaggi,i trucchi,migliaia di vestiti…Di certo non possono mancare le crisi con i ragazzi che la fanno crescere inconsapevolmente ancora più di quanto già non sia e, comunque sia, l’amore vero lo conquisterà con tutte le sue forze. Insomma si è rialzata dall’inferno,cosa vuoi che sia questo purgatorio?!Sì,ma tutto questo equivale al cinque per cento della sua vita. Il restante novantacinque per cento è fatto di quell’ossigeno,quella dipendenza,quella pazzia che è l’unica cosa che è sempre stata stabile nella sua vita:la danza. Il gruppo B+ del suo sangue è fatto solo di quello, sia a 6 anni un po’ paffuta ma snodata,che a 17 magra,fiera di sé stessa,piena di adrenalina con quelle scarpe,quegli abiti e quei matti del suo ballerino e dei suoi amici che condividono il suo sogno. PS: Un giorno ci saranno porte paradisiache aperte per tutti i dotati di quel B+, di tutte le lingue del mondo. Io sarò chi voglio e quelle note di quick-step, slow fox, valzer inglese,valzer viennese non si fermeranno mai in me, finché il mio cuore non smetterà di battere. Sabrina Adamo DALL’AMORE ALL’ODIO E RITORNO Chi sono io? E come finirà, mi chiedo, questa storia? Il sole è sorto e siedo accanto al vetro della finestra appannato dal fiato di un’infanzia scivolata via. Sono un vero spettacolo stamattina: una felpa, calzamaglie di cotone pesante, una sciarpa avvolta a doppio giro intorno al collo. Il termosifone in camera mia è regolato al massimo livello. Sputa aria calda come il drago di una favola, il cui corpo, tuttavia, trema di freddo, un freddo di cui non riuscirà mai a liberarsi.Questo freddo è diverso dagli altri… Tornano alla mente le offese subite, i torti passati, le parole non dette. Questa è la mia storia, la storia di una ragazzina diciottenne che adesso frequenta il liceo, libera, spensierata e felice.


La stessa ragazzina che viveva nella nazione dei mille colori : verde, arancione, rosso, marrone, rosa con sfumature di nero. Nero perché la Colombia è la terra dove è presente la guerra, la povertà e la droga. Estefany, questo è il suo nome. La Colombia è la sua nazione dove tutto ha avuto un inizio e una fine. Ha sempre vissuto come un vaso di creta plasmata dai capricci e dai voleri delle persone che frequentava. La modellavano e, insoddisfatti, la distruggevano per poi crearla ancora una volta. E lei non si era nemmeno resa conto di essersi costruita palcoscenici e maschere di ogni genere e per qualunque situazione. Mentire ed ingannare le era così naturale che aveva finito per credere alla sua stessa recita. Ammettiamolo, le era comodo. Non doveva pensare, né prendere decisioni, lo facevano altri per lei e lei doveva solo seguirli. Era la vigilia di Natale e come in ogni famiglia felice si festeggiava, ma quello fu il Natale più brutto che la piccola “scimmietta”, cosi la chiamava suo padre, avesse vissuto. Era tutto pronto: la tavola, il pane appena sfornato dalla mamma perché solo quello si mangiava alla vigilia di Natale nella sua famiglia. Quando tutti erano a tavola, si sentì un forte rumore proveniente dall’esterno. “ Maledizione”, sussurrò suo padre, “Che cosa sta succedendo?” Ma, appena pronunciate quelle parole, entrarono due uomini che con violenza avevano sfondato la porta di casa. “Non dovreste essere qui. Non ce n’é ragione” disse ancora una volta sua padre. E la piccola Estefany non capiva il perché due persone come quelle si trovavano a casa sua con un coltello e una pistola in mano minacciando la sua famiglia. Eppure …. Eppure quella dolorosa sensazione che sentiva continuava a lievitare nonostante i suoi sforzi e, nello spazio di un secondo, ebbe l’impressione che qualcosa non andava. “Chi sono ?” chiese lei, mentre cento altre domande le si leggevano in viso . “Nessuno “ rispose la mamma. “Ma adesso vatti a nascondere!”. Nascondersi ? La bambina non capiva il perché si dovesse nascondere, e poi da chi ? Forse era un nuovo gioco, pensò. Nonostante lei non volesse, rimase nascosta sotto il letto con i suoi tre fratelli. Vedeva e sentiva tutto. Rimasero immobili, l’uno di fronte all’altro. Fino a quando uno di loro colpì la mamma. Estefany d’istinto uscì dal letto assieme a suo fratellino Sebastian gettandosi addosso alla mamma. “Mamma, mamma svegliati” gridarono, ma lei non si svegliò mai più . Sebastian piangeva, papà era disperato ma nel frattempo la bambina si vide puntare addosso degli occhi pieni di odio, rabbia e rancore. I due uomini le si scagliarono addosso, ma il suo super papà, mettendosi davanti a lei, ancora una volta la protesse. Per un attimo non voleva crederci, pensava di stare in un incubo, ma non era così, quella era la realtà. Una realtà orribile in cui vedeva la sua famiglia frantumarsi e i suoi genitori spegnersi. Ancora quegli occhi pieni di odio erano addosso a lei, ma la bambina prese la pistola del padre e la puntò contro i suoi assalitori, ma i suoi muscoli sembravano congelati e per un attimo lei pensò che non era giusto. “Spara, spara” disse suo fratello maggiore e lei sparò. Un uomo era morto per colpa sua. Gettò quella stupida arma a terra. Rimase immobile con gli occhi spalancati provando un senso di colpa per aver agito così. Aveva gli occhi lucidi, l’odio aveva offuscato i suoi occhi e annebbiato il suo cuore. Non sentiva più niente, se non il rumore del suo animo sofferente e ferito. Aveva voglia di piangere, di urlare, di scappare via ed invece rimase lì, immobile a pensare,a pensare a ciò che aveva perso, a ciò che la aspettava adesso, a ciò che poteva evitare … “Scappa, scappiamo, andiamo via”. Era troppo tardi per scappare perché l’altro uomo, li aveva afferrati e portati via. Benda loro gli occhi, li lega come animali e li getta su un furgone. Non si sa dove li sta portando, ma di sicuro non in un castello dove abitavano principi, principesse e fate. Li sta portando al mercato per venderli in cambio di denaro o di qualcos’altro. Furono venduti per


uno stupido televisore ad un vecchio signore dal cuore di ghiaccio. Dovevamo seguire le sue regole e i suoi ordini, altrimenti erano guai. Di punto in bianco si trovarono catapultati in un mondo dove dominava la prepotenza e la violenza. I fratelli venivano picchiati, drogati ma soprattutto venivano istruiti ad uccidere, rubare e maltrattare tutti coloro che ostacolavano il cammino del loro padrone. Erano dei burattini, burattini che però provavano sentimenti come la Paura. La forza di volontà era la loro unica arma per far fronte a qualsiasi difficoltà. Aver paura significa essere uomini, superare le paure vuol dire essere eroi. E siamo noi gli eroi, noi che con il sacrificio e il duro lavoro combattiamo aspramente i problemi della vita per essere felici. Mai arrendersi, mai chinare il capo per paura di vedere, ma osare, trasgredire per essere liberi. Essere liberi da ogni forma di sofferenza e violenza. Da quella tragica sera che sconvolse tutto il suo mondo, la vita di Estefany fu persa, tutto perse senso. Era disperata, nella sua mente non c’erano parole, ma solo uno spazio vuoto ed un freddo che le gelava.

Non esiste una cura, ancora non si è trovato il metodo per spegnere il dolore che brucia il nostro cuore. Dicono il tempo… Esso rimargina le ferite, cicatrizza le piaghe del nostro animo, ma non può cancellare il ricordo, non può eliminare il passato perché il passato fa parte di noi. Forse non saprò mai i loro nomi, ma una cosa è certa: conservo ancora gli occhi di mia madre e la bocca di mio padre. Almeno sul mio viso sono ancora insieme. Mi mancheranno sempre, ma il loro amore è come il vento: non lo vedo, ma lo percepisco. Estefany Fanelli


Primi Passi

Racconti di Claudia Lupoli Vittima Beatrice Oliva It’s a king of a magic story Noemi Signorelli Il traguardo Alessia Giove Solo i coraggiosi possono permettersi di sognare Silvia Viccari Lo strano percorso Adriana Capatina Le mie parole Alessia Malizia e Barbara Turso Il mio amico segreto Francesco Zippo E che la luce sia! Francesca Lippo Echioja Claudia Speciale Oltre lo spazio e il tempo Alessandra Miccoli Mi proteggi da lassÚ


VITTIMA Sono lo specchio di nuvole grigie e sporche, che bagnano la mia schiena con gocce piccole, ma le cui particelle custodiscono il segreto di questo male moderno. Perché i miei fondali non sono più tiepidi e morbidi come un tempo? Cosa ha contaminato loro e le mie membra cristalline? Sento il peso di una strana vecchiaia, snaturante per il mio essere. Come posso aver attraversato secoli, con la costante sensazione che fossero solo giorni assolati, bagnando terre lontane con le mie grazie, scatenando la mia forza, concedendo la mia tranquillità, per poi ritrovarmi con questo peso ormai divenuto costante? Ho visto creature piegarsi silenziose a questa forza maledetta prima di me, ascoltato i loro lamenti perpetui e costanti come il mio moto, ma accompagnati da una malinconia a me del tutto nuova e spaventosa. Mi trovo a non poter fare nulla per loro. Io, con la mia potenza, mi sento impotente di fronte a tutto questo. Forse perché questo male denso sta prendendo il sopravvento anche su di me? Coloro che hanno preso il potere su questo mio mondo, di cui mi ritrovo a non essere padrone ma schiavo, sono gli stessi ai quali dall’alba dei tempi ho concesso il mio infinito abbraccio materno e che ora sembrano aver perso totalmente interesse per me. Piangono e si disperano quando per rabbia scateno le mie furie sulle loro case e sui loro campi, ma girano lo sguardo disinteressati mentre mi avvelenano in nome delle loro stesse economie, che non nacquero se non dal mio essere. E tutto ciò che è stato buono e fresco e limpido, è ammalato, torbido e perde di vita. Uomo, i tuoi occhi non bruciano quando ti immergi, la tua pelle non soffre a contatto con questo umido tradimento? È per questo che non te ne accorgi? E se ti punissi, te la prenderesti con me, che sono la fonte della tua stessa vita, ritenendomi la causa delle tue malattie, della tua povertà? Io che sono muto spettatore di ciò che hai fatto diventare pioggia acida e vento polveroso e, poiché nulla nasce da un prodotto imbottigliato, non sono che una vittima. Pensaci, perché prima che la tua mente si ingrigisse come queste mie acque sporche, tu eri il fiore più bello di questa Terra, ed è solo per una tua prima mancanza egoista che milioni di altri come te, soffrono di mancanze essenziali. Non diedi che amore alle tue terre e mi ritrovo premiato con il più pestifero dei figli. Non incolpare delle tue manchevolezze un dio: incolpa te stesso e la tua razza. Sei artefice e carnefice della tua stessa sofferenza. E quando ti sdraierai sulle mie rive, ammaliato da quello che è ancora il mio fascino, urla al mondo che non esistono mali generati dal nulla, che non saranno dei pezzi di carta a salvare i tuoi simili, ma che ogni più minuscola forma di vita va amata e rispettata in quanto tale, perché sono i primi insegnamenti che ti furono inculcati. Apprezzati perché sei vivo e ami e respiri, e apprezzami, poiché io, IL MARE, rendo tutto ciò possibile, e fai in modo che i tuoi figli se ne rendano conto, e per amor loro, ricrea quegli stessi giorni assolati di cui ti feci dono. Claudia Lupoli

IT’S A KIND OF A MAGIC STORY

“Zia, zia mi racconti una storia?”La bambina dai capelli rossi correva festosa nel cortile innevato, rincorrendo gli sporadici fiocchi di neve che ancora cadevano, poggiandosi lievi sul manto bianco. Era tardi, ma non voleva andare a letto, non finché la zia non le avesse raccontato una delle sue storie.“Zia, dove sei?” la bambina si fermò, confusa, osservando la figura della donna delinearsi contro un muro laterale della loro casa. Sua zia le dava le spalle, intenta ad osservare qualcosa che


sfuggiva alla sua vista. La raggiunse, incerta, aggrappandosi alla lunga gonna che indossava per potersi sporgere e curiosare meglio. Su quel muro c’era sempre stato, da quando la bambina aveva memoria, un roseto rinsecchito, che dava l’impressione di aver visto tempi felici, in cui era stato forte e rigoglioso. La zia le aveva sempre espressamente vietato di toccarlo, per paura che le spine la ferissero, ma l’ arbusto incuteva così tanta paura nella piccola che non si sarebbe mai avvicinata anche senza il divieto della donna. Però.. ora era fiorito! Le rose sbocciate erano dello stesso bianco candore che ricopriva la terra, puro e confortante. La bambina dai capelli rossi rimase incantata a guardare quello spettacolo così insolito e magico, perché quando mai le rose fioriscono a dicembre? La donna accarezzò teneramente la testolina che le arrivava a malapena alle ginocchia, poi si sporse per lasciare un bacio su un bocciolo appena nato, il più alto di tutti, che si stagliava pallido ma determinato a crescere e diventare il più bello di tutti, l’ orgoglio del roseto.“Volevi ascoltare una storia, piccola mia?” chiese la donna, una volta accompagnata e messa a letto la nipotina. “Sì, zia!” squittì quella, agitandosi sotto le coperte “Che ne dici se ti raccontassi la storia di quel roseto, e del perché fiorisce solo quando nevica?” domandò ancora la donna, accomodandosi sul dondolo vicino al lettuccio della piccola, conoscendo già la risposta a quella domanda. Al cenno d’ assenso della bambina reclinò il capo, cercando con lo sguardo l’arbusto oltre i vetri appannati delle finestre, e iniziò a raccontare… C’ era una volta, in un paese molto lontano da qui, all’estremo nord delle terre, un Re che governava il suo Paese con estrema saggezza. Aveva una moglie, una regina buona e giusta, ed un popolo che lo amava e lo appoggiava in ogni sua scelta. Quando sua moglie gli annunciò l’arrivo di un figlio il Re pianse di gioia e invitò tutto il suo popolo nel suo castello per festeggiare con canti e danze. Il ricevimento durò tre giorni e tre notti e tutto il popolo partecipò alla loro felicità. L’erede al trono nacque in una notte di febbraio, quando le ultime nevi si stavano sciogliendo. Era una stupenda bambina, con un ciuffetto di capelli castani e dei bellissimi occhi verdi che avevano fatto tremare i suoi genitori non appena li aveva aperti e poggiati su di loro. La chiamarono Shaula, come la stella più brillante del cielo estivo. La piccola principessa Shaula cresceva a vista d’occhio e diventava sempre più bella suscitando la meraviglia di chiunque le si avvicinasse. Se non che, con l’arrivo della primavera, la sua salute divenne sempre più cagionevole, il suo colorito sempre più pallido e il viso più smunto. Il Re disperato aveva contattato i luminari più famosi per cercare una cura per il male che attanagliava la sua piccola adorata, ma niente. Ognuno di loro passava davanti al suo lettuccio e scuotendo il capo, andava via. Fu proprio in quei giorni neri, che la Regina decise di ricorrere alla sua ultima risorsa: le Fate. Arrivarono di notte silenziose e discrete ma colorate delle sfumature dell’arcobaleno, su cavalli leggeri come batuffoli di nuvole estive o pesanti e cupi come il cielo in tempesta, e sfilarono davanti alla Corte raccolta nel più profondo stupore. Le Fate dell’Aria scacciarono ogni guardia presente nell’ala del castello con gli appartamenti della principessa, chiusero tutte le porte con una doppia mandata, e si misero al lavoro, mentre le Fate del Cielo andavano a sostenere emotivamente, e perché no, anche a strigliare quelle due patate di genitori che avevano aspettato così tanto per chiamarle! La bambina dai capelli rossi rise forte, e si agitò sotto le coperte. La zia si fermò, aspettando che si calmasse per continuare il suo racconto. “E poi, zia? Salvarono la principessa?” chiese la piccola. Sorridendo, la zia continuò Dopo un giorno ed una notte durante i quali tutto il popolo e la Corte erano rimasti ad attendere con il fiato sospeso il responso delle Fate, le quali non avevano fatto altro che borbottare parole incomprensibili e correre da una parte all’altra, il Re fu fatto avvicinare al capezzale della figlia. La Regina era già lì e guardava preoccupata le Fate strette intorno alla più anziana di loro.“La principessa Shaula non è affetta da nessuna malattia mortale, o Re!” Pronunciate queste parole, la Fata rimase in silenzio,immobile.“E allora cos’ha?” intervenne con forza la Regina “Già, cos’ha?” rincarò subito il Re.“Semplicemente vostra figlia è indebolita dall’andarsene dell’inverno e dall’arrivo della primavera. Appena abbiamo prodotto un po’di neve fresca nella stanza ha subito


