AINASMAGAZINE Nº4 . 12/2016

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Dettaglio di fotografia © Nicolás Corredor

aínas ISSUE Nº4 . 02/2017


WALTER BENJAMIN DAI “PASSAGES” DI PARIGI


“USCIRE D I CASA COME S E S I GIUNGESSE D A U N L U O G O LONTANO...”


AINAS ISSUE Nº4 . 02/2017 INFO@AINASMAGAZINE.COM Direttore Roberto Cossu Direttore artistico Bianca Laura Petretto Grafica e fotografia Sofía Arango Echeverri Comunicazione Maria Victoria Gomez, Lucía Vaca Fotografie, dettagli di copertina e capitoli di © Nicolás Corredor Copy 2017, Ainas Nº4 La traduzione, la riproduzione e l’adattamento totale o parziale, effettuati con qualsiasi mezzo, inclusi la fotocopiatura, i microfilm e la memorizzazione elettronica, anche a uso interno o didattico, sono consentiti solo previa autorizzazione dell’Editore. Gli abusi saranno perseguiti a termini di legge.

Is ainas faint is fainas . gli strumenti fanno le opere AINAS reg. n° 31/01 Tribunale di Cagliari del 19 09 2001, periodico di informazione bimestrale, cartaceo e telematico Iscrizione n° 372004 al Registro della stampa periodica Regione Sardegna, L.R. 3 luglio 1998, n° 22, art. 21. Editore Bianca Laura Petretto Direttore responsabile Roberto Cossu

www.bbartcontemporanea.it info@bbartcontemporanea.com

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ISSUE Nº4 9 CHAPTER 1 . NEWS 10 commes des garçons

15 CHAPTER 2 . SPECIAL 16 cina, gli appunti sui polsini sono online 34 Harbin Fashion Week 2017 38 antonio marras, cercando gli arlecchini 62 parigi, in vetrina il corsetto della principessa 66 che bellezza quel teschio 75 CHAPTER 3 . THE NEW CODE 76 biomimicry, copie nell’arte

88 alan turing, numeri d’arte

99 CHAPTER 4 . CROSSING 100 balbaak, meraviglia al sapore di sangue 112 shiraz, città dell’amore 127 CHAPTER 5 . PATAATAP 128 incanto trasparente

129 Giovanni Bernuzzi, Maria Victoria Gómez, Nicolás Corredor

151 CHAPTER 6 . SWALLOW 152 la rabbia del palo cortado

156 la ricetta . filetto di maiale sfumato a palo cortado con spinacini croccanti e crema di gorgonzola e noci

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EDITORIAL

aínas ISSUE Nº4 I NUOVI MARZIANI

Forse l’idea non è facile da accettare, ma non se ne può fare a meno: nell’universo come si sta rivelando bisogna ridefinire l’uomo. La sua origine, il suo spazio, il suo destino. È una questione scientifica, che investe nello stesso momento, e più che mai, la filosofia, la prima autocertificazione della storia. E qualsiasi zona di permanenza dell’umanità. Naturalmente anche l’arte, se per arte si intende il racconto che l’uomo fa di se stesso, la sua memoria, il suo essere “speciale”. L’incertezza, celebrata proprio dall’arte negli ultimi decenni, è il segnale di una analisi improrogabile. Il clima, la sovrappopolazione, le disuguaglianze economiche crescenti (un’insostenibile freccia all’indietro nel tempo umano), il ricominciare costante della storia quando qualcuno sosteneva che fosse finita, l’evidenza che siamo più minuscoli di quanto si pensasse, sono le circostanze reali. E non oscurabili. <Viviamo un radicale cambiamento di scala, che non si limita al nostro pianeta>, ha scritto recentemente l’antropologo francese Marc Augé. <Stiano uscendo pian piano dal geocentrismo: ci sono miliardi di sistemi solari nella nostra galassia, miliardi di galassie nell’universo conosciuto>. Questa constatazione, aggiunge Augé, <conforterebbe l’ipotesi che non è la storia che si conclude, ma la preistoria dell’umanità come società planetaria>. Attenzione, non è fantascienza, anzi è la fine della fantascienza, proprio quella che <si interessava ai marziani>. Perché i marziani siamo noi. Lo siamo diventati. Si capovolge in un certo senso la previsione di H.G. Wells nella “Guerra dei mondi” ma resta la sua lezione: certi eventi navigano nella fantascienza solo perché è incompleta la nostra conoscenza. Lungo la strada che vede Dio semplicemente come una carenza di informazioni, senza offesa per le religioni. Negli ultimi mesi il National Geographic ha mandato in onda un film-documentario su Marte che consolida le possibilità utilizzando la fiction come ancella della scienza: pur con mille incognite la colonizzazione del pianeta freddo non appare illusoria. È scientificamente plausibile e forse risponde a un problema di sopravvivenza della nostra specie. Non siamo più nei racconti di Vernor Vinge, siamo nel futuro immediato. Se Israele annuncia che la teoria di Stephen Hawking sui “buchi neri” ha trovato una conferma, ci si chiede giustamente “cosa resterà di noi”. Su Repubblica Giovanni Bignami ha sottolineato le conseguenze filosofiche, e una su tutte: <Si spezzerebbe il legame fisico tra passato e futuro>. Vero o non vero, i conti bisogna farli. Comunque sia, sostiene Augé, ora <comincia la storia dei terrestri>. Che sembrano avere una sola finalità, o almeno quella decisiva: la conoscenza. <L’uomo terrestre nascerà il giorno in cui tutti gli esseri umani saranno interessati a sapere cosa sono>. Così abbiamo una nuova utopia, neppure di utopie possiamo fare a meno: l’istruzione. Augé sostiene che <per diventare dei terrestri ci rimane solo da riconoscere la tripla dimensione dell’essere umano>. Individuale, culturale e generica. <Ogni individuo deve riconoscere in sé e in ognuno degli altri la sua parte di umanità generica, indipendentemente dal sesso e dall’origine>. Per –6–


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dirla con Sartre, giustamente citato dallo stesso Augé, <ciascun uomo è tutto l’uomo>. Quanto sia difficile riconoscere la propria parte di umanità generica, da un luogo all’altro della Terra, è facile constatarlo: il passaggio è ancora strettissimo. Ci sono poi i problemi posti dalla razionalità della storia se non, per qualcuno, dalla natura dell’uomo stesso. La conoscenza diffusa è un’utopia? Allora sicuramente è il primo bersaglio. O meglio, dato che i nemici sono sempre stati più degli amici, il bersaglio grosso. E porta con sé i germi dell’autodistruzione. Nell’epoca della Rete (che è anch’essa inizio di un’altra narrazione), in cui apparentemente la conoscenza è di tutti e non di pochi, è già scattata una sorta di entropia. Provocata dal modo più rudimentale di cancellare il concetto di Verità, posto che esista: falsificare. Creare il fatto artificiale, per poteri minimi e straordinari, spesso totalitari. Credulità al posto di credibilità. Con una rapidità d’azione impressionante siamo già nell’epoca della post-verità o, per usare la definizione di Timothy Garton Ash, della post-fattualità. Un meccanismo semplice, impiegato fin dalla Donazione di Costantino, il più abusato, ma tanto più pericoloso sui grandi numeri. È una possente formula di inquinamento, dal villaggio al pianeta, che disegna una contro-utopia, l’Alien del nostro tempo, secondo gli apocalittici. Fino al punto da generare ancora un’altra utopia: la Verifica. Quasi bizzarro a questo punto pensare che il geocentrismo venga <pian piano> superato. Eppure, nonostante tutto, è così. L’antropologo francese sancisce al suo campo ciò che tutti, consapevolmente o meno, hanno intuito. La scienza assoda, la filosofia si rigenera, e la politica, soprattutto attraverso il suo più eccellente risultato - la democrazia - avrebbe molto da lavorare. Ma la società? Di fatto si apre un’altra formulazione (non devastante) del concetto di globalizzazione. Una volta accettata l’analisi di Augé, e non si vede come si potrebbe evitarlo, tutte le strade di pensiero sono aperte. E tutte le ricette. E così tutti i campi della “narrazione” umana. Come dobbiamo vederci, nell’immensità del cosmo, come dobbiamo rappresentarci? Cosa è la nostra specificità? In un paesaggio infinito e indecifrabile cosa significano la “Gioconda” o lo scalpello di un artigiano? Tanto per fare il paio con una centrale nucleare o con un campo di grano. Dobbiamo meditare, dobbiamo sforzarci, dobbiamo ripristinare la filosofia. Detto sommessamente, dobbiamo “superare” ciò che siamo. Proprio ora, nel momento in cui Hawking segnala il massimo rischio della sua scoperta: <I libri di storia e la nostra stessa memoria potrebbero essere un’illusione>. Ma l’uomo è per natura un essere ottimista, anche se talvolta esagera. La sua forza, e non solo cinematograficamente, è trovare soluzioni. E nuove dimensioni per se stesso. Con una parola-concetto riassuntiva: Cultura. Ma poiché nell’universo esiste un tot di materia oscura, viene pessimisticamente da chiedersi: se l’uomo è carico di ottimismo, è lecito essere ottimisti per l’uomo? Roberto Cossu –7–


Dettaglio di fotografia Š Nicolås Corredor


CHAPTER 1 . NEWS


NEWS

comme des garçons

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Moda protagonista del 2017. Moda come arte, con qualche concessione al gossip di lusso. Sono parecchie nel mondo le vetrine dello “stile” e sicuramente la più attesa - per la pluralità di ambienti a cui si rivolge - è quella dedicata a Lady D. “Diana: her fashion story” è la mostra in programma dal 24 febbraio al Kensington Palace di Londra. Un guardaroba che vuole raccontare anche una vita grandiosa e sfortunata finita drammaticamente 20 anni fa: così ecco il vestito indossato da Diana alla Casa Bianca per danzare con John Travolta, la blusa ad uso fotografi del fidanzamento con Carlo, e altri abiti indossati in occasioni specialissime, ma anche i panni del quotidiano. Un mito della società contemporanea, piaccia o non piaccia. E sempre a Londra, al Fashion and Textile Museum, dal 26 maggio al primo ottobre in scena “The world of Anna Sui”, un viaggio brillante in un mondo non certo essenziale, comunque molto riconoscibile: bando alla sobrietà, la cifra della stilista americana di origine cinese fonde pop e romantico, il surfer e la collegiale accattivante, culture e presunte sottoculture, in un trionfo di colori e fantasia. Decisamente più classici i cento abiti di Cristòbal Balenciaga in mostra dal 27 maggio (e fino al 18 febbraio del prossimo anno) al Victoria & Albert Museum: una storia di eleganza costruita a Parigi tra gli anni Cinquanta e Sessanta e distesa in tutto il pianeta. Leggendari i cappotti neri e le mantelle, secondo uno stile che affonda nella tradizione spagnola. Dalla capitale inglese all’Oriente: “Get a life”, aperta fino al 28 febbraio al K11 di Shangai. Siamo nella confluenza fra moda, arte e società attraverso un progetto di Vivienne Westwood curato da Song Zhenxi: la figura e il ruolo del designer nell’universo dorato del fashion ma anche nelle sue possibilità di incidere sulle cose esterne alla passerella. Sui problemi del mondo. C’è l’avanguardia e c’è lo slancio ecologico, e c’è paradossalmente la critica al consumismo, campi in cui la Westwood è impegnata da tempo. La mostra raccoglie abiti, film, foto, disegni, vuole affascinare e far riflettere. Poi tappa negli Stati Uniti. Un salto al Fine Arts Museum di San – 11 –


