AINAS Nº5_03.2019

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aínas Nº5 . 03/2019


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AINAS MAGAZINE

Aujourd’hui l’espace est splendide! Sans mors, sans éperons, sans bride, Partons à cheval sur le vin Pour un ciel féerique et divin! (Charles Baudelaire) Oggi lo spazio è splendido! Senza morso, né briglie né speroni, Voliamo a cavallo del vino Nel cielo magico e divino! (Tr. Giovanni Bernuzzi)

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Secondo anno AÍNAS Nº5 . 03/2018 WWW.AINASMAGAZINE.COM INFO@AINASMAGAZINE.COM Direttore Roberto Cossu Condirettore Giorgio Giorgetti Direttore artistico Bianca Laura Petretto Grafica e layout Sofía Arango Echeverri In copertina la fotografia dell’opera è di Henry Bismuth: Spotted!, 2017-2018. Mixed media e olio su tela, 121,9 x 152,4 cm. Le opere delle sezioni sono di Maria Lai: Museo a cielo aperto Maria Lai, Ulassai. Particolari di Pastorello Mattiniero. Fotografie di Bianca Laura Petretto La poesia di Charles Baudelaire è tratta da: Giovanni Bernuzzi, Tramontata è la luna. Traduzioni poetiche da Saffo al Novecento, Happy Hour Edizioni © Aínas 2019 La traduzione, la riproduzione e l’adattamento totale o parziale, effettuati con qualsiasi mezzo, inclusi la fotocopiatura, i microfilm e la memorizzazione elettronica, anche a uso interno o didattico, sono consentiti solo previa autorizzazione dell’editore. Gli abusi saranno perseguiti a termini di legge. is aínas faint is fainas . gli strumenti fanno le opere Secondo anno AÍNAS nº5 © 03/2019, reg. n° 31/01 Tribunale di Cagliari del 19 09 2001, periodico di informazione trimestrale, cartaceo e telematico. Iscrizione n° 372004 al Registro della stampa periodica Regione Sardegna, L.R. 3 luglio 1998, n° 22, ART. 21. ISSN 2611-5271 Editore Bianca Laura Petretto, Cagliari, Quartu Sant’Elena, viale Marco Polo n. 4 Direttore responsabile Roberto Cossu

B&BArt MuseodiArte contemporanea

www.bbartcontemporanea.it info@bbartcontemporanea.com

Un ringraziamento speciale a Guido Festa Progettazione e costruzione di “GLOVE BOXES” e prototipi per la ricerca farmaceutica e nucleare www.euralpha.it

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info@artandpixel.com


AINAS MAGAZINE

AÍNAS Nº5 6

editorial 6 street spirit

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chapter I . special

10 100 years . laurence ferlinghetti . maria lai 14 back to the future 15 frank kreacic 15 ollie wagner

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chapter II . interview

28 el destierro en el alma . antonio arévalo 33 anónimos pero identificados . alejandro robles

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chapter III . crossing 40 la strada di ruggine 42 una cascata di diamanti

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chapter IV . the new code 48 costellazioni criptate 49 henry bismuth 49 matias armendaris 64 angeli ribelli . osvaldo licini

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chapter V . pataatap 68 gigi rigamonti . olga suvorova

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chapter VI . swallow 86 disegni nei piatti

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EDITORIAL

aínas STREET SPIRIT

“Se la strada potesse parlare” è il titolo di un film in corsa per gli Oscar 2019. Bel titolo, in un’edizione che è un pugno in faccia all’era trumpista. Brillano i colori diversi dal bianco. E quel titolo, nella sua semplicità, vale una narrazione infinita. Le strade sono silenziose come biblioteche e ciarliere come cascate. Sono sepolcri, ma anche archivi. Le strade di terra e quelle d’acqua. Strade di asfalto, di sabbia, di cemento, e prima ancora di terra molle, di lava, di roccia. O di rifiuti. Il tempo cancella ma non finisce mai il suo lavoro. La strada resta, con le sue ferite, col sangue, con la discrezione. Ha padri e figli, strato su strato. Ogni tanto si scava e si trovano i resti delle strade antiche: le strade nuove non le uccidono mai. Comunque vada lo sviluppo, restano i luoghi e i nomi dei luoghi. Che non sono lettere vuote. Questa rivista parla spesso di strade. Di arte in movimento, la sua vocazione. Ma non esiste un’arte che non cominci e finisca sulla strada, che è il mondo. Com‘era prima che si costruisse, com’è dopo le distruzioni e le ricostruzioni. I segni, persino le tracce scomparse, rimangono sempre. Viaggiare, cioè aggiungere strade a strade, è un’attività antica. Un bisogno. Steinbeck e Kerouac, per restare all’America, battevano le strade. Parole che venivano dopo i passi di gente che cercava qualcosa. Perlopiù il significato della vita. Come sarebbe il racconto delle rivoluzioni fatte e fallite del pianeta? Se le strade potessero parlare cosa direbbero, per restare all’America, del Cile di Allende, dei desaparecidos argentini? Di tutto ciò che non sappiamo dell’Africa o di quello che crediamo di sapere del Medioriente? Per parlare dei nostri giorni. Ci sono artisti che moltiplicano le strade, allargano le mappe. Come Maria Lai (ora avrebbe cento anni), che non amava le cornici. E ci sono strade che le mappe dimenticano. Come Topolobampo, un nome che quasi riecheggia Disneyland. Ci arrivò, in un’epoca di sogni, droga e fantasia, Lawrence Ferlinghetti (nato cento anni fa), altro viaggiatore mai stanco. Era “un oscuro villaggio di pescatori che dà sul Pacifico” messicano. “Baracche senza intelaiature, senza vetri, fissano il vuoto in basso”, la gente è scalza col prurito per via delle Chincas, i bar sono spogli, il fianco della collina brulica di bambini, di muchachas adolescenti che portano camicie di cotone strappato, tra loro puttane dei bassifondi e pescatori seduti in silenzio “con nonne che indossano scialli, come la morte”. È il tramonto del 1962. “Ritornaci nel 1972”, scrive Ferlinghetti, “e sarà tutto diverso, con hotels gringo sul lungomare, caffè a stucco, guide turistiche, cartoline, dollari americani. La ferrovia che viene da Chihuahua si occuperà di tutto”. Trasporterà anche il cemento dei muri contemporanei. E aprirà altre filiali, oltre l’Oceano. Vede lontano il poeta: “I see myself in the dark distance, a stick-figure in the world’s end…”. Roberto Cossu