ripreso colore, ma abbiamo pensato di addormentarla fino a quando non prenderete una decisione.” La Fata tacque di nuovo.“Decidere su cosa, di grazia?” chiese il Re, infastidito da tutto quel mistero.“Oh, beh, decidere di accettare il fatto che vostra figlia è una Fata delle Nevi naturalmente. La più rara e la più potente, colei che un giorno prenderà il mio posto al comando di tutte le Fate. Non ne siete contenti?” Gli occhi color cenere della Fata luccicavano dalla contentezza e dall’emozione, tutte le altre Fate sembravano ugualmente commosse. BUM! Si sentì un botto che fece fare un salto all’intera camera. Il Re era appena svenuto. La bambina dai capelli rossi ormai rideva fino alle lacrime, tenendosi il pancino con entrambe le mani.“Pronta a continuare? È ora che le cose si complicano” le rivelò la zia “Ma la storia non l’hai inventata tu, zia? Non puoi fare a meno di complicare tutto?” chiese la piccola, tornando seria.“È proprio questo il bello” sorrise la zia “La storia non l’ho inventata io” e quando gli occhi della nipotina si sgranarono per la sorpresa, lei continuò. Ci vollero una buona dose di ceffoni ben assestati e un pizzico di magia fatata per far rinvenire il Re, che fu poi portato nei suoi appartamenti. Il Re non uscì per giorni dalla sua camera, facendo spargere la voce nel regno che anche lui fosse malato, causando sconforto e paura tra il popolo. Dopo una settimana, la Regina, stanca di quella situazione decise di agire. Il tiepido sole primaverile e una buona caraffa d’acqua fredda contribuirono a svegliare il suo reale consorte. La Regina sedette al suo fianco ed affermò decisa che la loro bambina non poteva rimanere a palazzo. Cosa sarebbe successo con l’arrivo della primavera, per non parlare dell’estate? Avrebbero dovuto tenerla sempre addormentata? Per la principessa fu costruita una fortezza in alta montagna, tra le nevi perenni, con le Fate a prendersi cura di colei che le avrebbe guidate in futuro, ben felici di poterle insegnare tutto quello di cui erano a conoscenza: scienza, magia, arti e medicina. Nulla le sarebbe mancato. Così la principessa Shaula venne risvegliata e iniziò la sua nuova vita. “E ora? Zia, cosa le succede? Cosa c’entrano le rose con la principessa?” il disappunto della nipotina era palpabile persino dalla sedia a dondolo e la donna sorrise, anche se era un po’ stanca: di questo passo non sarebbe mai riuscita a farla dormire.“Ora vedrai, bambina mia”. La principessa crebbe circondata dal calore delle Fate e dalla forza e potenza che solo la neve riusciva a trasmetterle. Il castello era vuoto se non si contavano le Fate, ma a Shaula non pesava la solitudine e l’isolamento della fortezza perché aveva sempre qualcosa da fare. Le Fate la sottoponevano a prove sempre più dure ogni giorno che passava e la Fata delle Nevi le stava insegnando ad indurire il suo cuore e a renderlo di ghiaccio, così da poter essere al sicuro quando sarebbe andata nel mondo ad affrontare le sue battaglie. Tuttavia, c’erano dei momenti in cui la giovane si sentiva sola e, in preda alla malinconia più profonda, si arrampicava fino alla cima della guglia più alta, da dove riusciva a scorgere, in lontananza, il Reame di suo padre. Le Fate le avevano raccontato la sua storia e lei si chiedeva ancora se i suoi genitori l’avessero amata, se si ricordavano di lei o se l’avevano dimenticata e poi si domandava se il suo destino fosse quello di rimanere per sempre rinchiusa nel castello di ghiaccio e diventare un pauroso spauracchio per gli uomini. Un giorno la principessa decise di porre fine ai suoi tomenti e di pronunciare un terribile e potente incantesimo. che neanche la Fata delle Nevi era riuscita mai a sciogliere. Le Fate non avrebbero approvato ma la giovane Principessa giurò che non si sarebbe risvegliata se non fosse arrivato qualcuno che avesse davvero avuto bisogno del suo aiuto. E pronunciò l’incantesimo. Mentre l’intero letto si ricopriva di una coltre scintillante di ghiaccio, luccicante e trasparente, che arrivava a ricoprire le pareti e la porta, Shaula sorrise: per una volta, stava decidendo lei.Passarono gli anni… le Fate avevano abbandonato il castello una dopo l’altra. L’ultima che aveva abbandonato il suo capezzale era stata la Fata delle Nevi, fiduciosa che un giorno la sua pupilla si sarebbe risvegliata. Ma Shaula dormiva, dormiva profondamente e,alla fine, anche la Fata delle Nevi la lasciò sigillando il castello in modo che solo chi avesse le qualità richieste da Shaula potesse trovarlo.


“È finita? Finisce davvero così??” domandò la bambina dai capelli rossi “Oh no, piccola mia.. il bello deve ancora arrivare. Ma non mi interrompere e ascolta attentamente e tutto sarà molto più chiaro alla fine, okay?” fu la risposta della zia “Okay, zia” disse la piccola, contenta di non dover andare a dormire così presto e curiosa di sapere come finiva. Le stagioni si susseguirono, l’inverno diventò primavera e la primavera divenne estate. Durante l’inverno tutti i valichi d’accesso alla montagna scomparivano sotto le nevi mentre, con l’arrivo dell’estate, tornavano allo scoperto accompagnati dai cori degli animaletti che animavano quei luoghi dimenticati. Col passare delle stagioni arrivò il tempo per gli abitanti del villaggio di dimenticarsi delle leggende che circondavano la famiglia reale. La storia oscura della Principessa era sepolta insieme alle tante altre sciocche leggende a cui solo i più anziani sembravano ancora credere. Nei Regni che si trovavano a Sud di quelle terre, però, una nuova colonia di Fate era nata. Vivevano in segreto, aspettando l’arrivo della nuova Fata delle Nevi per sconfiggere Trompeau, il tiranno che regnava incontrastato su quelle terre dopo aver ucciso tutta la famiglia reale ed essersi impossessato con la sua magia dei segreti della vecchia Fata delle Nevi. Dopo la morte della Fata, il tiranno aveva sguinzagliato i suoi tirapiedi per tutte le terre del Nord alla ricerca della Principessa addormentata, perché aveva timore che il suo potere fosse l’unica cosa che potesse sconfiggerlo. Azha era la Fata più giovane dell’intera colonia e, con i suoi capelli rossi , gli occhi azzurri e il suo innato ottimismo era l’unica a portare un raggio di sole nel loro sconforto. La fatina era presente quando Trompeau aveva ucciso la Fata delle Nevi, e da quel momento qualcosa era cambiato dentro di lei. Aveva visto con i suoi occhi ciò che quell’essere era riuscito a fare alla sua casa, alla sua gente, e aveva deciso di dover fare qualcosa per cambiare la situazione. Preparò in gran segreto tutto il necessario per affrontare un viaggio che probabilmente si sarebbe concluso con un nulla di fatto, visto il numero di persone che prima di lei avevano tentato di trovare il castello sulla montagna e aveva fallito nell’impresa, e partì. Volò giorno e notte, governando abilmente le brezze estive che erano la sua specialità in quanto Fata dell’Aria, finché il clima non divenne più rigido e i venti non ubbidivano più ai suoi comandi. Quello fu il primo segno che indicava la vicinanza delle montagne del Regno del Nord. Man mano che avanzava, poi iniziarono a farsi vedere le ronde di uomini al soldo di Trompeau che mettevano a ferro e fuoco i villaggi montani e terrorizzavano la popolazione cercando informazioni sulla Principessa. Azha attraversava quei luoghi nascondendosi, viaggiando di notte, con la morte nel cuore: come si permetteva quell’uomo? Cosa aveva fatto di male tutta quella povera gente?Intensificò le sue ricerche fino a sfinirsi. Non riusciva più nemmeno a reggersi in piedi, ma lasciava che le correnti gelide la portassero come una piuma. Fu così che arrivò ai piedi della montagna incantata. Ora doveva solo trovare il passaggio, arrivare al castello, svegliare la Principessa, non farsi uccidere e chiederle aiuto. “Facile” pensò, anche se dentro si sé era terrorizzata e improvvisamente le venne voglia di tornare indietro, alla colonia, ma si riscosse pensando che molto presto non ci sarebbe stata più una colonia se Trompeau avesse scoperto il loro nascondiglio. Facendosi coraggio iniziò ad esplorare tutti i cunicoli ed i possibili sentieri che portavano su per la montagna. Intanto, la sera era scesa lasciando la giovane Fata in compagnia delle ombre più cupe. I rumori del bosco innevato la spaventavano e Azha si ritrovò a correre per sfuggire alle ombre che aveva visto muoversi. Guardando indietro e continuando a correre non vide dove metteva i piedi e, all’improvviso, si ritrovò a cadere sempre di più fino a quando non atterrò su un soffice cumulo di neve con un sonore tonfo. Rimase a lungo sul cumulo, intontita dalla caduta e mezza morta dallo spavento, prima di sollevare leggermente lo sguardo verso il buco dal quale era precipitata Si ritrovava in una grotta completamente ghiacciata! Ma che diceva, grotta era un termine troppo riduttivo per descrivere lo spazio immenso che stava osservando: era come se un’intera vallata fosse sprofondata nel sottosuolo. I cristalli di ghiaccio pendevano ovunque dalla volta dell’antro. Stalattiti gigantesche luccicavano nei posti più impensati e un’ immensa distesa di neve si estendeva sotto i suoi occhi fino ad arrivare al Castello. Era maestoso, imponente, con alte torri e guglie appuntite. Emanava potenza ma anche oscurità e magia. L’odore


della magia arrivava fino a lei. Ancora con gli occhi sgranati, si incamminò verso la fortezza, tastando il terreno ad ogni passo, sentendosi sempre più avvolta dall’aura magica del posto, quasi dispiaciuta di doverla turbare con la sua presenza. Arrivò sotto le torri e attraversò i cortili. Allungò una mano, ma i battenti del cancello si spalancarono senza che lei li toccasse. L’atrio del castello era magnifico. Non avrebbe saputo descrivere in un altro modo lo spettacolo della scalinata ghiacciata che portava al primo piano del castello, costellata di ghiaccioli e avvolta dal vapore che si alzava in volute che conferivano un aria misteriosa all’intera sala. Trattenendo il fiato, volò rapida fino al primo piano e poggiò delicatamente i piedi sul pavimento scintillante. Un po’ volando, un po’ scivolando arrivò all’ala dedicata alle camere da letto, dove la temperatura si abbassava drasticamente. Azha seguì la scia gelata che proveniva dalla camera in fondo al corridoio, dalla quale sembrava generarsi tutto il gelo che imperava nel castello e che era completamente bloccata da una lastra di ghiaccio. Azha sospirò dal disappunto, e ora come avrebbe fatto?Si guardò le mani, ma non ebbe tempo di compatirsi che un’idea improvvisa le attraversò la mente. Probabilmente avrebbe speso tutte le sue energie nel tentativo, ma ormai era lì, doveva andare avanti. Si concentrò e evocò i venti caldi del Sud, quelli che amava sin da quando era piccola. Le concentrò sulla porta e, in poco tempo, riuscì a sciogliere abbastanza ghiaccio da buttare giù la porta con una folata più potente. Con un sorrisetto soddisfatto, varcò la soglia, per niente pronta ad affrontare la verità: la leggenda era vera, là riposava veramente la Principessa Shaula. La vide in quel letto, trasparente e scintillante, una vera e propria bara di ghiaccio. Rabbrividì all’ulteriore diminuzione della temperatura, si inginocchi per spiare il viso della giovane intrappolata e rimase senza fiato: era davvero bellissima. I suoi capelli possedevano il castano più bello che avesse mai visto e si chiese come fosse passarci una mano attraverso, sembravano morbidissimi. Si riscosse, rimproverandosi mentalmente: non era né il caso, né il momento di perdersi dietro ai sogni. Prese un grosso respiro e aprì i palmi delle mani all’ingiù, verso il corpo della Principessa “Avanti, svegliatevi” sussurrò, prima di convogliare tutta la sua energia verso il ghiaccio che ricopriva la ragazza. Il calore che emanavano i suoi palmi scioglieva lentamente i vari strati di ghiacci, il corpo della Principessa si scongelava e la vita tornava sulle sue gote. Azha aveva esaurito tutte le energie. Ora era la sua forza di volontà che le impediva di crollare svenuta a terra e anche quella sembrava vacillare, ma la Fata non si arrendeva. Stringeva i denti, il sudore che colava dalla fronte, le forze che piano piano l’abbandonavano. L’ultima cosa che vide, mentre tutto diventava buio, erano due occhi verdi, sgranati per la sorpresa, fissi su di lei. Quando rinvenne, quei due occhi la stavano ancora fissando, ora molto più ansiosi. Ansia che si trasformò in sollievo, quando videro che si era svegliata. La loro proprietaria si guardava intorno ancora un po’ spaesata, dei fiocchi di neve nei capelli, il corpo rigido e quegli occhi! Azha avrebbe tanto voluto perdersi in quelle pozze verdi e non riemergerne mai più, annegarvi dentro e non risvegliarsi per tutta la vita. “Principessa Shaula..” biascicò, tentando di alzarsi. “Oh, no! Non ci provare!” disse subito quest’ultima, rimettendola subito a letto “Sei svenuta dopo avermi risvegliato, ora come minimo rimani a letto, così posso prendermi cura di te. Dopo parleremo della tua missione” la interruppe, risistemandola sotto le coltri calde. “Sapete della mia missione?” chiese, confusa, stendendosi. “Il mio era un dormiveglia. Durante il mio sonno vedevo e sapevo tutto. Ho visto quello che ha fatto Trompeau alla tua terra e alla mia, e sapevo che saresti arrivata. L’unica cosa che non potevo prevedere era che saresti effettivamente riuscita a svegliarmi.” Sorrise a questo punto, come se fosse felice di questo “È evidente che mi sbagliavo. Ma non so neanche il tuo nome, coraggiosa fatina”. Ad Azha venne da pensare che per quel sorriso sarebbe potuta morire. Fortunatamente il suo cuore e il suo cervello agivano in separata sede, così si ritrovò a sorridere e a rispondere “Azha, Principessa”“Oh, dammi del tu!”. Azha annuì, incapace di dire o far altro e Shaula lo prese come un segno di stanchezza, infatti le rimboccò le coperte e le promise un piatto caldo per quando si sarebbe svegliata. Cullata da quella promessa, Azha scivolò in un sonno senza sogni. Al risveglio, Shaula non era nella stanza. Rimproverandosi mentalmente per aver permesso a sé stessa di addormentarsi in quel modo, uscì nel corridoio, fermamente


