AINASMAGAZINE Nº7.09/2017

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AÍNAS ISSUE Nº7 . 09/2017 INFO@AINASMAGAZINE.COM Direttore Roberto Cossu Direttore artistico Bianca Laura Petretto Grafica e fotografia Sofía Arango Echeverri Consulente editoriale Roberto Petretto Comunicazione Andrea Castro, Lucía Vaca, Maria Victoria Gómez Fotografie di copertina e capitoli di © Sofía Arango Echeverri Copy 2017, Aínas Nº7 La traduzione, la riproduzione e l’adattamento totale o parziale, effettuati con qualsiasi mezzo, inclusi la fotocopiatura, i microfilm e la memorizzazione elettronica, anche a uso interno o didattico, sono consentiti solo previa autorizzazione dell’Editore. Gli abusi saranno perseguiti a termini di legge.

Is ainas faint is fainas . gli strumenti fanno le opere AÍNAS reg. n° 31/01 Tribunale di Cagliari del 19 09 2001, periodico di informazione bimestrale, cartaceo e telematico Iscrizione n° 372004 al Registro della stampa periodica Regione Sardegna, L.R. 3 luglio 1998, n° 22, art. 21. Editore Bianca Laura Petretto Direttore responsabile Roberto Cossu

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ISSUE Nº7 9 CHAPTER 1 . NEWS 10 l’oro di klimt 14 maria lai, ritorno a venezia 23 CHAPTER 2 . SPECIAL 24 palabras de café bistrot 25 buenos aires 30 robles, l’identità nel labirinto 36 robert rauschenberg: among friends 49 CHAPTER 3 . THE NEW CODE 50 les artisans du manger cosmopolite 58 shocking in blouse 64 l’attimo fuggente 69 CHAPTER 4 . THE INTERVIEW 70 escena de avanzada 77 CHAPTER 5 . CROSSING 78 arcipelago isis 88 ice on fire 97 CHAPTER 6 . PATAATAP 98 outdoor nomads

99 maurizio radici, animali atlantidei 112 giancarlo bozzani, sagome titaniche 121 CHAPTER 6 . SWALLOW 122 la postazione

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EDITORIAL

Per oltre un anno Ainas ha viaggiato on line. Ora comincia il suo cammino anche sulla carta. Sarà trimestrale e avrà lo stesso abito. Raffinato, secondo il vostro giudizio. Una scelta che risponde a quanti, molti, lo hanno sollecitato. E ai nostri sogni, se questa parola vale ancora qualcosa. Sogni semplici e immensi: diffonderci in tutti i modi che le tecnologie consentono. Raggiungere un pubblico che non è mai uguale a se stesso. E recuperare profumi che sembrano già antichi. Nei tempi più critici per l’editoria sulla pagina questa decisione può apparire fin troppo coraggiosa, ma è in linea col senso della rivista: seguire le proprie leggi e non quelle imposte dal mercato, dalla moda, dalle convenienze. E questa è allo stesso tempo l’unica promessa che possiamo fare mentre esce, come primo numero stampato, una selezione di quanto vi abbiamo proposto on line nei primi dodici mesi. Il resto è ciò che abbiamo sempre cercato di garantire: arte, soprattutto contemporanea, nel significato più vasto. Che per noi comprende la letteratura, la musica, la politica, la cucina. E più in generale la società. Il mondo e i suoi fatti, nella città e nel villaggio, dove vivono cento o un milione di persone. Nel nord e nel sud, in Africa come in Canada. In fondo, chi ci segue, e gli altri che (speriamo) ci seguiranno, hanno capito che la rivista è un viaggio incessante, e non solo in senso lato: cerchiamo angoli di mondo. E personaggi che possono avere pesi diversi ma identiche nobiltà. Scoprire più che confermare. Non è un caso che Ainas si ispiri al movimento artistico degli Erranti. Camminare è tutto ciò che vogliamo fare. Aiutati dai preziosi collaboratori internazionali, da una grafica che vuole scegliere luci nuove e diverse, dallo sforzo della fantasia e del rigore. Ci proviamo e non smettiamo di camminare Roberto Cossu –6–


ISSUE Nยบ7



NEW

CHAPTER 1


NEWS

l’oro di klimt – 10 –


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Klimt senza le opere di Klimt. Eppure “una mostra multimediale totalmente immersiva”, annuncia la didascalia. Per dirla col titolo, una “experience” che mescola immagini, suoni, parole scritte. Una costruzione scenografica per occhi e orecchie che fa a meno dell’esposizione. D’altronde sarebbe impossibile, dicono gli organizzatori, rendere conto dell’intera produzione dell’artista austriaco, dunque perché non svelarla in una “rappresentazione”, sia pure inevitabilmente frammentaria, che colpisca i sensi mentre informa? Vero che lo psicologo Robin Williams nel film “Will Hunting” chiede al protagonista se abbia mai sentito il profumo della Cappella Sistina sapendo che Michelangelo lo ha intravisto solo nei libri. Ed è altrettanto vero che lo stesso Gustav Klimt affermava che anche chi guarda l’opera è un artista, intendendo così che uno sguardo diretto bisognerebbe pur darlo. Ma è innegabile che la “Klimt experience”, fino al 7 gennaio del prossimo anno in Italia, al Mudec di Milano, è una porta aperta su un protagonista del primo Novecento, sulla Vienna d’epoca, sulla “guerra” della Secessione cominciata nel 1897, sul progetto di un’estetica che abbracciava il design e l’architettura, la fratellanza di arte e artigianato. L’installazione, se così si vuol chiamare, fa colare sulle quattro pareti e sul pavimento di una grande sala immagini, forme fluide, giochi onirici, geometrie tecnologiche. Mosaici che si ripetono senza soluzione. Il tutto orientato da Beethoven, Wagner, Mozart, tanto per citare qualche autore. Così diventano flusso artistico, o almeno emozionale, il Palazzo della Secessione, il volto di Klimt (che rifiutava gli autoritratti), il significato di una rivolta non contro la tradizione ma a favore di un’arte staccata dall’etica mercantile. Scorrono i nudi, i volti bellissimi e scarni, l’idea dell’immersiva – questa sicuramente - passione dell’artista per l’eterno femminino, il ritratto della sua compagna di sempre Emilie Flöge, il gusto dell’oro e dell’oriente, i passaggi di un’evoluzione complessa e apparentemente contraddittoria. L’esperienza è scandita dal “Fregio di Beethoven”, dal “Bacio”, da “Giuditta I”, dal “Ritratto di Adele Bloch-Bauer”. E sono ancora poche citazioni. Fra i visitatori c’è chi sta seduto e chi si sdraia, la cascata di immagini li investe ovunque e comunque stiano. E la “mostra” in sé appare ingiudicabile: è soltanto una delle tante strade, lastricate dalla tecnologia, per avvicinarsi al meraviglioso gioco della creazione. R. C. – 11 –


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NEWS

maria lai, ritorno a venezia – 14 –


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Venezia è calda e rosa, e rosati sono i muri dell’Arsenale. In una luce pomeridiana, mossa, varchiamo l’accesso al Padiglione dell’Arsenale: è il Padiglione dello spazio comune, il terzo capitolo della 57ma Biennale d’Arte, dal titolo Viva Arte Viva e curata da Christine Macel. Le opere di Maria Lai ci si parano davanti, ci accolgono, ci commuovono con la loro forza e la loro levità. Evocano un’assenza che, a quattro anni dalla morte della grande artista, non cessa di fare male. Maria Lai apre con voce limpida il racconto che la Macel fa della sua opera, nella, seppur necessariamente sintetica, esposizione retrospettiva che la curatrice dedica alla scultrice ogliastrina. Libri, molti libri: di carta e filo, di pane e di stoffa, a condensare un percorso poetico che della parola ha fatto materia. Dal Libro Scalpo del 1980, un tomo di carta cucito da cui sfuggono lunghi fili neri come capelli, inquietante e sommo nella dichiarazione di poetica artistica, all’Enciclopedia (lavoro del 2008), 17 volumi cartacei con copertine di pane segnate da una lettera: osserviamo un compendio del mondo teso a nutrire il pensiero, che del mondo è il primo motore. Maria Lai fu alla Biennale già nel 1978, all’interno di “Materializzazione del linguaggio”, una mostra fondamentale curata da una grande artista italiana, Mirella Bentivoglio. La Bentivoglio, poeta visiva e indagatrice dell’arte delle donne, comprese a fondo la svolta che la Lai andava compiendo alla fine degli anni Settanta. Grande la potenza della scelta dei nuovi materiali e dei nuovi gesti: il ricorso al modellato del pane, al cucito, l’inserto di atti artistici e intellettuali come la grafica e la scultura in contesti prettamente artigianali e femminili, tutto ciò scardinava le gerarchie dell’arte e inseriva la Lai in un percorso inedito e dirompente, foriero di novità che solo oggi misuriamo nel portato intellettuale. Maria Lai chiamava in causa, scientemente ma con soave semplicità, mondi appartati e finanche negletti: le cucine dove le donne esprimevano sé stesse nell’arte bianca, quella del pane, le stanze in penombra dove i pensieri segreti venivano affidati all’ago, i luoghi del rito e della famiglia. Maria Lai è stata un’artista dal forte retroterra antropologico e ben consapevole di questo aspetto: la sua produzione dalla fine degli anni Settanta agli anni Novanta investiga con decisione il campo della cultura materiale e della sua possibile sublimazione in canto poetico per la collettività. Il singolo diviene plurale, l’espressione del poeta – come Maria Lai chiamava gli artisti, anche visuali – unisce le persone – 15 –


NEWS

e individua nuove ipotesi di vita, di riflessione, di scelta. L’arte libera le menti e rivela i cuori, dei singoli e della comunità: etno-antropologia unita alla poesia. Così si spiegano opere singolari, che una critica attenta dovrebbe ancora scandagliare, come i Pupi di pane o i cuori di ferro – come ex-voto colorati – che la Lai aveva esposto a Matera già nel 1977. In tale luce, che riporta Maria Lai ad una funzione sociale pregnante e di grande responsabilità civile ed umana, meglio si inquadra la sua biografia appartata, che la vide in primo luogo – per un’esistenza – ottima insegnante e pedagogamaieuta di artisti, di architetti e di talenti giovanili. La mostra della Biennale poco rende della complessa modernità di un’artista che, volontariamente e con precisa visione politica, scelse di stare fuori dai grandi circuiti commerciali e, operando e riflettendo con lucida intuizione, intese offrire i propri artefatti in primo luogo alla comunità. Infatti, come titola il libro cucito, I poeti lavorano nel buio (1992) Se tutti ormai conoscono la storia ormai mitica di Legarsi alla Montagna (8 settembre 1981), azione d’arte pubblica e relazionale tra le più folli e visionarie, in cui un filo interminabile legò le persone di Ulassai e ne svelò le umane vicende e debolezze, liberandole dai fardelli dell’anima, pochi sanno che Maria Lai ha impiegato molto amore nel confezionare oggetti d’uso dal risvolto altamente artistico. Arte applicata alla vita. Così, in Biennale, splende la tovaglia d’altare del 2004, realizzata per le nozze di un nipote: bianco e rosso, l’amore e la purezza,- ma certo anche il colore delle nozze in Oriente - e pagine cucite, quasi appoggiate con tocco leggero, su un fondo chiaro. È un libro che dovranno scrivere gli sposi, la zia formula i migliori voti e auguri di futura felicità. Maura Picciau – 16 –