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IL TEMPO DELL’ARTE Maria Lai Installazione permanente Museo a cielo aperto “Su loghu de S’Iscultura” San Gemiliano, Porto Frailis, Tortolì. Fotografia di Bianca Laura Petretto

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PASTORELLO MATTINIERO Maria Lai Sculture Museo a cielo aperto Maria Lai, Ulassai. Fotografia di Bianca Laura Petretto


I the special


SPECIAL

100 years Lawrence Ferlinghetti Poets, come out of your closets, Open your windows, open your doors, You have been holed-up too long in your closed worlds. Poeti, venite fuori dalle vostre stanze nascoste, aprite le vostre finestre, spalancate le porte, troppo a lungo vi siete rintanati nei vostri mondi chiusi. da Populist Manifesto. For Poets, with Love Ai poeti, con amore Traduzione di Giovanni Bernuzzi

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LA CASA DELLE INQUIETUDINI Maria Lai Installazione permanente, Murale dipinto. Fotografia di Bianca Laura Petretto ______________________________

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◀ BEAT FERLINGHETTI

Sofia Arango Elaborazione grafica digitale, 2019.


SPECIAL

LA CASA DELLE INQUIETUDINI Maria Lai Installazione permanente, Murale dipinto. Fotografia di Bianca Laura Petretto

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LAI, I FILI DEI MOSTRI Sofia Arango Collage digitale, 2019.

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SPECIAL

back to the future

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FRANK KREACIC

OLLIE WAGNER

I have been creating 3D Resin-ance paintings and artworks since 2014. I created my “Resin-ance” painting technique by combining photographic and printing techniques. I combine 21st century technology with old school optical trickery. As an artist, I have always been intrigued with technology and optical 3D effects. Since I was a kid, I’ve always had a love for Star Wars, adventure movies and comic books. I decided to take my love of these things and create fine art, which in my mind would overcome the “childishness” that the viewing public attaches to these things. I also have a desire to educate and bring a curiosity to historical facts that I include my art. I’ve utilized actual maps and historical photographs in my creations. In my large digital print for the City of Durham, North Carolina (Charging Durham) I referenced an old 1924 map. I also researched the US Library of Congress for my Tuskegee artwork. The photograph of three men on an airstrip in Italy was my main inspiration. Tuskegee is the largest and heaviest resin painting to date: 36” x 72” and estimated at 240 pounds!

My current body of work starts with imagery sourced from home movies people have uploaded to the internet. I use a digital camera to take stills of the video file while it is playing. The digital image is then manipulated using a Java-based programming language called Processing and then in Photoshop. I have the image printed and then transfer it wooden panel using Matte Medium. The image is then painted.

I also found a World War 1 battlefield map of Belgium, which I utilized for the Wonder Woman piece, making alterations to fit the story presented in the film.

I am interested in the change an image undergoes when it is repeatedly simulated. This change takes place through slight permutations that compound with every repetition of an image. Digital archivists refer to this phenomenon as “Data Degradation” or “Bit Rot” Ultimately these changes result in a new model, with new meaning, that no longer resembles the original in both aesthetic and purpose. I believe that with time and distance our memories undergo a similar process. The ubiquity of digital media has allowed us now more than ever to document our lives in a futile attempt to halt time. http://owagner.com

As for my process; I begin with digital collages. Some of them have taken up to a year to perfect. I wear 3D Chomadeph glasses while working on the computer to get the “push and pull” optically of the artwork the way I want it. I place that digital print in a wooden mold. Then, I can pour clear epoxy resin inside, paint my layers (and also place in items, such as the Star Wars action figures) right into the painting. The completed “resin- ance” painting is removed from the mold and ready to hang. This process of “optical chromatic separation with image blending in clear resin suspension” is what I’ve coined as “Resinance” painting. The colors and shapes resonate off the wall and are moved even further when viewers use the Chromadepth glasses (which are basically pulling colors apart by the color spectrum). I continue to create Comic Book and Star Wars type artworks. I am exploring the next evolution of my artwork with AR (Augmented Reality) incorporated into mural paintings in Raleigh, North Carolina. www.frankkreacic.com www.FineArtAmerica.com

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SPECIAL

GRAVEYARD OF THE ATLANTIC Ollie Wagner Mixed media, transfer, acrilici, graffito su pannello di legno, 2018. 40 x 48 x 3 cm

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ROGUE ONE: K-2S0 Frank Kreacic Mixed media, pittura e resina, 2017. 46 x 36 cm

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SPECIAL

SHE STUDIED MATHEMATICS Ollie Wagner Mixed media, transfer, acrilici, graffito su pannello di legno, 2018. 30 x 30 x 3 cm _________________________ BOBA FETT Frank Kreacic Mixed media, pittura e resina, 2017. 46 x 36 cm

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AINAS MAGAZINE

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SPECIAL

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AINAS MAGAZINE

THESE DARK DAYS THE CLOUDS HIDE THE SUN Ollie Wagner Mixed media, transfer, acrilici, graffito su pannello di legno, 2018. 89 x 114 x 3 cm _________________________

◀ ROGUE ONE: SCARIF TROOPER Frank Kreacic Mixed media, pittura e resina, 2018. 46 x 35 cm

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SPECIAL

FOR ESSME Ollie Wagner Mixed media, transfer, acrilici, graffito su pannello di legno, 2017. 35 x 39 x 3 cm _________________________

◀ WHEN YOU GROW UP

YOUR HEART DIES Ollie Wagner Mixed media, transfer, acrilici, graffito su pannello di legno, 2018. 43 x 60 x 3 cm _________________________ WONDER WOMAN Frank Kreacic Mixed media, pittura e resina, 2018. 61 x 46 cm

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AINAS MAGAZINE

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SPECIAL

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CHARGING DURHAM Frank Kreacic Stampa digitale vinile su metallo, 2017. 25 x 69 cm

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PASTORELLO MATTINIERO Maria Lai Sculture Museo a cielo aperto Maria Lai, Ulassai. Fotografia di Bianca Laura Petretto