convinta che Shaula se ne fosse andata abbandonandola lì .Quando Shaula la vide avanzare, pallida come un fantasma, quasi perse dieci anni di vita dallo spavento. “Ora andiamo a mangiare” le ordinò. Azha sentì la sua risata leggera contro l’orecchio mentre la portava in cucina. Dopo averla fatta mangiare, la Principessa la rimandò a letto, mentre lei liberava dall’incantesimo l’intero castello e la valle sottostante. Un paio di giorni dopo, le due Fate erano in cammino, dirette verso le terre del Sud. Viaggiavano in incognito, come due dame, circondate da una scorta creata da Shaula con la magia. Aveva pensato a questo sotterfugio per evitare di doversi nascondere di giorno e viaggiare solamente di notte, così che avrebbero potuto accorciare il loro viaggio. Alla mattina del terzo giorno di viaggio, però, gli uomini di Trompeau le trovarono e le attaccarono. Due donne che viaggiavano con una scorta era considerato troppo sospetto per non controllare. Non ebbero scelta, dovettero difendersi per evitare di esser prese prigioniere. E così rivelarono i loro poteri. Shaula da sola sconfisse metà degli uomini di Trompeau, mentre Azha faceva fuori gli ultimi rimasti e li spediva lontano con uno schiocco delle dita ed una tromba d’aria. Da quel momento in poi, fecero ancora più attenzione. Erano in pericolo e lo sapevano. Ora Trompeau, non vedendo più tornare i suoi uomini, avrebbe saputo del loro arrivo. Una sera, attorno al fuoco, Shaula raccontò a Azha la sua storia. Partì dalla sua nascita,raccontò di come le Fate avessero scoperto i suoi poteri, della reazione dei suoi genitori. Ad ogni parola Azha si innamorava un po’ di più di quella Fata straordinaria “Ecco, ora conosci tutta la storia. Un po’ patetico, vero? Avevo paura di ciò che la gente avrebbe pensato di me e ho agito nel modo che credevo più giusto. Alla fine, ho imprigionato me stessa, inutilmente e ingiustamente. Shaula guardò verso il fuoco, gli occhi verdi persi in chissà quali ricordi “Il mondo non ha compiuto grandi progressi in due secoli. O sarà che li ho visti accadere tutti sotto i miei occhi e non mi stupiscono più” Alzò le spalle, scrollando il vestito color della terra che aveva indossato per dare meno nell’occhio.“Non credo ti sia dispiaciuto, sai? Vivere imprigionata per due secoli”- disse Azha - “Non così tanto come fai vedere, comunque” concluse, fissando anche lei il fuoco. “Cosa intendi?” Shaula la fissava “Pensi che menta?”“No. Io penso solo che non sei brava a capirti. Se volevi tanto evadere, vivere, perché non te ne sei andata?”“Non volevo che la gente fosse spaventata dai miei poteri” confessò la Principessa, gli occhi improvvisamente pieni di lacrime “Ma le Fate sono benvolute ovunque” esclamò sorpresa Azha. Possibile che non lo sapesse? “E a me chi avrebbe dovuto dirlo? Io non sapevo nulla del mondo al di fuori di quelle mura, non conoscevo nessuno e le Fate possono anche essere subdole”Azha fu colpita dalle parole di Shaula. “Forse si, possono essere subdole. Ma siamo anche l’ultimo baluardo di resistenza contro Trompeau, e senza il tuo aiuto non andremo lontano. Mi scuso per dovermi abbassare a chiedertelo, vista la scarsa considerazione che hai di noi e credimi non ti avrei mai risvegliato dal tuo sonno se le circostanza fossero diverse, ma abbiamo bisogno di te, Principessa!”Per la prima volta da quando si conoscevano, quel Principessa fu pronunciato quasi con disprezzo. Shaula rimase incredula a guardare Azha, gli occhi azzurri infiammati di rabbia, che volava via.“Azha! Azha, torna qui!” Shaula le volò dietro, ma la Fata dell’Aria non si vedeva già più, così sconsolata ritornò verso il fuoco.“Mi dispiace..” sussurrò alle fiamme, come se loro potessero ascoltarla e recapitare il suo messaggio alla diretta interessata. Shaula si avvolse tra le coperte e chiuse gli occhi tentando di dormire. Ignara degli occhi che la spiavano, dietro i cespugli. Ignara delle ombre della notte che aspettavano solo che si addormentasse per compiere la loro mossa. Azha, nel frattempo, aveva volato in lungo e in largo, senza veramente vedere dove andasse, i pensieri offuscati dalla rabbia mentre si ripeteva senza sosta “Stupida ragazzina viziata!” e inveiva contro se stessa per aver anche solo pensato che quella Principessa potesse essere di un minimo aiuto in guerra. E poi le tornarono alla mente le scene del combattimento di qualche sera prima, quando quella stupida ragazzina viziata aveva fatto fuori metà di quei cialtroni. “Beh non combatteva male per essere una Principessa” pensò e sorrise a quell’affermazione.“AZHAAA” un urlò squarciò il silenzio della notte. Era Shaula. E non era un urlo per convincerla a tornare ma una richiesta di aiuto. Azha volò al massimo delle sue possibilità, terrorizzata al pensiero di arrivare troppo tardi per aiutarla. Quando tornò nel luogo dove avevano posto l’accampamento, però, della ragazza non


c’era più traccia. C’erano tracce di lotta un po’ ovunque, il fuoco stava morendo e l’odore della magia non era presente nell’aria. Azha aggrottò le sopracciglia. Possibile che Shaula non si fosse difesa?Ancora incredula per l’accaduto e con la mente che le vomitava addosso fiumi di insulti per aver lasciato da sola la loro unica speranza di vittoria, Azha sospirò ed iniziò a seguire le tracce lasciate dagli assalitori. Shaula era appena sprofondata nel dormiveglia, il cuore in subbuglio, quando il fuoco si era spento. Si era alzata di scatto ed un paio di braccia l’avevano subito bloccata. Quell’urlo disperato era stata l’unica sua reazione a quell’attacco. Poi, il buio. Si risvegliò in piena luce, la testa che pulsava e faceva male da morire, gli occhi che ancora non si erano abituati a quella luce fastidiosa. E poi mise a fuoco. All’improvviso, venne inondata dalla consapevolezza di essere ammanettata. I suoi polsi urlavano dal dolore e si chiese, scioccamente, come avesse fatto a non accorgersene prima. Si trovava in una sala circolare, ed era attaccata ad una colonna che si trovava al centro della stessa. La luce che così tanto stava maledicendo proveniva da una serie di finestre che correvano lungo tutto il perimetro di quella che aveva tutta l’aria di essere una prigione. Provò a liberarsi, scuotendo le catene, cercando di evocare la magia, ma non ci riuscì. Qualcuno doveva aver annullato i suoi poteri . Azha aveva seguito le tracce finchè non era stata sicura che conducessero proprio al castello di Trompeau, poi aveva abbandonato la pista ed era corsa alla colonia. Le Fate l’accolsero festose, ma si accorsero presto del fatto che fosse sola. Azha non perse tempo a dare spiegazioni a coloro che gliele chiedevano, ma piuttosto corse dalla Fata dell’Acqua più anziana,Cassiopeia, colei che deteneva il potere in vece della Fata delle Nevi e le spiegò la situazione. Le raccontò il viaggio, il risveglio di Shaula e l’attacco. Non tacque neppure una delle cose spregevoli che le aveva detto e non glissò sul suo comportamento immaturo. Concluse il discorso con l’inseguimento agli uomini che avevano presa la principessa e rimase, a capo chino, ad aspettare il verdetto. Cassiopeia riflettè prima di esternare i suoi pensieri.“Se da un lato sei stata coraggiosa ad andarla a cercare da sola, ben consapevole dei rischi e sei perfino riuscita a trovarla e a svegliarla, dall’altro sei pur sempre corsa via lasciandola da sola in una situazione precaria. Shaula è la Fata delle Nevi, Azha. E tu, prima di tutto, dovevi portarle obbedienza. Ma è anche vero che sei stata tu a risvegliarla e quindi, nessuna delle altre Fate avrà mai la stessa potente connessione che possedete voi due. Se poi lei ti piace, come sostieni, è un altro punto a tuo favore. Non posso non mandare te in una missione di salvataggio, anche se vorrei con tutta me stessa punirti per il tuo comportamento. Organizza subito una spedizione!” la spronò e lei non se lo fece ripetere due volte. Abbracciò rapidamente Cassiopeia e corse fuori. Un paio di ore dopo, Azha era nascosta fuori dalle porte della prigione di Trompeau, cercando un modo per entrare senza smettere di mimetizzarsi perfettamente con il muro. L’occasione non tardò ad arrivare .“Salve, Fata delle Nevi”. L’uomo entrato nella prigione non era esattamente come Shaula si aspettava. Credeva che Trompeau fosse un uomo vecchio e brutto, invece si ritrovò davanti un ragazzo giovane, con la pelle ambrata e dei profondi occhi scuri. Allo sguardo stupito della Fata, l’uomo rispose con un ghigno “Nessuno ti aveva avvisato che avresti trovato un giovane avvenente, vero?” Shaula si riscosse “No, non mi avevano avvisato. Non che ce ne fosse bisogno. Sono piuttosto sicura che lei non mi attragga in quel senso”. Avrebbe tanto voluto avere Azha accanto a sé in quella battaglia, ma lei non c’era. Non sapeva dove fosse. Cercò di non farsi distruggere da quella sensazione e si concentrò su Trompeau. L’uomo la guardava interrogativo.“Sono una Fata delle Nevi” sussurrò ancora Shaula “La mia magia è troppo potente perché vada sprecata. Mi liberi e io l’aiuterò” e fu piuttosto sicura che l’uomo avrebbe abboccato nell’attimo in cui vide quello scintillio nei suoi occhi: avidità. Si avvicinò a lei “E come posso sapere che non mi tradirai?” chiese “Non puoi” replicò la fata, mentre quelle mani scioglievano le sue manette. Fu una questione di un secondo, e sentii di nuovo la magia scorrere dentro di lei. Sollevò le mani e Trompeau fu avvolto da una coltre di ghiaccio. E poi, tutto successe molto rapidamente. Le Fate entrarono nella prigione come un’orda impazzita.


Tra tutte loro spiccava Azha, gli occhi colmi di determinazione. Le pareti della prigione brillavano sotto le onde della magia, mentre il tiranno tentava in tutti i modi di contrastare il loro potere. Shaula sentiva le gambe cedere e le braccia perdere la sensibilità, ma non si fermò. Non poteva. Non diede tregua al suo potere fino a quando Trompeau non fu ridotto ad una statua di ghiaccio. E poi Azha, con un piccolo gesto delle dita, evocò una piccola tromba d’aria e la neve si sgretolò sotto i loro occhi, volando via sulle ali di un vento caldo. Mentre intorno a loro le Fate iniziavano ad abbracciarsi ed a esultare, Shaula svenne. Si risvegliò in una stanza scavata nella pietra. Una donna totalmente vestita di rosso sedeva al lato del suo letto. “Ben svegliata” sorrise Cassiopeia “Avete riposato bene, Principessa?” chiese poi, mentre la sua compagna distesa metteva a fuoco l’ambiente circostante.“Sono svenuta?” chiese, con un filo di voce “Si. La Magia di Neve è molto stancante. Non credevo che sarei vissuta abbastanza da vedere la Fata delle Nevi salire sul trono. Vado. Vi lascio riposare” replicò, prima di scomparire con un battito di ciglia. “Ehi, ti ho cercata ovunque!” Azha volò fino al torrione dove Shaula si era nascosta “Che ci fai qui tutta sola? Scendi a festeggiare!” la incoraggiò. Shaula sorrise, ma poi scosse la testa. Con un sospiro, la Fata si sedette al suo fianco “Non rimarrai qui a lungo, vero?” chiese. Era vero.“Come facevi a saperlo?” domandò. Azha scrollò le spalle, guardando davanti a sé “Semplice, ti conosco. Ho pensato che volessi del tempo tutto per te. In realtà, ho anche pensato di dovermi scusare.” Shaula stava per parlare, per dirle che andava tutto bene e che non si sarebbe dovuta scusare per niente, ma la Fata dell’Aria continuò imperterrita.“Ti chiedo scusa per aver detto che fossi una stupida ragazzina viziata. Non pensavo davvero quelle parole e so bene che non lo sei, non sei né stupida, né viziata e tantomeno una ragazzina. Anzi sei la Fata delle Nevi più bella e potente che abbia mai visto.” La guardò negli occhi e vide che erano lucidi “Scusa” sussurrò, prima che Shaula si sporgesse e la baciasse. Se lo era sempre chiesto, Shaula, come amassero le Fate dato che sono tutte donne. Si sposano tra loro? Sposano un umano? Ora aveva la risposta e mai scoperta era stata più piacevole delle labbra di Ahza premute contro le sue .La Fata dell’Aria si premurò subito di ricambiare quel piccolo contatto, approfondendolo, il cuore che le scoppiettava nel petto. Quando si staccarono, Shaula si perse in quelle meravigliose gemme blu che Azha, la sua Azha, aveva come occhi, mentre la Fata pensava esattamente la stessa cosa delle sue pozze verdi.“Sai.. io andrò via, ma vorrei che tu venissi con me. A vedere il mondo” le propose, gli occhi lucidi di felicità.“Mi piacerebbe tantissimo” sussurrò Azha di rimando. E poi sorrisero, quasi contemporaneamente, unendo le loro labbra in un altro bacio, mentre alle loro spalle il sole tramontava come nel più magico dei finali. La zia finì di raccontare, distogliendo lo sguardo dal roseto e osservando la sua nipotina. Dormiva, finalmente, e forse si era persa il finale della storia. Sorrise, alzandosi e concluse Azha e Shaula girarono il mondo e in ogni posto che ricordasse loro il luogo in cui si erano conosciute, piantarono un bellissimo cespuglio di rose. Shaula incantò gli arbusti in modo tale che le future gemme sbocciassero solo in presenza di neve, per ricordare a tutti di come la vita degna di essere vissuta a volte nasca quando meno ce lo aspettiamo. La zia scese le scale, fermandosi davanti alla fotografia che ritraeva due donne abbracciate. Shaula e Azha la guardavano e le sorridevano da lì. Andando a letto, si chiese se, magari, un giorno sua nipote sarebbe riuscita a ricollegarle a quella storia meravigliosa. The End

Beatrice Oliva


IL TRAGUARDO Ecco una me stessa pronta alla grande sfida, 40 gradi ed una marea di gente intenta a tifare alzando al cielo centinaia di cartelloni appositamente realizzati per noi atleti. Vedere tutta questa gente qui per noi, per me, mi fa sentire un po’ a disagio. Non mi sento pronta al 100% quando si tratta di affrontare una competizione, mettere a confronto con altri le mie capacità, il mio essere che solitamente percepisco inferiore rispetto al resto del mondo.Il suono del fischietto ha dato inizio alla gara da poco. Corro, più forte che mai. Già immagino di vedere il mio traguardo. E’ lì, mi aspetta da sempre, da quando ho capito cosa volessi diventare. Forse mi sta aspettando a braccia aperte? Mi sembra di vedere due rametti flessi verso l’esterno. Fremono anch’essi alla mia vista. Continuo a correre, più veloce che posso, impaziente di raggiungere ciò che mi appartiene da sempre. Quel traguardo aspetta me e nessun altro. Ahi! Sono appena caduta. Qualcuno ha volontariamente lanciato sul mio percorso un ostacolo, sembra un legnetto. Non riesco ad evitarlo.. ed eccomi per terra. Il mio ginocchio è ferito e dolorante,fa male e brucia. Inizio a piangere. Le mie gambe tremano ed ho paura che possano smettere di correre da un momento all’altro. Temo di non arrivare in tempo per tagliare il traguardo. Mi guardo per un istante attorno. Tutti ridono sguaiatamente, mi indicano e scattano foto per immortalare il momento. Mi pare anche di sentire qualche “Non ce la farai mai!”, “Sei troppo debole!”, “Ma dove pensi di andare povera illusa!”. Le lacrime sgorgano come un fiume in piena. Allagano il mio cuore, la mia anima. Mi sento proprio come un foglio di carta bagnato. Una singola goccia d’acqua e il mio contenuto sbiadisce, quasi scompare. Divento più sottile, debole, ormai inutile. A chi mai servirebbe della carta sgualcita e bagnata? Ehi, però, un attimo… Mi accorgo che le mie gambe, nonostante il malessere che mi sta divorando dentro, riprendono a muoversi, più forti e veloci di prima. Sembrano prendere vita e sbrigarsi a terminare questa inesauribile corsa ed arrivare prima di tutte le altre dozzine di paia di gambe al traguardo,che anche se mi sta togliendo tutte le forze, sembra attirarmi ogni attimo di più, sembra attirare a sé ciò di cui si nutre da sempre: la mia mente, la mia anima. Il tempo scorre, ma da quanto sto correndo? Gli altri atleti mi sono vicini. Devo darmi una mossa, il primo posto deve essere mio! La vittoria deve essere mia!Continuo a correre. Il mio corpo è sopraffatto da una strana sensazione. Da quando quell’assordante suono del fischietto ha dato il via a tutto,ne è passato di tempo, così tanto che la mia mente ha rimosso il ricordo di quell’esatto istante. Il mio corpo avverte la stanchezza. Guardando per un attimo i miei pugni mi rendo conto che le nocche hanno cambiato colore, ora sono violacee. Il sudore scivola non curante su ogni punto della mia pelle, a momenti mi sciolgo. I muscoli bruciano così tanto che sembra stiano per prendere fuoco. Eppure c’è qualcosa di strano. Qualcosa mi impedisce di fermarmi, c’è una vocina che mi bisbiglia di non mollare. Ah sì! È la mia mente! Allora è lei l’artefice della mia infinita forza di volontà. È lei che mi incita a correre ancora, sempre più veloce, sempre più convinta del perché io stia commettendo questa follia, per di più sotto questo sole cocente che manda a fuoco la mia testa.Ora sono felice, non so perché, eppure poco fa sono caduta ed ho pianto, però il mio volto è incorniciato da un sorriso. Ora


