TB Magazine Marzo 2011

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STORIA

CARMINE CROCCO E L’EPOPEA DEI BRIGANTI 150 Anni dall’Unità d’Italia: la storia vista dagli sconfitti. Testi e selezione doto a cura di Roberto Romeo Ai primi raggi del sole nascente luccicavano le armi e le uniformi degli ufficiali; questi erano tutti montati chi su mule, chi su cavalli; avevano la sciarpa azzurra a tracolla, la pistola al fianco e qualcuno il fucile alla spalla. Mentre le colonne avanzavano silenziose, io pensavo a quel comandante piemontese e ai suoi ufficiali che avevano di noi meridionali un concetto così basso, che ci credevano tutti vili e come tali trattavano le popolazioni che davano loro ospitalità. «Vedrete, vedrete cosa sapranno fare questi miei pastorelli», mormoravo tra me e me. «Qui tra noi non troverete il lusso di fucili rigati, ma vecchi archibugi, non sciabole affilate e acuminate, ma scuri taglienti, pistole a pietra focaia, lunghi pugnali, coltelli catalani. Senza il lusso di ricche uniformi, anzi laceri e scoperti, scalzi o con scarpe di tela, cappellaccio alla calabrese, cartucciera alla cintola, noi di pastorelli abbiamo solo le sembianze ma siamo pronti a ricevervi da pari a pari». Carmine Crocco È LA NOTTE DEL 19 LUGLIO 1856. CARMINE È ALLA testa di dieci galeotti, ferrati in coppia, che provano a scampare a quel “luogo immondo”. La luna quasi piena batte sull’ultimo uscio del bagno penale di Brindisi. E li aspetta. Sono stesi sul pavimento, avvolti nelle coperte, assicurati a un’unica catena inchiodata alle pareti del camerone. Con loro topi e insetti che segnano il tempo girando per tratti sui bordi dei buglioli senza coperchio. Usano uno scalpello - lungo un palmo - per sferrarsi, poi scavano nel pavimento fino a calarsi nelle “segrete generali”. Ma da qui il portale è sbarrato da un “bastante catenaccio”. Il forte chiavistello, malgrado le “violenze subite” resiste all’assalto tanto da costringere i malfattori a desistere dall’evasione e riparare nel dormitorio dal quale erano partiti. Il tentativo di fuga costerà a Carmine Crocco, “dei briganti il generale”, un aggravio di pena di diciotto mesi e quarantacinque giorni di “doppia catena”. Ma Carminuccio ha fretta di diventare il generale della rivolta contadina, la leggenda, la speranza e il terrore del Mezzogiorno dell’Italia postunitaria. La condanna a diciannove anni di “ferri in qualità di servo di pena di terzo grado”, pronunciata per l’espiazione dell’assassinio di un tale don Peppino, colpevole di aver svergognato la giovane sorella, non mette pace all’irrequieto pastore di Rionero in Vulture. Che la notte di santa Lucia, il 13 dicembre 1859, prova a ridarsi alla fuga e stavolta il piano gli torna meno accidentato. L’ordine di riempire due otri alla fontana fa subito breccia nell’ultimo confine del Forte di Terra della nostra città e lo rimette sui poderali in cammino verso la macchia. Nulla di rocambolesco. Un salto oltre la cortina di guardia nella promessa di unirsi, un giorno, alle bande brigantesche del sergente Romano e del Laveneziana di Carovigno e assaltare quel maledetto sordido reclusorio. Ma quella libertà non sarà mai ricambiata. La vita di Carmine Crocco sembra ricalcare la versione biografica dell’outlaw, del fuorilegge costretto al delitto dall’ingiustizia e dai soprusi caricati sulle spalle già curve dei contadini del Sud. I boschi di Monticchio diventano