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NEWS

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PARTICOLARI DI OPERE DI MARIA LAI

Stazione dell’Arte, Maria Lai - Ulassai Fotografie di © Bianca Laura Petretto – 20 –


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SPECIAL

CHAPTER 2


SPECIAL

palabras de café bistrot – 24 –


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BUENOS AIRES El arte latinoamericano no existe. Al menos tal cual creemos pensarlo. Parece terminante, pero no lo es. Solo estoy pensando – que es una acción – y no un pensamiento que es una “cosa”. Existió mientras la cultura, el arte y la vida eran una sola cosa. Por lo cual, el último arte Latinoamericano existió – por ejemplo – en la época precolombina y se extinguió con ella. Hay artistas latinoamericanos. Solo eso. Hay tanta “arte latinoamericana contemporánea como artistas existan”. Lo que sostengo abarca todo el espectro del arte, en todas sus manifestaciones. Me animo a decir lo mismo del arte europeo actual, o del americano, aún del oriental. Ni el muralismo mexicano, ni el arte callejero, ni los colores o sonidos brasileros o regionales fueron generados por una “cultura”, enraizada en la vida. Obviamente existe arte de artistas, pero niego rotundamente poder hablar de arte en general contemporáneo regional en cualquier lugar del planeta. La estandarización, la atomización, y las modas marcan tendencias que jamás definen nada con personalidad. El arte en general, se ha convertido en producto artístico. Tiene razón Jaques Derrida cuando sostiene que: “ya no hay mundos, solo islas” . Esto no implica que no exista un acervo cultural inercial, el cual aún desperdigado, deja en los márgenes un pedregullo que resiste. Sin perjuicio de lo dicho hasta aquí, quisiera dejar en claro lo que yo considero “arte”; porque dicha concepción subyace a mi opinión. El arte no es la técnica artística, el arte no es la obra solamente. El arte es la mirada anterior. Esta antes de la obra misma. El arte es ver la tridimensionalidad de seres y cosas de un modo iniciático, de una forma inaugural. Por eso, la obra de arte, la única obra de arte es el mismo artista. Su vida. Ser artista no requiere indispensablemente hacer arte, requiere “ver” artísticamente. Y ver artísticamente es vivir artísticamente, hagamos lo que hagamos. Con esa mirada, una flor será única y plena, sin necesidad de pintarla para prestarle atención. El arte es esa mirada infantil, entusiasta y curiosa. – 25 –


SPECIAL

Es ser parte de la flor, sentirnos naturaleza, “verla”. Es por eso que la identidad, vida cotidiana, cultura y arte define mi concepción. Hoy el arte es considerado un oficio, una herramienta, y no lo es, o al menos no lo es exclusivamente. En el marco de esta visión puedo decir que “hay” un “arte latinoamericano contemporáneo”, como mirada azorada que se esfuerza por integrar un inconsciente colectivo que discurre en remolinos cada vez más inconscientes. En épocas pasadas nadie sabía que era artista. Todos lo eran o ninguno. La vida de cada uno era arte y toda la comunidad o región tenía personalidad cultural. No obstante hay manifestaciones artísticas contemporáneas. Personas, no pueblos. Hay almas superiores que irremediablemente deben generar obra artística. Más allá de éxitos o fracasos desde que se levantan hasta la noche ejercen la asombrosa e inevitable pulsión creativa. Quizás, en esa palabra: “creativo” pueda hallarse un indicio de cierto arte colectivo, o perfil común. Hablabamos de esto con un artista argentino más creativo: Pedro Romero Malevini. “El mundo es una inmensa dispersión, llena de información, virtualidad y circunstancias imprevistas, queridas, no queridas, malas o buenas, feas o bellas. Quizás el “creativo contemporáneo”, sea latinoamericano o no, se enfrenta a un desafío inmenso: integrar. Hoy en este mundo moderno integrar es un arte. Tenía razón Ortega y Gasset – afirma – cuando dijo “contenemos multitudes”. Gracias a Dios podemos ser muchos, somos muchos dentro nuestro”. Integrar nuestras multitudes internas más la multiplicidad externa es un arte que nos lleva toda la vida. Y la única obra que ha subsistido durante todas las épocas, siempre es la misma: uno mismo. Hoy la información sustituyó a la cultura. Hay personas inteligentes absolutamente incultas, a lo sumo llena de datos, es decir eruditos. Pero los cultos son una especie en extinción. La creatividad sustituyó al arte. La vida no solo está disociada de la cultura y el arte, sino de la misma realidad. Destinos completos entran en un celular. Somos cada vez más virtuales. Podría haberme explayado en mencionar pintores, escultores, – 26 –


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músicos o escritores contemporáneos. No lo hice porque la lista sería interminable y ociosa. Quise aquí dejar expuesto el fin de la identidad y la regionalidad del arte. También de su contemporaneidad. Hablemos de creatividad, de integración individual de caos internos y externos, de islas con vínculos virtuales, de una sociedad que genera soledades acompañadas de Facebook. Hablemos de sobrevivientes a todo eso. Tal vez ahí…encontremos un artista. Tal vez ahí podamos trazar una línea y vislumbrar una corriente. Pero eso me excede…. Gustavo Alejandro Campos

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MANOS DE GUSTAVO ALEJANDRO CAMPOS Fotografia di © Nestor Massa – 29 –


SPECIAL

robles, l’identità nel labirinto – 30 –


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Il re delle isole di Babilonia riunì i suoi architetti e maghi per costruire <un labirinto involuto e arduo> dove chi entrava si perdeva. Quella costruzione era uno scandalo perché <la confusione e la meraviglia sono operazioni proprie di Dio e non degli uomini>. Borges fruga nel mito e nella cronaca per rintracciare le colonne e i muri, forse diroccati e forse no, dei labirinti. Magari li trova nelle biblioteche, nelle imprese di Ts’ui Pen, stando al “Giardino dei sentieri che si biforcano”. E comunque Borges venne dopo: prima c’era quell’apprensivo animale descritto da Kafka nella “Tana”. E in fondo anche la Muraglia cinese assomiglia al labirinto: dove e quando finisce? E dove va a finire “Il generale nel suo labirinto” di Garcia Marquez? Anche Saramago aveva in mente il labirinto oscuro (ma esistono labirinti chiari?) quando scriveva “Tutti i nomi”. Il labirinto è un mito, forse quello che resiste di più ai millenni. Implica la presenza di un architetto, di cui è la meta suprema e probabilmente irraggiungibile. È la somma perfetta del calcolo e del caos. Per Borges è il simbolo di ciò che la ragione non può afferrare, il che equivale a costruire una imprendibile metafisica. È l’altra realtà, cioè l’immaginazione. È tutto ciò che possiamo costruire, ma non comprendere. E, in fondo, ciò che più ci avvicina a Dio, al peccato originale, alla colpa, alla punizione. Ecco perché ci deve essere sempre un Minotauro, possibilmente feroce. O semplicemente un guardiano, come quello che vigila nei secoli, per ciascuno di noi, davanti alla porta della legge, per stare a un racconto nel “Processo” di Kafka. Il labirinto affascina e inquieta tutto e tutti e, guardando bene, resta davvero irresistibile per la cultura dei Paesi latino-americani. C’è un labirinto, e pure il Minotauro, nella concezione artistica di Alejandro Robles. Che non a caso è un architetto. Cileno. E in qualità di architetto, allargando i suoi confini artistici, costruisce rotte orizzontali e verticali, necessarie a un labirinto comme il faut. Sembra così approdare a una soluzione, tanto semplice quanto plausibile: il labirinto siamo noi, il mondo, la storia, il contemporaneo. Una sua opera guarda lo spettatore in tre piani incrociati: un gruppo di (forse) studenti chini a scrivere, linee precise che indicano la riflessione. Sopra si intuiscono sagome quasi indistinguibili, e nel mezzo un abito appeso, con un marchio o un distintivo. La folla e l’anonimato, la massa e la distinzione. – 31 –


SPECIAL

Ecco dove il racconto dell’umanità torna a soffocarsi nel labirinto: tutto è unico ma profondamente diverso. Cultura, lingua, semiologia, frantumano e dividono, sembrano creare identità ma alla fine generano la massa. Perché la massa è sicura, protettiva ed esclude responsabilità. L’unicità delle persone dovrebbe essere un altro mito, questo profondamente reale, e invece finisce annientato da ciò che lo dovrebbe esaltare. Ma Robles sembra dire che la sconfitta non è sicura, malgrado nel labirinto si affollino i mostri e si moltiplichino le barbarie: possiamo legarci alla vita il filo d’Arianna. Le nostre radici, la memoria, la nostra storia personale e collettiva esistono e hanno senso quando si intrecciano, dal deserto ai ghiacciai. Quando parlano senza abbarbicarsi al terreno d’origine. Quando dialogano. L’esistenza e l’umanità sono ancora valori? Se i termini sono abusati l’urgenza di rispondere rimane. Non è neppure un caso che Alejandro Robles arrivi in Sardegna attraverso il movimento artistico degli Erranti. Così doveva essere. Camminando, e solo camminando, apparentemente senza meta perché la rosa delle mete è infinita, si incontra, si esplora, si conosce, si crea. Camminando, l’artista cileno approderà al B&B Art museo di Collinas il 20 settembre e ci resterà fino al primo ottobre. Per una residenza curata da Bianca Laura Petretto. Non arriverà senza “bagagli”. Si porterà appresso l’Alto patrocinio – 32 –


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SPECIAL

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del governo cileno, disegni e sculture, una buona dose di merito riconosciuto, e il passaparola che guida molti artisti internazionali verso la Sardegna. E mesi di preparazione, videoconferenze, analisi, studi. Secondo lo stile e la prassi del B&B Art museo. Come gli altri, Robles ha in tasca gli appunti e forse non sa quale sarà la stesura finale: lo diranno gli incontri con artisti (in particolare con Ermenegildo Atzori, ugualmente Errante, e forse nascerà un’opera congiunta), una esposizione/ installazione (possibilmente con una performance) nel giardino della Fondazione Sartiglia a Oristano. Lo diranno il luogo, un’isola che attraverso il mare esprime energia. E la sua creatività a confronto, l’esperienza, le tecniche abbondantemente sperimentate: in particolare l’impiego di materiali diversi (scarti di granito nelle cave, alghe marine, prodotti naturali e chimici). E Robles troverà sicuramente terreni ricchi dei fili di Arianna che lo affascinano: i miti, i riti, le tradizioni. Ci sono gemellaggi che spesso sono patacche istituzionali, comunioni superficiali. E ci sono incontri autentici, senza carte e targhe. Nascono per simpatia, per concordanza, per fiuto. Per assonanze. Sono luci nel labirinto.