sono fiera di me stessa e di quello che sto facendo. Mi guardo di nuovo intorno. Gli altri atleti sono lontani, non mi raggiungeranno. Farò in modo che non lo facciano. Ho la vittoria in tasca! Sposto lo sguardo verso il pubblico, qualcuno mi rivolge un sorriso orgoglioso, altri continuano ad indicarmi e borbottare. Ma non mi interessa, penso che la non curanza sia la miglior arma, soprattutto se si vuole raggiungere il proprio obiettivo!Ma..cosa vedo lì? Sbaglio o dei signori lanciano qualcosa sul campo? Vogliono di nuovo farmi cadere? E no! Stavolta vi ho visto. Piena di orgoglio e di soddisfazione supero l’ostacolo senza nemmeno sfiorarlo!In un attimo, però, cala il silenzio dentro di me. E non solo, nessuno fiata. Nemmeno coloro che tra il pubblico non hanno fatto altro che sventolare bandiere, gridare utilizzando megafoni e fischiare. Tutti immobili. Tutti mi fissano. Il traguardo è proprio lì, qualche decina di metri e il primo posto è mio. Vai, corri! Ci sei quasi! Le mie gambe, oltre che per la stanchezza che ormai raggiunge il culmine, tremano per l’eccitazione. Non mi sembra vero, tutto ciò per cui ho combattuto e continuo a combattere è proprio lì, davanti a me. Un altro passo e..ce l’ho fatta! Dopo aver strappato quel pezzo di carta le mie gambe cedono ormai impotenti. Chiudo gli occhi. Il mio volto è rigato da lacrime di gioia. Ce l’ho fatta. La vittoria è mia. Non desideravo nient’altro se non questo momento sin da quando ne ho memoria. Il desiderio che mi ha inghiottito per così tanto tempo ora è la realtà, ora mi appartiene.Sono stesa per terra,immobile e felice. Decido di riaprire gli occhi ma noto qualcosa di strano. Dove sono gli altri atleti? La pista è vuota. Mi volto verso le scalinate sulle quali siede il pubblico, ma sembra essere scomparso anche quello! Sono nel panico, sono sola e stesa in mezzo a questo campo vuoto. Allora che fine hanno fatto tutti? In realtà tutto è in ordine. Non ci sono più bottigliette o cartelloni in mezzo ai gradini, sembra come se nessuno fosse mai stato in questo posto. Tutto tace. Quindi ho percorso da sola questa gara? E perché la gente ha ostacolato il mio percorso quando avrei comunque raggiunto il traguardo? In un attimo tutto scompare. Mi rendo conto che questa non era una gara di corsa atletica. È la vita. Sono io l’unica protagonista, ecco perché mi ritrovo sola con la mia vittoria. E allora quegli ostacoli? Ancora non mi capacito del perché la gente abbia tentato di farmi cadere. Ora capisco... Coloro che hanno lanciato quegli oggetti sono gli invidiosi ed i cattivi presenti nella mia vita. Essi cercano di fermarmi e desiderano più di qualsiasi cosa stare a vedere me che combatto contro le mie sconfitte e mi lascio sopraffare dalla loro immane forza. Ma stavolta ho vinto io, non loro. Ma che senso ha farmi gareggiare da sola? Ah, sì. Il traguardo era lì, pronto ad accogliere me, l’unica che potesse mai essere pronta a conquistarlo con tutte le forze che possiede. Era lì solo per me. L’ho raggiunto perché la volontà supera di gran lunga ogni difficoltà, ogni dolore,fisico o morale che sia. Forse se non ci fossero stati questi ostacoli lo avrei raggiunto prima. Un attimo dopo, però, mi chiedo: ma che piacere, che soddisfazione avrei avuto nel raggiungere qualcosa per la quale non aver nemmeno un minimo combattuto? Qualcosa, però, non torna… Io non sono pazza, sono sicura di aver visto tutti quegli atleti così desiderosi di superarmi e battermi. Ora capisco! Non si tratta di atleti, si tratta delle mie paure, così grandi, così estremamente dannose. Il nemico più grande dell’uomo è se stesso. È il proprio inconscio incontrollabile, vulnerabile e talvolta così pericoloso da danneggiarci ancora prima di formarci. Proprio come il vento che spazza via un castello di sabbia un attimo dopo che questo sia stato realizzato. Ora tutto mi è più chiaro. Mi domando ancora, cos’è questo traguardo raggiunto? Una coppa? Una medaglia? È un sogno. I sogni non hanno tempo, non hanno spazio,nemmeno un nome, una forma o un colore, sono semplicemente sogni. Sono loro che non permettono alle nostre paure di invaderci e nemmeno alle difficoltà di abbatterci e di far sì che ci arrendiamo. Ma siamo sicuri di cosa questo traguardo segni? La fine di questa lunga ed affannosa corsa? O forse l’inizio di tutto? L’inizio della


consapevolezza che la nostra vita ha ora un senso. Che con il nostro sogno in tasca non siamo più pecorelle in mezzo ad un gregge di falliti alla ricerca di se stessi, guidati da quei pastori che, autorizzati soltanto da loro stessi, decidono di guidarci chissà dove. Non siamo più quelle anime alla ricerca della conquista, di quel bramoso obiettivo che continuiamo ad inseguire anche se il respiro stenta, le forze scompaiono e forse anche la ragione. Con il nostro sogno ci rialziamo, emergiamo. Siamo vivi, completi.Il sole continua a risplendere alto. Adesso tutto ha un senso. Ora, come mai era accaduto prima, capisco che tutto quello che ho sempre desiderato finalmente mi appartiene e non ho bisogno di nient’altro. Siamo io e il mio sogno, la mia anima gemella. Allora è questa la felicità?

Noemi Signorelli SOLO I CORAGGIOSI POSSONO PERMETTERSI DI SOGNARE Prendo il cellulare e comincio a scrivere: “Non credo ti invierò mai questo messaggio, poiché non credo tu abbia voglia di veder comparire nuovamente il mio nome tra i messaggi ricevuti, ma mi serve scriverti anche indirettamente, per un piccolo sfogo personale. Sono la persona più razionale che probabilmente potrai dire di aver conosciuto e anch’io credevo di esserlo; parlo all’imperfetto perché dopo averti conosciuto ho smesso di pensare che tutto accada perché siamo noi a volerlo, ma credo che certe cose siano segnate, accadono perché c’è qualcosa più grande di noi che non possiamo né vedere e tantomeno toccare che ha scritto già da un po’ qualche parte della nostra vita. C’è chi lo chiama “Dio”, altri “destino”. Personalmente non credo in nessuno dei due, ma so che c’è qualcosa e quel qualcosa ha deciso che questo amore doveva essere troncato sul nascere. Sono consapevole del fatto che nella vita le cose non possano sempre andare bene, ma probabilmente, anzi, sicuramente, tu rimarrai per sempre quella cosa che avrei voluto andasse bene, per una volta. Mi hai stravolta dentro, ogni giorno prendevi una parte di me e la rivoltavi, la scrutavi, la studiavi, la manipolavi e la rendevi migliore; prendevi tutta la mia razionalità, la chiudevi in un armadio e nascondevi la chiave e in quei momenti riuscivi a farmi sognare assieme a te. Riuscivamo a vedere cosa saremmo potuti essere insieme, a pensare ad un futuro insieme, ad una vita insieme. Sognavo quanto sarebbe potuto essere bello passare le giornate assieme, a passeggiare sul bagnasciuga a piedi nudi, mano nella mano, con il vento che ti scompiglia i capelli, con il profumo di salsedine e di te che mi fa girare la testa, con te che parli delle cose più buffe e io che rido un po’ di te e un po’ delle tue storie. Sognavo di noi insieme ad affrontare questi anni belli e difficili, a risolvere tutto insieme, a litigare per poi fare pace poco dopo, a volere ognuno i suoi spazi, a essere gelosi ma non troppo, ad amarci come solo due adolescenti innamorati riescono a fare; allontanarci solo per ritrovarci e per dirci che non riusciamo a stare l’uno senza l’altra, sentirmi protetta tra le tue braccia, sentirmi a casa solo appoggiando la mia testa sul tuo petto, sentire il tuo cuore battere e chiudere gli occhi pensando che quel cuore pieno d’amore mi rende la ragazza più felice del mondo. Pensare che siamo riusciti a battere quei 619 chilometri, che il nostro amore ci ha fatto credere che ne valesse davvero la pena, che tutto ciò che avevamo costruito non era crollato, che tu mi ami e io più di quanto tu possa immaginare, che tu mi sorridi e in me si scatena una tempesta, che ti guardo in quei occhi così grandi e neri e mi perdo e non voglio mai ritrovare la via d’uscita.


Sognavo di crescere insieme, di sentir passare gli anni e non il nostro amore; sognavo di andare con te ovunque, di andare ai concerti dei nostri idoli, di lasciare un pezzo di noi in ogni posto, di viaggiare e scoprire insieme ogni angolo del mondo e di farlo un po’ nostro, soggiornare negli alberghi più luridi, andare al mare, in montagna, in città, coronare il nostro sogno di andare in Canada in campeggio, in uno di quei boschi dove l’aria che si respira ti apre i polmoni e di stare lontani da tutto e tutti, di piantare una tenda e ascoltare il rumoroso silenzio di quel posto, chiudere gli occhi e vedere il buio accecante che invade la mente, cercare la tua mano e trovarla accanto alla mia, aprire gli occhi e vedere che tu li hai ancora chiusi e restare lì a guardarti, a godermi quel favoloso spettacolo che farebbe invidia a tutti i bellissimi panorami del Canada, anzi, del mondo. Restare svegli a guardare le stelle sopra le nostre teste e sentirci piccoli in un universo infinito; parlare tutta la notte delle nostre vite, di tutto quello che le riguarda, di tutte le esperienze, di tutto quello che non ci siamo mai detti, fare della notte il nostro confessionale, perché di notte non si può mentire, perché la notte è fatta per dire la verità e per fare l’amore; aspettare l’alba che arriva sempre troppo presto e accoccolarmi tra le tue braccia mentre mi dici che mi ami e io in risposta ti stringo più forte per far penetrare il mio amore nella tua pelle, tra le ossa e farlo arrivare fino tuo al cuore. Pensavo che saremmo potuti andare a vivere insieme, prendere casa in Italia, all’estero od ovunque avremmo voluto, anche su Marte se fosse stato possibile. Andare a dormire la sera con la consapevolezza che il giorno dopo saresti stato ancora al mio fianco, svegliarmi e trovarti lì che mi abbracci goffamente, con la faccia tra i miei capelli e le gambe avvinghiate alle mie; sentire il tuo respiro tiepido sul mio collo e tenere gli occhi socchiusi godendomi quel momento di serena tranquillità con l’uomo che amo. Convivere con tutti i tuoi difetti e i tuoi pregi, con le tue scenate di gelosia, il tuo muso lungo, le tue bambinate, con quei sorrisi che potrebbero illuminare il mondo in un secondo, con tutti i cambi d’umore che hai come se fossi una donna in pieno ciclo mestruale, con le tue convinzioni, con tutte le tue passioni, con la tua voglia di fare, la tua iperattività, convivere con quello che sei, con tutto quello che hai e con tutto quello che vorresti diventare. Poi penso ai litigi. Litigare e scatenare una guerra perché due caratteri come i nostri prendono fuoco con un niente. Ritrovarsi a dire cose che non si pensano e pentirsi subito dopo, provare l’indifferenza e sentire che non è qualcosa che ci appartiene. Io testarda come un mulo e tu orgoglioso fino alla punta dei piedi. Ma gli alti e bassi sono inclusi nel pacchetto e in fondo, senza di quelli, non si potrebbe conoscere appieno una persona, perché è proprio nei momenti di crisi che si vede chi ha il coraggio di restare, e per restare, in alcuni casi, bisogna essere davvero coraggiosi. Ma il coraggio è solo una conseguenza dell’amore in questi casi. Perché se due persone si amano allora il coraggio di ricominciare, di riprendersi da dove ci si era lasciati, c’è sempre, anche nella persona più orgogliosa e testarda. Non sono una persona molto coraggiosa e lo sai, sono piena di insicurezze anche se non lo do a vedere, ma per te sarei stata la persona più coraggiosa del mondo, perché di rischiare, per te, ne sarebbe sempre valsa la pena. Abbiamo sognato tutto questo. Ho parlato in prima persona, ma tutte le cose a cui ho fatto riferimento ce le siamo dette e ridette mille volte. Avrei voluto far parte della tua vita, di ogni singolo secondo della tua vita. Sei stato in grado di farmi sognare come nessuno mai era riuscito a fare a tal punto da credere che l’impossibile con te sarebbe potuto essere possibile. Sognare è tanto bello quanto rischioso perché senza rendersene conto si finisce nel baratro dell’illusione; si crea una nebbia che oscura la realtà e solo in questi momenti si è capaci di volare, senza sapere se si vorrà mai tornare a vedere il mondo per quello che è o continuare a sognare. Ci


siamo presi il lusso di volare insieme, ma qualcosa ci ha fatti dirottare e abbiamo perso le nostre coordinate. La nebbia si è dileguata e abbiamo visto una realtà che non prevedeva nessun futuro insieme, nessun viaggio in Canada, nessun risveglio insieme, nessun litigio, niente di niente. Siamo stati sopraffatti dalla paura, abbiamo gettato la spugna, abbiamo pensato che mollare sarebbe potuta essere la soluzione migliore e allora non siamo stati più in grado di sognare, perché si sa, solo i coraggiosi possono permettersi di sognare, e noi, non lo siamo stati abbastanza.” Non rileggo ciò che ho scritto e cancello tutto. Spengo lo schermo e lo poggio sul comodino. Sento le braccia e il respiro pesanti e il cuore pulsarmi nelle orecchie, le palpebre socchiuse che non riescono più a trattenere le lacrime, ma non devo piangere. Ci vuole coraggio per sognare e ce ne vuole il doppio per andare avanti se un sogno si infrange, ed io, da oggi, scelgo di essere coraggiosa, per me.

Alessia Giove

LO STRANO PERCORSO <<Ah, Londra!>>, dice sempre la gente quando ne parla. Quando ero bambina, mi sembrava un posto sconosciuto, magico.. misterioso, ecco. La mia era una famiglia normale, forse troppo, ed ero convinta che i Londinesi fossero completamente diversi da noi: più saggi, più intelligenti, forse anche più schizzinosi, ma comunque più interessanti della gente comune. Queste erano le mie fantasie, ma cominciai ad odiare quella città all'età di 16 anni, proprio quando incontrai il vero amore. Londra me lo portò via, ma con il tempo feci l'abitudine a sentire la sua mancanza, a non vederlo, a volte anche a non sentirlo. Ho imparato che quando l'amore arriva, le regole normali dell'esistenza si devono arrendere. Puoi fare o permettere che ti siano fatte tante cose, ma c'è sempre un momento - un anno, un mese, o magari solo una notte- che diventa indimenticabile si scolpisce nella memoria per sempre. Quando l'ho conosciuto è stato come un risveglio. Dopo quel momento niente è più stato uguale. Ma niente -lo ripeto, niente- poteva prepararmi a quello che sarebbe successo. Il mio nome è Silvia, ma tutti mi chiamano… okay non ho soprannomi, è sempre stato difficile trovarne uno per un nome del genere. Ho 16 anni, abito in un paesino di provincia di Taranto. Mio padre Antonio mi chiamava il suo cuore.. beh, la motivazione credo sia ovvia. Di mestiere faceva il tecnico, e io e mia sorella andavano sempre con lui, ammirando quanta dedizione avesse nostro padre per il suo lavoro. Mia madre era casalinga, ma c'era così tanto da fare in casa che era un lavoro a tempo pieno. Nonostante fossero entrambi molto impegnati, i miei genitori non mi hanno mai fatto mancare niente: quando avevo bisogno di aiuto, loro c'erano sempre e ci sono sempre stati. Poi è arrivato il momento che tutti i genitori temono: l'adolescenza; o meglio i loro figli durante l'adolescenza, perché diventano ingestibili, intrattabili. Apatica… e forse proprio per questo che mi avevano convinta a praticare diversi sport. Nuoto, palestra, atletica.. per un certo periodo volevo seguire le orme di mio padre provando a fare calcio, ma non faceva per me. Uno sport che mi è rimasto nel cuore e sulla quale contavo molto era la pallavolo. Quanto mi piaceva andare agli allenamenti, a stare con le compagne, a sudare e a provare ogni giorno emozioni uniche; certo, c’erano giornate no, durante le quali non riuscivo a fare neanche un esercizio, ma non importava.