NEWS

Francisco per ricordare, anche attraverso i vestiti, i favolosi anni Sessanta di Haight-Ashbury, dove si riunivano eserciti di artisti, musicisti e scrittori. “Summer of love: art, fashion and rock & roll” è il titolo della mostra (dall’8 aprile al 20 agosto), un omaggio a quell’estate del 1967 che coincise con un gigantesco meeting della creatività. Abiti e accessori che hanno disegnato il passaggio tra il XX e il XXI secolo, invece, in mostra (fino al 28 gennaio) al MoMa di New York. Tra i Levi’s 501 e le t-shirt bianche, giusto per fare qualche esempio, “Items: is fashion modern?” racconta in 99 esemplari correnti, design, ricerca, di un’epoca che non ha esaurito la sua spinta. Ma il top del programma 2017 sembra essere la mostra “Rei Wakubo and the art of the in-between”, dal 4 maggio al 4 settembre al Metropolitan Museum. Se non altro per il fatto che, evento assai raro, il Met dedica la vetrina ad una stilista vivente. Creativa e designer di interni, Rei Kawakubo, superfluo ricordarlo, è la fondatrice del celebre brand “Comme des Garçons”. Una figura essenziale nell’evoluzione della moda europea, che la mostra esplora anche negli aspetti più personali.

SOFÍA ARANGO

“Liquid Mezzanine” collection, 2014

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Š Marco Castellani


Dettaglio di fotografia Š Nicolås Corredor


CHAPTER 2 . SPECIAL


SPECIAL

cina, gli appunti sui polsini sono online – 16 –


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La città di ghiaccio è una incantata e incantevole città della Cina nord orientale, nella Manciuria dalle architetture fiabesche che compongono cattedrali trasparenti, circondate da lande bianche dove scivolano in una danza collettiva le frettolose persone avvolte dalle pellicce. Ad Harbin fa molto freddo, ma all’inizio dell’anno si muovono proprio qui la cultura e la finanza cinese. Harbin Fashion Week 2017 è un evento unico per riunire da tutto il mondo moda e arte, disegnatori, creativi, curatori, produttori, tutto quanto fa spettacolo e business. I giovani talenti sono privilegiati. Il governo cinese ha investito su questa manifestazione e ha finanziato i negozi di moda per creare circuiti di vendita soprattutto online. Si espone, si sfila, si progetta e si vende in rete. I disegnatori cinesi in HFW 2017 hanno portato la tradizione che talvolta poteva scadere in retorica stilistica e sicuramente si sono distinti tra i disegnatori più fashion quelli provenienti dall’Italia, da Parigi, Londra e N.Y. Tra le sfilate l’innovazione è stata sottolineata dagli stilisti americani e giapponesi soprattutto con le collezioni uomo. Un’immagine di uomo giovane attuale: giacche e pantaloni corti in un contesto perfetto di taglio, stoffe, accessori che variano dal nero al blu, alle tonalità dei grigi. Un uomo “Peter Pan”; modelli asiatici che giocano tra le pieghe del corpo e il rigore formale sartoriale per essere bambini. Pantaloni troppo corti, maniche troppo corte, cravatta sottile insieme a colori, stoffe, tagli tradizionali. Una collezione molto easy ha esaltato invece l’uomo sportivo; con una esilarante ironia i modelli asiatici, ieratici e plastici, hanno proposto Ken Carson, l’action figure prodotta da Mattel. Una citazione presa a prestito da Moschino. La maison italiana nel 2016 ha presentato Barbie e Ken loves con gli stessi look che sfilavano nel red carpet MTV indossati da Jeremy Scott e Stella Maxwell. A HFW si propongono capi sportivi maschili con Ken replicanti di volta in volta interpretati dai modelli a seconda dello sport rappresentato. Enormi stampe e tessuti plastici, cerniere giganti, bermude, calzettoni e pantofole, per ogni sport un eccesso esclusivo, un “effetto bambola” distante dal luogo comune e dalla quotidianità. Non capi per sudare, tenersi in forma, e utili all’esercizio fisico, ma capi in-formali, estetici, eccentrici, visibili, fuori dal contesto, segnale di una nuova esigenza che – 17 –


SPECIAL

trasborda dalla moda alla creatività. E le collezioni donna? Difficile districarsi tra i giovani stilisti, i creativi, i curatori, le proposte che si intrecciano tra moda e arte. Spesso il kitsch impera, sboccata voce che ama riempire, esagerare, attirare qualunque sguardo e raramente si manifesta come esperienza sopraffina della forma. Il kitsch ha la capacità di proliferare, ma qualche volta diviene espressione di stile. Così le collezioni donna spesso trasudano forme scontate con rare eccezioni di pennellate eccellenti. Una fra tutte, la disegnatrice Italiana Silvia Giovanardi, che ha proposto una collezione ispirandosi agli anni ’70. Interventi molto innovativi i suoi: un new hippie che sposa tessuti etnici insieme a pelle, jeans, metallo e crea splendide borse con le trame colorate dei lacci delle scarpe o le cerniere dismesse. Un riciclo intellettuale che sottolinea le maniche ricamate evocanti stilemi orientali e asiatici mischiati a virtuosismi dipinti, cuciti, per restituire geroglifici intraducibili di un nuovo linguaggio che si spinge oltre il confine. Polsini bianchi con un idioma per tutti che solo pochi sanno decodificare. E la moda incontra la libertà del gesto che talvolta crea l’oggetto d’arte, unico e riconoscibile, appunti per noi profani. Bianca Laura Petretto

SILVIA GIOVANARDI

Honeymoon 1 is the first collection of the young designer

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© Harbin Fashion Week 2017


© Sofía Arango



SPECIAL


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© Harbin Fashion Week 2017

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© Sofía Arango

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© Sofía Arango

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© Q Design And Play

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© Q Design And Play

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BOYS OF BANGKOK: LEISURE PROJECT STORE “You Can’t Hurry Love” spring/summer 2017 Harbin Fashion Week Photos from Q Design And Play – 29 –


SPECIAL


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© Sofía Arango

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© Sofía Arango

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NE . TIGER COLLECTION Harbin Fashion Week 2017

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SPECIAL

HARBIN FASHION WEEK 2017 Harbin è il centro politico, economico e culturale della Cina nordorientale, la capitale della provincia di Heilongjiang. È una delle prime dieci città turistiche più popolari in Cina, nota per il festival della Scultura di ghiaccio che si tiene ogni anno nel mese di gennaio. Si distingue per le antiche architetture che risalgono ai primi decenni del xx secolo quando Harbin era composta da migranti provenienti da decine di paesi e sin da allora la città è considerata come la capitale della moda in Cina. La Settimana della moda di Harbin è un evento importantissimo che si svolge all’inizio dell’anno; cinque sessioni all’avanguardia incentrate sulle collezioni autunno e inverno per promuovere la nuova economia abbinando la moda all’arte. L’obiettivo di Harbin Fashion Week 2017 è quello di creare un gruppo di esperti per discutere sulle questioni importanti nel settore della moda e della cultura a livello internazionale attraverso seminari, simposi e sessioni networking. HFW attira oltre 300 rappresentanti dei media provenienti dalla Cina e dall’estero. Circa 3500 giornalisti e operatori della comunicazione con conferenze stampa organizzate per marche dopo ogni sfilata. Hong Group Bo, fondatore e conduttore di Harbin Fashion Week, possiede il Museo d’arte, Il centro di istruzione e il centro di formazione, oltre ad hotel e quattro grandi centri commerciali di Harbin. Hong Bo promuove i collegamenti che facilitano i rapporti tra il mercato cinese, l’industria e i professionisti creativi attraverso diverse piattaforme e sistemi e fornisce programmi di mentoring per aiutare i talenti della moda a trovare le opportunità per sviluppare in modo efficiente il business. Fondato nel 2014, il Westred e Gallery of Contemporary art è il primo museo di arte contemporanea a Harbin e occupa un’area di oltre 300 mila metri quadrati. Durante HFW, ospita una mostra appositamente curata per rompere la barriera tra moda, arte e vita, una piattaforma open aperta al pubblico per imparare e apprezzare l’arte contemporanea che interagisce con la moda. Si sviluppa un ambiente per i talenti della moda, per acquisire nuove e creative ispirazioni. HFW serve a identificare modi per migliorare e influenzare la – 34 –


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creatività della comunità della moda in Cina, attirando giovani di talento del settore in Cina attraverso percorsi internazionali. L’obiettivo è strategicamente il riposizionamento della moda cinese nel mondo della moda globale. Allo stesso tempo si intende fornire un’opportunità ai designer stranieri per promuovere e accelerare la diffusione dei loro marchi, per migliorare i risultati commerciali e per fornire opportunità ai giovani designer innovativi e di talento nel mercato cinese. Una proposta innovativa è Designers Studio Project. Designers Workshop è stato allestito per artisti stranieri e designer che vogliono progettare e realizzare i loro brand nel mercato cinese; il progetto si collega agli interessi di tutti gli aspetti inerenti la moda, dalle negoziazioni al diritto d’autore, dalla ricerca dei tessuti alle vendite e al marketing, sino alla produzione e fabbricazione. Si crede che il sostegno ai giovani talenti innovativi sia il contributo fondamentale per l’industria della moda globale. Harbin Fashion Week 2017 è una piattaforma internazionale che intende sviluppare imprese comuni e facilitare la cooperazione con i paesi che investono sulla moda, sulla cultura e sull’arte. Sono stati invitati Russia, Ucraina, Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna, Italia, Australia e altri 34 paesi e regioni, 120 stilisti coinvolti nella organizzazione delle sfilate. Uno spazio importante per l’arte transfrontaliera: arte a tema, arte e finanza, arte e abbigliamento, arte e design, arte e integrazioni. La Russia e la Fondazione degli Stati Uniti, la Fondazione Arte Giappone, PDG Arte Comunications di Paolo de Grandis, Italia, Fondazione Arte, Etiopia, Giappone, Tokyo Museum con i curatori d’arte contemporanea, la Biennale di Venezia, l’Università di Tsinghua, sono solamente alcune strutture importanti che partecipano al progetto “Arte e moda”. Nella settimana si sfila in galleria, il museo d’arte diviene luogo di incontro per il design, per il fashion e l’artista e l’opera d’arte fluttua tra scultura e abito, tra pittura e velature ricamate.