II interview


INTERVIEW

el destierro en el alma

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AINAS MAGAZINE

Scrittore, curatore d’arte, testimone politico. Antonio Arévalo è cileno e italiano, latino americano ed europeo, senza significati distintivi: della sua e di tutte le terre, come dovrebbe essere sempre e comunque. E tanto più quando si cammina nei territori della cultura. O, più semplicemente, un viaggiatore, insieme ad altri viaggiatori che spesso non hanno potuto scegliere ma hanno saputo trasformare le necessità, le assenze e le distanze. Ciò che sembra suggerire anche il suo nuovo libro: “Le terre di nessuno”. Cosa sono? “Una serie di testi poetici che si vivono nell’arte degli ultimi decenni tra l’Italia, terra di adozione, e il mondo iberoamericano. Racconta, come ben dice il curatore del libro Matteo Lefevre, quella cultura dell’esilio che dagli anni Settanta in avanti ha trasferito e integrato su scala globale la proposta di un Cile “differente” rispetto alla vulgata degli anni della dittatura e dei suoi strascichi. È una cultura che successivamente, dopo la fine del regime, ha incarnato le istanze di una migrazione intellettuale che ha sempre portato con sé denuncia e libertà, rivendicazione di diritti e doveri, ma soprattutto una sete di confronto e ricerca nei più diversi ambiti artistici”. Parliamo di questa cultura. Le maschere di Bernardo Oyarzùn, alla Biennale di Venezia del 2017, restano ancora negli occhi. Le maschere di legno e i nomi mapuche. Nei paesi latino americani è possibile scindere l’arte dalla politica, dai disastri economici, dalle ferite del colonialismo vecchio e nuovo, dai mille aspetti dell’oppressione? “Ci troviamo davanti alla presenza di un atteggiamento artistico decentrato, letteralmente eccentrico, frutto d’individualità autonome che, nel giro di trent’anni, hanno dovuto affrontare un tale vortice di avvenimenti estremi e opposti, dove si tenta a fatica di ristabilire un equilibrio. Di fatto durante gli ultimi trent’anni è emerso in America Latina un linguaggio capace di giocare un ruolo fondamentale rispetto al mondo dell’immagine, che solleva importanti interrogativi intorno al concetto di identità, razza, classe, religione, genere e sessualità. Che sente di avere un obbligo morale e spirituale e che rifiuta ogni tipo di finzione e ci parla direttamente, producendo così la miglior chiave di lettura di tale realtà”. Downey, Jaar, Navarro, Prats: sono personaggi importanti della cultura cilena contemporanea. C’è un filo che lega tutti questi artisti? “Li lega la continuità in un chiaro filo conduttore, dove la ritualità quotidiana che convive con lo shock culturale di una società tardo-capitalista di contraddizioni estremamente compresse riesce a sublimare l’immediatezza e a forgiare un idioma etico, come risposta critica a un apparato politico fortemente repressivo”. Hai detto che durante la guerra del Golfo è nata una generazione di artisti cileni che oggi rappresentano un modello. Come lo definiresti questo modello? “La repressione, il controllo sulle istituzioni culturali e sull’istruzione, la scomparsa o l’esilio di intellettuali, l’impronta ideologico-moralistica ufficiale, la sostituzione dello Stato con l’impresa privata nel patrocinio dell’attività culturale, nell’ambito di un’economia reindirizzata verso il neoliberismo, furono alcuni dei fattori che interruppero violentemente i percorsi della cultura e furono il detonatore per nuovi processi artistici. La drammatica sospensione di un paese isolato

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INTERVIEW

intellettualmente e le espressioni culturali che, nonostante tutto, hanno saputo affermarsi. Una cesura drammatica nell’evoluzione dell’arte e della cultura, di cui ancora oggi si risente”. È il senso dell’ingiustizia l’autentica corrente artistica del nostro tempo? “Il mondo intero sta vivendo una crisi che non si vedeva da anni, immigrazione, intolleranza razziale e non solo. Quel che vedremo in questa Biennale di Venezia dovrebbe rispecchiare questo malcontento”. Il realismo magico, nella versione letteraria latino americana, ha affascinato anche l’Europa per decenni. Cosa è successo dopo nella letteratura di questa parte del mondo? “Seguendo un orientamento artistico che significa, nel contesto della dittatura, il duplice anelito avanguardista della fusione arte/vita e arte/politica, l’arte esce dai binari dello specifico istituzionale per dissolversi nel suo ambito, l’immagine dell’autore perde i tratti individuali fino a perdersi, moltiplicata nell’anonimato: “Ogni uomo che lavora per l’ampliamento, anche se mentale, è un artista”, annuncia il pamphlet che sei piccoli velivoli fecero cadere sulla città di Santiago durante l’azione “ay Sudamérica!!” (CADA Collettivo di Azioni d’Arte Cile, 1981), riprendendo il concetto del tedesco Wolf Vostell, che definisce l’artista “operaio dell’esperienza” e l’arte “vita modificata”. In questo contesto viene pubblicato il libro “Purgatorio” di Raul Zurita, producendo un vero terremoto nel panorama non soltanto letterario. Da li in poi la poesia cilena prende un altro cammino. L’epicentro Zurita si presenta davanti a noi con tutte le sue fratture, le sue ferite, per ricucire e ridare alla storia la possibilità che ci sia un’altra storia: una mutilazione volontaria, una rassegnazione, e una donazione, una dolorosa identificazione collettiva. Da questo momento, sono nate varie attività volte a integrare l’arte e a estendere in modo critico e creativo le diverse concezioni di arte e di vita. Parallelamente è nata una letteratura cilena del “destierro”, una vocazione alla scrittura che negli anni si è andata emancipando dalle istanze più politiche e compromesse, affrontando i temi più disparati e raggiungendo un livello di maturazione e successo riconosciuti su scala mondiale, di cui l’espressione più compiuta è probabilmente rappresentata da Roberto Bolaño. Proprio l’autore di “2666”. Abbiamo bisogno di molta immaginazione nella realtà per sopravvivere al nostro tempo? Spesso viene da pensare a Manuel Scorza… “Meglio ancora se ti rispondo con le parole di chi, credo, è la scrittrice cilena più interessante degli ultimi dieci anni, Nona Fernandez: “Il passato è l’unica cosa che ci permette di capire e proiettarci verso il futuro. Nella atrocità ho visto la possibilità di trovare il mio volto, i nostri volti. Questo può accadere se non guardiamo la storia e ci lasciamo guidare dall’ignoranza. La domanda che dobbiamo porci è: Quanto siamo complici passivi dell’orrore che vediamo in tv e quanto di questo nostro silenzio siamo consapevoli?”. Il tuo ruolo di testimone lo hai dimostrato anche in “Santiago, Italia” di Nanni Moretti. E conosci bene l’Italia. Moretti ha parlato del dramma cileno di ieri per sottolineare i rischi che corre oggi l’Italia. E, in realtá, qualche altra parte del mondo. Hai immagini, parole, paure, da aggiungere?