L’importante era provarci, diceva sempre il mio allenatore, e in questi anni della mia vita mi sono resa conto che quella frase ha davvero tanta importanza, in tutti gli ambiti; non importa tanto se una cosa sia riuscita o meno, basta tentare. Ma, parlando della pallavolo, io posso solo ringraziare questo sport, perché mi ha letteralmente cambiato la vita. La società per la quale gioco aveva organizzato un torneo misto tra la squadra maschile e la femminile dello stesso paese; io, non conoscendo nessuno ed essendo timida, difficilmente riuscivo a scambiare qualche parola con qualche ragazzo, risultando così agli occhi di tutti antipatica. In quel periodo, come tutte le ragazzine della mia età, avevo come chiodo fisso un ragazzo, un pallavolista, alto, muscoloso ma non troppo, occhi cervoni, un po’ pazzo.. Logorroico sì, ma, nonostante tutti i difetti e problemi, non so perché ma ci tenevo tantissimo a lui, tanto da definirlo amore. Ma le cose non andarono come volevo, infatti perdemmo i rapporti e io, dal canto mio, lo odiai, infatti non voglio neanche farne il nome, sarebbe inutile e non è di certo il protagonista di questa storia. Lui addirittura ancora oggi dice di volermi bene, di tenerci ancora, ma sinceramente non credo a nessuna sua parola. Vorrei tanto averla pensata così già dall’inizio.. Fatto sta che, non so dire se ‘per fortuna’ o meno, non poté partecipare a quel torneo poiché non era tesserato con quella squadra. Insomma, avevo occhi solo per lui, come si suol dire e negli altri ragazzi non notavo niente di interessante. Eccetto per… Aveva attirato la mia attenzione la curiosa ‘acconciatura’da samurai; aveva un voce squillante, anche lui gli occhi cervoni, alto 1.80, snello. Il suo nome è Fabrizio ed aveva una risata fantastica. Non appena mi accorsi del fatto di star fantasticando su questo ragazzo, mi costrinsi a bloccarmi subito: nella mia vita, c’era già un ragazzo, una cosa per volta, per favore! Ma averlo in squadra non aiutava affatto. Così, dopo questo mio autoconvincimento, pensai solo al torneo e, nonostante i sorrisi di Fabrizio, riuscii a rimanere concentrata… più o meno! Vincemmo quel torneo e con le squadre decidemmo di andare a mangiare fuori la sera stessa, per festeggiare. Nonostante fossimo stati in squadra insieme e avessimo vinto il torneo, non ci rivolgemmo affatto la parola; anzi, ci rimasi molto male quando mi accorsi che ci stava provando con una mia compagna di squadra. In realtà non sapevo nulla di questo ragazzo, se fosse fidanzato, da dove venisse, a che scuola andasse. Le uniche cose che sapevo è che giocava nel mio stesso paese, che aveva 18 anni, che appunto era un pallavolista.. e che aveva un sorriso meraviglioso. ‘Di nuovo?’ pensai, ‘Stai di nuovo pensando a questo ragazzo? Svegliaaaaa, ce n’è già uno nella tua vita, sii coerente e leale’. Il mio subconscio aveva proprio ragione. Non dovevo pensarci, anche perché ci stava provando con la mia compagna di squadra. Così decisi di togliermi dalla testa Fabrizio e tornare dal mondo delle nuvole. La mia vita tornò così alla normalità, ma a distanza di mesi la pseudo-relazione con quel ragazzo finì: mi mentiva spudoratamente, spariva senza motivo e io mi scocciai e decisi di non tornare indietro, quindi di non cercarlo. Il classico ‘Tu hai deciso di andartene e io di non tornare’, per farla semplice. La storia con quel ragazzo era quindi finita ed erano passati ben 11 mesi dal torneo. Ero paradossalmente triste della fine di quella storia perché ero abituata alla sua presenza; così con la mia migliore amica, se non sorella, Annachiara decidemmo di lasciar correre. Andò così per un mese abbondante. Si riavvicinavano le vacanze di Pasqua e le società decisero di ripetere il torneo. Stavolta, però, la situazione era diversa, perché ero cambiata sia mentalmente che fisicamente; e devo essere sincera, quel giorno non volevo partecipare per niente a quel torneo, avrei preferito studiare anziché andare a giocare, infatti sono stata portata in palestra, con la forza, da una compagna di squadra, Federica; la quale voleva ‘supporto morale’ poiché era interessata ad un ragazzo ma non aveva neanche il coraggio di parlargli. Si era rivolta proprio a me perché si era accorta di questo mio cambiamento di carattere: ero più sfacciata. Nonostante ciò non avevo proprio voglia di partecipare ma non avevo idea che quella giornata mi avrebbe cambiato la vita. Una volta


entrata in palestra, corsi nello spogliatoio per cambiarmi, non so per quale motivo, ma quel giorno fui molto veloce, e quando uscii non avrei mai pensato di incontrare Fabrizio proprio mentre usciva dallo spogliatoio maschile. Rimasi, forse, impietrita. Mi vide. Mi riconobbe. E mi sorrise. Era cambiato, gli era cresciuta la barba e aveva tagliato i capelli, sembrava cresciuto, come me. Avevo i capelli più lunghi e li avevo tinti di rosso, ero cresciuta un po’ in altezza e alcuni lineamenti del viso si erano definiti. Non ci salutammo neanche stavolta, sorridemmo, e basta. ‘Questa è la volta buona’, pensai. Cacciai subito via questo pensiero, dovevo rimanere concentrata, ero lì solo per fare un favore alla mia amica. Entrai in campo ed era il momento di fare le squadre; io dovevo fare il libero e la palleggiatrice con la quale dovevo giocare sarebbe arrivata in ritardo, così l’allenatrice mi chiamò e mi disse: <<Simona, vieni qui che devi fare la squadra>>. Le risposi: <<Sì, ma io sono Silvia>>, e lei controbatté: <<Sì, vabbe’, non importa>>. La guardai male perché Fabrizio mi stava guardando. Inizio così a scegliere i componenti della mia squadra: scelsi i laterali, i centrali.. venne il momento degli opposti ed ero la prima a dover scegliere, poi ché avevo vinto il sorteggio. Pensai ‘Ma vedi tu, casualmente devo scegliere io le squadre e sono anche la prima, dobbiamo giocare? Bene, giochiamo!’. ‘Come opposto voglio Fabrizio’, dissi e mi pentii subito del tono che avevo utilizzato, troppo deciso, troppo sicuro, troppo sfacciato; notai che Fabrizio mi sorrise e muovendo solo le labbra disse ‘Subito!’. Ero in panico, ma forse non era panico, ero entrata nel pallone e avevo paura di fare brutte figure con lui vicino; dovevo assolutamente calmarmi, anche se ero lì contro la mia volontà volevo vincere il torneo. Inizia così la prima partita nella quale giocano altre squadre, dopo avremmo giocato noi; nel frattempo stavamo palleggiando per riscaldarci e assolutamente non volevo capitare in coppia con Fabrizio. Sarebbe stato troppo imbarazzante, ma la cosa che mi stupì è che riuscii a parlargli, addirittura a scherzare. Iniziammo la partita, io ero molto agitata, invece lui era abbastanza sereno, forse troppo. Mi chiedevo cosa gli stesse passando per la testa! Notai alcuni suoi comportamenti che di certo non aiutarono la mia performance in campo: mi sorrideva, gridava ‘brava Silvia!’, mi abbracciava… e di nuovo sorriso, abbraccio e così via; e devo essere sincera, tutte quelle attenzioni non facevano altro che bene: mi sentivo motivata ma allo stesso tempo sembrava alquanto imbranata. Vincemmo anche questa volta il torneo e stavolta il saluto è stato abbastanza strano: io ero appena uscita dallo spogliatoio scalza e con le scarpe in una mano e le ginocchiere nell’altra, dovevo chiedere all’allenatore quando ci sarebbe stato il successivo allenamento, quando trovai proprio Fabrizio a parlare con il coach. Mi salutò con un cenno della mano e disse un semplice ‘ciao’, ma fu un saluto così innocente che mi ammutolì, riuscii solo a fare un cenno con la testa. Quando tornai a casa, presi il telefono e feci un balzo quando vidi come notifica ‘Fabrizio ti ha inviato una richiesta d’amicizia.’ La prima cosa che feci fu chiamare la mia migliore amica e le raccontai tutto del torneo, che avevo conosciuto questo ragazzo e che non sapevo che fare, ero in panico. Mi disse subito di calmarmi e che potevo raggiungerla il prima possibile. Gli inviai un messaggio, forse il più stupido che potesse venirmi in mente. <<Ah, ma quindi abbiamo vinto il torneo.>>. Sia io che Annachiara eravamo in ansia perché non rispondeva, e se avessi fatto la figura della scema? E se mi ero fatta troppi film? No vabbè, forse non ha il telefono con sè; ora entrambe non riuscivamo più a calmarci, era stato un po’ come l’effetto risonanza, l’avevo infettato l’ansia. Quando stavo per perdere le speranze, vibrò il mio cellulare, credevo fosse mia madre che mi stesse dicendo di tornare a casa, e invece…era proprio Fabrizio. Parlammo finché non tramontò il sole, non volevo sembrare ossessionata, anche se in realtà un pochino lo ero; ci demmo la buonanotte e mi addormentai con uno stupidissimo sorriso stampato sulle labbra.. ‘Chissà, forse questa é davvero la volta buona’ pensai, ma era passato solo un giorno, era troppo presto per fantasticare e dare tutto per scontato. Il mattino seguente mi


svegliai incredibilmente stanca, come di routine prima di alzarmi controllai il telefono e mi riattiva subito: c’era il buongiorno di Fabrizio che aspettava di essere letto. Non potevo crederci. Ero certa solo di una cosa: stavo già perdendo la testa per questo ragazzo; tanto che la sera gli dissi che se gli avesse fatto piacere mi avrebbe trovata in città, così per una passeggiata e lui rispose che avrebbe fatto di tutto per esserci e io ovviamente mi stavo pian piano sciogliendo. Come sempre, ero in panico; non sapevo cosa indossare, come potevo apparire ai suoi occhi? Optai per un outfit casual, non avrei sbagliato. In ogni modo, cercai di essere accettabile per questo primo strano ‘appuntamento’. Io ero già in città, lui mi avvisò che avrebbe fatto tardi e già mi preoccupavo del fatto che avrebbe potuto benissimo darmi buca. Quando mi disse di essere arrivato, mi girai intorno, lo vidi, gli andai incontro e una volta vicini ci abbracciammo e non so cosa mi stesse dicendo la testa in quel momento ma mi girai e lo baciai. Lui sorprendentemente ricambiò il bacio. In quel momento c’eravamo solo noi, noi due abbracciati e non importava se la gente ci fissasse, l’importante è che eravamo lì io e lui, e davvero ora penserete che sia accaduto tutto troppo velocemente, ma credetemi, avreste dovuto viverlo voi, anche perché erano troppe le coincidenze; dopo un anno ci eravamo trovati e da allora non ci allontanammo più. Eravamo legatissimi, ci vedevamo ogni giorno e quando non capitava ci mancavamo; abbiamo persino fatto una vacanza insieme, siamo entrati nelle rispettive famiglie. Ero così presa da lui che sono riuscita a dirgli ‘ti amo’, cosa che avevo detto una sola volta in vita mia, alla persona sbagliata. Io ho capito di amarlo nel momento in cui sono riuscita a superare tutte le mie paure, le mie debolezze, quando sono diventata meno timida del solito. L’ho capito quando lo guardavo ed era tutto ciò che volevo, quando sorrideva ed io ero felice e quando stava male stavo male anche io. L’ho capito quando mentre stavo con lui tremavo e allo stesso tempo mi sentivo a casa. Come se lo conoscessi da anni e avessi una certa confidenza. Non so come l’ho capito, so soltanto che quando c’era mi batteva forte il cuore e quando non c’era mi sentivo sola. Anche quando ci salutavamo perché dovevamo andare a casa, ecco, in quell’ istante già mi mancava. Detto ciò non credete mica che siano state sempre rose e fiori, anzi. Litigavamo molto spesso ma poi si faceva la pace, si faceva l’amore. Sono passati 2 anni da quando mi disse che sarebbe dovuto partire, precisamente 27 mesi. Un giorno di settembre del 2015, tornammo da una festa, erano forse le 4 del mattino, mi stava riaccompagnando a casa quando mi diede la notizia. Sarebbe partito per Londra con un’amica; sarebbe partito perché in Italia è difficile trovare lavoro. Giustamente voleva sistemarmi, ma in Italia non trovava il modo. A quelle parole il mio mondo andò in frantumi: come avrei fatto senza di lui al mio fianco? E in momenti come quelli avrei tanto desiderato di essere meno emotiva, più determinata, meno ansiosa, più serena. Avrei voluto essere meno malinconica, più gaia e solare. Se avessi potuto scegliere di certo mi sarei scelta una personalità diversa. Sono dannatamente fragile. Mi lascio coinvolgere, impegno sempre tutta me stessa nell’andare sempre oltre, fin dove arrivano gli occhi dopo mi lavora il cuore. Ero distrutta, tanto che velocemente lo salutai con un finto sorriso e dicendo che ne avremmo parlato, magari il giorno dopo. E quel momento già mi stava terrorizzando. Il giorno dopo ci incontrammo per parlare della sua partenza e della nostra relazione, cosa ne sarebbe stato di noi? Io, per quel che provavo io mi sono sentita di dirgli che l’avrei aspettato e che magari una volta diplomata l’avrei raggiunto a Londra, coronando due sogni. Lui partì e non era per niente la stessa cosa, ci sentivamo pochissimo, il tempo era poco, soprattutto durante il mio ultimo anno di liceo, nel quale dovevo sostenere la maturità, da sempre temuta. Ricordo che quando parlavamo la cosa più bella che lui potesse dirmi non era tanto ‘ti amo’, naturalmente era qualcosa di unico sentirlo da lui, ma il ‘mi manchi’. Penso che siano le parole più belle che ci si possa sentir dire. Provammo in tutti i modi a farla funzionare la nostra relazione e in realtà ci riuscimmo; ma non era di certo la


stessa cosa. Affrontai gli esami con grande naturalezza, uscii con 86 ma il mio pensiero era quello di andare a Londra e raggiungere il mio grande amore. Una volta finita l’estate avrei preso un volo per Londra, mi sarei iscritta ad una qualsiasi università e mi sarei stabilita lì. Il mio grande sogno si sarebbe realizzato. Finalmente. Questa forse è stata l’estate più veloce della mia vita. Anche se lo devo ammettere, la mia quotidianità mi mancherà molto. Passare da vedere la propria famiglia tutti i giorni al non vederla proprio è una grande metamorfosi. 12 settembre 2017: sono sull’aereo che mi porta a Londra. L’avevo detto a Fabrizio, e in tre mesi questa è stata l’unica cosa che ci siamo detti. Non sapevo cosa aspettarmi, né da lui né da Londra. Mi avrà aspettata? L’avrei scoperto solo una volta atterrata. Il viaggio sembra eterno e invece solo 10 minuti e sarò a Londra, e da Fabrizio. Mi sento come la prima volta che ci conoscemmo, e per scaramanzia decido di non farmi film, ma sento già intorno a me la magia di Londra. Entro in aeroporto,ma non c’è nessuno ad aspettarmi.. sono terribilmente triste e delusa, credo quasi non avesse più senso essere lì. Voglio rifare il biglietto per tornare a casa, penso fortemente che non abbia più senso vivere un sogno del genere senza la persona che amo. Istintiva e impulsiva come sono, raccolgo i miei bagagli ma mi sento chiamare, come se fosse un lamento soffocato, un ‘Silvia’ quasi interrotto e non so perché non voglio girarmi. Poi sento ‘Amore..’, mi giro e lo vedo. Il mio grande e unico amore. Il mio pallavolista. Il mio Fabrizio. E’ lì fermo dietro di me che mi fissa e sorride, come in campo il giorno del torneo. E’ proprio lui. Così come ci eravamo lasciati. Corro verso di lui, ci abbracciamo forte, talmente forte da togliere il respiro, mi giro, ci baciamo e mi sussurra dolcemente: <<Ti ho aspettata per tutto questo tempo, e finalmente sei arrivata, mi sei mancata, mi è mancato tutto di te e ora sei qui, tra le mie braccia e ora non ti lascio andare più. Ti amo.>> Sono senza parole, dirgli che lo amo è scontato. Lo guardo dritto nei suoi occhi un po’ verdi e un po’ marroni, sorrido, gli accarezzo i capelli, lo bacio delicatamente sulle labbra; da questo momento in poi avrei scritto la storia della mia nuova vita. Sto coronando i miei due sogni più grandi. Lo abbraccio ancora più forte, quasi per non farlo scappare, appoggio la testa sulla sua spalla per sentirne il profumo e le uniche parole che riesco a pronunciare sorridendo sono: <<Ah, Londra!>>. Silvia Viccari