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© Sofía Arango


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SPECIAL

antonio marras, cercando

gli arlecchini – 38 –


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“Quali arlecchini? Dove?” “Oh, dappertutto. Tutt’attorno a te. Gli alberi sono arlecchini, le parole sono arlecchini…Gioca! Inventa il mondo! Inventa la realtà!”. Antonio Marras ha accolto l’invito rivolto a Vadim, il piccolo protagonista dell’ultimo capolavoro di Vladimir Nabokov, dalla vecchia prozia, e per tutta la vita non ha fatto (non fa) altro che cercare gli arlecchini. Osservare tutto ciò che lo circonda e ridargli vita. Non a caso nel giugno del 2013 chiuse con questa citazione la sua lectio magistralis all’Accademia di Brera, che gli conferiva la laurea honoris causa in Arti Visive. Già, arti visive, quelle che da sempre gli appartengono. Fatte di continui sconfinamenti, innesti, sovrapposizioni, incastri, mescolanze e fusioni. È una identità a brandelli, quella del fashion designer algherese, come quella della sua isola. A stracci e a toppe, come il suo lavoro. Per lui è davvero contemporaneo colui che non coincide perfettamente con la sua epoca, chi non si adegua alle sue regole, chi è inattuale, e proprio per questo, più degli altri, percepisce e afferra il suo tempo. È questo - alla fine - il suo ritratto, uno dei cinquecento che hanno affollato i milleduecento metri quadri della Triennale di Milano dedicati dal 21 ottobre al 21 gennaio alla sua mostra “Nulla dies sine linea”. Lo specchio di un uomo, che è egli stesso, in qualche modo, un’opera d’arte. Uno stilista, e un artista, che insegue lo scarto, il contrasto, l’errore, il varco, creando abiti che sfuggendo alle regole del tempo mantengono inalterata la loro autenticità. Marras non ama le tendenze dominanti, preferisce puntare sull’accostamento degli opposti. «Credo deliberatamente nel caos, e cerco di rappresentarlo con ordine». Allo stesso modo, non ama un mondo, quello del fast fashion, nel quale non si riconosce. «Sono tempi duri per la moda che cerca una strada indipendente, fatta di ricerca. Sono convinto che solo dalla contaminazione, dalla scomposizione, dalla fusione di elementi diversi possono nascere strade nuove». Lui sa come percorrerle. Compone tessuti come un poeta compone versi, rifiutando le regole, violando i codici, liberando tutti i sensi, dando voce all’inesprimibile. E inseguendo un’intima armonia, tanto più profonda quanto più caotico appare il suo operare. Marras è un riciclatore seriale. Un padre adottivo di qualunque objet trouvé. Lo attira tutto ciò che è scarto, e ricordo. «Raccolgo, ammucchio, combino tutto quello che trovo. Per me è istintivo – 39 –


© Daniela Zedda

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SPECIAL

non buttare niente. Strappo, taglio, lacero, incollo, disegno, ricompongo, separo e poi di nuovo metto insieme». Lo fa con i suoi stracci, lo ha fatto con quel “Nulla dies sine linea” che è il manifesto programmatico della sua vita: la frase di Plinio il Vecchio, riferita ad Apelle, che ha dato il titolo alla lectio magistralis a Brera e ora alla mostra della Triennale, curata da Francesca Alfano Miglietti. Non un solo giorno senza un disegno. Raccolti negli ultimi venticinque anni, i suoi sono schizzi, visi, figure, dettagli, finiti su qualunque foglio gli capitasse a tiro. Per presentarli degnamente in mostra, ha ritagliato loro cornici improprie, scovate nei mercatini, sottratte ad altri quadri, usate a comporre straordinari incroci di linee sottosopra. Ai disegni, alle cornici, agli schizzi nati dal caffè in cui intinge il dito, come un pennello, ha accompagnato le sue installazioni. Sedie sospese, pecore volanti, grandi letti di ferro. Inquietanti visioni condivise in altre installazioni con Maria Lai e Carol Rama. E alla fine del percorso, la gigantesca donna fatta con centinaia di gonne dei costumi sardi. Il principio e la fine di tutto. Una mostra che segue quella alla Biennale del 2011, quando espose la sua installazione “Archivio personale” e che ben si lega al suo essere anche uno scenografo, un costumista, un uomo prestato al teatro. «Sono curioso e incosciente», dice di sé. «Ho l’anima dello sperimentatore e del viaggiatore. Mi piace sconfinare, rompere equilibri, costruire nuove identità. Sono pronto alle svolte, alla continua ricerca di porte da aprire, di ponti da oltrepassare, di errori da fare e rifare». È sempre Ulisse che vince, e che sconfina. E Ulisse, stavolta, è un nomade con salde radici, un ragioniere, un commerciante. Un autodidatta che ama l’arte e ad essa si ispira per la sua moda. Lo ha fatto anche di recente, portando i suoi vestiti alla Triennale. Creando tra le istallazioni della mostra venti stazioni oniriche abitate da settanta tra attori, modelli, performers. Tutti vestiti con gli abiti dell’ultima collezione, rappresentavano i suoi sogni, i suoi incubi, quelli di tutti noi. Un’irruzione, in un luogo deputato alle arti visive, che è la sintesi del suo stare al mondo. «Il rapporto tra arte e moda è per me strettissimo. Viaggiano su binari paralleli che poi, mentre lavoro, convergono. Credo profondamente che non esistano muri, barriere, confini tra le diverse discipline. Provo (non so con quali risultati) a far dialogare arte, moda, teatro, danza, – 42 –


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cinema, poesia. Il mio approccio è il medesimo, lo stesso patema nell’affrontare una tela, dare inizio a una collezione, pensare ai costumi di uno spettacolo o creare una scenografia». La folgorazione risale a tempi lontani. A un taglio di Lucio Fontana che attirò la sua attenzione di alunno distratto, in visita a un museo. «Quella tela bianca, lacerata, squarciata, mi catturava. Quel taglio apriva la tela e mi portava al di là. Mi pareva che il taglio aprisse la luce al buio e il buio alla luce e che quel taglio fosse una ferita». Poi la scoperta di altri artisti, altre mostre, altri musei. «Ore e ore a chiedermi che cosa fosse l’opera d’arte, che cosa volesse dirmi, che cosa mi mettesse in difficoltà, che cosa non capissi. Abituato a consumare immagini e pensieri in modo veloce, davanti all’arte imparai a diventare lento, lentissimo… ». L’incontro con Maria Lai fece il resto. «Una volta le dissi che avevo copiato un suo disegno. Mi rispose: “Fare arte è un continuo rubare. Non preoccuparti, io rubo dappertutto. Nel momento in cui la rubi, l’opera diventa tua”. Da lei ho imparato ad ascoltare la voce delle cose. L’incontro con Maria ha segnato il mio approccio con l’arte, ha dato spazio alle mie visioni, mi ha aperto un cancello, mi ha indicato il filo sul quale camminare sicuro. Io che volevo fare l’acrobata, l’ho seguita». “Non tenere il broncio. Guarda gli arlecchini”…“Quali arlecchini? Dove?” “Oh, dappertutto. Tutt’attorno a te. Gli alberi sono arlecchini, le parole sono arlecchini…Gioca! Inventa il mondo! Inventa la realtà!”. Maria Paola Masala

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NULLA DIES SINE LINEA

Mostra e opere di Antonio Marras Fotografie di Daniela Zedda

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parigi, in vetrina il corsetto della principessa – 62 –


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Dal corsetto di Maria Antonietta ai seni, conici e iconici, creati dallo stilista Jean-Paul Gautier, tre secoli di storia e un medesimo denominatore: il racconto dell’assenza del corpo, la nostalgia di chi lo ha abitato, vissuto, intriso di storie e sudore, di memoria e identità. Anatomie d’une collection, in mostra fino al 12 febbraio a Parigi, al Musée Galliera, racconta lo struggimento dell’assenza. Il vuoto, l’emozione del corpo sparito, svanito, che tuttavia persiste nelle pieghe dei tessuti, nel risvolto di un colletto. Il ricordo di un movimento, il soffio di un gesto come sedimenti apparenti, e ancora visibili. Christian Boltanski sostiene che “La photographie de quelqu’un, un vêtement ou un corps mort, sont presque équivalents: il y avait quelqu’un, il y a eu quelqu’un, mais maintenant c’est parti”. «Anatomia di una collezione» fa da eco alla frase di Boltanski e pone ulteriori interrogativi. Una volta liberati da chi li ha indossati, i vestiti conservano il medesimo statuto? Raccontano la stessa storia? Sono ancora legati a una logica di moda? La mostra espone gli «abiti-reliquia», appartenuti a nobili francesi, celebri ma anche sconosciuti: dal gilet del futuro Luigi XVII, esempio di moda infantile aristocratica dell’epoca, al vestito da giorno di Eugenia, antica imperatrice dei francesi (1826-1920), fino al manicotto in piume di pavone e lofoforo, appartenuto a Mathilde-Laetitia Wilhelmine Bonaparte, nota come principessa Matilde, nipote di Napoleone e figura incontournable del Secondo Impero che tenne a Parigi un salone letterario di grande fama. Per la loro forma, per il contatto stretto che intrattengono con il corpo, questi «abiti-reliquia» costituiscono una sorta di doppio di chi li ha portati, intrisi come sono di un carattere di sacralità, e più che mai tesi a trasmettere nel tempo il ricordo della condizione umana. Questo carattere di sacralità si ritrova intatto in tutte le creazioni appartenute ad artiste di epoche differenti. Attraverso l’avvento dell’Alta moda, avvenuto nel XIX secolo, la mostra esplora la figura della musa del creatore: attrici, danzatrici, cantanti liriche, lanciano mode e creano tendenze. Il collo in pelliccia di agnello di Mongolia ed ermellino, indossato da Sarah Bernhardt, è l’archetipo di questa svolta del costume, che porta i creatori di moda a lavorare in stretto contatto con le proprie égéries: Audrey Hepburn, Brigitte Bardot, Catherine Deneuve, ma anche Minstinguett e Tilda – 63 –


SPECIAL

Swinton. Intime e selvagge, eleganti e singolari, vesti e personalità si confondono e, senza bisogno di impaginazione o di parole, creano un enciclopedia dell’essere destinata a durare per sempre. L’esposizione si chiude con un omaggio alla stilista francese Sonia Rykiel, scomparsa nel 2016 e pioniera del prêt-à-porter degli anni ‘60. Gli abiti esposti sono quelli che lei stessa portava, a sottolineare la carnalità e la nozione di «seconda pelle» che caratterizzavano le sue creazioni. «Sarei assolutamente incapace di disegnare un modello che non avessi voglia di portare», diceva, coltivando al contempo il sogno segreto che gli abiti le crescessero dall’interno, come i capelli, i peli, la pelliccia e come la lana sulle pecore. Un’aspirazione all’assoluto, oltre che un desiderio di nudità compiuta, paradigma esemplare dell’anatomia di ogni collezione di moda. Carla Boi