LABERINTI

“Laberinto impresión 3l”, grafica e scultura, 2017. “Laberinto impresión 2l”, grafica e scultura, 2017. Crediti © Alejandro Robles – 35 –


SPECIAL

robert rauschenberg: among friends

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Ci sono delle opere che ti folgorano. Come una secchiata d’acqua gelata in faccia, come quando incontri qualcuno e bam! ti innamori al primo sguardo o al primo suono… Tipo quando cammini un pomeriggio al MoMA di NY, e stai bene, e sei contento, e ti guardi intorno con curiosità, portandoti sulle spalle il tuo zainetto di ignoranza, perché Socrate lo diceva sempre che ammettere l’ignoranza è una cosa buona… e anche l’unico modo per sconfiggerla. E cammini svagato con la faccia un po’ inebetita dal fuso orario o forse no, è solo felicità... e non te lo aspetti. Non ti aspetti che fra poco verrai folgorato. Che fra poco sarai ancora più felice. Entri in una stanza con le luci basse, le pareti nere, la vedi e la senti. Una vasca di vetro piena di centinaia e centinaia di litri di fango di bentonite che ribolle creando una melodia. Ritmicamente, il fango esplode in bolle più o meno grandi. Borbotta. Tace. E sono rimasta lì a guardare questa vasca piena di fango ribollente come se quello fosse il mio posto. Ad ascoltare la melodia del fango. Rimanendo a distanza, più per reverenziale rispetto che per quel cartello che avvisava “This artwork splatters”. E lì ho capito. Ho capito, più con l’istinto che con la razionalità e il sapere, cosa significa genialità. La genialità di aver creato un’opera d’arte che schizza e sporca. Di fango. L’opera si intitola “Mud Muse” (1968-71) ed è il lavoro di Robert Rauschenberg coadiuvato da un team di ingegneri aerospaziali. Il risultato è un complesso sistema dove sono le bolle e l’impianto sonoro a rendere questa opera così affascinante, preistorica eppure così moderna. Ho capito cosa possa significare veramente annullare i confini fra mondo quotidiano e l’arte, che sembra esattamente essere lo scopo ultimo e la finalità dell’Arte (con la A maiuscola) di Robert Rauschenberg. Fino al 17 Settembre il MoMA di New York ospita la prima retrospettiva del nostro secolo dedicata a Robert Rauschenberg (1925-2008) con 250 opere fra cui perdersi e innamorarsi eventualmente anche della persona che si ha al fianco, ispirati entrambi dall’arte.

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“Paintings relates to both art and life. Neither can be made (I try to act in the gap between the two)”. Ed è proprio lavorando in questa terra apparentemente di nessuno, ma di cui Rauschenberg si appropria e su cui imprime le sue inconfondibili e indelebili impronte, che nascono le straordinarie opere di questo artista che possiamo cercare di etichettare, ma la cui grandezza sta appunto nell’essere sempre un po’ oltre. Il titolo della retrospettiva “Robert Rauschenberg: Among Friends” allarga gli orizzonti, e subito colloca l’artista non come individuo singolo, chiuso nel suo studio a creare, ma fra i suoi amici, con cui creare, da cui prendere ispirazione e da ispirare. La vita di Rauschenberg non è solo permeata di arte, è arte. In un unico fluire dove gli incontri, i viaggi, le esperienze di vita e soprattutto gli oggetti di uso quotidiano contribuiscono a ispirare l’artista e la realizzazione delle sue opere. A partire dalle choccanti tele bianche (una tela Bianca è per definizione choccante: in quanto spazio da riempire, il fatto che la tela Bianca sia resa dal lavoro dell’artista tela Bianca raddoppia lo choc), “White Painting” del 1951, di cui l’autore disse “It is completely irrelevant that I am making them - Today is their creator”. I White Paintings, nella tradizione dei quadri monocromatici, come I “Black Paintings” e i “Red Paintings”, costringono ad andare oltre la pura tela bianca dipinta a rullo e riportano alla sua essenzialità, al bianco di fronte al quale si proiettano le ombre di coloro che guardano il quadro, rendendo essi stessi parte integrante dell’opera, e dando altresì spazio agli Amici di Rauschenberg, co-protagonisti della mostra. Fra questi CY Twomby lavorò con l’artista alla realizzazione di “White Paintings”, mentre successivamente alcuni di essi intervennero ri-dipingendo le tele, come Brice Marden negli anni ’60. Convinto che i confini fra scultura e pittura potessero essere spezzati, Rauschenberg crea i suoi “Combines” che comprendono le opere fra il 1954 e il 1962. Fra di essi, uno dei più fulgidi esempi è senza dubbio la capra imbalsamata e schizzata di pittura e incastrata in un pneumatico, che vi guarda serafica, riportando

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SPECIAL

alla mente recenti spot pubblicitari, ancestrali ricordi pastorali e lo stupore che, ancora una volta, scaturisce dal genio. A titolo di mera curiosità, la capra imbalsamata che costituisce il centro dell’opera fu pagata dall’artista 15 dollari, contro i 35 richiesti, mentre il nome “Monogram” deriva dalla combinazione fra la capra e lo pneumatico che la avvolge, in realtà in cui è infilata la capra, che ricordava all’artista appunto l’intreccio tipico dei monogrammi. Negli anni ’60 Rauschenberg si dedica anche a un’altra delle sue passioni, la danza, creando coreografie di cui talvolta è lui stesso protagonista, collaborando con il Merce Cunningham Studio e lavorando, fra gli altri, con Trisha Brown e il gruppo del Judson Dance Theater. La performance “Pelican” (1963) risale appunto a questo periodo. È invece del 1964 l’opera “Golden Standard”. Durante la tappa a Tokyo della tournée del Merce Cunnigham Dance, l’artista fu invitato alla televisione nazionale giapponese per essere intervistato dal critico Tono Yoshiaki. “Golden Standard” è il frutto di questa intervista. Invece di rispondere alle domande, Rauschenberg nel corso di 4 ore dà vita a quest’opera composita che unisce la tecnica della pittura a materiali di uso comune attaccati al paravento giapponese di cui è stato omaggiato. Rende omaggio a Venezia, dove l’artista era tornato dopo la sua premiazione alla Biennale nel 1964, un’opera che non può non attirare l’attenzione: si tratta prosaicamente di una vasca da bagno piena d’acqua. In realtà è la poeticissima “Sor Aqua (Venetian)” del 1973. Rappresenta ovviamente la città: i materiali, trovati in loco fissano un legame diretto con Venezia, mentre i materiali di recupero collocati come una nuvola o un gigantesco insetto di acciaio sopra la vasca da bagno rievocano il passare del tempo e il deterioramento della città stessa. La capacità dell’artista di esplorare tutti i mezzi espressivi, dalla pittura, alla scultura, ai video, ai primi esperimenti con la stampa serigrafica tanto cara a Warhol, si intreccia con i suoi spostamenti e quindi con i viaggi che compie in tutto il mondo e che si concretizzano nei Rauschenberg Overseas Culture Interchange (ROCI da pronunciare Rocky) perché secondo l’artista “A one-to-one contact through art contains potent and peaceful powers”. Frutto di questi viaggi sono i “Travelogues” (1977), video che mostrano l’artista al lavoro nel suo studio e frammenti di – 42 –


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cultura popolare, secondo lo spirito dei ROCI di incoraggiare la contaminazione fra le culture. Agli albori di Internet, prima di Facebook e di Instagram. La collaborazione con Trisha Brown, una degli amici cui è dedicata la mostra, rappresenta uno dei più importanti scambi della carriera dell’artista. Frutto di questa collaborazione sono le 620 foto che fanno da sfondo a “Glacial Decoy”, mentre è dell’anno precedente “Hiccups” (1978) dove Rauschenberg, utilizzando immagini tratte da riviste e la litografia, ha unito 97 fogli attraverso delle cerniere, così da poter creare un’opera d’arte modulabile e ri-assemblabile in maniera ogni volta differente, in un ipotetico fluire continuo dell’opera d’arte e in una creazione senza fine. Di grande impatto le opere create fra il 1986 e il 1994 con materiali industriali e pezzi di automobili: i “Gluts”, posati sul pavimento o appesi alle pareti come se si fossero appena schiantati. “Mercury Zero Summer Glut” del 1987 è un po’ ventilatore, un po’ aquila, ed è chiuso in una teca perché altrimenti volerebbe via per tornare del suo fortunatissimo proprietario. Il commento di Rauschenberg sui suoi Glut: “It’s a time of glut. Greed is rampant. I’m just exposing it, trying to wake people up. I simply want to present people with their ruins... I think of the Gluts as souvenirs without nostalgia. What they are really meant to do is give people an experience of looking at everything in terms of what its many possibilities might be.” Per la cronaca, questo artista che veramente è riuscito a fare della vita quotidiana un’opera d’arte e a integrare vita comune e arte, ha vinto anche un Grammy Award nel 1983 per la copertina dell’Album “Speaking in Toungues” dei Talking Heads e inizialmente era stato chiamato dal Vaticano per realizzare una statua per commemorare Padre Pio, commissione poi ritirata. Rauschenberg visse e morì a Captiva in Florida, un nome bizzarro (in latino significa Prigioniera) per l’anima di un artista così libero e così straordinariamente moderno. Donatella Muntoni Watch more here: WWW.RAUSCHENBERGFOUNDATION.ORG/ HTTPS: WWW.MOMA.ORG Robert Rauschenberg: Among Friends Fino al 17 Settembre al MoMA-NY – 43 –


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MOMA N.Y.

“Robert Rauschenberg: Among Friends” at the MOMA 2017. ___________________________

THIS ARTWORK SPLATTERS The special warning for the “Mud Muse” 1968 - 71. ___________________________

“TODAY IS THEIR CREATOR”

“White Painting” 1951. ___________________________

RAUSCHENBERG

“Grand Black Tie Sperm Glut” 1986 - 94. Fotografie di © Donatella Muntoni

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THE NEW CODE

CHAPTER 3


THE NEW CODE

les artisans du manger cosmopolite

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De quoi manger est-il le nom ? C’est le week-end, un dimanche après-midi de juillet. Dans la chaleur de l’été parisien, pendant que je roule vers mon lieu du travail, j’écoute France Culture, avec l’espoir de retrouver un peu de fraîcheur intellectuelle, et aussi celui de voyager. La radio est une valeur sûre, je ne suis pas déçue. Bien au contraire. « De quoi manger est-il et sera-t-il le nom ? » est le titre d’une série de huit émissions, proposées par Jacques Attali et Stéphanie Bonvicini, dans le cadre de l’espace intitulé « Le sens des choses ». L’invité du jour est Michel Serres. Au début, j’écoute sans écouter ; puis je suis emportée par ces paroles qui s’animent autour de la bouffe, de ses significations les plus profondes. Avant d’être un philosophe, un épistémologue et un membre de l’Académie française, Michel Serres est un conteur d’histoire hors pair. Il nous embarque dans son savoir, avec sa langue, riche et spontanée, et avec ses histoires qu’on n’imagine pas qu’il puisse avoir vécu. Je suis donc entièrement avec lui ; je prends le chemin le plus long pour aller travailler car, d’un coup, je ne suis plus pressée. Je voyage dans l’acte de manger : Je parcours la distance qui sépare le besoin de se nourrir pour une raison biologique et de survie, de la fonction sociale, étique et politique du repas. Je m’élève quand il évoque la signification sacrée du manger et quand il cite le premier chapitre de la Génèse qui répète maintes fois le verbe « manger »… Manger, manger, manger… et le shabbat des juifs qui convoque la présence divine autour du repas, où l’on mange le pain et le vin ensemble. Manger, manger, manger… Je fais un petit détour, en me demandant qu’est-ce que je vais bien pouvoir me commander à dîner après cette extraordinaire divagation sensorielle ; et puis je m’arrête brusquement, car Michel Serres m’emmène aux États-Unis. J’en reviens des États-Unis, après des longues vacances qui m’ont remplie d’espaces – physiques, mentaux et géographiques - et de cet optimisme un peu naïf certes, mais très ressourçant, dont les Américains connaissent le secret. Je reviens des États-Unis avec quelques poncifs en moins. Nous, les Européens bobos, cultivés et intellos, nous pensons avoir tout compris des Amériques et notamment de la relation que les Américains entretiennent avec la nourriture ; nous attribuons à cette relation une signification très primaire, biologique et – 51 –