LE MIE PAROLE Cara Sara, ti sei sempre chiesta il perché del tuo nome e io, da mamma, mi sono sempre meravigliata delle domande che una bambina di sei anni sapesse porre. Sono tante le cose che mi chiedi, che non sai e invece vuoi sapere. Tante le cose che ti racconterò e tante che non ho raccontato a nessuno. Questo perché erano destinate ad essere dette solo a te, bambina mia, perché solo tu potevi e dovevi saperle. Mi chiedi della felicità, della gioia, chiedi della tristezza e del perché le persone piangano. “Cosa rende le persone tristi, mamma?”. “Perché sorridono, ma quando girano le spalle ondate di lacrime incorniciano i loro occhi?”. Questo perché, tesoro mio, le persone sono fragili: basta un tocco e le


vedi crollare. Basta un soffio e le guance si bagnano, le mani tremano. Il cuore sussulta, le gambe si piegano. Tutto crolla. I palazzi, gli alberi, le case, le colline. Così come crollano le persone. Tu, invece, tu, tesoro, dovrai rialzarti. Riprenderai i tuoi passi, calmerai il tuo cuoricino, fermerai le tue mani, asciugherai le tue guance e ti rialzerai. O, almeno, troverai qualcuno che ti tenderà la mano e tu, bambina mia, aggrappati a quella mano con tutte le tue forze. Stringila forte e fatti aiutare. Non avere paura di chiedere aiuto, metti alla luce il tuo dolore. Non soffocare la tua sofferenza. Sappi che qualunque cosa fa meno paura se riesci a darle una forma. Il buio confonde, nasconde tutto in una bolla. Allora, tu scoprirai i tuoi graffi, farai respirare le tue ferite e vedrai che si cicatrizzeranno, col tempo spariranno e a restare saranno solo dei brutti ricordi. Il tempo, amore mio, il tempo guarisce tutto. Concediti a qualcosa che ti faccia sentire bene, qualcosa che ti dia la sensazione che hai sulle montagne russe, dove dopo ogni precipizio c’è una salita: concediti all’amore, perché anch’esso ti saprà guarire. Ti procurerà altre ferite, questo sì, ma saprà anche darti la giusta cura.Ama. Amati e ama gli altri. Ama senza pretese, senza ragione, senza esitazioni. Ama e non chiederti perché. Che sia bello, giusto o sbagliato. Tu ama e basta. Chiunque tu voglia, di qualunque genere, colore o nazionalità. Perché è questo il bello dell’amore: la libertà. È questo il luogo da dove nasce il tuo nome. È il frutto del mio amore, della mia libertà. Di ciò che andava contro tutto e tutti, ci ciò che gli altri impedivano. È il frutto del mio amore profondo e incontrollabile per lei: per due occhi delicatamente azzurri, per una chioma indomabile e terribilmente adorabile, per una testa piena di insicurezze e problemi che solo io sapevo mettere a tacere. Per qualcosa di, forse, mai ricambiato, di impensabile, di mai realizzato. Perché lei era tutto, e io ero niente. Ero qualcosa di cui lei non aveva più bisogno perché “ormai era troppo tardi”, diceva. Tu, bambina mia, dovrai saper coglierlo quell’attimo, perché è fuggente, scappa troppo in fretta. Dovrai saper saltare su quel treno, perché passa una volta sola e perderlo significherebbe portarsi addosso i rimpianti per tutta la vita di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Non porti limiti, Sara, ama incondizionatamente. È il più prezioso dono che tu abbia ricevuto. Con infinito amore,la tua mamma. Adriana Capatina

IL MIO AMICO SEGRETO 5 SETTEMBRE 2007 Caro diario, oggi è la prima volta che ti scrivo. Mi sento un po’ scema a scrivere i miei problemi su un quadernetto, ma almeno ci provo. Ho bisogno di spiegare in qualche maniera i miei sentimenti che vanno fra paura e curiosità di questa nuova avventura che mi aspetta, visto che mia madre è troppo impegnata a litigare con mio padre piuttosto che ascoltare la sua unica figlia. Desidererei tanto un fratello con cui passare del tempo, magari parlare dei miei problemi o semplicemente volergli bene come solo una sorella maggiore può fare. Ebbene sì, domani è il mio primo giorno delle scuole medie, come dovrei sentirmi? Da una parte sono felice, avrò la possibilità di conoscere nuove persone, ma dall’altra ho così tanta paura di


trovarmi in una classe di persone antipatiche che mi escludano, un po’ come lo era quella delle elementari che vorrei tanto poter dimenticare. Erano odiosi, nonostante il fatto che io cercassi sempre di interagire con loro e proporre nuove iniziative per stare insieme… loro non ne volevano sapere. Ora ti devo lasciare, la mamma mi chiede di lavare i piatti. Tua Mia 30 OTTOBRE 2007 Sera, seduta a studiare.Che fatica questa vita, mio caro diario! La scuola media è migliore delle elementari, ma si studia molto di più. Ogni giorno ho pagine su pagine da studiare e una moltitudine di esercizi da svolgere… a questo punto preferirei la scuola materna! Oggi in classe la mia super prof di italiano ci ha fatto fare un tema sul valore dell’amicizia, dopo averci raccontato la storia della sua amicizia con la sua migliore amica (nonché mia prof di storia). Quanto la invidio! Io ero davvero imbarazzata poiché non sapevo che scrivere oltre che le solite sciocchezze che si sentono dire in giro sui valori dell’amicizia. Credevo così tanto nell’amicizia, pensavo potesse essere l’unica via d’uscita dai problemi, ma si è rivelata essa stessa un grande problema. Io e la mia ex “migliore amica” andavamo in classe insieme, ma alla fine delle elementari si è rivelata una bambina odiosa dai capelli rossi, sfruttatrice di persone altruiste (come me). Finita quest’amicizia ho davvero avuto paura nell’instaurare rapporti con i miei coetanei . Mio caro diario, come dice mamma, certe persone meglio perderle che trovarle! Tua Mia 20 Dicembre 2007 Caro diario, se solo sapessi che profumino delizioso aleggia nella mia dolce casuccia! Odore di biscotti al cioccolato a formi di simpatici alberelli natalizi preparati da due chef sopraffine... Io e Greta.Ho scoperto che, oltre ad essere la persona più simpatica e buona che abbia mai conosciuto, è anche un'ottima cuoca. Lei dice di aver imparato dalla nonna, ma, secondo me, la sua è proprio una dote naturale. Ah... non so se l'hai capito ma è diventata la mia nuova migliore amica, nonostante pensassi che non mi sarei più legata a nessuno (date le mie esperienze).Stamattina siamo uscite per andare a comprare gli ingredienti ed abbiamo incontrato Clement, il nostro nuovo compagno di classe che viene dal Burkina Faso. Lo abbiamo salutato ma non ha ricambiato; credo si vergogni oppure si senta un po' fuori posto. Sai non è ancora riuscito ad integrarsi nella classe, a causa delle stupide battutine che fanno i miei compagni, stupidi maschi immaturi! Credo che gli farò un piccolo regalo di Natale, anche solo un libro, giusto per fargli capire che non tutti lo escludono... chissà se funzionerà, io ci spero!Tra poco è Natale e vorrei così tanto fare una festicciola a casa per giocare a tombola con i miei "amici di classe" ma non saprei proprio se sarebbero disposti a venire. Inoltre ho una nuova bellissima notizia da darti: finalmente i miei mi hanno annunciato che tra circa cinque mesi nascerà la mia tanto attesa sorellina, credo che la chiamerò Margherita. Inoltre so già che riceverò a Natale il mio primo cellulare così finalmente potrò chattare con la mia amica.Ti saluta anche la mia amica Greta, ora dobbiamo andare. Tua Mia


15 GIUGNO 2008 Caro diario, finalmente è finita la scuola e posso andare al mare, divertirmi e soprattutto stare più tempo con la nuova arrivata in famiglia. Mi sono già affezionata molto a lei nonostante abbia meno di un mese... è dolcissima! L'unico problema, oltre al fatto che la notte piange spesso, è che al mare non possiamo stare troppo tempo. Mamma e papà, però, in quest’ultimo periodo sono molto cambiati nei miei confronti. Prima ero la “cocca” di mamma e la “principessina” di papà, anche se sono cresciuta sento ancora il bisogno di essere chiamata così perché mi fa sentire importante per qualcuno che lo è altrettanto per me. Margherita ormai è sempre al centro di tutto, non metto in dubbio che non debba essere così, visto che è una piccola creatura indifesa, ma non devono dimenticarsi della mia esistenza. Forse chiedo troppo o sono semplicemente gelosa? Fortunatamente, ormai ho legato con tutti quelli di classe e mi hanno anche invitata per una festa di fine anno. Credo che si sia instaurato un solido rapporto di amicizia e di questo sono entusiasta. Sai non ho nient'altro da dirti... Ti racconterò tutto alla fine dell'estate. Baci. Tua Mia 03 GIUGNO 2010 Scusami se per tutto questo tempo non ti ho scritto, ma ora ti darò una notizia bomba: ho dato il mio primo bacio circa un mese fa al ragazzo del quale ho preso una cotta lo scorso anno. Purtroppo i miei non mi hanno ancora dato il permesso per iscrivermi su Fb e per questo i miei amici mi prendono in giro (in realtà lo fanno anche per il mio apparecchio). Tra poco ci sono gli esami di terza media e come argomento principale porto il razzismo (ciò mi ha fatto venire in mente Clement). Se andranno bene, i miei mi faranno un bel regalo. Spero anche che con la fine della scuola il mio "amichetto" (lo dovrei chiamare così?) non si allontani altrimenti credo che starei davvero male. Greta e altri miei compagni verranno con me anche alle scuole superiori. Insomma questa vita non è poi così male, il problema è Margherita che è diventata una peste... forse l'avrei dovuto immaginare prima di chiederla a mamma e papà? Credo proprio di sì, ma in fondo le voglio tanto bene. Ti scriverò appena avrò qualcosa da dirti sulla nuova scuola. Tua Mia 20 SETTEMBRE 2010 Come ti avevo promesso, Caro diario, sono qui per dirti che quest’ estate è stata una figata… Finalmente mi sono iscritta su Fb, ovviamente senza il permesso dei miei “dittatori” (se non l’avessi capito sono i miei genitori). Ormai sono diventati proprio noiosi visto che per il lavoro non possono badare alla “rompiscatole”, e perciò scaricano le loro responsabilità su di me, affidandomela tutto il pomeriggio. Tra l’altro non posso nemmeno vedermi con il mio “amichetto” (ah, dimenticavo ci siamo finalmente fidanzati).Lasciando perdere queste insulse storie sulla mia famiglia, ti posso annunciare che la scuola superiore è già iniziata… è pazzesca!!! Mi sono trovata in classe con Greta per fortuna, la mia mitica compagna di avventure estive. Questo nuovo mondo della scuola superiore è totalmente differente dalle medie. E’ pieno di ragazzi di tutte le età (alcuni molto carini) che vengono a scuola con la loro moto. Io mi sento un po’ sfigata perché mi faccio accompagnare da mia madre… vedo se in questi giorni mi organizzo con i miei nuovi amici per andare insieme.


Sono molto eccitata per questo nuovo anno, prevedo tante belle esperienze e tanti cambiamenti sotto tutti i punti di vista. Il clima è davvero buono in questa scuola ma, forse perché io sono un po’ troppo complessata, mi sento davvero fuori posto. Alcuni addirittura, solo perché fanno il quarto o il quinto e hanno tre o quattro anni in più dei ragazzi di primo, si credono di essere “Dio sceso in terra”. Mi danno molto fastidio perché anche loro ci sono passati e dovrebbero capire come ci si sente! Non dico che questo sia proprio bullismo ma quasi, visto che ragazzi maggiorenni a volte si mettono d’impegno per insultare quattordicenni dimostrando la loro immaturità (e quest’anno per loro dovrebbe essere l’anno della maturità… Mi fanno ribrezzo, davvero). L’altro giorno ho visto un ragazzo di terzo spingere dalle scale uno di primo senza alcun motivo, ah sì, perché lo ritenevano uno “sfigato”. Che odio questa parola, non è carino insultare la gente, dovrebbero capirlo molti idioti! In effetti i maschi si picchiano, ma le parole che usano le ragazze più grandi per insultare (soprattutto in ambito di moda) sono qualcosa di terribile. A questo punto, io desidererei di passare indifferente a questa massa di “senza cervello”. Bacini e bacetti, Mia 18 AGOSTO 2012 Caro amico che sa tutto di me…mi sei mancato, era davvero tanto che non ci sentivamo ma ti giuro che non è stata colpa mia, perdonami! Ti spiego, in pratica in primo dissi ad una mia amica che avevo un diario segreto così lei sparse la voce a tutti i miei compagni i quali mi reputarono una bambina che ancora ha gli amici immaginari… che umiliazione! Cosi ho deciso di non confidarmi più con te, solo per convincere me stessa del fatto che non avessi bisogno di scrivere i miei sentimenti. Invece eccomi qui, perché non mi importa se gli altri dicano che il diario sia per bambini, non sanno che si perdono e quindi ho deciso che non dirò più nulla a nessuno!Ho combinato un sacco di guai, prima di tutto a febbraio dell’anno scorso mi sono lasciata (in realtà mi ha lasciata lui perché pensava ad un’altra, ma vabbe’), poi ho preso un debito in latino, perciò sto passando l’estate a studiare, ma soprattutto ho iniziato a fumare. So che è sbagliato, sinceramente all’inizio non ne sentivo tanto il bisogno, ma tutti lo fanno. Nella mia comitiva tutti fumavano tranne me prima dell’estate e così mi sono adeguata a loro… non me lo dire, tanto già lo so che mi sono comportata da debole, senza carattere e poco determinata. I “dittatori” lo hanno anche scoperto, naturalmente a causa della “rompiscatole” che non sta mai ferma e mette mani dappertutto. Ovviamente ciò ha comportato una punizione, ma per fortuna mi hanno dato il permesso di andare una volta in disco e fare il ferragosto in spiaggia con i miei amici. Sono andata in discoteca circa tre settimane fa ed è successo davvero di tutto: ho detto ai “dittatori” che sarei andata a dormire da Giulia che invece ha detto che sarebbe venuta a casa mia, ma in realtà siamo andate da due ragazzi (con la loro macchina ovviamente) che ci piacciono davvero tanto. Dai, ti risparmio i particolari, ti dico solo che Giulia era ubriaca e ha combinato guai a casa dei ragazzi, che risate!A ferragosto, invece, abbiamo dormito in spiaggia con alcuni nostri amici di classe e quei due ragazzi fighi. Abbiamo fatto le solite cose che si fanno, ma ci siamo divertiti un mondo. Come ti avevo preannunciato, durante quest’anno ho avuto un cambiamento radicale: da introversa, timida e obbediente, sono diventata un po’ più ribelle ed estroversa… forse non è una buona cosa (anche perché sto combinando molti guai), ma devo comportarmi così per essere accettata. Sai, caro diario, ormai non serve più essere te stessa per piacere agli altri, ma bisogna ricorrere a mezzi più pesanti, omologandoti con le varie mode e tendenze della società comune. Tutto ciò, però, mi fa davvero stare male; il ragazzo che mi piace non l’ha presa seriamente, pensavo potesse nascere qualcosa di


più serio, ma lui è come gli altri. Il suo orgoglio ha prevalso sulla nostra situazione e, avendo caratteri uguali, abbiamo lasciato che le circostanze ci separassero nonostante non fosse ciò che avremmo voluto. Ora, però, si va avanti più forte di prima, mi rimarrà sempre nel cuore, ma come si dice spesso, “si torna sempre dove si è stati bene”. Tua Mia 28 GIUGNO 2014 Buongiorno caro diario, oggi è uno dei giorni migliore della mia vita, o almeno spero che lo sia perché vorrei tanto ricordarlo quando sarò più grande. Sai è difficile il cambiamento, può sembrare sottile ma non lo è affatto. Da una parte sono molto emozionata, in effetti la mia vita cambierà radicalmente (soprattutto quando andrò all’università), sarò più indipendente, potrò fare delle scelte senza dar conto a nessuno, ma, come in tutte le cose, ci sono aspetti negativi. Tutto questo vuol dire crescere, crescere significa cambiare e i cambiamenti spesso, per quanto belli possano essere, fanno molto male. Cambiare vita non è semplice e tanto meno crescere lo è, significa cambiare i rapporti con le persone, cambiare il modo di relazionarsi e approcciarsi con il resto del mondo. Crescere significa essere in grado di fare scelte che saranno decisive per il proprio futuro perché diciamocelo, essere bambini è la cosa migliore che possa esistere! Non bisogna pensare al bene o al male, c’è sempre qualcuno alle tue spalle ad indicarti il cammino più giusto da intraprendere; alla minima caduta quel qualcuno è sempre lì accanto pronto a darti la mano per farti rialzare, pronto a dirti cosa è meglio fare. Essere bambini è cosi bello, si è spensierati, innocenti, anche se a volte persino le piccole cose possono farci male, ma ti ripeto, mio caro diario, i bambini hanno sempre qualcuno disponibile ad aiutarli. Il problema si ha quando quel qualcuno, anche volendo, non può più aiutarti perché ormai le indicazioni per il cammino te le ha date e non può più darti altri consigli. È questa la cosa difficile, da un giorno all’altro ritrovarsi soli in mezzo al deserto e essere in grado di proseguire, distinguere le cose giuste da quelle sbagliate. E’ proprio quando si è in grado di fare ciò che si può dire di essere maturi. Il distacco sarà duro, già sono in grado di capirlo, però devo essere forte per far capire a quelli che, fino a ieri chiamavo “dittatori” ma che da oggi chiamerei le “guide” di un cammino fondamentale, che tutto il lavoro che hanno fatto in diciotto anni, il tempo e la dedizione che ci hanno messo con la loro piccola cocca e principessina non è andato perduto, ma anzi, è stato qualcosa di necessario per la strada che dovrò percorrere da sola nei prossimi anni. Ovvio, una mano si può sempre chiedere perché loro rimarranno i miei genitori, ma bambini non si può tornare, sarebbe così facile altrimenti (e chi mai ha detto che la vita sia semplice?). Dovrei anche dimostrare alla mia “rompiscatole” sorellina cosa significa crescere, ed essere un indispensabile esempio per quello che sarà il suo cammino. Forse ti ho assillato un po’, forse sono stata troppo filosofica, ma è questo quello che mi aspetta. Comunque stasera ci sarà la mia festa: è tutto già pronto, abito, ristorante, dj, torta… sembrerò una bambina dicendoti questo, ma desidero di sentirmi come una principessa al suo ballo. Ci saranno un sacco di miei amici, tutti quelli che insieme ai miei genitori mi sono stati accanto in questo cammino. Ti spiegherò bene i dettagli tra qualche giorno.