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“Sono entrato alla Ambasciata dell’Italia a Santiago a dicembre del 1974 e ne sono uscito a febbraio del 1975. Ho vissuto una adolescenza all’insegna della sensibilizzazione verso quello che succedeva nel mio paese, In Italia l’esperienza cilena era tenuta d’occhio a causa del cosiddetto “compromesso storico”. Ero in piena formazione e provenivo da uno shock come quello del colpo di stato, dell’esilio, della frammentazione familiare: l’Italia mi si presentava davanti come la mia nuova famiglia. L’Italia era più simile a quello che avevo appena lasciato. Questo e altri fattori mi indussero a rimanere qui. Rimasi profondamente colpito dal panorama che mi si presentava, l’Italia era una favola che mi raccontavano da piccolo, la gente voleva sapere, c’era una curiosità sana nella gente. In quel periodo ho vissuto pensando che la dittatura sarebbe finita da lì a poco. Invece non fu così. Sono rientrato soltanto nel 1986 dopo tredici anni. Il fascismo lascia tracce indelebili, inutile illuderci, ragion per cui bisogna fare di tutto per conservare la memoria, questo è il pregio del film di Nanni Moretti, un documento politico imprescindibile. Para que Nunca Mas”. R.C.

ACUÁTICO Alejandro Robles Mixed media su carta, 2018. 70 x 50 cm

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INTERVIEW

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ANÓNIMOS PERO IDENTIFICADOS Nos observan, estudian, comparan y catalogan, somos una masa compuesta por innumerables individuos la cual es comprendida desde las alturas, modelada según la geometría de nuestras ciudades, modernos laberintos en los cuales nos desplazamos sobre diminutos pasos de zebra, último refugio del peatón. El humano en esencia, animal primitivo producto de incontables metamorfosis, aquel que aún lucha por mantener su individualidad, grita y se pronuncia, se manifiesta y protesta por mantener sus particularidades, aquellas que lo hacen único, las que no dejan que encaje en un sistema numérico, que lo pueda llevar al anonimato, al olvido. Alejandro Robles

◀ JUICIO

Alejandro Robles Mixed media su carta, 2018. 75 x 35 cm

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INTERVIEW

RUINAS Alejandro Robles Mixed media su carta, 2018. 50 x 70 cm _________________________ EN MEDIO DE LA DISCUSIÓN Alejandro Robles Acrilico su tela, 2018. 110 x 140 cm

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INTERVIEW

RABIA Alejandro Robles Mixed media su carta, 2018. 35 x 50 cm

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PASTORELLO MATTINIERO Maria Lai Sculture Museo a cielo aperto Maria Lai, Ulassai. Fotografia di Bianca Laura Petretto


III crossing


CROSSING

la strada di ruggine

◀ SCULTURA

Mauro Staccioli Cemento e ferro, 1995. 250 x 300 x 40 cm Museo d’arte contemporanea Su logu de S’Iscultura. Tortolì, Arbatax Fotografia di Bianca Laura Petretto

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Sono uno dei trecentomila, trasferito al gulag 501 nel 1947, quando la gloria della guerra posava come neve sull’ecatombe delle moltitudini. Maestro e poeta, i molti sensi del verso mi condannarono alla prigione, la rettilinea follia di Stalin alla Linea Transpolare, o Strada Morta come venne a esser ricordata. La costruzione della ferrovia partì da Salekhard e Igarka, noi del 501 e gli altri del 503 ci saremmo dovuti incontrare da qualche parte nella bianca allucinazione, unendo i 1300 chilometri tesi fra le acque profonde dell’Ob e dello Yanisey, dove le navi possono ingoiare uomini e nikel. A qualcosa dovrà pur servire chi ha tradito fratelli e sorelle, sabotato il sogno della libertà dal padrone e dalla macchina. Eppure anche Dasha viveva con noi, Dasha che aveva rubato mezzo sacco di patate per i suoi quattro fratelli. E Nadezhda Kukushina, la bibliotecaria che permise ai topi di divorare le banconote del popolo. Ogni cosa è politica, soprattutto nell’orrore. Il passaggio sulla palude veniva ricoperto da travi e fascine e sabbia, due palmi di massicciata e ancora sabbia. I binari si allungavano strozzati in curve, assediati dagli acquitrini. Il campo rincorreva il progresso, baracche di legno grezzo e tende nell’inverno polare. Baracche di legno grezzo e tende nell’estate feroce, gli insetti torturatori come una nuvola bassa e perenne sulle carni. Talvolta le guardie ci scortavano per la tundra perché potessimo raccogliere bacche e funghi in previsione dell’inverno. Conservo un tramonto sugli abeti nella memoria, le scintille del fuoco a notte e i messaggi nascosti nei giacigli di amici e donne. Le fughe e le fucilazioni, espiare e sognare avanzando nel nulla. Sei anni e seicento chilometri prima che Stalin l’inarrestabile morisse trascendendo in mito e colpa. La volontà collettiva stabilì che la conquista dovesse abbandonare i ghiacci per dedicarsi alle stelle. Il diorama venne divorato dalle paludi, sommerso dai boschi. Resistono torri di legno precario fra le foglie, fantasmi nel filo spinato, catapecchie coperte di muschio abitate per poche notti dai cacciatori, locomotive di ruggine, la corda appesa del telegrafo. Con nuova sapienza altri folli immaginano oggi di unire con un treno l’Ob e lo Yanisey, dove le navi possono ingoiare nikel e petrolio. Sono uno del 501, maestro e poeta d’impiego, uno dei centomila mai tornati, appena una memoria dalla strada dei morti. Luca Foschi