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SCULTURA

Gigi Rigamonti

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SPECIAL

che bellezza quel teschio – 66 –


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Il genere Gothic, chiamato Dark in Italia (Grufti in Germania), è una delle più longeve sottoculture e, a partire dagli anni ’80 del nostro secolo, non ha smesso di fare parte dell’underground fino ad arrivare alle passerelle dell’alta moda passando per musica, arte e cinema. Nata dalle ceneri del punk a fine anni ’70, l’onda dark si manifesta come un qualcosa di nuovo ed eccitante. A differenza del punk che rifiutava categoricamente l’istruzione come metodo imposto dalla società per incasellare le persone, i dark invece si nutrono di cultura. Affascinati da tutto ciò che è oscuro leggono avidamente, ispirano il loro look alle creature fantastiche dei film dell’orrore o alle dive del cinema muto, assorbono dall’arte il gusto per simbologie e stile. Il nero è il colore prescelto da questo movimento, con rare concessioni al bianco, al viola, al rosso. Un nero assoluto che da sempre richiama tematiche negative come il lutto, l’inferno, l’incubo. La scelta cromatica è il primo modo di esprimersi che i dark utilizzano per contrastare lo yuppismo imperante degli anni ’80. Il non colore, il colore dell’anarchia, del caos, della morte. A questo si accompagnano accessori come teschi, croci, ossa, bare e tutto ciò che è legato ai temi occulti, alla magia, all’ignoto. Il nero ha da sempre richiamato sensazioni funeste, pensiamo alle “pinturas negras” di Goya ad esempio. La peste, il diavolo, le streghe, sono rappresentati abbigliati di nero nel teatro dell’opera e in letteratura fino ai cartoni animati per bambini. Il vessillo sulle navi pirata era nero, nero nella tradizione biblica è anche il colore della terra che accoglie i corpi dei defunti. Nella storia moderna è associato a Fascismo e Nazismo, in netta opposizione con la serenità, la gioia, la spensieratezza di cui è strenuo antagonista, foriero invece di severità e rigore. In filosofia l’Esistenzialismo, nell’arte gli eccessi eccentrici del Surrealismo, nel cinema Murnau e la tradizione vampirica, in architettura le grandi cattedrali gotiche, tutto confluisce in un fil noir che i dark del 20esimo secolo fanno proprio e rinnovano adattandolo ai tempi. Trucco teatrale che annulla la differenza tra uomo e donna, mantelli, abiti di pizzo lacerato, capelli rasati ai lati e verticalizzati con robuste cotonature, piercings, orpelli ispirati al declino. Questa è l’immagine che il genere ha conservato fino ai nostri – 67 –


SPECIAL

giorni pur diversificandosi a partire dalla metà degli anni ’90 quando nuove tendenze musicali e di costume all’interno della scena hanno influenzato il look fino a giungere a vere e proprie dicotomie con le origini, riuscendo addirittura a farlo assorbire in parte dal mainstream. L’inquietudine viene sostituita lentamente da attitudini più fashion, basti pensare al teschio ricoperto di diamanti realizzato da Damien Hirst che ha fugato l’ombra della morte per strizzare l’occhio al glamour contribuendo a sdoganare nell’immaginario comune il teschio come decorazione. Questa sottocultura è molto complessa, densa di richiami a epoche lontane così come ad un futuro remoto: si va dal romanticismo tormentato di pittori come Friedrick e libri come “Dracula” di Bram Stoker fino a Giger e le sue creature biomeccaniche. L’oscurità si rinnova nel tempo assumendo nuove sfumature e derive. Si pensi alla corrente detta cyber goth che mantiene un aspetto inquietante ma si rifà ad un immaginario post atomico e sfoggia fluorescenze azzardate e simboli di una decadenza contemporanea quali il logo degli scarti nucleari applicato ai vestiti. Perché una scelta “antagonista”? Se negli anni ’80 la necessità era distinguersi da una società materialista e falsamente positivista oggi le cose non sono molto cambiate. Aldilà degli aspetti fagocitati dal mainstream che fanno sì che elementi temuti come la croce attualmente vengano indossati senza alcun problema, lo spirito di ribellione rimane lo stesso così come la ricerca di una bellezza non stereotipata. Una ribellione volutamente discreta e silenziosa, statisticamente chi appartiene a questa scena non è quasi mai coinvolto in atti criminosi, anzi, all’interno dell’ambiente dark sono tantissime le persone attente a questioni ambientali e animaliste, vegetariane e vegane. Fin dalle origini gli animali sono molto cari al popolo in nero che vede in loro l’ultimo baluardo di sincerità e la natura è venerata in quanto dispensatrice di pace. In contrasto con questo senso di quiete e tranquillità le mises sono spesso aggressive, borchiate e con chiari richiami al mondo BDSM per via dell’uso di tessuti considerati fetish come pvc, pelle e rubber. Anche la scelta di palesare aspetti estetici apertamente erotici (ma non necessariamente poi praticati nella vita privata) costituisce una provocazione alla società perbenista e bigotta e un richiamo alle tante rappresentazioni di Eros e Thanatos che – 68 –


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l’arte, la letteratura e anche la scultura (si pensi alle sensuali statue del cimitero monumentale di Staglieno a Genova) ci tramandano. Il fenomeno Gothic ha attraversato i confini europei per divenire globale: Usa, America Latina e Giappone hanno scene attive e fiorenti, band e label discografiche, club e negozi specializzati. L’innovazione maggiore si ha dal Giappone: dal sol levante arrivano le Gothic Lolitas, un’interpretazione nipponica degli stilemi del dark ispirata al mondo delle bambole e all’epoca vittoriana. La cura per il dettaglio è maniacale ed è notevole quando estetica occidentale e orientale si mescolano dando vita a look incredibilmente definiti e affascinanti. Negli Usa invece viene recuperata la tradizione rockabilly miscelata con l’horror rock creando così il sotto genere goth’a’billy più fumettistico e retrò. In America Latina sono le fascinazioni legate alla tradizione de El Día de los Muertos ad influenzare l’estetica dark caricandola di riferimenti alla storia locale. La capacità di rinnovarsi rende questa sottocultura tra le più creative e durature, spostando i confini di un nero profondo verso sfumature in continua evoluzione. Il fascino per tutto ciò che è oscuro, per il lato tenebroso dell’animo umano, già indagato a fondo da filosofi Epicurei, pre-Raffaelliti e poeti come Baudelaire non smetterà mai di attrarre l’uomo. Shelley definiva questa attrazione “la tempestosa bellezza dell’orrore”. Giacomo Pisano

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© Kurt Grung

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DJ BLACK DEATH 1334 Fotografie di Kurt Grung

Francesca è cagliaritana, residente dj dello Slimelight di Londra, una delle discoteche più note al mondo per il genere gothic/ industrial, è anhe modella e musa per l’arte di Kurt Grung. Kurt Grung è fotografo e pittore, nato in Sud Africa e residente a Londra. Ama la pittura dadaista e la sperimentazione con tecniche fotografiche.

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© Kurt Grung

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Dettaglio di fotografia Š Nicolås Corredor


CHAPTER 3 . THE NEW CODE


THE NEW CODE

biomimicry, copie nell’arte

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“La natura ci offre un’immensa varietà di forme visibili e invisibili che sfuggono al nostro occhio, affascinanti e misteriose, in continuo movimento ed evoluzione. Molti artisti contemporanei si sono ispirati alle forme naturali, soprattutto dopo l’invenzione del microscopio che ha rivelato mondi infinitamente piccoli e decisamente suggestivi per forme e colori: diatomee, ciliati, protozoi, muffe, bacilli, parameci, radiolari… I microrganismi, oltre ad avere un interesse scientifico, sono diventati fonte d’ispirazione per composizioni multicolori e forme complesse.Queste forme normalmente invisibili sono state utilizzate in modo visibile, sono state accostate, moltiplicate, ingrandite, rovesciate, composte con altri elementi del linguaggio visuale in modo tale da perdere la loro reale connotazione e diventare un’opera d’arte astratta.” Anche se la biomimetica (biomimicry) è ancora poco conosciuta in Italia, nel resto del mondo è una parola potente, associata ad un continuo sbocciare di nuove professioni e applicazioni, un vero e proprio centro di sapere applicativo, quindi anche di potere, che stimola la crescita di un nuovo mercato e di una nuova specializzazione manageriale. Un breve cenno di storia: durante la prima metà del ventesimo secolo, un ristretto gruppo di scienziati americani pensò di applicare, in modo multidisciplinare, la fisica allo studio delle funzioni biologiche, questo portò alla definizione di una nuova disciplina che chiamarono biofisica. Nel 1957, Otto Herbert Shmitt, studioso e inventore americano, al culmine dei suoi studi sulle terminazioni nervose e le interazioni bioelettriche, utilizzò per primo il termine biomimetics, dal greco bios: vita, e mimesis: imitare, per meglio definire il nuovo campo di ricerca. (1) Shmitt faceva parte di una generazione di scienziati desiderosi di uscire dai confini ristretti delle loro discipline specifiche per abbracciare un nuovo modo interdisciplinare di studio e ricerca che includesse diversi scienziati e specialmente diversi gruppi di tecnici specializzati. Nel 1958 un altro studioso americano, appartenente alle forze militari, Jack Steele, utilizzò per la prima volta il termine Bionica per definire la scienza dei sistemi (processi), aventi funzioni copiate – 77 –


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dalla natura, o aventi caratteristiche analoghe. (2) Oggi la biomimetica costituisce un approccio multidisciplinare in costante crescita, attiva nei più importanti settori accademici quali scienza, tecnologia, ingegneria e matematica. Questo sviluppo esponenziale di studio ha creato l’esclusivo Biomimicry institute nel Montana, Janine Benyus ha teorizzato le dieci leggi della Biomimicry, sono stati formati altri centri di ricerca in America e nel mondo, in poli universitari e industriali. In Inghilterra nel 2013 è stato introdotto lo studio della biomimicry come materia di studio di technology e design per i ragazzi da 11 a 14 anni, nel resto del mondo lo studio applicativo di questa materia rimane riservato a studi specialistici di ingegneria e architettura. Da questo breve specchio storico appare evidente l’interesse specifico che questo tema suscita per i possibili sviluppi di investimento nella ricerca industriale. Qualche esempio, per iniziare: il velcro, inventato, ma è meglio dire brevettato nel 1955 da un ingegnere svizzero, deriva dallo studio di un seme della pianta lapola, molto comune, ricoperto di minuscoli uncini che lo rendono fastidiosamente capace di attaccarsi a pelo e tessuti che naturalmente gli permettono di riprodursi in luoghi distanti e favorire così una diffusione territoriale. Oggi il velcro, prodotto in differenti tipologie plastiche, è diventato comune in qualsiasi oggetto che necessiti di un sistema di bloccaggio temporaneo regolabile. Altrettanto, dallo studio delle proprietà idrorepellenti della pianta del loto (le foglie) è stato possibile derivare una vernice o un trattamento che respinga l’acqua dalle superfici e dai tessuti, creando insieme un rivestimento autopulente; dalle forme dei semi in balia del vento nuovi schemi formali per pale eoliche efficienti e rivoluzionarie, dalle strutture dei termitai e formicai nuovi sistemi per climatizzare in modo efficiente e a bassissimo consumo energetico. Lo studio della forma e della funzione naturale (dalla zampa del geco = una nuova sostanza o struttura super adesiva) ora comprende anche lo studio dei principi (la struttura sociale delle api come modello sociale specializzato da applicare in azienda). Gli esempi oramai sono molteplici e si sviluppano in numerosi campi applicativi, ma torniamo a guardare lo sviluppo storico del processo di ricerca in termini generali. – 78 –