Tua Mia


03 LUGLIO 2014 Dolce diario, sono qui appunto per annunciarti il successo della mia festa. Mi sono divertita un sacco ed emozionata soprattutto nel momento in cui, le mie amiche insieme ai miei genitori e Marghe, mi hanno mostrato un video su quella che è stata la mia vita in questi anni. È stato davvero fantastico, sono riuscita a rivivere momento per momento, emozione per emozione, passo per passo la mia storia, ricca di persone che mi hanno amata e che sono riuscite a rendere tutto fantastico. Ringrazio tutti, dal primo all’ultimo, quelli che, anche minimamente, sono entrati a far parte della mia vita perché l’hanno segnata in modo positivo, alcune anche in modo negativo aiutandomi comunque a crescere, migliorare e rendermi conto che dono è la vita. Mamma mia, però, se solo pensassi che, tra meno di un anno, ho gli esami… mi viene l’ansia. Ah, ho una novità. Sono riuscita a capire, solo crescendo, che le persone devono guardarmi e amarmi per quella che sono veramente, quindi non mi importa più di avere una sigaretta tra le labbra o un top per mettere tutto in mostra e dimostrarmi come tutte le altre. Quando hai troppa paura di ciò che gli altri dicono di te, non vivi più. Ma quando non ti interessa più tutto questo, cambi radicalmente. Tutti sono sempre pronti a parlare di libertà, ma pochi sono veramente liberi da questa società che ci tiene prigionieri. Insomma, la vita è sempre una questione di scelta, sempre. Io sono Mia, non le altre, sono fatta così. Le porte del mio cuore sono aperte a tutti, tranne a quelli che hanno intenzione di entrarci per modificare la persona che sono riuscita a far emergere in questi anni, solo crescendo. Certamente avrò molti difetti, ma preferisco averli piuttosto che essere come tutte quelle finte “barbie” senza personalità… Ci sentiamo, mio caro amico, forse quando avrò dato un senso alla mia vita, forse quando avrò deciso cosa fare della mia vita. Sei stato davvero importante per me, naturalmente sei sempre stato presente, forse più di un “vero” amico. Senza alcuna parola mi hai aiutata a ragionare nel periodo più difficile e buio dell’esistenza di un essere umano: l’adolescenza. L’infanzia può essere considerata semplice, perché è durante l’adolescenza infatti che si formano le basi per il futuro. Anche tu hai contribuito alla mia crescita e maturità e mi hai vista diventare una donna, perché è quello che ormai sono, una donna pronta a combattere. Forse sembrerò una pazza, ma tanto questo rimarrà per sempre un nostro segreto, solo mio e tuo e nessun altro potrà rivivere ciò che abbiamo vissuto noi. Forse ti chiederò altri consigli, magari quando diventerò una moglie, una mamma, o una dottoressa, ma per ora sono soddisfatta di tutto il cammino che, mano per la mano, abbiamo intrapreso. Grazie caro diario, nel mio cuore ci sarà sempre un angolino riservato a te che mai nessuno potrà strapparti! Addio… Tua Mia

Alessia Malizia e Barbara Turso

E CHE LA LUCE SIA!


Il tramonto arrivava con il suo abbraccio dorato sulla scogliera, carezzava le cime degli alberi, faceva risplendere le finestre delle case affacciate sul mare. Alessandro camminava lungo il sentiero di ghiaia a ridosso della scogliera a piedi nudi, senza curarsi dei ciottoli e delle pietre che gli facevano male; soltanto talvolta si fermava per togliersi un sassolino fastidioso che gli faceva del male, poi riprendeva a camminare. Mentre camminava, Alessandro vide due gabbiani rincorrersi in cielo e sorrise. Pensò di farsi un bagno, ma non voleva rompere quell'ordine perfetto che aveva la superficie immobile dell'acqua, preferì guardare seduto su uno scoglio ancora un po' i gabbiani che si rincorrevano; si sedette sulla scogliera. In lui, però, s'accresceva un senso di tenebra, di freddo dolore, come se una lama ghiacciata gli stesse tagliuzzando l'anima, e più il sole calava più questa tenebra lo permeava. Dapprima questo senso di cupo dolore era un lieve fastidio al petto, poi iniziò a diffondersi in tutto il corpo, come se fosse pompato dal cuore in tutte le direzioni, ovunque ci fosse anche solo una goccia di sangue. Il sole continuava a calare, il suo tuffo nell'orizzonte era quasi a metà. Alessandro continuava a seguire i gabbiani, fin quando non si adagiarono in acqua. Si alzò lentamente dopo essersi sistemato la piega ai jeans e fu in quel momento che si meravigliò dell'ordinario; fissò, rialzandosi, la sua ombra. Sentì una fitta al petto quando la mise a fuoco stando in piedi, gli sembrava il corpo di un alieno: così esile, allungata, slanciata... Provò a vedere l'ombra come semplice fenomeno fisico, ma non poté trattenere la sua fantasia: perché l'ombra è proprio nera? Forse, pensò, l'ombra è bianca quando nasciamo e noi la sporchiamo camminandoci sopra coi nostri stessi passi, ma anche con i nostri cattivi pensieri. Alessandro allora prese il suo quadernetto e iniziò a pensare ad ogni passo che aveva fatto sulla sua ombra, ad ogni piccola lite, pensiero cattivo che aveva fatto. Lentamente sentì un peso sull'addome farsi comunque più insistente, pressante. La scrittura si fece più stretta, confusa, la pancia era contratta e il respiro era confuso e affannato come dopo un pugno preso proprio sotto lo sterno. Le fitte scuotevano così tanto il suo corpo dalla testa ai piedi, che Alessandro si lasciò andare in un lievissimo pianto di dolore: nulla di evidente, appena una o due lacrime, ma erano cariche di amarezza, dolore, rimpianto, rabbia, così tanto cariche di sofferenza che avevano perso il lieve sapore di sale che hanno le lacrime. Al calar del sole, l'ombra di Alessandro tornava ad essere un tutt'uno con lui e tutta la sofferenza che aveva raccolto durante la giornata, tutto quello che aveva raccolto e che la avevano resa nera e scura, lo feriva sempre più nel profondo man mano che il sole cedeva il passo alla sera ed al buio. Quando l'ultimo raggio di sole aveva trafitto gli stanchi occhi grigi di Alessandro, l'ombra si era completamente riunita al corpo del suo padrone. Per un attimo il dolore aveva smesso di esistere, poteva respirare ancora, il petto si gonfiava senza dolore, il cuore batteva sollevato. A salvare Alessandro da quello strazio era stata l'illuminazione pubblica, che debolmente aveva separato di nuovo l'ombra e Alessandro. Ricacciati dentro, anzi fuori, quei momenti di strazio e dolore, quelle fitte di ansia e angoscia, Alessandro poté camminare di nuovo verso la sua moto. Ora camminare era diventato però uno slalom fra i bagliori dei pali della luce, non voleva restarne lontano più. Alessandro avanzava a lunghi passi nella direzione dalla quale era venuto, ma non ce la faceva ancora a correre: era come se si fosse reso conto solo in quel momento del peso che i suoi muscoli trascinavano ogni giorno, sentiva che avrebbe potuto lanciarsi giù da un ponte e affogare usando come peso anche solo la sua ombra, se avesse potuto, perché sarebbe bastata. Alessandro arrivò alla moto qualche minuto più tardi, infilò di fretta il casco, mise in moto e partì veloce verso casa. Il vento gli spazzava via dal viso delle lacrime che sembrava volessero fuggire dai suoi occhi senza un motivo apparente, così lui accelerò per non sentirle staccarsi dal viso. Percorreva la strada sgombra, ormai, senza sapere a cosa pensare. Si ritrovò davanti casa mezz'ora dopo con la convinzione che il tempo si fosse fermato, completamente svuotato da ogni emozione e


colorito in viso. Aprì la porta di casa, andò in soggiorno e si lasciò cadere sul divano ancora tutto vestito. Con gli occhi fissi al soffitto, Alessandro rimase a pensare a lungo, poi prese il suo quadernetto dallo zaino e iniziò a scrivere mettendosi a sedere al tavolo. "Oggi mi hanno pugnalato, ma senza usare un coltello. Mi hanno insultato, ma senza parole. Mi hanno fatto piangere, ma senza farmi spendere lacrime per loro. E io ho fatto lo stesso con altri, ho sporcato la mia ombra, l'ho pestata, malmenata, torturata.. e lei mi ha punito, stasera, tornandomi dentro all'imbrunire. Lo stupore della sera, della luna e delle stelle alte in cielo dopo il tramonto ancora non mi abbandona: riaprire gli occhi dopo tanta sofferenza restituita è come essere penetrati da un freddo cucchiaio che ti svuota la pancia, ma che ha la sadica idea di lasciarti soffrire, così si muove lentamente dentro di te." Poi Alessandro iniziò ad addormentarsi, come cullato dai suoi pensieri, e finì col poggiare la fronte sulle pagine del suo quadernetto trasformandole in cuscini. L'ombra, commossa, lo vide addormentarsi sulle carte e si tolse le scarpe, si slegò un attimo dai piedi di Alessandro solo per potersi avvicinare di più al suo viso. Alessandro riposava tanto dolcemente che la sua ombra non volle disturbarlo entrandogli nei sogni, preferì lasciarlo riposare.. Era stata cattiva con lui, gli aveva mostrato il lato crudele e pieno di sofferenza della natura dell'uomo. Ora toccava al sogno risanare certe ferite del cuore e dello spirito, ora toccava al cuore ripulire il sangue da quella amarezza che lo aveva pervaso, contaminato, avvelenato. L'ombra si stese ai piedi di Alessandro e gli tornò legata, dormiva anch'essa. E poi sarebbe toccato alla vita risvegliare Alessandro il mattino dopo, con un raggio di sole che lo avrebbe colpito dritto in faccia per fargli sorridere di nuovo al cielo, facendogli sentire quel tepore simile alla forza; avrebbe sentito di nuovo vivo il sangue sotto la sua pelle. E che luce sia! Francesco Zippo

ECHIOJA Ero un mostro! Ero un mostro e lo ammetto! Fu in un tempo lontano, forse non troppo. Ma non posso dare la certezza, non riesco a scandire l’enormità del tempo in una vita ancora tanto breve. Ma alla fine si sa che il tempo non conta, certe ferite con il tempo non si rimarginano mai, neanche quando le cicatrici sulla pelle scompaiono ormai del tutto. Il tempo non guarisce, è solo uno schema mentale di cui l’uomo è schiavo, ma non ha nulla a che fare con un medico, nulla a che vedere con un amore profondo. L’amore guarisce, il tempo no. Quindi non posso dire quante ore o secondi, quanti giorni o mesi siano passati. Posso solo assicurare che del tempo sotto i ponti ci è passato. Ma un mostro lo sono stata! È ora uno scheletro nel mio armadio, quello di una creatura ormai uccisa dalla mia felicità, decomposta tra il profumo di pulito dei miei abiti, nascosto nel disordine di pile di maglioni. Da bambina ero convinta che i mostri si nascondessero sotto il letto; probabilmente una notte uno di loro uscì da suo solito nascondiglio, mi fece del male quando ero molto piccola, quando ancora la mia giovane età mi rendeva difficile l’autodifesa. Seminò nel mio cuore un seme di paura che crebbe alimentato dalle numerose ansie che la gente intorno alla mia esile presenza cercava di inculcarmi, giorno dopo giorno. “È la società” si giustificavano tutti. Questo mostro non era me. Ed io non ero lui. Ma manipolava con banale facilità la mia mente. Faceva fatica a controllare le mie emozioni quando gli occhi da fanciulla dalla tenera età brillavano di immagini


fantasiose che solleticavano il mio sorriso. Manon appena questi vennero meno, il mostro non perse occasione per possedermi completamente. Quegli occhi non sognavano più, la linea del sorriso si spense. Tentavo con tutta me stessa di ribellarmi, di decidere di sorridere anche contro la sua volontà… Ma erano solo inizi tremolanti, impauriti, incapaci di trovare equilibri stabili. Era un mostro manipolatore, un mostro ladro che aveva derubato la mia anima e si era impossessato del mio corpo. Ero chiusa in gabbia, resa schiava, condannata a convertire in mostro anche me stessa. E lo divenni, schiava di un mostro che aveva piantato le radici nella mia testa! Ero un mostro condannato a soffrire senza sapere neanche per cosa. Un giorno cominciò la pazzia! Gli occhi ancora inondati di lacrime che sporcavano il viso di nero d’inchiostro, la mani tremanti che trattenevano il capo tra le gambe quasi dovesse esplodere. Di schiena al muro, rannicchiata in un angolo del piccolo bagno, sentivo rimbombare nella testa le tremende parole dettate dal mostro! Ogni parola mi colpiva il capo,sentivo come se le sue viscide mani mi comprimessero il cervello, come se alcune parti le strappasse via per poi incastrarle in altri meandri nascosti. Scattai in piedi, cercando ansiosamente qualcosa in un cassetto, e tra i vari oggetti la trovai: mi spaventavo solo all’idea di quel che avrei fatto, così fredda alla vista, tagliente! La mano tremava così forte che non riuscivo ad avvicinarla alla pelle. Scoprii una gamba e l’affondai! Graffiò la pelle, nulla di grave, solo un lieve dolore e una calda goccia rossa che scese piano. Un idiota ghigno, compiaciuto del gesto compiuto, comparve sul viso, era quasi come se quel gesto mi facesse sentire… bene! E andò avanti per giorni, affondando la lama, sempre più giù, sempre più appagata: trasgredivo il gran mostro, e di nascosto agivo senza che niente potesse vietarmi. Era una trappola della mia stupidità, che mi faceva sentire libera!E la lama tagliava, sempre più in profondità… e sprofondò. Ricordo solo un mare rosso, ombre che offuscavano gli occhi, e poi… poi nero di pece. Un odore pungente, una luce accecante, e spalancai gli occhi. Non ero più nel mio mare di sangue, non più nel mio piccolo bagno. Avevo un ago in un braccio e respiravo a fatica in un letto non mio, in una stanza ghiacciata. Intesi, e si gelò il sangue. Vergogna e terrore combattevano invadendo la mia mente: il segreto era stato svelato, il mostro lo aveva scoperto. Era lì con occhi tremanti, rossi, non più di rabbia ma colmi di lacrime. Non mi si era mai presentato in quello stato, il mostro piangeva, come se in quel momento si fosse spogliato di rabbia e paranoie mostrando sentimenti ben diversi da quelli. Sembrava debole, indifeso, a guardarlo bene non sembrava neanche più un mostro. Mi strinse al petto, ma io ero troppo terrorizzata per sentire i battiti del suo cuore accelerare. E accelerarono i miei, come se il cuore avesse deciso di essere strappato dal petto. E in quel momento lo avrei fatto se fosse servito a farlo smettere per mettere senza fatica un punto dopo la parola fine. Perché ora che tutto era stato svelato, mi aspettavo solo una fine. Ma ero troppo debole per poter compiere qualsiasi movimento, tanto che mi risultava difficile persino pensare alle probabili conseguenze di quel giorno. Ero stremata, come se tutto mi avesse abbandonata in quel preciso istante. Gli occhi si chiudevano, ma gli sguardi sfocati riuscirono a catturare ombre in controluce sparse per la stanza. L’ultimo sguardo si posò distrattamente sulla figura dell’antico mostro che immobile con la testa bassa tremava, e poi il buio inondò i pensieri ed una calma infinita invase la mente.Ad ogni risveglio il mostro era lì, seduto al lato del letto, a rimboccare le coperte, ma la mia bocca era sigillata, come se la lingua non sapesse più come muoversi per sillabare alcuna parola, ma avevo in mente ogni risposta! Ma quella dannata acqua in bocca mi era andata di traverso e la tosse aveva rovinato le corde vocali; i punti di sutura per sigillare segreti avevano stretto talmente tanto le labbra tra loro che in quel periodo non riusciva ad uscire neanche un sospiro. Ero un mostro zittito! Ed il mostro piangeva. La mia testa era priva delle sue mani manipolatrici, le orrende parole tacevano in pace, eppure quel suo aspetto tale restava davanti ai miei occhi affannati.