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CROSSING

una cascata di diamanti

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Ho visto la natura del cielo rivestirsi di aurore nel corso degli ultimi vent’anni e mi sono chiesta ogni volta se c’è un fenomeno più emozionante e più artisticamente rilevante nell’universo. Mi sono pure chiesta, dal momento che ne conosciamo l’esistenza e la attestata capacità di attrazione, perché non ci sono frotte di viaggiatori a fare la fila per imbarcarsi su un volo destinazione Aurore Boreali. Forse perché lontane, o forse perché troppo belle per essere vere? Lontane lo sono sì, ma non tanto per la distanza in termini di latitudine (cosa ci vuole a scavalcare qualche grado verso nord? Tra i 45° e i 60° in fondo ci sono solo 3 ore di volo) ma per la distanza in altezza, è vero. Particolare che non detta alcuna preoccupazione in realtà. Vediamo a occhio le stelle, i pianeti e la Via Lattea che sono distanti anni luce, perché non dovremmo vedere un’aurora boreale che si dispiega a 80/100/400 km al di sopra dell’atmosfera? A occhio nudo. Un’opera d’arte mai immota, mai uguale a se stessa dalle origini del sistema solare, uno spettacolo inverosimile capace di ridipingere l’intera volta celeste e noi irretiti a testa in su, senza nemmeno occhiali di realtà aumentata, che dico, senza nemmeno occhiali da sole, occhi e basta. Ci deve essere una tempesta magnetica in atto per scatenare quel tripudio di luce che volteggia, che si espande, si attorciglia e pare cadere giù in una sferzata di raggi per poi risalire e bucare la volta celeste, anzi blu e fors’anche nera, creando un vortice allo Zenit che sembra voglia risucchiarci. Quanta energia si diffonde in questo fenomeno fisico! Lo sentiamo nel corpo che è come attraversato da quei fasci energetici e li trattiene poi per ore, energia dello spazio interplanetario capace di mandare in tilt i sistemi elettronici e magnetici di navigazione e di controllo dei nostri apparati che regolano l’efficienza delle nostre “caselle metropolitane”. Ma da dove proviene? Perché si ferma ed esplode? Perché si forma e si deforma seguendo schemi vagamente noti ma pure sempre nuovi? Cosa la colora e poi scolora? Chi ce la regala e poi se la riprende? Ne ho scritto - dopo averne studiato s’intende - in pagine e pagine, ma i fondamentali sono pochi e semplici: il sole, corpo incandescente e serbatoio di gas ribollenti, la terra, pianetino a quasi 150 milioni di km dal sole, lo spazio interplanetario, uno scudo magnetico. Accade, può accadere, che sul sole si formino brillamenti ed eruzioni con rilascio di bilioni di tonnellate di gas ad altissima temperatura. Quel materiale viaggia nello spazio interplanetario. Particelle cariche con un potenziale capace di accendere spazi smisurati. Incontrano lo scudo che protegge il nostro pianetino (la Magnetosfera). Questo devia verso i Poli la massa di particelle (volgarmente chiamate “vento solare”) che viaggia a centinaia di km/sec. Devia ma è come un colabrodo. Il vento solare forza in parte lo scudo e prosegue verso la ionosfera dove incontra i gas che ci sono familiari, ossigeno e azoto per esempio. Nell’urto si produce luce. Questa è l’Aurora. E i colori? E le forme? E i movimenti? I verdi, i rosa, i porpora, i gialli, gli arancio sono effetto dei gas dell’atmosfera (il verde se è l’ossigeno a essere “colpito”, il violetto se è piuttosto l’azoto) e dell’altezza in cui si producono le aurore, ma anche della altitudine in cui appaiono visibili (aurore rossastre a latitudini più basse, perfino tropicali!). Le forme e i movimenti sono determinati dalle caratteristiche delle sottotempeste magnetiche, che hanno cicli brevi di attività e intensità molto variabili. Tutto qua. Ma allora si deve concludere che, dopo secoli di congetture e di esperimenti, la

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CROSSING

scienza delle aurore ha chiuso il suo capitolo e non c’è più nulla da scoprire? Non è così se è vero che ci sono ancora da approfondire e da chiarire le relazioni tra le aurore e le variazioni climatiche, e sono ancora da verificare i suoni prodotti dalle aurore, effetti collaterali uditi, testimoniati da viaggiatori ed esploratori a differenti longitudini e latitudini, mai veramente documentati da strumenti e prove scientificamente affidabili. Ma si sa, la scienza viene dopo l’esperienza. Per secoli e millenni gli umani dei Paesi artici hanno osservato (e ascoltato?) le aurore boreali, ne hanno avuto riverenza e timore, le hanno raccontate, descritte, interpretate, facendosene una ragione ma… Erano troppo lontani dai centri della scienza, dai luoghi certificati della conoscenza. Tra i ghiacci perenni o quasi di luoghi inospitali come tutte le terre emerse dell’emisfero nord la scienza si è incuneata, nemmeno troppo benevolmente, solo circa due secoli fa. E ha fatto piazza pulita di tutte le interpretazioni basate sulla quotidianità, sull’analogia con la vita e con le modalità di sopravvivenza di popoli come gli inuit, i lapponi, i nenets, i vichinghi. Loro vedevano forme che rassomigliavano ad animali, a persone scomparse, ad eventi drammatici e talvolta catastrofici e associavano dunque le aurore a ciò che più era da temere, guerre, scontri, sangue. Così le aurore (luci del nord nel linguaggio di tutti i giorni) hanno accompagnato la vita di quei pochi popoli delle terre boreali in cui suscitavano più ansie che godimenti estetici. O forse chissà anche il piacere dei sensi. Noi oggi, liberati dalle ansie, possiamo ricavarne il piacere dei sensi, un piacere così intenso e particolare da diventare dipendenti, da non poter fare a meno di andarci sotto, alle aurore, e lasciarsi invadere da quei rivoli e mari di colori in cui si annegherebbe volentieri. Bene ne ha scritto il giovanissimo Marco Innocenti, nei versi del 2011: “Aurora boreale, un serpente smeraldino in un mare oscuro, solitario scivola veloce, sfiorando candidi diamanti, e scompare svelto in uno dei buchi, in quel mare sua casa, mentre attende paziente l’arrivo di una nuova preda”. Ada Grilli

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AURORE BOREALI Fotografia di Ada Grilli

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PASTORELLO MATTINIERO Maria Lai Sculture Museo a cielo aperto Maria Lai, Ulassai. Fotografia di Bianca Laura Petretto