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il suo impero e fino alla repressione del brigantaggio la “rivolta proletaria” mossa da Crocco è la sponda perfetta per i Borbone che dall’esilio romano meditano la controreazione. Ma Crocco non è Garibaldi alla rovescia: il suo esercito straccione, fatto di contadini e di cafoni, a cui la storia assegna da sempre il ruolo di sconfitti, marcia solo all’apparenza dietro le insegne “legittimiste” di Francesco II, l’erede dei Borbone cacciato da Garibaldi che Crocco considerava un nobile idiota. A muovere davvero i briganti è un sogno atavico fatto di terra e di libertà, quel sogno di una terra da togliere ai baroni e dare ai contadini che l’impresa garibaldina aveva tradito. Per la loro repubblica, strappata agli ex regnanti e ora agli invasori piemontesi, avevano immaginato una bandiera bianca con sottili strisce azzurre, come i fiumi che rigano i paesaggi delle terre meridionali. È il 25 aprile 1861. L’Unità Italiana, giornale mazziniano di Milano, riporta in prima pagina una notizia sensazionale proveniente da Sud: giorni prima, a Melfi, si era costituito un “governo provvisorio” per iniziativa di “un tale Crocco, ufficiale borbonico”, il quale “avea assoldato un migliaio di uomini per la concertata reazione” e assalito alcuni comuni del circondario, tra cui il capoluogo Melfi, proclamandovi “il paterno governo di Francesco II di Borbone”. Carmine Crocco, a capo di oltre duemila uomini, conquista le terre attorno al Vulture, il maestoso vulcano spento della Lucania nord-occidentale, ed entra da trionfatore a Melfi la sera del 15 aprile 1861, acclamato dal popolo e dai notabili del posto. La “primavera brigantesca” segna l’inizio di un lungo periodo di sollevazioni popolari contro il nuovo governo in molte province meridionali, una guerra civile che tributa altro sangue, e spalanca le porte al cosiddetto “grande brigantaggio” che sarebbe durato fino al 1865. I briganti, in bande armate organizzate, sono

“Carminuccio ha fretta di diventare il generale della rivolta contadina, la leggenda” ammirati dal popolo che spesso li fiancheggia, li sostiene, procura loro viveri e riparo. Contadini che non hanno niente se non se stessi e un pezzo di pane, e per i quali il brigante diventa sempre più l’unica giustizia possibile, dopo Francesco II. E sopra ogni pagina della storia bandita postunitaria torna sempre un nome: Carmine Crocco, il generale dei briganti che scorrazza con il cappello piumato armato fino ai denti, il solo che può permettersi di entrare in chiesa a cavallo, il primo a sposare la tecnica della guerriglia e contare alla fine 67 omicidi, 20 estorsioni, 15 incendi di case e 1.200.000 lire di danni bellici. Ai soldati catturati i briganti mozzano le teste e le espongono sui tetti dei municipi conquistati con i testicoli in bocca. Non tocca sorte migliore ai briganti caduti nelle mani dell’esercito. Anche Brindisi si fa teatro di scontri cruenti. Il 23 ottobre 1862 la masnada del brigante Valente di Carovigno,

tra i pochi a non essere analfabeta, apre il fuoco sul presidio militare tra le masserie Angelini e Santa Teresa ferendo gravemente a un braccio il carabiniere Giovanni Arissi. Lo stesso giorno la banda sorprende le Guardie Nazionali di Cellino San Marco e di San Pietro Vernotico prima di catturare e uccidere tre militi “perché portanti pizzo all’italiana” e di graziarne un quarto solo per la mancata esplosione dell’arma. Altri nove, sfregiati secondo il costume brigantesco dell’asportazione di un lembo dell’orecchio “per essere così pecore segnate”, vengono risparmiati. Un mese più tardi, a notte avanzata del 21 novembre, una parte della stessa banda prende d’assalto la Guardia Nazionale di Carovigno e ferisce un milite costringendo gli altri alla fuga. I banditi mandano in frantumi lo stemma reale e un quadro di Vittorio Emanuele e requisiscono quattordici fucili. Quindi saccheggiano case fino all’alba al grido di “Viva la religione, viva Francesco II” intimando di esporre i lumi alle finestre, come racconta il cronista dell’epoca del “Cittadino leccese”, con la “compiacenza e l’aiuto della plebaglia, rimasta in piedi tutta la notte per fare gli onori di casa”. Completato il sacco, all’alba i briganti abbandonano il paese e si mettono in cammino verso la Madonna del Belvedere per farvi celebrare una messa di ringraziamento. Ma la Guardia Nazionale di Ostuni li distoglie dal proposito costringendoli a piegare verso San Vito. Giunti alla masseria Badessa, i banditi ingaggiano l’ennesimo scontro con la Guardia Nazionale e i carabinieri, e nel conflitto viene catturato e ucciso il milite Michele Catamerò. Dai primi mesi del 1863 della banda si perdono le tracce. Il 21 dicembre Valente, il brigante che sognava di unirsi alle forze di Carmine Crocco, è catturato nei pressi di Porta Napoli a Lecce e consegnato alla Guardia Nazionale. Alcuni suoi compagni si costituiscono alla giustizia, altri, come Vitantonio Cinieri di Ceglie, cadono nelle mani della forza pubblica. La sentenza, pronunciata nel maggio 1866, condanna diciassette imputati su venticinque, tra cui


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