Un giorno lasciò per qualche minuto la stanza, il motivo mi era all’oscuro, ma il fato sapeva, ed intrecciò ai miei sguardi un sorriso straniero. Era la prima volta che ruotavo gli occhi in cerca di qualcosa, ma l’immagine era ancora quella di un soffitto bianco. Allora mi alzai in posizione seduta e mi guardai attorno. Per la prima volta mi accorsi di lui. Era lì seduto sul letto accanto al mio, ma distante abbastanza da non essere percepito dalla coda del mio occhio, aveva un quaderno tra le mani e bisbigliava piano quel che probabilmente vi ci era scritto. Sembravano regole di grammatica italiana, di quelle che studiano i bambini quando sono ancora alle elementari. Forse si era accorto che i miei occhi si erano poggiati su di lui. Alzò il capo, mi osservò per un attimo, e mi sorrise. Non avevo mai visto un tale sorriso! Gli illuminò il giovane viso, ed in parte contribuì la luce di cui brillavano i grandi occhi neri. Non usò alcuna parola scritta su quel quaderno di grammatica, ma quel sorriso aveva parlato più di quanto io avessi fatto in tutta la mia vita. Era come un benvenuto, o un saluto di quelli in cui ci si imbatte quando si incontra una persona per la prima volta, ma sembra come se il suo spirito lo avessi già conosciuto anni fa. Mi solleticò talmente tanto l’animo che sorrisi anch’io e le fossette sotto le gote lo salutarono allegramente. Mi distesi piano sul letto e mi addormentai. Quella notte il mostro si era addormentato profondamente, e le mie gambe erano troppo stanche per stare ancora sdraiate, così cominciai a vagare per i corridoi non facendo caso dell’orientamento e trascinando i piedi dovunque decidessero di andare. Ed ancora non so per quale strana ragione i passi si fermarono davanti alla piccola cappella del reparto dell’ospedale. E quel ragazzo che avevo visto nella mia stessa stanza era lì, in ginocchio, che pregava con gli occhi chiusi, il capo basso e le mani stese verso l’alto. Per la prima volta mi resi conto del colore della sua pelle, che la sua lingua era diversa dalla mia. Si voltò verso di me e mi sorrise di nuovo, ma questa volta mi sembrava che mi chiedesse di avvicinarmi a lui. Lo feci. E mi sedetti al suo fianco. Parlando un po’ d’italiano misto all’inglese cominciò a presentarsi. Si chiamava Echioja, che nella sua lingua significa “Angelo di Dio”. Aveva poco più di diciassette anni, ma la sua storia cominciava molto prima… Era orfano, sia di madre che di padre, e per questo era stato affidato allo zio, un uomo crudele che lo maltrattava, lo violentava. Alzò la manica e sul braccio aveva tanti segni, quasi fosse stato colpito da qualche malattia esantematica, raccontò invece che erano cicatrici di bruciature che quel mostro gli provocava sulla pelle spegnendo sigarette sul suo corpo quando era ancora solo un fanciullo. Impallidii. Allora decise di scappare, attraversò il Deserto del Sahara su di un camion, senza acqua, senza cibo, per lunghissimi e lunghissimi giorni. Vide il suo amico morire davanti ai suoi occhi e buttato giù dalla vettura senza degna sepoltura, lasciato all’ira del vento e alla fame delle belve. Arrivò alla costa, costretto a lavorare per anni prima di racimolare i soldi per arrivare in Italia, ma anche quando tutto ormai era programmato e sembrava che stesse filando liscio, dovette continuare a lottare per non lasciarsi strappar via la vita tra le mani. Nella sua esistenza era stato perseguitato da così tanti mostri, ma mai nessuno era riuscito a strappargli quel bel sorriso, credeva nel dono della vita. Mentre io ero pronta a lasciarlo scivolare via inerme. Cominciai a piangere. Mi strinse fra le braccia e mi confortò: proprio lui che ne aveva più bisogno mi stava donando la sua compassione. Mi disse di non piangere più perché: “Tu hai una madre che ti ama!” Sbarrai gli occhi, sospirai pesantemente… Qualche istante dopo lo guardai e con il sorriso più bello che potessi indossare!Qualche giorno dopo mi dimisero per la mia straordinaria “guarigione” di spirito. Salutai il ragazzo con lo stesso sorriso che lui mi aveva rivolto la prima volta che lo vidi, e qualche lacrima di commozione che scendeva sulle gote. E lasciai l’ospedale destinata a non rivederlo più. Ma certa che il suo ricordo lo avrei portato sempre nel cuore.Per quanto riguarda il “grande mostro”, non posso rivelare la fine della nostra complicata storia perché ancora non la conosco neanch’io. Posso so lo dire che il seme malvagio nel mio cuore lo estirpai


tempo fa uccidendo quello che ero diventata, e rinascendo più forte di prima. Il “grande mostro” cominciai a guardarlo con occhi nuovi; mi serviva solo una nuova prospettiva, che il mio orgoglio e le mie paure mi avevano negato di cogliere. Forse Echioja era davvero uno dei tanti angeli che Lui ha deciso di portare nella mia vita. Francesca Lippo OLTRE LO SPAZIO ED IL TEMPO Mentre quella strana melodia la accompagna, passo dopo passo, lungo il corridoio stretto, bianco, illuminato dai raggi di sole penetranti dalle grandi finestre spalancate, che appare quasi infinito ai giovani piedi scalzi di Penelope, una porta marrone le appare sempre più vicina. Le sembra quasi di fluttuare lentamente a poca distanza dal pavimento, come in procinto di spiccare il volo, ma qualcosa continua ad attrarla verso il basso. Lo sforzo è grande e stancante, ma nulla potrebbe fermare il suo andamento deciso. Indossa dei comuni jeans, una t-shirt larga e il suo plettro preferito legato al collo come ciondolo, un oggetto inestimabile per lei, non se ne separa mai. Neanche lì. Finalmente la sua mano è poggiata sul pomello leggermente arrugginito. Freddo, come aveva immaginato. Nessuno scricchiolio, nessun suono. Ora tutto tace. La porta è aperta. Ciò che vede non le è chiaro. E’ offuscato. Solo ombre e sagome stravaganti e non riesce a definire nulla. Avanza, fa qualche passo per vedere meglio. Finalmente le sembra di distinguere qualcosa: una chitarra. La sua chitarra acustica che ha da quando ha compiuto dodici anni e che non può far a meno di suonare. Ma non c’è solo quella. Lei è completamente circondata da strumenti. Le sembra il paradiso e non riesce a far a meno di pensare che vorrebbe suonarli tutto. Vorrebbe usarli come sfogo, come mezzo per raggiungere la sua “dimensione”, l’unico spazio in cui si sente al sicuro. Anche avendo intravisto una nuova porta dietro la valanga di oggetti, resta incantata da quel luogo. Una forza, però, la catapulta bruscamente nella stanza successiva, facendola cadere. Ha il viso rivolto ancora verso il pavimento, mentre fa leva sulle braccia per alzarsi, prima che possa rendersi conto del posto in cui è finita. Alza lo sguardo e la ciocca di capelli castani le scivola sul volto. I suoi grandi occhi verdi, incorniciati dalle lunghe ciglia, si guardano intorno. Ci sono due file di persone schierate lungo la strada che la separa da quella che le sembra l’uscita della sala immensa. La gente canta, qualcosa di dolce e rilassante. I suoni riecheggiano e rimbalzano sulle pareti. Penelope cammina lentamente tra quelle persone intente a cantare ad occhi chiusi, immerse nelle loro stesse voci, per osservarle meglio. Hanno tutti gli stessi abiti chiari e l’espressione rapita, ma le appaiono come ignare delle loro azioni, come se stessero sognando. Il canto continua, fino a cessare di colpo appena la ragazza giunge a metà strada. Improvvisamente tutti gli occhi sono puntati su di lei, in modo inquietante. Delle urla iniziano a turbare la serenità che inondava la sala. Si piega in due, sembra quasi che le stiano perforando i timpani. Corre via, verso la porta. Questa è più grande delle altre, ed è più pesante, ma dopo diversi sforzi, riesce a sgattaiolare via. E’ fuori, circondata da un’immensa distesa verde, sulla quale è sdraiato qualcuno. Ha un’aria familiare, ma non ha idea di dove lo abbia già visto. E’ un ragazzo che dorme placidamente tra l’erbetta e incrocia le mani dietro la testa. Ha dei ciuffetti di capelli neri che fuoriescono dal cappuccio tirato su, di un’impermeabile, è alto e magro, ma non troppo. Anche i pantaloni sono scuri ed ha delle scarpe eleganti. Penelope pensa che abbia un aspetto davvero diverso dagli altri ragazzi che possono avere all’incirca la sua età, ma non è soltanto questo che inizia a far sorgere in lei mille pensieri e dubbi che le affollano la mente. Stranamente, però, per un motivo che non sa spiegarsi, ritiene che raggiungendolo sarà al


sicuro. Inizia ad avvicinarsi a lui. Ma tra uno sbadiglio e l’altro, il ragazzo inizia a fluttuare sempre più in alto. Vorrebbe raggiungerlo, ma non sa come. Così inizia a saltare, sempre di più e tende le mani verso di lui, che sembra non accorgersi di nulla. Fa un salto maggiore degli altri e lo sfiora. Il ragazzo spalanca gli occhi, dopodiché Penelope cade. Chiude gli occhi come se fosse già pronta all’impatto. Quando li riapre, però, non è più all’aperto, ma semplicemente nel suo letto. Ormai sono mesi in cui non fa altro che sogni strani, in cui compare puntualmente questo ragazzo dall’aria matura e misteriosa. Accade da quando ci fu l’ incidente. Sì, il famoso incidente dell’aereo precipitato che vede come sopravvissuta soltanto Penelope, che stava semplicemente tornando a casa con la famiglia, dopo una vacanza che lei aveva sognato da tempo. Si prendono cura di lei gli zii, adesso, che tentano anche di tenerla lontana dagli “attacchi” dei media, che nonostante siano passati diversi mesi, cercano di capire cosa sia accaduto esattamente durante la catastrofe. Ma come mai continua a sognare una persona completamente sconosciuta, che sente inspiegabilmente vicina, dopo un avvenimento così drammatico? Lei non riesce proprio a comprenderlo e decifrarlo. Ma sente il bisogno di “evadere” da quelle lenzuola, così si prepara il più velocemente possibile ed esce di casa, senza una meta prestabilita. Un’immagine che non fa altro che incuriosirla e farla sentire strana, ma allo stesso tempo sola, è quella dei grandi occhi verdi che il ragazzo “senza nome né storia” aveva spalancato nel suo sogno, non molto tempo prima. E’ così assorta dai suoi pensieri che, camminando, non si rende neanche conto che qualcuno la chiama dall’interno di una macchina: sua zia. Quando se ne accorge, sale anche lei a bordo. Qualche minuto dopo, si fermano al supermercato, ma Penny, così la chiamano i suoi familiari e amici, resta in macchina che ha i finestrini oscurati, dunque per distrarsi e far passare più rapidamente il tempo, decide di alzare il volume della radio e lasciarsi trasportare, non curandosi della gente all’esterno che tanto non può vedere. Tra una nota e l’altra di “Time isrunning out” dei Muse, nota che da non molto lontano qualcuno guarda verso l’auto, immobile come se potesse vederla. Penny resta sconvolta quando si rende conto che gli occhi che la guardano sono esattamente quelli del sogno e ha di fronte a lei quella persona misteriosissima che non si sa come è in grado di vederla. Il ragazzo fa semplicemente qualche passo in avanti e lei si catapulta fuori, in cerca di spiegazioni, quasi infuriata e al tempo stesso spaventata. Alla fine, quando decide di pronunciare qualcosa, la sua voce si spezza, trema e sente il cuore in gola, riesce a chiedere a mala pena se si conoscessero. Il ragazzo, in risposta le sorride. Per un tempo che le sembra infinito e soprattutto infinitamente intenso, lui non fa altro che guardarla e accennarle un sorriso sbilenco, poi dice:”Altro che se ci conosciamo!... Al prossimo sogno.” Senza nessun’ altra spiegazione, senza aggiungere nulla, indietreggia, dopodiché si volta, gira l’angolo e scompare. Alle sue spalle sbuca la zia che regge tre buste davvero grandi e che, notando la faccia davvero perplessa della nipote, non può fare a meno di preoccuparsi. La ragazza sente di impazzire e decide di raccontare tutto alla zia durante il ritorno a casa, che nel tragitto, decide di frenare bruscamente, come spaventata da quelle parole. Scoppia in lacrime ed ha un’aria colpevole, poi decide di raccontarle la verità. L’aereo è precipitato perché lei sarebbe dovuta morire, ma il suo potere l’ha salvata e deve stare assolutamente lontana da quel ragazzo. Penny, chiede maggiori spiegazioni, ma le sono negate, perciò decide di investigare di suo conto. Cercando nello studio dello zio, trova diverse cartelle segrete e scopre che lei e il ragazzo in questione sono l’ultima coppia pura di “anime” che sono destinate a stare insieme e la loro attrazione è talmente forte da riuscire a farli rincontrare anche dopo la morte, in vite differenti, pur conservando lo stesso aspetto. La loro vicinanza ed il loro legame, però, generano una forza distruttiva, sia per loro che per il mondo che li circonda. Una lega dunque, ha il compito di separarli, anche a costo di ucciderli una volta per tutte, come ha tentato di fare con il piano precedente andato male, ossia quello


dell’aereo. I due, dunque, sono destinati a non incontrarsi mai, tranne che nei sogni, pur essendo legati da un amore che supera il tempo, lo spazio e la morte. Da questo momento, iniziano a riaffiorare i ricordi delle vite precedenti in cui sono stati felici insieme, ma anche dell’enorme catastrofe che i loro poteri hanno generato. Il loro desiderio di ricongiungersi sarà così forte da esasperarli, ma continueranno ad incontrarsi nel sonno idealizzando e sperando che un giorno potranno finalmente tornare ad essere una cosa sola e felici come nei secoli precedenti.

Claudia Speciale MI PROTEGGI DA LASSU’ “Perché tutti mi continuano a dire di non piangere? Sicuramente non sanno com'eri in realtà, Alex. Quando passo per il parco e vedo in nostro albero, mi tornano in mente tutte le nostre ore passate lì sotto a coccolarci. Ricordi quando ci siamo andati la prima volta? Eravamo così felici. E ci promettemmo che niente e nessuno avrebbe potuto rompere il nostro amore. E tu, per sottolineare la promessa, incidesti sull'albero le nostre iniziali. Sai, a distanza di un mese da quando tu non ci sei più, io continuo ad andare al parco dalle nove a mezzanotte. E penso a noi, a tutto ciò che abbiamo passato nei nostri quattro anni insieme. Ci siamo sempre giurati che la distanza non sarebbe stato un peso per noi, ma era meglio quando ci divideva lo Stretto di Messina che il cielo. Tra un mese me ne torno in Puglia, nella mia città. Tutto questo lo faccio controvoglia. Non voglio lasciare il nostro albero. L'unico mio ricordo di te. Ormai ho diciotto anni, spero di riuscire a convincere i miei che voglio restare qua. Da quando non ci sei più, per me il paese non è lo stesso. E' tutto cosi monotono qui. La sera, come al solito, ci sono le solite partite dei nostri campioni, ma quando andiamo via dai campetti … niente ha più significato. Eri tu a dare il senso alle mie noiose serate. E' sempre la solita storia, quando muore qualcuno improvvisamente diventa "significativo" per il paese. No! Tu eri significativo per me. Non m'importa se non lo eri per gli altri. L'unica cosa che mi importava era passare le mie ore con te. Oggi, come ogni giorno, sono passata da casa. Tuo papà non va più a lavorare. Tua mamma non sorride più come prima. Tuo fratello piange sempre. Tua sorella, amore mio, si è chiusa in se stessa. Non parla più. A volte mi dice qualcosa, ma con altra gente, al di fuori dei tuoi genitori e tuo fratello, non parla. Manchi a tutti noi. Mi manca la persona speciale che eri. Mi manca vederti girare per il paese con quella stupida bicicletta senza freni di tuo fratello, che "avevi preso in prestito" perché la tua si era rotta. Mi manca vederti con quei bambini che mi irritavano tanto, ma che pur di stare con te sopportavo. Mi manca vederti fumare una sigaretta e guardare insieme il tramonto. Mi manca tutto di te! Avremmo voluto realizzare i nostri programmi. Sposarci, avere due bambini e vivere in una bellissima villa a due piani. Quella villa dietro casa tua. Sai, quella sarà mia. Sappi che la comprerò e la riempirò di nostre foto. Non avrò mai quei due figli che speravamo tanto. Non avrò mai un uomo da sposare e amare. Perché l'unica persona con cui volevo un futuro felice eri tu. So che non mi hai abbandonato, mi proteggi da lassù. Ti amo, tua per sempre, Marta."


Alessandra Miccoli


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