IV the new code


THE NEW CODE

costellazioni criptate

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HENRY BISMUTH Equality! Equality is not a new subject! Quintessential to life is the synchronicity of male and female energy. Union of spotted, bay, chestnut, black and white bodies – a cacophony of horses’ hooves racing, dancing down the polo field. Apex: Alliances have been formed. Men and women, women and men, teammates, garbed alike, making the shot, striking the ball. Goal scored! Life springs forth a new dynamic. In the light of the new Dynasty – from Han. . .military preparedness and China’s expansion. . . to Tang. . .the Golden Age of art and culture - equality! Texture, color, energy. . . power! You now have a glimpse into the complex cultural journey merging past and present sparked by the paintings of Henry Bismuth. Susan C. Beer

MATIAS ARMENDARIS Huésped (host) solo exhibition by the artist Matias Armendaris (Quito, 1990) curated by ASMA, presents an immersive installation that transforms the space into something alive that has a body and receives us inside of it. The word huésped in spanish holds both the meaning of the word host and the word guest depending on its context. Huésped (guest) is someone who stays in a space or house of another person, the guest of a host. However, in biology, huésped (host) is any organism that shelters another inside it or that carries it on itself, either in a symbiosis of parasitism, commensalism or mutualism. Huésped (host) does not reveal its meaning, it contains the jewel of its mystery. A matrix that becomes an index of possible points of recognition or unknowing. A living object which can be activated in ritual and which in turn a coded document filled with information, alluding to a hidden meaning that puts into dialogue the relationship of desire that is built with the unknown objects of ancestral cultures. The real world touches us all, we inhabit it collectively and it is home to all other private and shared worlds. Each different version of the world is connected by this greater world, this reality that as a chain brings together all other worlds into a constellation of multiple realities. Huésped (host) is the result of the agency of transformation that we possess by generating these intimate languages and our own worlds, and speaks of the power of these spaces over our psyche and reality. ASMA

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QUINTET Henry Bismuth Mixed media e olio su tela, 2016. 91,4 x 121,9 cm ____________________________________

◀ CABEZA Matias Armendaris Pittura a smalto su lastra di ottone incisa con acquaforte, lucidata e verniciata, 2018. 50 x 60 cm Cortesia SKETCH, Bogotá, Photo Credits: Niko Jacob. – 51 –


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‘‘I have always been a living being...’’

MANO IZQUIERDA Matias Armendaris Pittura a smalto su lastra di ottone incisa con acquaforte, lucidata e verniciata, 2018. 40 x 30 cm Cortesia SKETCH, Bogotá, Photo Credits: Niko Jacob.

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‘‘...within another living being...’’

◀ MANO DERECHA

Matias Armendaris Pittura a smalto su lastra di ottone incisa con acquaforte, lucidata e verniciata, 2018. 40 x 30 cm Cortesia SKETCH, Bogotá, Photo Credits: Niko Jacob.

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MAGO | DE LA SERIE JOYAS Matias Armendaris Pittura a smalto su lastra di zinco incisa con acquaforte, inserita in pannello di legno dipinto, 2018. 40 x 60 cm (misura globale) Cortesia SKETCH, Bogotá, Photo Credits: Niko Jacob. ____________________________________

SHADOW RIDERS Henry Bismuth Mixed media e olio su tela di lino, 2014. 106,7 x 132 cm

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‘‘...I can’t...’’

PIE IZQUIERDO Matias Armendaris Pittura a smalto su lastra di ottone incisa con acquaforte, lucidata e verniciata, 2018. 30 x 50 cm Cortesia SKETCH, Bogotá, Photo Credits: Niko Jacob.

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‘‘...run away.’’

PIE DERECHO Matias Armendaris Pittura a smalto su lastra di ottone incisa con acquaforte, lucidata e verniciata, 2018. 30 x 50 cm Cortesia SKETCH, Bogotá, Photo Credits: Niko Jacob.

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STRIPES Henry Bismuth Olio su tela di lino, 2014. 121,9 x 152,4 cm

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Pg. 59 SELVA | DE LA SERIE JOYAS Matias Armendaris Pittura a smalto su lastra di zinco incisa con acquaforte, inserita in pannello di legno dipinto, 2018. 40 x 60 cm (misura globale) Cortesia SKETCH, Bogotá, Photo Credits: Niko Jacob. ___________________________ ANTARES Henry Bismuth Mixed media e olio su tela, 2018. 101,6 x 152,4 cm

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◀ RETRATO | DE LA SERIE JOYAS

Matias Armendaris Pittura a smalto su lastra di zinco incisa con acquaforte, inserita in pannello di legno dipinto, 2018. 40 x 60 cm (misura globale) Cortesia SKETCH, Bogotá, Photo Credits: Niko Jacob. _________________________

A PAINTED HORSE Henry Bismuth Olio su tela, 2014. 76,2 x 101,6 cm _________________________ RED RIDER! Henry Bismuth Mixed media e olio su poliestere, 2014. 81,3 x 99 cm