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Come ho introdotto, mentre in America venivano inventate, siglate e brevettate le parole rispondenti a questo studio naturale, nell’europa post Freud e Piaget, come naturale prosecuzione degli studi naturalistici di Darwin a fine Ottocento, lo studio della natura prendeva direzioni meno tese verso il profitto e l’immediata applicazione industriale e più incentrate verso la ricerca pura. Nel 1948 Karl von Frisch pubblica in Germania “L’architettura degli animali”. L’attenzione dello studioso è prevalentemente rivolta all’analisi delle strutture costruttive di differenti specie animali, in particolare il mondo degli artropodi, degli insetti, perché con poco meno di un milione di specie rappresenta in assoluto il più numeroso e variegato; basti pensare al rapporto con l’intero elenco delle specie dei mammiferi che ne conta solo qualche centinaio. Immediatamente successivo, lo studio di Konrad Lorenz pone le basi per la comprensione del comportamento animale fondando così la moderna etologia. Questo per delineare il panorama storico globale responsabile della creazione delle basi della ricerca. Al di là degli aspetti immediatamente positivi e lodevoli riguardo lo studio di elementi o processi naturali tesi a migliorare la nostra vita, occorre delineare anche i possibili rischi di questo passaggio in una visione globale. Ho già accennato come la ricerca di nuovi prodotti derivati da esempi naturali sia in realtà dettata da una logica di profitto, ma il vero rischio è rappresentato dal fatto che questa potrebbe portare il rapporto tra naturale e artificiale verso una modifica sostanziale. Da un lato infatti il nuovo settore della biomimetica potrebbe modificare l’artificiale per renderlo più efficiente e moralmente accettabile, dall’altro l’artificiale potrebbe avere il potere di modificare il naturale. Un esempio è il paesaggio biocapitalista nel quale, per il fabbisogno di verde, la forestry industry crea nuove forme di natura basate sulle richieste industriali, gli alberi diventano elementi di un processo produttivo grazie a modifiche genetiche tese a velocizzare la crescita e l’efficienza della produzione. Il biocapitalismo offre grandi possibilità (si pensi solo alla creazione di specie verdi in grado di purificare l’atmosfera), ma comporta forti rischi per l’ecosistema e specialmente per la bioversità. (Può essere considerata naturale una natura omogenea, controllata, – 79 –


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seriale in funzione delle necessità del solo essere umano?). Questa riflessione si rispecchia in modo preoccupante in qualunque allevamento o coltivazione, ma anche, più in generale, all’assunzione del termine “naturale” con implicazione di aumento di valore di mercato. Mi viene in mente l’esempio della mela venduta nella bancarella di un supermercato qualunque a New York, si passa dalla mela normale senza dicitura ulteriore, quindi possiamo supporre di coltivazione controllata, geneticamente modificata per resistere ai parassiti, al gelo o resistente al tempo, perfetta nella forma e colore, ma quasi artificiale, alla mela poco più costosa “biologica”, per poi salire di prezzo per la mela “organic”, e infine alla mela “amish”, costosa perché naturale, deforme e spesso bacata, costosa in quanto totalmente “naturale”. Risulta curioso pensare che l’uso di fitofarmaci e elementi fertilizzanti implichi comunque un sovrapprezzo produttivo che i piccoli coltivatori non possono sostenere. Alla mimetica formale del mondo naturale si potrebbe attribuire, anche in architettura moderna, una critica che era già scaturita nell’analisi di alcune forme organiche oramai diventati veri e propri stilemi di una corrente in espansione. Senza sminuire l’importanza della bio-inspirazione in molte costruzioni, concettualmente si rileva il legame sempre più stretto tra ecologia e economia, in una nuova definizione che Rhem Koolhas definisce Ecolomia. Nel suo testo Junk Space Koolhas teorizza “banche di ossigeno, fort knox di clorofilla, eco riserve come assegni in bianco per ottenere ulteriore inquinamento” e anche “stazioni si dispiegano come farfalle d’acciaio, gli aereoporti scintillano come ciclopiche gocce di rugiada, ponti uniscono sponde spesso trascurate come versioni grottescamente ingigantite di un’arpa, ad ogni ruscello il suo Calatrava”. (3) Questa visone è pessimistica e negativa, tuttavia lo studio del mondo naturale finalizzato verso nuove strutture organiche e l’attenzione generale per il metodo bio-inspirato possono comunque aprire nuovi orizzonti. Non solo forme, ma processi e sistemi possono infatti essere inspirati dalla natura, ed è in questa direzione che si possono ottenere i maggiori risultati. – 80 –


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© Daniela Zedda

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In parallelo alla formazione dello studio applicativo e funzionale della natura si è sviluppato dagli inizi degli anni ’80 il movimento culturale Arte e Scienza, teso a unire i due mondi spesso tenuti separati dalle istituzioni e da una parte di studiosi scienziati diffidenti nei confronti dell’arte intesa da loro come caotica e sregolata. In realtà la ricerca interdisciplinare di Arte e Scienza affonda le radici storiche nel Rinascimento ed è sempre stata portatrice di esempi eccelsi. Da sempre la natura è stata celebrata e analizzata per svelarne le leggi nascoste in grado di inspirare e giustificare i nuovi canoni di bellezza e perfezione, e la scienza è stata il mezzo o lo strumento idoneo per trasmetterla e applicarla. Una applicazione diretta di questa ricerca potrebbe ad esempio trasformare positivamente la funzione e la fruibilità del museo tradizionale, in crisi per la scarsa affluenza di pubblico che predilige sempre di più una visione più dinamica, i video, o esperienze multimediali o plurisensoriali. Oltreoceano il museo americano ha saputo modernizzarsi inserendo scenografie, proiezioni, oggettistica e applicazioni dirette in giochi, manipolazioni e esperienze multimediali in strutture precedentemente esclusivamente dedicate alle collezioni. Il pubblico in genere mal sopporta le raccolte ferme di animali o specie naturali conservati dietro il vetro. La creazione artistica, intesa come ricerca formale di celebrazione della natura, inserita in un contesto museale, potrebbe trovare il corrispettivo reale nelle piante o negli animali esposti, così da rendere leggibile il punto di origine e di appartenenza della ricerca, nello stesso tempo invitando lo spettatore a immaginare possibili altre applicazioni e variazioni. In questo modo i poli museali municipali come acquari, naturali, scientifici e antropologici potrebbero ampliare le loro tematiche e il loro panorama didattico. Altro sviluppo interessante del rapporto Arte e Scienza si può riscontrare nella struttura di Arte Sella, unico esempio in Italia del movimento internazionale più esteso Art in Nature. Localizzato vicino a Trento, si snoda come museo espositivo all’aperto, in un bosco, ed espone da molti anni esempi di opere naturali, spesso effimere, realizzate esclusivamente con materiali – 82 –


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naturali quali sassi, rami e foglie, o semplicemente terra riportata. Si possono osservare vere e proprie sculture, ma anche architetture e applicazioni di Land Art, stimolanti per la creatività e notevoli per il rispetto rigoroso dell’ecosistema. Una moderna Biomimesi dovrebbe ricongiungersi e fondersi con Arte e Scienza, dove il compito principale della ricerca artistica intesa come ricerca sottile del piacere è quello di fornire una visione non utilitaristica delle forme e delle funzioni naturali, di pura celebrazione ed elogio degli esseri, nella visione di un progresso sociale anche meno dispendioso in termini energetici e consumistici. Andrea Forges Davanzati

Note: (1) G.Chiesa,”Biomimetica, tecnologia e innovazione per l’architettura”, Celid (2) Veronika Kapsali,“Biomimetics for designers” (3) R.Koolhas 2006

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© Daniela Zedda

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alan turing, numeri d’arte

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“Il pensiero matematico può essere considerato schematicamente come la combinazione di due abilità: intuizione e inventiva” Alan Turing “Intuizione e inventiva”, ci sono parole che meglio di queste possono spiegare il processo di creazione di un’opera d’arte? Alan Turing parla di intuizione e inventiva riferendosi al mondo matematico, da sempre accostabile alla musica ma che è invece, nell’immaginario di tutti, distante anni luce dall’opera d’arte. E allora perché oggi la scienza, materia eletta di un settore inviolabile, risulta essere la disciplina che più ispira l’arte? È un punto di ritorno alla bellezza calibrata, misurata, progettata dell’arte stessa? Può lo studio dell’architettura dell’immagine, lo studio della luce, della materia tornare ad essere il cuore della bellezza artistica? E ancora, questi elementi, uniti ad intuizione e inventiva, possono tornare a stimolare riflessioni ed emozioni che un periodo d’arte autoreferenziale, spesso incomprensibile, pervaso di immagini consumistiche e completamente alieno da significativi rimandi iconografici e dalla ragione, ha contribuito ad allontanare la bellezza dall’arte stessa? La tecnologia oggi è foriera di curiosità, lo è grazie ad un processo che dagli anni Sessanta ha portato l’uomo ad una riflessione concreta sul potenziale tecnologico e non più ad un utilizzo passivo delle invenzioni umane. Alan Turing pone le prime basi della divulgazione tecnologica, chiaramente inconsapevole, concentrato sull’atto stesso del lavoro che porta alla scoperta più che sugli effetti in divenire; il matematico inventore del computer, decodificatore del codice Enigma, agente segreto al servizio del progresso, ha nei suoi studi e con le sue invenzioni dato l’avvio a così tante forme artistiche che col senno di poi non si può non vedere in lui il soffio vitale dell’arte digitale. Partiamo da Delilah, uno dei suoi studi meno approfonditi: Alan Turing era stato inviato dal Governo britannico negli Stati Uniti per un confronto con gli esperti di sicurezza americani sui sistemi di codifica usati dagli Alleati. Di ritorno dall’America, dopo aver visionato la monumentale Sigsaly, il sistema di codifica della voce usato per le comunicazioni tra Churchill e Roosevelt, Turing dà vita al complesso sistema vocale Delilah che, pur non – 89 –