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uniquement de survie, plutôt qu’un sens social ou sacré. D’ailleurs, dès que Michel Serres s’attaque à l’Amérique, Jacques Attali est prêt à relancer : « (…) c’est par l’Amérique qui est arrivé la perte du repas comme lien social… ». Et Serres de citer l’Italie et la France, en tant que cultures exemplaires de cette relation privilégiée au manger ; ce plaisir intime et social, que les peuples européens entretiennent, fièrement, avec le repas. Je n’en suis pas surprise, évidemment. Car tout n’est pas faux, dans cette réflexion. Bien au contraire. Ce que je trouve discutable dans tout cela, c’est que l’on oublie facilement la capacité inouïe des Américains de se réinventer tandis que nous, Européens, semblons avoir perdu cette prérogative, ainsi que le sens de nos valeurs culturelles fondamentales ; et ce, malheureusement depuis quelques temps déjà. Et justement, en parlant du repas en tant qu’acte social, voici quelques bons exemples qui nous viennent du continent américain, et auxquels il ne serait pas inutile de s’inspirer, car ils semblent plutôt être à l’avant-garde dans ces questions socio-économicopolitiques, si j’ose dire… Cap donc sur San Francisco, Vancouver et Seattle. Trois villes de l’ouest américain et canadien. Trois villes tournées vers l’Océan Pacifique et qui regardent la mer. Trois villes qui ont su comprendre que l’eno-gastronomie de bon niveau attire aujourd’hui plus que l’art. Dans un monde globalisé, qui a élevé les restaurants au rang de musées, temples de l‘art culinaire et œnologique, et de l’expérience des papilles, ces trois villes ont trouvé une variante au concept du restaurant traditionnel : Voilà à San Francisco le Ferry Bulding, chic et glamour, comme on peut s’attendre dans la plus européenne des villes américaines ; à Vancouver le Granville Island Public Market, easy going et accueillant ; à Seattle le Public Market Center de la Pike Place, chaud, rock et bruyant. Ces trois lieux, qu’on pourrait au premier abord définir tout simplement comme des « marchés publics », proposent, en plus du traditionnel service de vente de produits frais (fruits, légumes, viande, poissons, etc.…), une parade de « kiosques cosmopolites » d’un très haut niveau gastronomique, dans lesquels sont mises en scène les cuisines du monde entier. De gnocchi au pesto faits maison, aux ramen japonais, en passant par les empanadas – 54 –


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argentines, le pad Thaï et le magret de canard ; mais ce n’est pas fini… poissons et fruits de mer accompagnés par les meilleurs vins blancs californiens mais aussi français et italiens ; et puis tout un tas des propositions de petits déjeuners et des desserts qui n’ont rien à envier à Pierre Hermé ou aux glaces italiennes de Grom. Le tout à des prix absolument accessibles, qui ne sont pas au détriment de la qualité. Ces établissements spacieux sont aussi des lieux conviviaux, où l’ambiance bon enfant invite à se détendre autour d’un repas. À l’intérieur ou en terrasse, à emporter chez soi si l’on veut, le « food » prend tout son sens et devient une composante essentielle du quotidien. Un moment de plaisir partagé avec des amis ou avec des inconnus, autour de la même table, le temps d’un repas. Et des cormorans qui regardent l’horizon assis à côté de nous. Ces marchés publics pas comme les autres, se proposent et s’imposent donc comme des lieux démocratiques, avant d’être des références esthétiques, de goût et de vie quotidienne. Centre d’échanges et de rencontres, mais aussi centre d’intérêt social, économique et, forcément, politique, le littoral ainsi aménagé, devient un lieu attractif, non seulement pour les touristes mais aussi pour la population locale. Un lieu qui amplifie le sens du front de mer, en le transformant en une expérience culturelle à part entière. Si les Américains et les Canadiens l’ont fait, pourquoi en Europe nous n’y avons pas encore pensé ? En nous inspirant de ces expériences esthétiques et politiques, nous pourrions aller au-delà de notre rapport à l’acte de manger ; qui est devenu hors mesure et très élitiste à force d’être sublimé. Je pense avec beaucoup de tristesse à tous ces restaurants des grandes métropoles, où l’on cherche à manger des plats de plus en plus raffinés, imaginés par des grands chefs, toujours plus subtils, fins et déroutants. On tente de retrouver du sens et du plaisir dans une nourriture d’exception qui, hélas, n’est pas accessible au plus grand nombre. On a perdu ainsi la simplicité des savoir-faire et avec elle la capacité de s’étonner. Les États-Unis et le Canada montrent que le choix de la qualité est possible et que cela peut se conjuguer avec une idée réelle de démocratie. – 55 –


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Je rêve d’un Market Public Place dans la ville où je suis née, Cagliari, en Sardaigne ; une ville qui est au bord de la mer, avec une très longue plage et un port sublimes. J’imagine le même scénario pour la ville où j’ai choisi de vivre, Paris. Le Canal de l’Ourcq ou le port du Bassin de l’Arsenal feraient très bien l’affaire et viendraient apporter un peu d’air frais dans nos vies urbaines, farcies d’ennui et d’assiettes trop précieuses. Carla Boi

VANCOUVER

Vista dal Grandville Island Public Market. ________________________________________

SEATTLE

Public Market Nuit. Fotografie di © Carla Boi – 56 –


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shocking in blouse

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La pussy bow blouse è tornata. Reinventata dalla maison Gucci per la New York Fashion Week, la camicia con due lembi da annodare in un fiocco attorno al collo ha oltre mezzo secolo di storia alle spalle. Lanciata nel 1950 da Coco Chanel e Ives Saint Laurent (ma il primo modello risale agli anni Trenta) si è trasformata in sinonimo di donna in carriera. Simbolo di emancipazione e di nuovi equilibri tra ruolo produttivo e riproduttivo, la risposta femminile alla cravatta, spiega l’artista Christen Clifford, è “una dichiarazione femminista travestita da accessorio”. In Inghilterra, la maglia dallo stile retrò diventa tra gli anni Settanta e gli Ottanta tratto distintivo di Margaret Thatcher (non proprio una femminista, protestano le fashion blogger da Londra) al punto che Samantha Cameron, moglie dell’allora primo ministro David, ne veste una color champagne in occasione del funerale della lady di ferro, in segno di omaggio. Thatcher indossa una pussy bow blouse al voto per il referendum pro-permanenza in Europa (l’anti-Brexit) del 1975, alla cerimonia in seguito alla vittoria elettorale del 1979, e ancora al congresso del partito del 1982 e all’incontro sulle Falkland con Mitterrand nel 1986. Il giorno della scomparsa della baronessa, l’8 aprile 2013, Vogue pubblica un ricordo fotografico, Margaret Thatcher: A Life in Pictures, che ripercorre per immagini i look thatcheriani dal “power-dressing”, dai tailleur in taffetà giocati sulle infinite sfumature di un blu dal richiamo militare all’apparente frivolezza del fiocco, pensata per ammorbidire un’immagine austera e (di) mostrare una femminilità rassicurante, di stampo quasi vittoriano. Quello che sull’Independent Kashmira Gander ha recentemente definito un paradosso, una contraddizione stridente in termini di stile, svela piuttosto la complessità del personaggio pubblico Thatcher: madre di famiglia e guida della nazione, dura nei toni e nelle rivendicazioni e incrollabile nel rifiuto di separarsi dal filo di perle (regalo del marito Denis) e dalla borsetta rigida Launer (la stessa della regina) immancabile anche nelle sedute parlamentari, al punto che un nuovo verbo, in forma passiva, viene coniato dai suoi avversari: to be handbagged. Le “borsettate”, va da sé, sono metaforiche: un costante richiamo al potere di una donna tra gli uomini, in un partito nel quale la presenza femminile era rimasta pressoché invariata dal dopoguerra. La borsetta come metonimia di una visione del mondo, – 59 –


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come esercizio di resistenza a un universo, quello degli anni Sessanta appena evaporati, costellato dalle rivoluzioni sessuali, dalle leggi contro la censura, a favore della depenalizzazione della pornografia e dell’omosessualità. La Gran Bretagna va incontro agli anni Settanta e alle complicazioni economiche e sociali che ne avrebbero corroso la patina glamour. A better tomorrow, promette il manifesto elettorale Tory del ’70, come ad esorcizzare la disillusione collettiva, la morte dei sogni. Thatcher, appena ricevuto il primo incarico ministeriale nel governo Heath, aspetta sull’uscio il nuovo decennio determinata a riformare la “permissive society”, una società lasciva e irresponsabile, in una nazione di individui disposti al sacrificio (la società non esiste, avrebbe detto poi, esistono solo gli individui). Un decennio di recessione, con la crisi petrolifera che entra nelle case e nelle fabbriche di Londra, Manchester, Bristol, Cardiff con i tagli all’energia elettrica e la settimana corta. Intanto l’Irlanda che incendia, gli scioperi dei minatori repressi come capricci, le tensioni razziali, trasfigurate nel carnevale di Notting Hill, rivolta dionisiaca all’esclusione. Ma nella caduta e nello smarrimento maturano strappi culturali destinati a fare storia. Thatcher, nel suo tempo sospeso, continua a indossare i guanti da sera - una dichiarazione di appartenenza e di intenti - e si ribella ai pantaloni (<Mai, mia cara. Privano una donna della propria autorevolezza>, aveva suggerito all’addetta stampa di William Hagues). Intanto David Bowie, calzoni rosa e camicia floreale, fa la sua prima comparsa in televisione. È il 1970, Space Oddity la canzone, da settimane tra i primi cinque singoli in Gran Bretagna. Due anni dopo sarebbe tornato come Ziggy Stardust, a contagiare due generazioni con il glam-rock, le sue tute aderenti, il trucco e i capelli come esperimenti definitivi e insieme perennemente inconclusi. La minigonna era già la veste conformista di un anticonformismo di maniera e ormai annoiato. Nel 1975 Freddy Mercury, fasciato in una tuta in lycra, stiletti e mascara, getta nell’isteria collettiva il pubblico dell’Hammersmith Odeon di Londra con Bohemian Rhapsody, strizzando l’occhio alla commedia dell’arte italiana (Scaramouche) e all’opera e sprofondando i giornalisti nel buio, quando alle domande sul significato di quel testo ecclettico risponde: sono solo parole a caso, parole che suonano bene. Insieme all’ottimismo, negli anni Settanta, moriva l’allineamento – 60 –