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angeli ribelli

CON IL CUORE DI LICINI Elaborazione grafica di Sofia Arango, 2019

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OSVALDO LICINI Errante, erotico, eretico: così si definiva, nel 1934, Osvaldo Licini, uno dei più originali pittori del Novecento italiano. A 60 anni dalla morte, ma soprattutto a sessanta dal Premio della Biennale veneziana per la pittura, il critico Luca Massimo Barbero gli dedica una mostra e un libro importanti e sinceri. Tra le sale del Museo Guggenheim e nelle pagine ci si immerge in un percorso artistico eterodosso, fuori dagli schemi preconcetti: si è introdotti in un universo di segni, forme e colori vibranti, percussivi per certi aspetti. Una pittura di linee compositive e timbri cromatici forti, una pittura sonora, anomala nell’arte italiana moderna. Anzi, un unicum, altissimo per qualità esecutiva e chiarezza di intenti. Formatosi all’Accademia di Bologna, insieme al giovane Giorgio Morandi e a Mario Tozzi, Licini subiva, negli anni Dieci, l’influenza del Futurismo – della sulfurea figura di Marinetti, ma anche di Soffici - e sono documentati i rapporti del suo gruppo con il movimento futurista. Poche le opere superstiti di quegli anni, definite Episodi di guerra dall’autore che le distrusse quasi tutte, ma spicca un Autoritratto, dal carattere deciso, un’immagine viva. Morandi, cui Licini la donò, la ebbe sempre cara. I primi Anni Venti videro Licini attivo a Parigi, dove risiedevano i genitori, inserito appieno nei circoli più aggiornati del tempo: conobbe Picasso, Cocteau, Cendrars. E Amedeo Modigliani, con cui strinse amicizia: il colore “ricco, incandescente, impreveduto” di Modì lo suggestionarono, così come il ricorso alla linea senza ombre. È un Licini in mutazione: sposa Nanny Hellstrom, pittrice svedese, e torna nelle Marche, luogo del cuore e dell’anima. Artista dallo sguardo internazionale, riflette sul metodo e sul linguaggio, in aperta polemica con le tendenze classiciste e arcaizzanti della predominante corrente Novecento. Osserva gli orizzonti collinari marchigiani, leopardiani, e ne intende la possibile reinvenzione artistica, poetica, a partire dal vero: sono paesaggi mossi dal vento, e dalla vita. È un percorso di astrazione lirica, non geometrica, che sfocerà presto in dipinti felici ed evocativi, dai titoli sognanti: Castelli in aria, Aquilone rosa, L’incostante, tutti dei primi anni Trenta. Il bilico (1932), esposto nel 1935 a Roma alla II Quadriennale, sorprende con un triangolo nero in precario appoggio su uno rosso in campo bianco: dinamismo di forze che si elevano, che cercano funambolici equilibri del pensiero, dell’arte. Scriveva nel 1937:”[…]la pittura è l’arte dei colori e dei segni. I segni esprimono la forza, la volontà, l’idea. I colori la magia. Abbiamo detto segni e non sogni”. Il fascismo imperante, le politiche razziste e infine la guerra indussero Licini ad un silenzio consapevole e appartato, meditativo e spirituale. Dopo gli Olandesi Volanti, che vagano per i mari avendo sfidato Dio, arrivarono le Amalassunte, forse le sue figurazioni più note: Amalassunta è la luna, mutevole e donna, “amica di ogni cuore un poco stanco”. La Biennale del 1950 ne espose nove: Licini poeta giocoso ce le offre su una mano, con segni e numeri a mo’ di occhi e bocca, su sfondi di cielo dai colori più vividi, blu giallo, verde, rosso…Intanto l’arte italiana dibatteva tra l’esigenza di un realismo o un forzato neocubismo picassiano; Licini è altrove, in altre atmosfere, in cieli limpidi. E lassù, tra voli e cadute si manifestano gli Angeli ribelli: angeli con la coda, e un cuore. Angeli umani nei sentimenti, imponenti nelle forme, drammatici eppure allegri. Il divino nell’umano e viceversa, con il cuore in mano. Maura Picciau

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Logo patafisico di Š Gigi Rigamonti


V pataatap


gigi rigamonti

Dettaglio dell’opera OHNE TITEL Gigi Rigamonti Acrilico, 2019. 200 x 100 cm


olga suvorova

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Dettaglio del trittico COMMEDIA DELL’ARTE Olga Suvorova Olio su tela, 2017. 119 x 190 cm


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GIGI RIGAMONTI Gigi Rigamonti sa dare e osare. Si spinge oltre. I suoi ultimi acquerelli raccontano i muri che dividono, che separano. La linea nera demarca con ferocia il limite. L’artista dipinge le visioni di quello che accade fuori. Prima la serie Stupid World e ora gli acquerelli Non senso, sono opere-manifesto che hanno atteso la rivoluzione, che hanno creduto in un pensiero, ora nuotano nel nero alla ricerca unica e necessaria di determinare la propria esistenza. Le opere di Gigi Rigamonti hanno superato il pudore e costruiscono visioni. Non vi è la paura ma la necessità impellente di essere presenti, di lasciare traccia di una potente vitalità fortemente provata. I neri sono quelli espressi da Garcia Lorca, sono il risultato deludente e disarmante di una società complessa e alla deriva. You can see now? È la domanda che l’artista rivolge all’arte. E come in City Lights l’artista è muto. Il segno nero che traccia un confine tra il mondo interno e quello esteriore è la condizione che vive, i suoi nervi scorticati sentono il dolore, assorbono le pulsazioni e la riga nera anestetizza lo spazio. Ma l’arte a volte sorprende e risponde: Yes, i can see now. E l’artista incontra lo sguardo della fioraia, la delicata carezza del dono. Rimane Gigi Rigamonti con una rosa tra le mani che, come lo descrive Arturo Schwarz, “possiede la necessaria carica di humor per riconoscere, nel proprio cognome, la condizione che lo definisce senza scampo….egli dimostra che lo humor è di natura tragica, segna un momento d’indipendenza assoluta della poesia”.

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OLGA SUVOROVA Olga Sovorova è cresciuta nella Venezia del Nord tra i lunghi inverni freddi e le notti bianche. Figlia d’arte. Il padre, Igor Suvorov, maestro famoso per i suoi paesaggi urbani, per le vedute grigie e piovose di San Pietroburgo. La madre, Natalia Suvorova, artista del periodo sovietico, espone nei musei più famosi della Russia le sue nature morte e fiorite. Due artisti professionisti che hanno trasmesso il mestiere alla loro figlia fin da bambina. Olga è cresciuta circondata dal rigore, dalla tecnica, dall’amore per l’arte e per la cultura e ha coltivato il talento e l’eredità, cimentandosi con la pittura e sperimentando il colore. È stata una fortuna nascere in una famiglia di artisti. - racconta Olga - La mia vita è stata programmata per l’arte. Ho dipinto quasi tutti i giorni sin da piccola, prima imitando lo stile dei miei genitori, dipingendo paesaggi e i dettagli della natura, poi ho frequentato l’Academy of Fine Arts e ho studiato pittura, disegno e composizione in studi e laboratori importanti come quello del maestro Andrey Mylnikov. La pittura monumentale, la scoperta e lo studio degli affreschi, dei mosaici e delle ceramiche ha affinato la maestria della Sovorova portandola al virtuosismo pittorico che trasmette poi a sua figlia Katya, anch’essa pittrice, rappresentante della terza generazione della famiglia. Olga Suvorova fa parte dell’Unione degli Artisti di San Pietroburgo e espone i suoi lavori da oltre vent’anni, in Russia e soprattutto a Londra, usando diverse tecniche. Con i collage di seta ha trasformato pian piano la pittura e l’uso delle foglie d’oro. Non volevo solamente un bel dipinto, - sottolinea – non mi interessavano esclusivamente la composizione e la tecnica ma anche il colore con le sue visioni. E la natura mi ha aiutato. Ho trascorso molte estati in campagna per disegnare il mio giardino. Ho dipinto per ore mia figlia che posava paziente insieme agli animali domestici, tra i fiori e gli alberi, nell’ombra e nella luce, e ho cercato tra le pieghe della tecnica il mio stile. Olga Suvorova dipinge un colore nuovo restituendo la regalità della composizione rinascimentale e propone l’atmosfera e l’anima preraffaellita con la maschera del suo volto clonato. Ama descrivere il suo stile e la sua arte come estetica che permette di imparare e di spiegare il mondo attraverso la pittura. E ama giocare con lo spettatore. Lascia a chi osserva la possibilità di scoprire l’artista. Per lei, rimane la bellezza. Bianca Laura Petretto – 71 –