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essendo mai stata utilizzata operativamente durante la guerra, costituisce il primo esempio di digitalizzazione della voce. Turing si è dedicato allo studio del cervello umano e del cervello elettronico, ricercando i meccanismi base del pensiero e del ragionamento. Pioniere dell’intelligenza artificiale, il suo Test di Turing ha ispirato tanto, a partire dal cinema che lo ha utilizzato per primo in “Blade Runner”. Laddove c’è futuro, c’è Alan Turing, morto a soli 42 anni, nel 1954, dopo una persecuzione per reato di omosessualità. Intorno alla figura del matematico ruotano le più singolari leggende, che vedono persino accostata la sua morte alla favola di Biancaneve e c’è chi ancora oggi crede, o scrive, che si sia suicidato mangiando una mela avvelenata. Il tema è più complesso: si parla di un agente segreto, omosessuale ricattabile, sottoposto ad una pesantissima cura ormonale. Ma chi era Alan Turing e perché oggi la sua figura è diventata così carismatica? Ci si è domandati spesso a che punto di sviluppo tecnologico saremmo oggi se gli fosse stato permesso di proseguire con le sue ricerche. Non lo sapremo mai, ma l’ispirazione e l’impulso che hanno dato le sue ricerche sono documentati e non ancora del tutto compresi. L’intelligenza artificiale è senza dubbio la tematica più diffusa che ruota attorno a Turing oggi. Intelligenza artificiale e intelligenza umana, dove sta l’intelligenza creativa? Il centenario della nascita e l’incredibile lavoro di divulgazione scientifica e artistica del professor Barry Cooper, presidente dell’Alan Turing Year che ha smosso l’opinione pubblica al punto tale da fare arrivare il perdono a Turing dal governo britannico e le scuse per il trattamento che gli è stato riservato, hanno portato a creare attorno alla sua figura un vero e proprio mito, analizzato in moltissime manifestazioni scientifiche ed artistiche nel mondo. Nel 2014, alla Goldsmith University di Londra, ha avuto luogo il cinquantesimo convegno della “Society for study of artificial intelligence and simulation of behaviour” dove ho avuto l’onore di essere invitata a parlare del mio lavoro su Alan Turing*, davanti, tra gli altri, a Elaine O’Hanrahan che divulga nel mondo la figura di Desmond Paul Henry, il pioniere dell’arte digitale, il primo ad aver utilizzato il computer con scopi artistici. Nello stesso seminario sul futuro dell’arte e dell’informatica sono stati presentati lavori straordinari come – 90 –


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quello di Andy Lomas “Cellular Forms: An Artistic Exploration of Morphogenesis”: l’artista visuale, laureato in matematica, esplora la morfogenesi ed opera con artisti come il musicista Max Cooper che trova ispirazione profonda dal lavoro di Alan Turing proposto nel progetto “Emergence” insieme all’artista visuale francese Maxim Causeret. Alan Turing, tra il 1951 e il 1952, si chiede come le forme viventi riescano ad organizzarsi in un modo così complesso, sempre in forme diverse ma molto simili, stabili, compatte. Elaborò uno studio sulla morfogenesi biologica. L’ipotesi era che i pattern biologici più diffusi in natura (le spirali delle chiocciole, le macchie di leopardo, i pigmenti della pelle) si formassero con leggi riconducibili alla successione numerica descrivibile da equazioni. I suoi studi hanno posto le basi per suscitare negli studiosi la volontà di lavorare su questo tema e di portare gli studi della morfogenesi al livello attuale. Nello spettacolo, prodotto da AGON, che ho messo in scena al Piccolo Teatro di Milano nel 2012, anno del centenario di Alan Turing, le equazioni differenziali proposte da Turing e il lavoro della comunità scientifica svolto negli anni vengono implementati. Sono poi accoppiati ad una traccia audio che influenza determinate variabili delle equazioni differenziali che in tempo reale producono i pattern visivi sullo schermo. Questa scena dello spettacolo è stata elaborata dal sound engineer e software designer Francesco Grani e dal compositore Michele Tadini, ma lo spettacolo in sé è stato un lavoro frutto dell’esperienza di diversi compositori, video artisti, direttori del suono, che hanno interagito in tempo reale con l’attore, il live electronics, il suono spazializzato, dando vita ad un’esperienza sensoriale unica nel suo genere. Il momento della vita di Turing dedicato all’intelligenza artificiale ha visto in scena il suo Test così come è stato scritto dal matematico, un testo scientifico che è un colpo di teatro incredibile e rappresenta la sua straordinaria capacità di spiegare la scienza. Da qui si arriva alla fine della sua vita, il cui percorso è rappresentato da un avatar che prende la scena e gestisce in tempo reale il flusso della musica e del video. Ho visto l’intelligenza creativa fuoriuscire da questo progetto in tutta la sua potenza. Siamo arrivati ad un punto di non ritorno – 91 –


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in cui siamo circondati e viviamo la quotidianità permeata dei risultati di tanto studio. La creatività oggi come massima espressione dell’utilizzo sapiente di software che portano l’esperienza umana a territori nuovi e impensati.

Maria Elisabetta Marelli

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© Diego Ronzio

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© Diego Ronzio


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FOTOGRAFIE DI DIEGO RONZIO ◀

Morfogenesi ________________________

◀ Laser Multipendolo, prova al Piccolo Teatro Studio ________________________

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Finale


© Diego Ronzio

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Dettaglio di fotografia Š Nicolås Corredor


CHAPTER 4 . CROSSING


CROSSING

baalbak, meraviglia al sapore di sangue – 100 –


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Quanto inganno nelle cronache del giorno. Lo straniero è sempre alle porte: sono i macedoni del giovane Alessandro, i centurioni di Augusto, i crociati di Riccardo, i mongoli del generale Kitbuqa, mammelucchi, ottomani, i caschi coloniali inglesi e francesi, la nemesi vestita di nero dello Stato Islamico. Imperatori, generali, emiri, contrabbandieri e artigiani usano o subiscono il caos. Si chiedono che forma avrà il futuro, ne scelgono una per costruirlo. Nemico dopo nemico, masso dopo masso, civile dopo civile. Lo pronunciano come una nenia per farlo millenario, poi si sciolgono nel presente. È solo il violento gioco della storia, e l’erudizione che viene dal potere o dalla miseria spiega l’effimero al condottiero come al contadino. Breve è la stagione della pace nel palazzo o fra le nuvole. Deve averne sospetto Hassan, che vende ninnoli di macerie e false monete romane, maglie di Ronaldo, corani, bracciali, kefieh, calamite da frigo. Gira solerte intorno al banchetto nei suoi smilzi vent’anni, conosce i trucchi del vendere e indovina la nazionalità dei turisti al passaggio: “Vuoi una bandiera di Hezbollah? Per te uno sconto speciale. Un quadro per la casa? Sicuro? Va bene, benvenuto a Baalbak”, dice in italiano. Le rovine si sollevano appena oltre la recinzione, tagliate dalla canicola in un’esplosione di ombre. Nelle lingue semitiche nord-occidentali ba’al significava “signore”, e “Signore della Beqaa”, la valle stretta fra le catene del Libano e dell’Anti-Libano, sarebbe da ricondurre alla divinità Baal, dio del sole, della tempesta e della fertilità, sposo della sorella Anat, nume della violenza e della guerra. Bagnata dal Litani e l’Oronte, la valle conosce gli uomini da oltre 9000 anni, sebbene sia stata visitata dagli dei solo con i cananei, nel secondo millennio a.C. Il popolo biblico è poi diventato fenicio per Alessandro Magno, passato dal Baalbak sulla via per Damasco. I greci chiamarono il piccolo centro nella valle Heliopolis, la città del sole. Ba’al divenne Zeus e poi Giove con le conquiste romane, che fecero della Colonia Julia Augusta Felix Heliopolitana un centro strategico e sacro dell’impero, fagocitando antiche divinità mentre le proprie venivano insidiate a Roma dall’oscura setta dei cristiani. I terremoti, gli eserciti bizantini, arabi, selgiuchidi, zangidi hanno attraversato e dominato queste pietre prima che cadessero in mano ai turchi Ottomani per mezzo millennio, l’impero imploso nella Prima guerra mondiale nel – 101 –


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tentativo di allinearsi alla modernità degli stati europei, capitalisti, efficienti e nazionali. Crocevia fra Africa, Asia ed Europa, ricco di deserti e risorse, il Medio Oriente è condannato a essere un teatro di sangue dove antiche e moderne potenze trovano brevi catarsi ed equilibri. Nel 1920 inglesi e francesi, derogando a una promessa di autodeterminazione, disegnavano nella periferia araba della Sublime Porta i confini di un vasto esperimento geopolitico: etnie, religioni e soprattutto classi e poteri eterogenei chiusi negli artifici dei nuovi stati, Palestina, Iraq, Giordania, Siria e Libano. “Quando si osservano quei colossali monumenti dell’intelletto umano, dell’industria, del talento e della perseveranza, la mente sbigottisce al pensiero della temeraria concezione e dell’indomita energia che ha caratterizzato i grandi ingegni sotto la direzione dei quali si sono ottenuti simili risultati. Le sette meraviglie del mondo! La Terra non ha mai conosciuto nessuna creazione umana meravigliosa quanto le ciclopiche mura del tempio fenicio di Baalbek”, scriveva nel 1892 il reverendo inglese Haskett Smith, uno fra i numerosi chierici arrivati nell’impero come avanguardie della catechesi occidentale. La corrispondenza era arrivata nella redazione del Macmillan’s Magazine, periodico letterario della borghesia londinese affamata d’avventure coloniali e nuovi spazi di mercato. L’entusiasmo orientalista di Smith si arresta oggi in cima al propileo d’ingresso. Una giovane coppia di backpacker australiani incornicia in un selfie la scalinata d’ingresso mentre la guida annuncia già le bellezze della grande piazza, dritto, elegante e pacato nella lisa giacca del mestiere. La corte si apre per quattro acri, delimitata dai portici corinzi e attraversata dai passaggi sotterranei. Il centro ospitava un altare per gli olocausti, cresciuto sotto Teodosio in una basilica. Il granito egiziano dei plinti è avvolto da luce bianca, violenta. Solo sei delle 128 colonne hanno resistito al tempo, nessuno dei busti che raffiguravano gli eminenti coloni di Roma, Sabina, figlia di Marco Aurelio, Settimio Severo, Valerio Rufo. Domina la grande corte il Tempio di Giove Eliopolitano, allora il più grande edificio sacro conosciuto. Del periptero resistono sei colonne grandiose e una trabeazione dalla quale si affacciavano teste di tori e leoni. Il resto l’hanno portato via terremoti, saccheggi e nuove religioni. Sotto Giustiniano otto colonne vennero trasportate a Costantinopoli e integrate nel grembo della Basilica di Santa Sofia. Fratello e – 102 –