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dell’arte con il potere: ventuno le canzoni direttamente ispirate alla protesta contro Thatcher, il punk anarchico ne fa una bandiera (da bruciare) - si veda alla voce Thatcher on Acid. All’individualismo intransigente della Little England dal patriottismo provinciale, risponde l’ironia dei Not Sensibles (I’m in love with Margaret Thatcher, 1979) mentre dopo un anno di governo gli English Beat ne chiedevano le dimissioni immediate con Stand Down Margaret. Poi Kick out the Tories, dei Newtown Neurotics, The Fletcher Memorial Home dei Pink Floyd, Thacher’s Fortress (The Varukers), Maggie Maggie Maggie, Out Out Out (The Larks) e così fin oltre la morte. Mentre la critica si faceva sempre più feroce (“Come ci si sente a essere la madre di migliaia di morti?” chiedevano i Crass nel 1986) gli inni anti-Thatcher avevano la voce di Morrissey, di Costello e dei Clash e passavano al sabato pomeriggio da Top of the Pops, pilastro identitario per qualunque inglese (gallese, scozzese, irlandese) nato a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Nell’ossessione generazionale per “la strega”, che intossica l’immaginario collettivo, catalizza rabbia e conflitti sociali, divide e dispera, si fa strada l’individualismo che Thatcher invocava, incarnato in una ribellione che non si allinea alle mode ma le crea e le smentisce quotidianamente. Il titolo del libro di Alwyn Turner Crisis, what crisis? riassume l’ambiguità di un’epoca in equilibrio precario tra libertà e liberismo, tra nichilismo e volontà. Un’epoca nella quale la ragazza di Grantham sorride alle telecamere fuori da Westminster fasciata in una pussy bow blouse di un rosa intenso. Chissà se sapeva che David Bowie e Mick Jagger le preferivano arancioni. Dopotutto erano gli anni Settanta, e allora i simboli e le tradizioni si potevano deridere, reinventare e celebrare con irriverenza. Chissà se pensava a Thatcher Melania Trump, al fianco del marito poche settimane fa, il collo infiocchettato di fucsia da Gucci. Gucci che sdoganando le camicie sulle passerelle delle ultime sfilate maschili non ha inventato niente, al limite ha celebrato l’ambiguità e la vitalità drammatica e quasi nietzcheana di un’epoca che ancora fuma sotto le braci spente. Eva Garau

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LA ROSA

Progetto di Gigi Rigamonti – 63 –


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l’attimo fuggente

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Venezia, Torcello, 1953 Il pettine della gondola fende le acque lente del Rio Maggiore, una ragazza sveltisce il passo sul Ponte del Diavolo. Questa è la modesta azione offerta da Torcello, ritratta da Cartier-Bresson nel 1953. L’autore è conosciuto per essere il profeta dell’istante decisivo in fotografia, una formula che lo ha identificato e perseguitato. La nozione è semplice e richiama categorie culturali e filosofiche già presenti nella vita intellettuale occidentale. Il kairos greco e l’Augenblick nietzschiano sono i due estremi cronologici entro cui il valore del momento che fugge è stato esaltato. In un senso più banale, si è sempre magnificata la perizia dell’azione giusta al momento giusto. Le images à la sauvette, catturate da CartierBresson di nascosto e con la rapidità tipica del mezzo, sono il perfetto manifesto per il reportage, insieme alla sua brutale versione f/8 and be there di Weegee. Questa è, però, solo una parte della verità. L’immagine non si esaurisce nel suo contenuto documentario, ma vive una seconda vita, legata alla forma. Allo stesso modo, accanto al tempo tagliuzzato dall’azione se ne dipana un altro, quello aggrovigliato che segue l’esecuzione. Tanto il primo è fulmineo, quanto il secondo si dilata e dispone alla contemplazione. La fotografia è innanzitutto un esercizio interiore. Ogni istante è decisivo, ma è l’individuo che deve allinearsi all’eccezionalità del momento, rispondere al suo richiamo. La registrazione della realtà è solo un pretesto per innescare il trapasso dalla realtà quotidiana alla sua essenza e il medium non potrebbe essere più classico: la composizione. Il fotografo fiuta un equilibrio espressivo, lo evoca senza costruirlo in modo artefatto. La distribuzione dei volumi, la profondità degli schemi prospettici e altre tecniche derivate dalla pittura aiutano il fotografo a bloccare l’occhio dello spettatore e a condurlo secondo una direzione di lettura. A questo punto, però, il compito dell’artista termina e comincia il percorso che deve essere compiuto dallo spettatore. Torcello ne è un ottimo esempio. Il ponte delimita l’azione, mentre la linea dell’imbarcazione sospinge verso l’alto e verso destra lo sguardo, fino a raggiungere la ragazza. A questo punto il peso della fotografia, che aveva avuto origine dal limite sinistro, si sposta del tutto verso destra; eppure non si risolve, lascia sospesi nella frustrazione per l’attesa di un evento che non arriva ancora. È questo il momento del passaggio dallo sguardo alla meditazione, dal momento fugace conservato dal – 65 –


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flusso incessante all’eterno della presenza totale nell’istante. Dopo un’osservazione prolungata l’immagine si asciuga in pura geometria e si capisce il perché del gioco delle figure. La corsa della giovane diventa inquietante, inseguita dalla prua della gondola che segna lo scorrere del tempo sul quadrante del Ponte del Diavolo, tramutato in una meridiana. La ragazza si ritrova nella convergenza di due direttrici: da un lato la forza crescente del tempo dal punto di vista soggettivo dell’osservatore nell’imbarcazione; dall’altro l’allineamento – quasi prodigioso – del disco solare, del campanile della Basilica di Santa Maria Assunta, della prua. Questa seconda linea scandisce la vita nei suoi momenti cristallizzati, oggettivi: il sole della mattina e delle occupazioni mondane, il mezzogiorno delle verità fisse, il tempo soggettivo che trabocca nella cronologia, nella storia. La storia da cui Torcello è uscita secoli addietro, come un detrito dall’alveo del fiume. Ma resta ancora da capire dove si dirige la ragazza e cosa si trova dall’altra parte del ponte. È la corsa solerte dell’affaccendata? È una fuga precipitosa? L’affrettarsi per un incontro? E questo incontro è piacevole? Oppure è col silenzio dell’ora fatale, come sembra suggerire la nudità invernale degli alberi? Non ci è dato saperlo, così come non lo è il nostro stesso futuro. Di sicuro il passo è di chi si approssima trepidante al proprio destino e ci porta in dono un’inquietudine comune. Roberto Medda

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CHAPTER 4 INTERVIEW


INTERVIEW

escena de avanzada – 70 –


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Il nome di Antonio Arévalo, non solamente per gli addetti ai lavori, è sinonimo di passione, impegno, condivisione. Un uomo e un professionista profondamente legato alla sua terra. Nominato nel 2014 Addetto culturale del Cile in Italia, porta avanti da sempre la bandiera della cultura e dell’ingegno del suo Paese con determinazione e con azioni riconosciute e riconoscibili. Una carriera professionale all’insegna della cultura e del dialogo: dalla grande mostra sull’Arte Latinoamericana in Italia alla creazione del primo Padiglione del Cile alla Biennale di Venezia. Poeta, curatore, esperto d’arte, Arévalo è un professionista che ha il dono dell’ascolto e del fare, capace di condividere l’autenticità e di riconoscere l’espressione creativa. Un artista nel suo genere, che prende a cuore il progetto uomo, il progetto dell’opera e del creatore d’arte. Dopo il golpe di Stato di Pinochet a soli sedici anni arriva a Roma e tra la poesia, il teatro, il giornalismo, approda all’arte contemporanea, collabora con l’Istituto Italo Latinoamericano, diventa Commissario e co-curatore alla 53, 55, 56 Biennale d’Arte di Venezia, sino alla nomina agli Affari Culturali, voluta dal Presidente Michelle Bachelet. Considerato uno dei curatori più attivi dell’America latina in Europa, coniuga la sua cifra intellettuale con un grande senso umanitario, sensibile ai valori dell’amicizia, della solidarietà, disponibile nei confronti dei giovani artisti, attivo nella diffusione dell’arte del suo Paese e nella possibilità di creare confronto e dialogo. Il curatore dovrebbe prendersi cura dell’arte e dell’artista ma per lei chi è oggi il curatore, figura discussa che ha avuto una notevole evoluzione di concetto nel secolo scorso e in questo? Può essere un tramite o un autore, come alcuni sostengono? Anzi, è il vero autore? Il regista? E ci sono differenze professionali e di impostazione ideologica per un curatore latinoamericano e uno italiano, europeo? Per me, questo lo dico e lo ridico, è stato fondamentale, per capire il ruolo del curatore, l’aver visto la Biennale di Venezia del 1993, dove, accanto a un’idea propria di arte, Achille Bonito Oliva ci offriva la scena internazionale, una scena artistica che si è protratta nel tempo e che continua a essere ancora oggi la più incisiva. Quella intuizione non la si studia all’Accademia, è frutto di una grande esperienza poetica e relazionale che ammiro. A questo aggiungo – 71 –


INTERVIEW

l’apprezzamento per l’operato di Harald Szeemann, per averci insegnato a essere determinati nel comprendere l’artista che ti trovi davanti. Nella figura del curatore Latinoamericano, e rispondo per me stesso, esiste un senso di responsabilità che fa parte, appunto, dell’essere Latinoamericano e di appartenere ad una realtà dove è il conflitto la regola primaria. Lo stesso succede per l’artista, siamo cresciuti in dittatura e questo ci permettere di riconoscere l’altro con la stessa dignità che destiniamo a noi. Fra tutte le etichette, è proprio quella di arte contemporanea che valorizza la figura del curatore? In questa dinamica il curatore può ritagliarsi un potere che si presta all’equivoco, risultato di un sistema più economico, commerciale, che artistico? Io, in quanto curatore indipendente, perseguo un percorso poetico, che non sta dalla parte del potere, al contrario lo denuncia. Al contempo penso che è compito di ogni operatore che lavora nel campo dell’arte e della contemporaneità capire tutto quello che fa parte del sistema, dallo studio della comunicazione ai finanziamenti, alla produzione. Una prassi obbligata è svelare, corredare, amplificare. Ma devi aggiungere le tue letture, il tuo vissuto, le tue affinità, le tue aspettative. Cosa significa curare una esposizione d’arte contemporanea? E quanto un progetto curatoriale incide nella diffusione di una corrente, di uno stile, di una tendenza, di un’artista o di un’opera e quindi anche della cultura di un Paese? Io lavoro con artisti che provengono da diverse realtà geografiche e sociali. È il loro personale bagaglio, quello che si portano appresso, le loro letture, le loro tradizioni, le loro aspettative, la versatilità nell’uso di risorse impensabili, il mix è l’aspetto che mi piace e si sente, traspare in una mostra. Questo l’obiettivo per poter andare avanti, ma anche lo stimolo per creare, per approfondire e mettere in discussione il proprio “fare” artistico. Si parla di grande vitalità dell’arte contemporanea nei Paesi Latinoamericani e di un impegno, un rigore e di una freschezza – 72 –