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PIERROT’S DREAMS Olga Suvorova Olio su tela, 2010. 97 x 115 cm _________________________ DAY & NIGHT Gigi Rigamonti Acrilico, 2018. 200 x 200 cm

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NON SENSO Gigi Rigamonti Acquerelli, 2018. 56 x 76 cm _________________________ DANCER Olga Suvorova Olio su tela, 2017. 145 x 80 cm

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ANNUNCIATION Olga Suvorova Olio su tela, 2017. 120 x 150 cm


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◀ NON SENSO

Gigi Rigamonti Acquerelli, 2018. 56 x 76 cm _________________________ OHNE TITEL Gigi Rigamonti Acrilico, 2018. 100 x 100 cm

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CLOWN REHEARSAL Olga Suvorova Olio su tela, 2010. 94 x 111 cm _________________________ NON SENSO Gigi Rigamonti Acquerelli, 2018. 56 x 76 cm

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CREATION Olga Suvorova Olio su tela, 2013. 101 x 163 cm _________________________

BIG STUFF Gigi Rigamonti Acrilico, 2018. 120 x 100 cm

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PASTORELLO MATTINIERO Maria Lai Sculture Museo a cielo aperto Maria Lai, Ulassai. Fotografia di Bianca Laura Petretto


VI swallow


SWALLOW

disegni nei piatti

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In questi anni di Masterchef, tutti sanno che cos’è il food design: è un modo per disporre il cibo nel piatto, affinché ci appaia prima di ogni altra cosa esteticamente aggraziato. Il sogno, per tutti gli chef, è di superare l’esperienza gastronomica così com’era intesa ormai parecchi anni fa, ossia una sola esperienza gustativa. Se sfogliamo un libro di cucina stampato negli anni 70-80 del secolo scorso, notiamo subito che le immagini non presentano una ricerca particolare nella composizione dei piatti. Il piatto doveva apparire confortante, ossia non alieno e non disgustoso. Ma gli spaghetti erano spaghetti, le lasagne lasagne e l’arrosto arrosto. Dovevano essere immagini che riportassero a schemi familiari e questo bastava e avanzava. Con l’avvento del food design, nato sui banchi delle cucine stellate, l’obiettivo degli chef si spinge oltre. Cucinare non deve coinvolgere soltanto gusto e olfatto, ma anche tutti gli altri sensi. In questa occasione voglio parlare soltanto della vista e di come gli chef tentino di integrare anche questa percezione all’interno dell’esperienza globale del piatto. Perché c’è un problema alla base: è molto facile cadere nel trabocchetto di scindere in modo netto forma e contenuto. Nella cucina, il contenuto è il sapore. Ma la forma? Il verde, nella pittura, è solo un colore. Il verde, nella cucina, è passato di piselli, pasta di wasabi, crema di cavolo verza, spinacino croccante, zucchina sbollentata, rucola e crescione e così via… Se si è onesti, quando si compone un piatto si dovrebbe partire dal gusto e sperare che, fra tutti gli alimenti impiegati, esista la possibilità di un uso cosmetico, affinché la preparazione non sia solo buona, ma anche piacevole alla vista. Il contrasto complementare è uno dei primi trucchi del food design: se vuoi che il tuo piatto colpisca l’occhio, che sia vivace e non spento, a un determinato colore contrapponi il suo complementare. Al rosso opponi il verde, al giallo il viola, al blu l’arancio e viceversa. Tutto questo è molto semplice. Le cose si complicano quando si cerca di traghettare anche nel sapore questa ricerca cromatica, aiutandoci attraverso quella che popolarmente si definisce “psicologia del colore” e che attribuisce, a ciascuna tinta, un’emozione. Il verde suscita freschezza, il rosso calore intenso, il giallo solarità… Ma non è così facile e la ricerca vera, per essere onesta, deve sempre partire dal gusto. Bella la chiazza verde della pasta di wasabi con una fresca fetta di rosso pomodoro, immerse nel giallo di una crema di zucca, ma… davvero ci azzeccherà anche come combinazione di sapore? Ecco, la bravura dello chef-designer è tutta qui: fare in modo che la piacevolezza visiva corrisponda alla fine anche a una piacevolezza gustativa. I cerchi e le linee sono un’altra tecnica che i pittori conoscono bene. Le linee continue diagonali suscitano movimento, quelle verticali sono autorevoli e rendono rigorosa la composizione, quelle orizzontali evocano tranquillità. Le linee spezzate costringono l’occhio a interrompere lo sguardo, ma sono soprattutto le curve a produrre l’idea di morbidezza: per questo le curve sono protagoniste incontrastate del food design. La morbidezza, in cucina, corrisponde sempre alle percezioni dei grassi, degli oli, ma anche delle lievitazioni: un cibo sagomato come una cupola evoca idee soffici, mentre squadrato è rigore e si accosta a cibi dal sapore deciso, intenso, ben riconoscibile. Le composizioni, infine, si sviluppano sempre in altezza, con una sorta d’intento piramidale: sopra a tutti va l’elemento che deve dimostrare la qualità del piatto o di una tecnica di cucina. Tanto per evidenziare che, se qualcosa è bello, dovrebbe avere sotto sotto anche un valore. Giorgio Giorgetti www.cucinodite.it – 87 –


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PASTORELLO MATTINIERO Maria Lai Sculture Museo a cielo aperto Maria Lai, Ulassai. Fotografia di Bianca Laura Petretto Finito di stampare nel mese di marzo 2019


ISSN 2611-5271 € 33.00

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