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sorella abbracciano la circonferenza di una superstite come fosse una grande quercia. La madre li richiama in arabo, loro replicano in inglese. Vivono non lontano da New York, fuggiti durante la guerra civile del 1975-90 e unitisi alla grande comunità presente negli Stati Uniti, insieme a Sud America e Africa Occidentale porto lontano per i libanesi in fuga dalla penetrazione capitalista del tardo XIX° secolo, dalle carestie e i conflitti del XX°. Anche loro stamane hanno preso la strada che porta da Beirut a Baalbak attraversando la breve pianura costiera, il sangiaccato che fu della borghesia mercantile sunnita. Due malconce corsie arrancano fra i piccoli villaggi e le grandi ville del Monte Libano, dove drusi e cristiani si contesero il Mutasarrafiyya, il principato che i maroniti immaginarono erede dei fenici e culla per le minoranze perseguitate dagli ottomani. I tornanti poi scendono per attraversare la Beqaa, vasto pianoro agricolo a prevalenza sciita che non ha mai smesso del tutto di appartenere allo Sham, la Grande Siria rivendicata dallo Stato Islamico. Hafez al-Asad e suo figlio Bashar hanno occupato militarmente il paese per trent’anni, mentre l’anomia della guerra civile conteneva molte guerre e la ricostruzione guidata dal primo ministro Hariri, poi saltato per aria sul lungomare della capitale, cercava di ricostruire quella che fu la Svizzera d’Oriente. Oggi il Libano ospita oltre 1,5 milioni di profughi siriani, un terzo della sua popolazione complessiva, e nella Beqaa le baracche dei profughi si appoggiano ai campi coltivati o riarsi. D’estate s’incrociano per la via camion che sfrecciano con un gregge di bambini appeso alle sbarre del cassone. Sono i piccoli di Aleppo, Hama, Homs, Daraa, chini nei campi senza acqua e cibo, cinque dollari al giorno per famiglie senza padri. Sono 180,000, ha stabilito il Ministero del Lavoro, il prezzo da pagare per l’ospitalità in un’economia finanziaria priva d’industrie e operai che lascia ai margini gli stessi libanesi. Una breve serie di scale incastonate fra roccia e struttura porta nel grande spiazzo aperto sul Tempio di Bacco. Un gruppo di teatranti sconfitti dal sole prova per la prima della sera, pièce di attori amatoriali che l’amministrazione della città, in mano al partito sciita Hezbollah, ha approvato e finanziato. Baalbak ha ospitato per anni un festival musicale cui hanno partecipato Feiruz e Umm Kulthum, anime tragiche e progressiste di Libano ed Egitto, Ella Fitzgerald e Joan Baez, che nel paese dei cedri trovavano un – 103 –


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avamposto laico, sebbene questo poggiasse sull’egemonia di una piccola èlite politica ed economica dominata dai cristiani. La stessa che i partiti di sinistra degli anni ’60 e ’70 volevano rovesciare, e che finì per dare avvio allo scontro fratricida. L’affievolirsi della tensione rivoluzionaria, in Libano come negli altri stati del Medio Oriente, avrebbe spalancato le porte all’islamismo fondamentalista, l’ultimo percorso di redenzione rimasto alle masse diseredate. Il festival ha ripreso vigore dopo la pace, e nelle notti estive le rovine romane si riempiono d’orchestre e star internazionali. Il percorso è stato interrotto, piovono i denari sullo splendore dell’antica Heliopolis, ma le muse sono partite e non resta che un caleidoscopio raffinato circondato dalla guerra. La Siria è solo qualche chilometro a est. Gli attempati commedianti cercano riparo all’ombra delle rovine sparse ora che la luce è d’oro nel primo pomeriggio e cola fin dove può, oltre le colonne del Tempio di Bacco e fin dentro le mura della cella interna, dove una dozzina di altoparlanti disposti a circolo produce una bolla di suoni ancestrali nei quali i visitatori dovrebbero perdersi, seduti sui cuscini al centro del cosmo. I turisti preferiscono stare con il naso all’insù sui fregi di uno degli edifici meglio conservati dell’antichità, i tralci di vite, un’aquila e un caduceo di quando erano vino e oppio a condurre verso l’estasi religiosa. Il costume in qualche misura è stato preservato, la Beqaa ospita enormi coltivazioni di hashish protette da clan armati che non fanno avvicinare i curiosi, né lo Stato. Tre ragazzi fumano una sigaretta sulle scale del tempio, chiedono una foto ricordo. È la prima volta che si avventurano fino a Baalbak, vengono da Nabatiyye, nel profondo sud del paese, anch’esso a maggioranza sciita. Proprio in questi giorni si celebra l’Ashura, dieci giorni sacri che culminano con la rappresentazione della battaglia di Kerbala nel 680 d.C, quando Hussein, nipote di Maometto e figlio di Ali, venne massacrato insieme a un manipolo di compagni dalle forze del califfo Omayyade Yazid I. Il fatto d’arme è stato decisivo nello scisma fra sunniti e sciiti, e ha avuto non poche implicazioni nella metafisica di questi ultimi, per secoli interpreti di una vita minoritaria e subalterna nel grande universo islamico. Nabatiyye resiste al pudore della modernità e alle ingiunzioni di molte autorità religiose e politiche, riattraversando l’eroico martirio di Hussein sul proprio corpo. Passati gli spessi cordoni di sicurezza uno – 104 –


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sciame di uomini e donne vestiti di nero camminano per le strade del centro. I volontari distribuiscono succhi di frutta e focacce, sui marciapiedi gli arrotini affilano mannaie, sciabole e rasoi con i quali gli uomini sfilano in un rito sociale e machista o incidono capi e schiene in un deliquio accompagnato dalla ripetizione ossessiva di un verso coranico o di un canto funebre. Sulle teste rasate dei bambini si scorgono le tacche degli anni trascorsi, anche loro battono il piatto delle spade o i palmi sulla fronte per impedire il coagulo del sangue. Lo sciabordio denso si sente alla distanza e il sole spande la nausea dolciastra del sangue dall’asfalto nell’aria e in gola, mentre sul campo sportivo ricoperto di sabbia decine di maschere in sella a cavalli e cammelli rappresentano nella polvere il sacrificio fondativo di Hussein. Sotto i gazebo della Mezza Luna Rossa infermieri e medici rianimano e lavorano d’ago alle suture. Un’occasione perfetta per aggiungere sangue al sangue, massacro al rito e presente al passato. Così dalla terrazza di un edificio diroccato un colonnello dei servizi segreti libanesi monitora il termitaio insieme ai molti agenti in borghese, pronti a intervenire su qualsiasi sospetto cittadino del Califfato in missione. Quando nel 2012 la primavera siriana è incancrenita in guerra civile e stravolta in teatro di scontro fra le grandi potenze Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, si è recato a Teheran, dove l’Ayatollah Khamenei ha disposto la necessità storica dell’intervento. La rivoluzione khomeinista del 1979 ha generato in Libano il Partito di Dio e da allora orizzonti escatologici e assai più prosaiche considerazioni geopolitiche legano Iran, Hezbollah e la Siria degli Asad nella cosiddetta “mezzaluna sciita”, l’asse resistenziale opposto all’egemonia americana e sionista. L’esercito di Nasrallah ha sigillato il paese dei cedri, sbarrando la strada appena oltre le montagne che cingono Baalbak alla penetrazione jihadista e intervenendo nella guerriglia urbana in Siria. Solo nel 2013 lo sceicco al-Bakri spiegava nel suo elegante salotto di Tripoli che tremila uomini di al-Qaeda, poi rinominata al-Nusra, erano pronti a creare una periferia califfale nel nord del Paese, l’Akkar sunnita aggiunto cento anni fa da Gran Bretagna e Francia a Beirut, caduto nella miseria del nuovo equilibrio e diventato nostalgico della vecchia unità con lo Sham. Come nell’antichità Baalbak lega Nabatiyye e Damasco, Tiro e Palmira, dove un altro sito patrimonio dell’umanità è stato preso dallo Stato Islamico, riconquistato dai – 105 –


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caccia russi, strappato ancora dalle bandiere nere. Intorno le nuove brame ottomane di Erdogan, i sogni egemonici di Qatar e Arabia Saudita, la centenaria battaglia d’indipendenza curda, l’esitazione europea, la saggezza decadente di Obama, l’ambiguità postmoderna di Trump e la rivalsa post-sovietica di Putin. Il nuovo Grande Gioco e i nuovi imperatori, la vecchia catarsi sui corpi delle eterne moltitudini. Si avvicina la sera a Baalbak. Il Tempio di Venere, piccolo e sfigurato, è immerso in un colore d’opale. I visitatori tornano negli alberghi vuoti o a Beirut. La trabeazione a stella sporge nelle colonne e contiene il profilo della cella, scavato dalle nicchie. Il rito fu orgiastico nel III secolo, prima che Costantino e Teodosio imponessero sulla vecchia costruzione la basilica di Santa Barbara. La cella di Venere fu traslata a poca distanza, svanirono la prostituzione sacra, gli idoli pagani e il Tempio delle Muse, poco distante. L’amore perse la carne, sostituita dalla disciplina imposta da un unico dio, cristiano e musulmano, che non concede eresie, ma è campione nel giustificare la guerra. Luca Foschi

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shiraz, città dell’amore – 112 –


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Chi pensa che l’Iran sia cupo e triste si sbaglia. Al di là dei tenebrosi simboli religiosi, è un Paese che brilla di molti colori e molte emozioni. Fra tutte le città, magnificienti e ricche di cupole e minareti, svetta Shiraz, la città dell’amore. La stessa Sherazade, infaticabile narratrice de “Le mille e una notte”, era cittadina di Shiraz, e pare che le sue abitanti conservino tutt’ora quel fascino reso immortale dalla raccolta di novelle. Non c’è cupola, volta, lesena o arcata che con i suoi disegni geometrici e le armonie perfette di colori e stucchi non richiamino quella bellezza mai rappresentabile da figura umana secondo i dettami del Corano. Ma c’è un posto speciale a Shiraz, dove è possibile sperimentare il più caloroso benvenuto in una lingua che non occorre parlare ma che si comprende come se Babele non fosse mai esistita. È il santuario di Shah-a Cherang, detto la Moschea degli specchi. Qui, fiumane di donne e uomini rendono omaggio alla tomba di un Iman, santo per gli Sciiti. Tra bambini festanti e mamme in preghiera, sono le anziane che accolgono le ospiti disorientate dai mosaici scintillanti che brillano come in un diamante impazzito. C’è chi sistema lo chador alle straniere, sorridendo per l’impaccio nel portare un capo così surreale per la cultura occidentale, chi chiede il paese di provenienza e chi, con gentilezza, stringe semplicemente la mano per ringraziare di essere venute fin quaggiù. E a guardare bene quel velo sul capo, quelle mani rugose e quei modi d’altri tempi, affettuosi e protettivi semplicemente perché fra umani, mi è sembrato di vedere mia nonna, donna sarda di fine Ottocento, analfabeta, coperta da un imperituro velo di vedovanza che non mancava mai di una carezza e un benvenuto a chiunque venisse a trovarla. Ecco, anche solo per questo Shiraz è la città dell’amore.