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che ad altre latitudini sembrano essersi dissolti. Esiste realmente un fermento espressivo nuovo del contemporaneo nei Paesi Latini? C’è una distanza con gli Usa e con l’Europa? L’America Latina rappresenta un continente che raccoglie in sé un mondo pieno di sfaccettature. Da una parte i poeti, dall’altra i romanzieri, le architetture, la natura intatta e selvaggia; da una parte le metropoli e dall’altra i deserti sconfinati, le cordigliere, gli oceani. Ed è da questo che nasce un movimento artistico che ha portato grande innovazione creativa nel campo dell’arte contemporanea. Al di là del riconoscimento ottenuto dalla critica specializzata, rappresenta un’opportunità per avvicinarsi alla nuova realtà di una regione che ha vissuto profonde trasformazioni sociali, politiche e culturali. Emerge una collezione di fantasmi che riesce a mantenere il consueto carattere di preponderante realismo, anche nelle costruzioni più visionarie e allucinate, che solleva importanti questioni intorno ai concetti di identità, razza, classe, religione, genere e sessualità. Questo slancio nel campo culturale dipende da una stabilità politica impensabile nel secolo scorso? Quale è il ruolo del Cile in questo panorama? Sicuramente ne è frutto, ma è durante il conflitto che nascono i prodotti culturali più interessanti, lo è il Centro America, l’America più a Sud. Sono luoghi dove il conflitto e la solidarietà sono una costante. L’ho visto a San Salvador, in Guatemala (Anibal Lopez e Regina Galindo), in Cile, soprattutto durante la dittatura. La drammatica sospensione di un Paese isolato intellettualmente e le espressioni culturali che, nonostante tutto, hanno saputo affermarsi. La dittatura di Augusto Pinochet operò nel paese una cesura drammatica nell’evoluzione dell’arte e della cultura, di cui ancora oggi si risente. La repressione, il controllo sulle istituzioni culturali e sull’istruzione, la scomparsa o l’esilio di intellettuali, l’impronta ideologico-moralistica ufficiale, la sostituzione dello Stato con l’impresa privata nel patrocinio dell’attività culturale, nell’ambito di un’economia reindirizzata verso il neoliberismo, furono alcuni dei fattori che interruppero violentemente i percorsi della cultura e furono il detonatore per nuovi processi artistici. – 73 –


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Dalla fine degli anni Settanta si raggiunge un livello raffinato diffuso e si afferma un’arte critica completa, un’arte di ricerca che si cimenta con una grande diversità di problemi contestuali, a partire dalla materia prima delle sue contraddizioni, senza ricorrere ai percorsi stereotipati che ancora predominano in America Latina. Ciò avviene ponendo la questione degli artifici della rappresentazione, del dato psicoanalitico, della trasposizione e promiscuità delle immagini, della ridefinizione di significati molteplice e contraddittoria, producendo così nuovi sensi. Come risultato della dittatura di Augusto Pinochet, si ebbe in Cile quello che potremmo chiamare l’arrivo di un’arte postmoderna, postconcettuale, una prassi artistica che è ciò che è in relazione con quella che chiamiamo arte contemporanea, la cosiddetta “Escena de Avanzada” (una definizione della critica che riunisce un gruppo di autori che affrontarono le istituzioni pinochetiste). Questa è l’espressione che la critica Nelly Richard utilizzò per riunire le attività artistiche e critiche che ebbero luogo dalla metà degli anni Settanta. “L’avanzata” è il punto di riferimento ossessivo dell’arte in Cile, un elemento onnipresente dietro ogni cosa, un fantasma domestico. Il lavoro dei diversi artisti e critici che vanno sotto questa definizione rivoluzionò molti aspetti, aprendo la nuova epoca. Arte visuale e sonora, poesia, fotografia, installazioni sono le espressioni artistiche dello spazio di circa quattromila metri quadrati di un centro culturale sorto alla periferia di Santiago che si propone di esporre l’arte fuori dai circuiti convenzionali per stabilire un dialogo con la città e i visitatori attraverso la riflessione e l’immaginazione. Si tratta del Museo di arte contemporanea nato nell’ex aeroporto Cerrillos. È il modo migliore per gettare un ponte, forse non solo artistico, fra il suo Paese e il resto del mondo? Il Cile d’oggi è un Paese non depresso, capace di trasformare una creatività prima occultata e velata in una di estrema libertà. Il Congresso proprio in questi giorni ha approvavano la nascita del Ministero della Cultura, le Arti e il Patrimonio. È recentissima anche la nascita del Centro Nacional de Arte Contemporáneo Cerrillos: la sua missione è di promuovere e stimolare la creazione, la – 74 –


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sperimentazione, la riflessione e la comprensione dell’arte contemporanea cilena, in connessione con la scena latinoamericana, messa a disposizione del pubblico attraverso gli strumenti per la conservazione, la ricerca, l’istruzione e la divulgazione. Ospitato in un edificio del vecchio aeroporto Cerrillos, il Centro è concepito come un laboratorio vivente, una piattaforma aperta e disponibile per incontrare i vicini, i cittadini, artisti, ricercatori, accademici, manager e curatori indipendenti e le altre istituzioni coinvolte nella loro azioni. Lo sviluppo di un Centro di cultura così come gli eventi internazionali sono opportunità molto importanti non solamente per gli artisti e per l’arte ma per i Paesi. Attraverso la Biennale di Venezia e i suoi Padiglioni Nazionali il Cile ha potuto gettare un ponte col mondo, esserci è stato un trampolino di lancio verso il mondo. E sicuramente l’incontro, il dialogo e il confronto alimentano la libertà di pensiero, di azione, di espressione, volano e bene inestimabile per l’arte e per l’umanità. Bianca Laura Petretto – 75 –



CHAPTER 5 CROSSING


CROSSING

arcipelago isis

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Mentre il presidente Obama e il primo ministro Cameron consacrano la “relazione speciale” fra Stati Uniti e Gran Bretagna sull’altare del barbecue, succose salsicce cucinate dai disinvolti ragazzoni per l’establishment dorato dal pomeriggio in giardino, davanti al n°10 di Downing Street un centinaio di manifestanti promette morte agli imperi di Washington e Londra, agita cartelli proclamanti l’imminente nascita di qualcosa chiamata califfato. Uomini barbuti, donne in niqab e bambini fasciati in fronte da versetti coranici distesi in labirinti di segni. È il 25 giugno 2011. In Tunisia, Egitto, Libia e Siria è già esplosa la primavera. I governi si nutrono di oblio storico, sopravvivono nell’entropia del racconto giornalistico, nella sua connaturata frammentazione. Chi racconta è sempre un vagabondo fra gli arcipelaghi di senso. “Come ha detto Osama Bin Laden esiste il campo della verità ed il campo della menzogna, il terrorismo per la vita e il terrorismo contro la vita”, spiegherà una settimana dopo gli strepiti di Downing Street Ahmad, imam e leader della manifestazione. Sulla finestra del modesto ristorante sfila il bazar di Southall, popolosa suburra londinese a mezzora di treno dal centro. I decenni dell’emigrazione post-coloniale hanno trasfuso i musulmani d’Asia e Medio Oriente fra le opache costruzioni di mattoni rossi. In giro non si vede un uomo bianco, né il suo fardello. Fra un boccone di agnello, una manciata di riso e un sorso di pepsi Ahmad ripercorre il paradigma dell’Islam jihadista: odio verso l’egemonia occidentale, i governi arabi corrotti e gli sciiti infedeli. Rifiuto della democrazia liberale incancrenita. Impalamenti e tagli della mano per punire pedofilia e furti. La discriminazione subita dagli anglosassoni cristiani. Lotta armata ovunque le crepe degli stati lo consentano. “Abbiamo 3.000 uomini pronti a prendere il nord del Libano” minaccerà due anni dopo Omar Bakri Fastouq nel suo elegante soggiorno di Tripoli, interrotto nel candore dai vessilli neri sul muro. Il piccolo Osama porta in dono all’ospite una ciotola di baklawa. Per trent’anni, prima d’essere espulso in seguito agli attentati in metropolitana del 2005, Fastouq ha utilizzato Londra come base per il jihadismo freelance: Afghanistan contro russi e americani, Bosnia, Cecenia. Nella capitale britannica è stato membro all’Alto Consiglio Islamico, istituzione nata per mantenere costante il dialogo della comunità musulmana con il governo. Riparato nella natia Tripoli, trascorre la notte in lunghe videoconferenze su Skype, – 79 –


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FRONTE DI KIRKUK Peshmerga dell’Unione Patriottica del Kurdistan, gennaio 2015. ___________________

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Imam di Southall, manifestazione davanti a Downing street, 25 giugno 2011. Fotografie di © Luca Foschi – 81 –


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dove instilla entusiasmo qaedista in migliaia di giovani sparsi per il mondo. Soltanto nel gennaio 2014 le cronache prenderanno a riconoscere al-Nusra, milizia ribellatasi al leader dell’ISI (Stato Islamico in Iraq) al-Baghdadi e dai luoghi dell’anomia siriana impegnata a creare un califfato nel nord sunnita del Libano, incongruamente innestato nel piccolo paese dei cedri dal tardo imperialismo anglo-francese, e da allora trasformato in miserabile periferia. È una piccola apocalisse, Kobane. In una notte di nuvole viola i caccia americani bombardano le truppe dello Stato Islamico che assediano il piccolo centro nel nord della Siria. È il Natale 2014. Conquistarlo significa aderire al confine turco, membrana che già permette al califfato il passaggio di uomini, armi e petrolio. Per i curdi la tragedia ha in grembo la liberazione, respingere l’armata nera può essere il principio di uno stato finalmente autonomo. Giungono in aiuto i fratelli iracheni e turchi dell’UPK e del PKK, mentre i carrarmati di Erdogan immobili aspettano il collasso. Comunisti, anarchici e libertari globali convergono su Suruc, la città turca di confine da cui si può partecipare all’epica della resistenza. Alcuni si arruolano nella milizia per combattere fra i cunicoli di cemento. Altri assistono nel fango gelato dei campi migliaia di profughi fuggiti dall’avanzata califfale. A notte si raccolgono intorno ai falò per cantare musiche di vittoria, pescano maccheroni freddi dalle immense marmitte ed esultano quando un F-16 in picchiata accende palle di fuoco fra le rovine dell’assedio. Sei mesi prima Twitter registrava l’immagine di due ruspe nell’atto di abbattere una massicciata di sabbia. È il confine fra Iraq e Siria e la pubblicazione è riassunta dal contrassegno “Sykes-Picot is over”. Lo Stato Islamico ora è di Iraq e Siria, dilaga nel deserto grazie alla debolezza militare di Assad e alla vergognosa diserzione dell’esercito iracheno, fallito come il tentativo americano di rendere la Mesopotamia uno stato-nazione democratico ed efficiente. Mosul ospita la prima e sola epifania del sedicente califfo al-Baghdadi, le milizie si spingono fino a pochi chilometri dalla capitale. In un territorio vasto come la Gran Bretagna fioriscono gli effimeri istituti para-statali, i foreign fighters migrano dal mondo arabo e dalle periferie delle metropoli europee per partecipare alla rinascita. Lo Stato Islamico è diventato un brand che ha conquistato i “dannati della terra” nel Maghreb, in Nigeria, nelle Filippine, – 82 –


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in Afghanistan, fra le ultime case nella costellazione dei campi palestinesi. I curdi iracheni hanno arrestato la marea jihadista a Kirkuk, a pochi chilometri dai pozzi di petrolio che cento anni prima Churchill sottrasse alla Francia per sostituire il carbone nella flotta imperiale. La disinvoltura imperialista è nello sgorbio perpendicolare della Giordania, disegnata su un tovagliolo dal ministro delle colonie britannico, e secondo il mito deformata da uno starnuto. I peshmerga controllano oltre mille chilometri di massicciate e trincee, dall’Iran alla Siria, trascorrono le tiepide mattine e le gelide notti di gennaio chini su una feritoia, il mirino del kalashnikov sulla terra di nessuno, dove un asino annusa le pozze d’acqua fetida e si solleva in ascolto, come un simbolo inesplicabile. Oltre un canneto, il solito vessillo che fiotta al vento e le gobbe nere che emergono e svaniscono lungo i camminamenti. Le pallottole fischiano rare, e gli ufficiali curdi trovano riparo dietro un bastione di sabbia, stendono i tappeti e pregano nella distesa d’erba umida. Il pomeriggio declina e da porpora diventa metallo sul cerchio di uomini che pinzano con il pane azimo brandelli di capra cotta nel succo di limone, pomodori e cipolle buttate giù dal tè alla menta. Arrotolano i calzoni mimetici e scoppiano in risate sulle tibie maciullate in una delle tante guerre. Un lustro di rivoluzione è il silenzio in Tunisia, nelle stanze vuote del Bardo e lungo le spiagge desolate di Sousse. Nella piscina del Marhaba hotel, un anno prima teatro della mattanza terroristica, galleggia avvolta dal niqab una sposa saudita. Il giovane marito segue con attenzione la medusa di stoffa e un motivetto di Sinatra si aggira per il giardino alla ricerca d’allegria estiva. Trenta ospiti sperduti nella gloria di marmi e palmizi, inglesi e tedeschi bruciati come aragoste sorseggiano gin-tonic e ballano a sera il twist nella sala vuota, quando Settembre si strozza in un temporale e il Mediterraneo schiuma in linee sottili, civiltà e cimitero comune. Boughiba fondò la Tunisia post-coloniale sul dominio di una piccola élite. Turismo sulle coste e oblio industriale e agricolo, le periferie nude al confine con Algeria e Libia abbandonate al traffico illecito e ai moderni feudatari locali. Il paese ha offerto allo Stato Islamico il numero più importante di combattenti stranieri, almeno 6.000. Sulla strada che porta a Ben Gardane campi e ulivi si diradano fino dissolversi in sabbia. Uomini vizzi nel sole vendono la benzina libica in file di bidoni colorati. Nei luridi hotel – 83 –


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della cittadina di frontiera i giovani aspettano d’essere tradotti in Libia come liquori e sigarette. Guadagneranno due volte il denaro pagato a un gendarme, saranno fanciulli armati da un senso di potere che non si poteva immaginare nelle ore interminabili spese a bere caffè o giocare a backgammon nella via principale dei paeselli sperduti. Oggi Mosul è liberata e Raqqa, la capitale jihadista in Siria, si trova sotto assedio. Da Kobane e Kirkuk curdi, siriani e iracheni hanno cominciato la riconquista, benedetta dai caccia occidentali e russi, dal sangue versato per l’autonomia o la sopravvivenza delle nazioni inventate. Il califfato implode piano e manda schegge di terrore in Europa. Tutto finisce e tutto comincia ancora sotto nuova forma, mentre un hamburger sfrigola sulla griglia. Luca Foschi

RAGAZZO ARMATO

Quartiere sunnita di Bab al-Tabbaneh, Tripoli (Libano), agosto 2013. Fotografia di © Luca Foschi – 84 –


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JIHAD WILL CONTINUE...

Manifestante davanti a Downing street, 25 giugno 2011. Fotografia di © Luca Foschi – 87 –


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Si racconta in Islanda che una volta Adamo ed Eva mostrarono a Dio i loro figli. Non tutti, però. Eva nascose, perché si vergognava, quelli che non aveva finito di lavare. Dio disse: “Ciò che deve essere nascosto a me resterà nascosto anche agli uomini”. Questi bambini divennero dunque invisibili agli uomini ed abitarono nei boschi e nelle alture, nelle colline e nelle pietre. Ci sono ancora. Gli islandesi li sentono, anche quando ne parlano con un sorriso. Li sentono pure i visitatori se hanno orecchie grandi come quelle dei trolls, gli eredi dei giganti, e magari abbandonano per un istante le guide turistiche. Vivono nei campi, nelle colline, nei monti, nei ghiacciai. Ruzzolano nelle nuvole di pioggia create dai ruscelli rombanti, dormono sotto distese di erba lanosa, vegliano accanto alle fattorie colorate che punteggiano le falde delle montagne. Animano gli uccelli che attraversano temerariamente a stormi le strade sconnesse o stridono lungo le scogliere. E più senti gli elfi e meno vedi gli abitanti. Se ti avvicini intuisci qualche sagoma nelle finestre strette. Ma l’assenza umana è una presenza dominante, benché gli uomini siano i figli di Eva mostrati a Dio, e non solo perché in tutta l’isola ci sono meno residenti di una piccola città europea. Del resto siamo a Thule, il luogo rivelato da Antonio Diogene e Claudio Tolomeo. L’ultima Thule di Virgilio. L’estremo di ghiaccio e fuoco. La terra di una sterminata teoria di storie raccolte da Jón Árnason. La lussureggiante mitologia è anche il tessuto invitante delle stesse guide turistiche. Per ogni luogo una fiaba, nomi che ricordano “Il Signore degli anelli”, ferocie e imprese, amori spericolati e capricci dei trolls. Se si entra nella storia, superfluo ricordare che qui vennero i vichinghi, e qualche traccia si trova ancora. Resta soprattutto e, credeteci, non è poco, la Lögberg, dove prima dell’anno Mille, in uno straordinario anfiteatro naturale di roccia, si radunava l’Alpingi, il primo parlamento democratico del Nord Europa. E poi c’è la mitologia più recente, che si mescola proprio alla cronaca: a Gullfoss cade con un doppio salto di 32 metri la “cascata d’oro”. Poiché tutto il mondo è paese negli anni Venti un gruppo di investitori stranieri ottenne dal governo il permesso di sbarrare il fiume per ottenere energia idroelettrica: Sigridur, la figlia del proprietario del terreno che si era opposto alla vendita, si recò a piedi nudi fino a Reykjavìk per minacciare di gettarsi nella cascata se lo scellerato progetto fosse andato avanti. Gli investitori – 89 –


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rinunciarono, il contratto venne stracciato e Sigridur divenne la prima grande eroina ecologista del paese. Così decreta una targa. In Islanda la natura è arte e si può essere artisti senza dipingere o scolpire. Thule è la fine del mondo e viaggiare alla fine del mondo è un sogno. Non c’è bisogno di spingersi fino all’isola di Grimsey - tanti lo fanno - per appuntarsi al petto l’etichetta “Sono stato al circolo polare artico”. Ogni sguardo dai fiordi settentrionali è una freccia verso l’infinito. Quando si esce dal “circolo d’oro”, affollatissimo di turisti, dal bagno nella Laguna blu, dalle esplosioni d’acqua calda di Geyser, dai crocevia “irrinunciabili” insomma, si entra nella dimensione dei villaggi e dei piccoli porti sonnolenti (o pacifici, per dirla in altro modo). È il momento delle inarrivabili proporzioni di fragore e silenzio. Della “cascata degli dei” di Godafoss e degli immensi territori desertici, dove i rilievi assumono sfumature di nero e verde, marrone e grigio, crema e cioccolato. Attraverso la regione del Mývatn e oltre, l’Islanda si mostra per ciò che è: terra di lava e ghiaccio. Di soffice muschio, sabbia nera ed erba di cotone. Di pecore e cavalli. Terra che fuma, che trema. Che odora di verde e di zolfo. Se l’acqua, sudore costante della terra, non fa rumore, è sempre il silenzio ad accompagnare chi viaggia a piedi – il modo migliore probabilmente - o in autostop, chi sfacchina in bicicletta, chi sfida in auto le strade bucate che escono dal ring della numero 1. Non è il senso di solitudine, in qualche modo grasso e solidale, che trovi nelle pianure del Midwest americano, è il senso della natura maestosa nata dai vulcani, fissata nella lava. La dimensione che cancella la sfera metropolitana, anche ammesso che Reykjavìk e Akureyri siano (e non lo sono) metropoli. Ed è ancora il luogo dei crateri fumanti, delle formazioni di lava e dei basalti che creano vere città, imperturbabili e come abbandonate dal piede umano: il regno delle saghe. Dove le rocce sembrano cattedrali, musi di cinghiale e di leoni, oppure becchi delle pulcinelle di mare o i corpi di balene spiaggiate. Dove la cascata di Dettifoss detta le regole più sconvolgenti della natura. E poi ci sono i ghiacciai. È il punto in cui non si può non essere – 94 –


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turisti, in cui la cartolina ha la sua ragion d’essere: nelle lagune di Jökulsárlón e in quella di Fjallsárlón navigano i frammenti di ghiaccio. Sono destinati all’oceano ed è incredibile il gioco di forme che assumono sciogliendosi e avvicinandosi al limite del mare. Trionfano il bianco e l’azzurro, striati talvolta del colore della terra. Un panorama di figure luminose in un silenzio rotto appena da pezzi di ghiaccio che si schiantano sull’acqua. Il sole, quando c’è, è un mago che orchestra i riflessi. Non è sempre così: chi arriva qui d’estate forse non immagina cosa sia l’inverno, a parte le stazioni sciistiche. Nel romanzo “L’eccezione” la scrittrice islandese Audur Ava Ólafsdóttir fa dire a un suo personaggio: “Non sopporto il freddo e il buio, si passa la vita ad aspettare che questa terra gelata rifiorisca, che si riempia di odori e di lombrichi. Io non sono mai stata una fan di penne, piume e uccelli, ma qui come si fa a non desiderare di essere un migratore che se ne vola via dall’isola in autunno e ci ritorna in primavera?”. Quando le giornate non conoscono la notte e mezzanotte è un pomeriggio. In estate si capisce così perché questo sia il paese trendy del turismo e quanto sia necessario attrezzarsi per non distruggerlo. A Mývatn sono i battaglioni di moscerini ad apparire come i difensori del sublime: ti avvolgono e ti respingono. La bellezza diventa una conquista a caro prezzo. Come d’altra parte un semplice caffè in una zona più sperduta delle altre e raggiungibile solo con una 4 per 4: se il costo sfiora i sei euro, e se una “Napoli” nelle pizzerie di Reykjavìk estorce stabilmente 25 euro, è il caso di riconsiderare tutte le gerarchie economiche. Ma questa è un’altra storia. “È l’Islanda”, dicono spesso gli islandesi. Assertivi come sono invece incerti quando chiedi notizie dell’aurora boreale. Sfuggente, casuale e capricciosa. Un invito a tornare e aspettare. R. C.