Irene Melis Shiraz 26 dicembre 2015 – 5 gennaio 2016 – 113 –


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CHAPTER 5


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incanto trasparente

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GIOVANNI BERNUZZI MARIA VICTORIA GÓMEZ NICOLÁS CORREDOR L’arte della parola, l’arte del corpo, l’arte dell’immagine. Tre artisti e un canto comune. Giovanni Bernuzzi usa le trasparenze per svelare e per celare, per essere disarmante nella semplicità. “Da sempre convinto che l’amore per la lettura come tutti gli amori nasce, quando come dove e se vuole, dall’incontro casuale con una bellezza inaspettata o comunque sino a quel momento sconosciuta”. Poeta prestato all’editoria e al giornalismo gioca tra ‘storie vere che sembrano inventate e storie inventante che sembran vere’. I suoi sono segni di un passaggio. Non orme che svaniscono ma tracce profonde che lievemente affiorano. “Leggo grandi romanzi ma scrivo brevi poesie, come si scatta una foto, come si suona un blues: per raccontare una storia, ma senza dirla”. La bellezza è uno sguardo distratto, le voci lontane, un sì, un no, è ritrovarsi e perdersi, è conoscere e scoprire l’incanto come in Trasparenze – Haiku e blues mediterranei, la raccolta delle sue poesie che comprende anche alcune traduzioni da Saffo, Catullo, Blake, Poe, Baudelaire, Dickinson, Kavafis, Machado, Apollinaire, Lorca. Negli scatti di Maria Victoria Gomez risuona il corpo, il suo, quello della modella, dell’altro, dello sconosciuto, quello sociale. Il corpo fisico, materiale, spirituale, mentale. Il corpo che soffre, che ama, che vive. Pittrice, fotografa, performer colombiana che da oltre quindici anni indaga gli spazi umani del dolore, della malattia, della fragilità. Negli ultimi due anni ha sviluppato il progetto artistico sul corpo e l’immagine “Proyecto Antídoto, Cuerpo e Imagen” con l’amico artista Prem Shiva-Fredy Jiménez attraverso il riuso dei rituali ancestrali e la trasformazione del farmaco per restituire l’immagine della vita sacra con il corpo dell’altro, il suono e la forma di sè, la trasformazione dello spazio visibile e invisibile. “Cuerpo privado, cuerpo público, cuerpo que se transforma. Un espacio ocupado, vivido, que se confronta y se revela o no en otro. Un cuerpo presente en un espacio que denuncia o que señala la – 129 –


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impotencia, la vulnerabilidad, la enfermedad, la diferencia para no olvidar quienes SOMOS”. Nel nuovo anno Maria Victoria non dimentica e incontra il fotografo Nicolás Corredor. La silhouette della sua figura vibra e risuona tra controluce e seta. Il kimono avvolge e svela la sua femminilità e lo sguardo si fa trasparente. Si trasforma il corpo e le note fotografiche segnano forme impalpabili e intense che disegnano un canto nuovo tra le sedie e le pieghe della presenze finalmente quieta. Nicolás Corredor – Fashion and beauty photographer, oscilla tra Parigi e Bogotà insieme alle sue modelle diafane dai volti angelici e il non detto demoniaco. Lui, fotografo dagli occhi inquieti, dipinge in bianco e nero l’innocenza di un’emozione, di un suono puro, tra i corpi di donne bellissime che tagliano il fiato, penetrano gli spazi impronunciabili. Tutto è rarefatto eppure crudele, carnale, feroce. Ri-suona e ancora e ancora. Il ritmo si amplifica e nella trama trasparente di Giovanni attraversa la vibrazione silenziosa di Maria Victoria per percorrere l’umore grondante di presenza di Nicolás. E l’arte va. Bianca Laura Petretto

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© Nicolás Corredor

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© Maria Victoria Gómez

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GULLIVER Altrove è il nome del mio silenzio Altrove, sempre altrove ho visitato Marte Venere, Giove ho visto la pace e la guerra ed ancora non so… Esiste vita sulla Terra?

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DIARIO DI BORDO Che strana la mia vita in mare tengo un diario di bordo ma senza navigare Fingo di scrivere ogni sera mentre il giorno sta per finire quello che non è mai accaduto quello che non so dire Scrivo parole che non hanno domani i miei pensieri in fuga ma non rimpianti vani Io non conosco la vita che non vivo l’amore inesistente che qualche volta scrivo

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TROMPE L’OEIL La mia vita è un’isola lunatica e solare una voce di donna senza parole amare quando forte è il maestrale e più limpido il mare Mi sento a casa e mi sento straniero in un mondo inventato che a volte sembra vero

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TENSIONES

Progetto artistico e fotografia di Maria Victoria Gómez

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Progetto artistico e fotografia di Maria Victoria Gómez Dettaglio di fotografia

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LASCIALA FUGGIRE Innocente incoerente sempre in fuga la vita breve sogno, silenzioso vagare eco lontana di vento e di mare Ero un bambino che scriveva poesie poi un mattino mi son svegliato mi son guardato intorno e ho continuato Con le parole ho tracciato un sentiero inseguendo nel vento un’illusione un sogno od un pensiero l’ho seguito sin dove mi ha portato non so se l’ho capito ma non son più tornato

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E LA NAVE VA... Notte di stelle, mare d’autunno amo senza capirla la vita triste, meravigliosa, infinita

LE POESIE SONO TRATTE DA Trasparenze di Giovanni Bernuzzi Happy Hour Edizioni E LA NAVE VA... Inedita giovannibernuzzi.blogspot.com

PROYECTO ANTÍDOTO, CUERPO E IMAGEN

Progetto artistico di Maria Victoria Gómez Fotografia di Nicolàs Corredor – 146 –


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Dettaglio di fotografia Š Nicolås Corredor


CHAPTER 6 . SWALLOW


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la rabbia del palo cortado – 152 –


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Se in una cantina spagnola nasce un Palo Cortado, gli uomini fanno festa e gridano al miracolo, al mistero della botte che risorge tra una fenice di codici e accadimenti sibillini. Brindano a quel vino che è maschio e femmina, che è compagno ed estraneo, che è mare e terra, che è sud e nord, che è bianco e nero, che è ying e yang, che è magro e grasso, che è amico e nemico. Ma io, fra tutta questa allegria, ti parlerò solo della sua rabbia. In Andalusia esiste una pista cifrata che unisce Jerez de la Frontera, El Puerto de Santa Maria e Sanlúcar de Barrameda. Se colleghi i punti con una penna magica, scopri la geometria che qualcuno, prima di te, ha battezzato Triangolo dello Sherry, dov’è racchiuso un mistero a cielo aperto. Che in questa terra si parli di enigmi è insolito, poiché dello Sherry si conosce ogni cosa. Si sa che, dopo aver trasformato in vino l’uva Palomino, parte seguirà un invecchiamento ossidativo, come fosse un familiare Marsala, parte sarà avviato alla crianza biológica che avviene solo qui, sotto il cielo del Triangolo, e in nessun luogo al mondo. Ma anche di quest’insolita maturazione si sa tutto: si conosce il velo e si sa che il velo nasce dalla flor, un microrganismo che copre la superficie liquida delle botti scolme e la protegge dall’ossigeno. Due strade, due destini, tanti vini diversi che nascono dal medesimo ceppo. Perché, se a Jerez chiedi uno Sherry, pronunci il cognome di un vino di cui tutti s’attendono il nome di battesimo. Vuoi un Fino, un Manzanilla o un Amontillado, i figli del velo e della flor, della crianza biológica che profuma di salsedine? O un Oloroso o un Pedro Ximenez, che raccontano le note ambrate e rugginose dell’ossigeno mordace? Oppure un Palo Cortado, marchiato da un segreto inconfessabile? Perché, se dello Sherry la scienza prevede tutto, nessuno sa nulla del Palo Cortado. Solo che esiste. Ma non dovrebbe. E invece succede così. Nella notte di una botte scolma, la flor scompare e il velo sparisce. Così, all’improvviso, senza che nessuno ne intuisca la ragione. Capita e basta. Sparita ogni difesa dall’ossigeno, l’aria tatua con marchio indelebile quel bimbo, che – 153 –


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avrebbe avuto ben altro destino. Quando il barile lo partorisce, il cantiniere si ritrova fra le braccia un’aberrazione che sa di flor e di sole, di ruggine e salsedine, del mondo a cui era destinato e dell’universo in cui è stato spinto a forza. Per sopravvivere come un figlio dal sesso incerto, dal presente instabile e dal futuro aleatorio, occorrono rabbie enormi, plurali e variegate come le criptiche variabili che ne pilotarono la nascita anomala. Il rancore che cova nel buio, che attende un riscatto di fronte ai fratelli dissimili. L’indignazione di chi s’è sentito tradito da un dio sadico o solo stupido. La collera di chi è per sempre senza futuro e senza un passato che lo giustifichi. La furia di chi vive tra simili ed è considerato un reietto, soltanto perché un giorno Dioniso s’è per un attimo distratto e la natura, senza le redini di quello sguardo, l’avesse condannato con un tiro di dadi. Gli uomini fanno festa, nelle bodegas di Jeres de la Frontera, quando nasce un Palo Cortado. Il nuovo mostro sarà venduto bene, sui mercati del mondo, per le bocche che amano sorbire l’eccentrico e l’aberrante. Il vino, di contro, tace. Porta in sé il risentimento di chi fu scacciato dall’Eden per un peccato insensato, l’ira di chi giunge straniero sulle coste di una terra straniera, l’impotenza di chi è scagliato fra gli scherzi di natura. E pensa che, un tempo, un potere onnipotente l’ha dimenticato e scartato, lui fra tutti, condannandolo alla beffa della vita. E mentre cerca e ricerca il suo peccato originale, urla, piange e si dispera sapendo che la sua rabbia è gioia per tutti gli altri. E medita la sua vendetta. Perché tutti possono bere un Palo Cortado. Ma se sei stato scordato da dio, se sei spiaggiato al mondo né carne né pesce, non andare mai nel Triangolo dello Sherry. Non ordinare mai vino, non bere mai un Palo Cortado. Potresti riconoscere in quei sorsi la rabbia gemella che v’accomuna e che vi fa odiare ogni uomo e ogni dio. E che, inesorabile, ti priverebbe il cuore di ogni speranza, lasciandolo così, come un bicchiere vuoto su un tavolo. Giorgio Giorgetti Watch more here: WWW.CUCINODITE.IT – 154 –


© sofiaarangoe

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LA

RICETTA

CORTADO

.

FILETTO

CON

DI

SPINACINI

GORGONZOLA E NOCI

MAIALE

SFUMATO

CROCCANTI

Preparazione per 2 persone Medaglioni alti circa 3cm l ’uno (4) Spinaci freschi (500 g) Aglio (1 spicchio) Burro (30 g)

Sherry Palo Cortado (qb) Per la salsa al gorgonzola Panna fresca (150 g)

Gorgonzola dolce (200 g) Noci sgusciate (30 g) Per guarnire Gherigli di noce (qb)

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E

A

PALO

CREMA

DI


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Esecuzione Fai bollire la panna. Quando arriva a bollore, incorpora il gorgonzola e le noci. Poi passa il tutto al frullatore. Lascia riposare.

In una casseruola cuoci a fuoco vivo i medaglioni di maiale con poco olio, aglio in camicia e un po’ di timo.

Dora i medaglioni di maiale da tutti i lati e continua la cottura per circa 6 minuti. La carne dovrà rimanere all ’interno leggermente rosata.

Togli i medaglioni dalla padella, elimina l ’eventuale grasso in eccesso, sfuma con il Palo Cortado e lascia evaporare finché non diventa un condimento legato, con cui insaporirai la carne.

Cuoci gli spinacini in acqua bollente salata, raffreddali mettendoli in acqua e ghiaccio e strizzali. Scaldali in una padella, insaporiscili con poco burro e salali appena. Sminuzza le noci per la guarnizione. Finitura

Adagia il filetto nel piatto su un letto di spinaci, nappandolo con il fondo ridotto del punto

4. Nappa ulteriormente con la crema al gorgonzola e noci e cospargi i gherigli sminuzzati. Servi.

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