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CHAPTER 4

© gigirigamonti


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MAURIZIO RADICI, ANIMALI ATLANTIDEI La sensazione che si prova osservando le immagini di Maurizio Radici è qualcosa legato al sentimento della sconfinatezza. Segna un confine attraverso la linea e al contempo la elimina con la materia pittorica. Disegna forme e figure che provengono da mondi “altri” ma concreti, visibili. La serie delle opere “Animali Atlantidei” che ha prodotto negli ultimi dieci anni rimandano a quel realismo magico di cui riecheggiano i versi del maestro Gabriel García Márquez che seduce mescolando la fantasia con la crudeltà. Cento anni di solitudine hanno accompagnato idealmente il mondo creativo di Radici, popolato da segni puri e silenziosi, senza divisioni e fraintendimenti. La sua firma collocata al contrario nella tela, per lui, significa il mondo parallelo dove l’artista vive costantemente con l’arte. “Non si tratta di un mondo immaginario - afferma - ma di una realtà determinata dal corpo, dal gesto, dall’atto. Sono un costruttore di mappe e conosco la strada che devo percorrere per non perdermi, per scegliere la bellezza che è nel mondo, non in un luogo ideale. Creo scenari apocalittici o figure sospese in luoghi indefiniti perché l’artista dipinge quello che non si vede, lo rivela.” Dipingere è, in una certa maniera, liberare le scorie che l’uomo porta con sé. Il segno realizzato con la china anela alla non pittura. Non persegue un obiettivo, si rende riconoscibile, lascia traccia. Nell’arte giapponese dell’ukiyo-e l’incedere della morte, la precarietà quotidiana, l’esistenza che muta, sollecitano il gusto per il piacere e il bello che in Radici si manifestano in modo raffinato e passionale attraverso l’antico uso del pennello, della grafica e del colore incisivo. Molti i riferimenti ai maestri reali e ideali: cromatismi e forme che guardano a El Greco e umanità sgretolate o allungate alla Giacometti, e ancora visioni di campiture squarciate, violate, che si richiamano a Vedova e Bacon. Rimane il costante esercizio per trasformare la materia, rimane la vitale necessità di conoscere i segni, per Maurizio Radici rimane l’arte, strumento che aiuta l’uomo a comprendere la propria sacralità. Bianca Laura Petretto – 99 –


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ANIMALI ATLANTIDEI

Oleo e china su carta e tela Fotografie di © Francesca Cesari

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GIANCARLO BOZZANI, SAGOME TITANICHE La figura elegante dai modi gentili di Giancarlo Bozzani stride con la sua produzione pittorica fatta di forme sgretolate e oscure. Se Francis Bacon, Jackson Pollock e Jean-Michel Basquiat usano la drammaticità, la disperazione, il tratto crudo e violento come elementi che tracciano aneddoti e leggende, in Bozzani, fortemente ispirato da questi maestri, la storia, la mitologia, la letteratura, presenti nei suoi cicli, parlano di scandali nei monasteri, di inquisizione, di vendita di indulgenze, di vocazioni obbligate, di culture corrotte. Sono i segni degenerati di popoli negletti che escono dagli squarci di un borgo medioevale come da una qualunque strada di una metropoli. L’artista milanese nutre un fascino ombroso per il maestro della Nuova Figurazione inglese che aveva l’ambizione di indagare l’uomo contemporaneo in un clima lacerato dalla seconda guerra mondiale e dal dopoguerra. Bozzani prelude ad una nuova profezia che impone il terrore di una guerra imminente, e attraverso i suoi dipinti apocalittici e devastati, racconta le miserie e le violenze umane, tra croci e rumorose accuse anticlericali che fanno eco a Bacon sui temi della crocifissione e le manipolazioni dei ritratti di Innocenzo X di Velazquez. Curioso che Bozzani come Bacon provenga dal design e sia approdato attraverso l’astrazione, fortemente riferita all’Action Painting, allo smembramento della figura per restituire una nuova immagine spinta all’estremo, quasi a volerne dichiarare la caduta spirituale, la pochezza morale. La sua tecnica pittorica si fonda sull’atto istintuale creativo e sulla casualità. Cola il colore sulla tela e lascia che si formino macchie, forme, figure che pian piano prendono sembianze dal fondo nero. Emergono, si manifestano cavalieri decomposti, cavalli imperiosi e imbizzarriti, tutto ha un ritmo, un suono che nessuno può sentire. Sono visioni, narrazioni, vestigia arcaiche ma sono anche esseri vivi che emergono dal fondo, hanno atmosfere fiamminghe, regalità luciferine, deformazioni proiettate delle nostre paure. Sicuramente Bozzani non è rimasto insensibile al fascino del sublime negativo di Bacon. Miasmi apocalittici da cui esplodono figure oniriche e ataviche tracciano pennellate ricercate che denunciano sconfinamenti, oltrepassano la regola, la morale, l’umano. L’artista dipinge per esorcizzare la trasformazione, – 112 –


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per tenere distante la morte, raccontandola. Distrugge il corpo morfologicamente e restituisce la parte espressiva ad una nuova realtà. Gode nel destrutturare la carne, la forma umana, per trovare un volto che prende un’altra sembianza. Opere veloci, pensate e create in un tempo breve per intervenire nell’ultimo secondo a coprire, riempire, nascondere, cancellare per poi far rinascere un essere diverso. Le figure titaniche di Giancarlo Bozzani sono paure e solitudini, sorrisi dimenticati e passioni abbandonate, occhi che guardano oltre o lontano, dietro la memoria, vicino alla pazzia. Per loro non c’è tempo, la pittura è l’esprit per fermare l’attimo creativo e poi inesorabilmente avviene la trasformazione. Rimane il ricordo e la modernità del gesto di una struggente umanità, rimane la realtà dell’atto. Bianca Laura Petretto

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DIABOLUS NOVIS

olio, acrilico e bitume su tela 70 x 50 cm, 2015. __________________________________

LA TEMPESTA DELLE ANIME BIANCHE olio, acrilico e bitume su tela 70 x 100 cm, 2015. __________________________________

NULLA SI CREA, NULLA SI DISTRUGGE olio, acrilico e bitume su tela 120 x 80 cm, 2015. __________________________________

NARCISO

olio, acrilico e bitume su tela 60 x 50 cm, 2015.

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CHAPTER 6


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la postazione

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Quando fumavo, la gente mi diceva che fumavo per noia. Per riempire quei segmenti di tempo troppo brevi da sfruttare, che in cucina hanno un unico nome: tieni in ordine la postazione. Se non sai che cosa fare, se è tardi per cominciare qualcosa, se attendi che l’acqua bolla, che la pasta cuocia, che la carne rosoli, che l’olio sfrigoli, che la pasticcera si raffreddi, il forno si scaldi, tieni in ordine la tua postazione. Il discorso ti tedia? Dovrebbe: la noia è una tensione provocata dal troppo poco, da quel mentre che non basta a posare il passo ben disteso, ad allungare la mano fino in fondo, a chiudere un pensiero che rimane lì, sospeso come un accordo di settima. Perché, lo sai, se solo avessi quel secondo in più, quell’attimo che non ti ritrovi attorno, allora chissà che compiresti! Invece, hai solo il tempo di riordinare la tua postazione. Procurati uno straccio. Non lo userai subito, ma ti porrai un obiettivo: lucidare l’acciaio a cose fatte, affinché brilli come nuovo, come se tutto potesse cominciare da capo. È una gran cosa, credimi, perché ora sai per certo che, alla fine di ogni azione mirata, il tuo mondo si riavvierà: qualcosa sparirà, qualcosa tornerà al suo posto, alcuni spazi ignoti si trasformeranno in certezze e il menù della tua carta potrà rinnovarsi senza timore. Ma compiamo un passo alla volta. Guardiamola un attimo, la tua postazione, questo disordinato banco d’acciaio dove lavori. Solleva e sposta tutto ciò che impedisce un gesto deciso di pulizia. Parti da quello che dovrai lavare per forza. In questa categoria rientrano le posate, i mestoli, le stoviglie in genere. Eliminale dal ripiano, riponile da un’altra parte, poiché richiederanno interventi diversi. Per ora non ti riguardano. I contenitori sono invece un mondo a parte, da recuperare immediatamente prima che l’inquinamento lo destabilizzi. Ci sono quelli scoperchiati: rintraccia i coperchi, ripuliscili con lo straccio, tappali. Ci sono quelli inquinati da liquidi o da polveri: sollevali dal bancone senza gocciolare attorno, nettali con lo straccio inumidito e collocali temporaneamente altrove. Non scordartene. E non invadere la realtà altrui. Adesso ti dedicherai al ripiano vero e proprio. Per prima cosa eliminerai i solidi. In questa categoria rientrano le briciole, le polveri, le scaglie, le scorze, le bucce esauste degli agrumi, i capelli, – 123 –


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i peli, gli scarti animali. Il tuo compito sarà rimuoverli senza che s’impastino ai liquidi, per evitare pantani e fanghiglie. Raggiungerai lo scopo se userai bene la carta da cucina. Prima trascinerai le briciole verso i bordi del piano e le raccoglierai con una paletta. Poi bagnerai un lembo della carta per catturare il pulviscolo più sottile con l’umidità. Non compiere ampi gesti o finirai per incoraggiarlo a sconfinare. Ciò che non recuperi, consideralo perso. Ti complicherà in seguito la vita, ma non dovrà scoraggiarti. Non riuscirai a fare tutto, rassegnati: una parte di fallimento ti seguirà sempre. Il secondo passo sarà affrontare i fluidi. Comincia a tamponare sommariamente i liquidi, partendo da quelli meno densi come l’acqua e il vino, facili da domare con la pazienza poiché hanno confini definiti e mancano d’ambizione. In seguito agirai di fino, ma per ora eliminare il grosso è più che sufficiente. Subito dopo ti occuperai di densità più complesse, che tendono a espandersi nello spazio, a conquistarlo a ogni sollecitazione. L’olio, che ti parrà irrisolvibile. Le salse e le creme, che si spanderanno in ogni interstizio. Se il caso ha voluto che i liquidi si mescolassero contro natura, muoviti con cautela, per non urtare equilibri precari. Tampona sempre prima le consistenze più fluide, poi passa all’untume e al colloso. Per quest’ultima categoria dovrai inumidire lo straccio e insistere bene, ma senza sfiancarti. Sei quasi alla fine, non arrenderti adesso. Prendi un secchio d’acqua, un po’ di detersivo e detergi l’acciaio con una spugna. Risciacqua. Asciuga bene con lo straccio. Ecco, hai raggiunto l’obiettivo: la tua realtà è tornata all’inizio, sei pronto per ripartire. Recupera i contenitori e sistemali. Poni quelli che userai di più (il sale, le spezie) nella sezione aurea del banco, se usi la destra. Se sei mancino, staranno specularmente in basso a sinistra. Accumula le posate in un contenitore d’acciaio: solo forchette e cucchiai, nessun coltello. Anche perché ne avrai uno solo, davanti ai tuoi occhi, vicino al tagliere appoggiato su uno straccio inumidito, affinché non scivoli sull’acciaio. Hai messo a posto la tua postazione. Ora puoi ripartire quando vuoi. Giorgio Giorgetti – 124 –


© sofiaarangoe

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