AINASMAGAZINE Nº2.06/2018

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aínas Nº2 . 06/2018



δέδυκε μὲν ἀ σελάννα καὶ Πλήιαδες˙ μέσαι δὲ νύκτες, παρὰ δ᾽ ἔρχετ᾽ ὤρα ἔγω δὲ μόνα κατεύδω (Saffo) Tramontata è la luna e le Pleiadi: è mezzanotte fugge il tempo di giovinezza … io dormo sola (Tr. Giovanni Bernuzzi)


AÍNAS Nº2 . 06/2018 WWW.AINASMAGAZINE.COM INFO@AINASMAGAZINE.COM Direttore Roberto Cossu Condirettore Giorgio Giorgetti Direttore artistico Bianca Laura Petretto Grafica e layout Sofía Arango Echeverri Comunicazione Andrea Castro, Maria Victoria Gómez Copertina di Sofía Arango Echeverri Nei capitoli opere grafiche di Clemencia Uribe © Aínas 2018 La traduzione, la riproduzione e l’adattamento totale o parziale, effettuati con qualsiasi mezzo, inclusi la fotocopiatura, i microfilm e la memorizzazione elettronica, anche a uso interno o didattico, sono consentiti solo previa autorizzazione dell’Editore. Gli abusi saranno perseguiti a termini di legge. Is aínas faint is fainas . gli strumenti fanno le opere AÍNAS nº2 © 06/2018, reg. n° 31/01 Tribunale di Cagliari del 19 09 2001, periodico di informazione trimestrale, cartaceo e telematico Iscrizione n° 372004 al Registro della stampa periodica Regione Sardegna, L.R. 3 luglio 1998, n° 22, ART. 21. ISSN 2611-5271 Editore Bianca Laura Petretto, Cagliari, Quartu Sant’Elena, viale Marco Polo n. 4 Direttore responsabile Roberto Cossu

B&BArt MuseodiArte contemporanea

www.bbartcontemporanea.it info@bbartcontemporanea.com

Un ringraziamento speciale a Guido Festa Progettazione e costruzione di “GLOVE BOXES” e prototipi per la ricerca farmaceutica e nucleare www.euralpha.it

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AÍNAS Nº2 8

EDITORIAL 8 la leggera utopia

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CHAPTER I . SPECIAL

12 dreamers 1968: come eravamo, come saremo 22 quando jagger voleva uccidere il re 33

CHAPTER II . NEWS 34 errare floreale 40 sarnico, scrigno liberty

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CHAPTER III . INTERVIEW 46 boccalini, l’arte in comune

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CHAPTER IV . THE NEW CODE 56 macis, della calma e del silenzio 57 i due mondi di clemencia

CHAPTER V . CROSSING

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74 harji e le altre, i fucili e le rose 80 dancing to resist 85

CHAPTER VI . PATAATAP 86 francesco caredda 87 francesca ardau

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CHAPTER VII . SWALLOW 100 a neve fermissima

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AL CREPUSCOLO Nº4 © Fabio Costantino Macis

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EDITORIAL

aínas LA LEGGERA UTOPIA

Guido Cavalcanti, “sì come colui che leggerissimo era, prese un salto...”, racconta Boccaccio in una sua novella. Italo Calvino sottolinea queste parole nelle sue “Lezioni americane”: le fissa come simbolo di leggerezza per il nuovo millennio. Il nostro. Il poeta antico, con le ali della filosofia, si solleva sulla pesantezza del mondo, <dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite>. Di fronte alla realtà le immagini ci consolano? Forse no. Qualche tempo fa è morto il piccolo Alfie Evans. <Ha spiccato il volo>, ha detto il padre. Lasciando sotto di lui la pesantezza delle norme, delle identità fasulle, della violenta paccottiglia burocratica. E di chi su quel volo ha osato imbastire una politica avida e marcia. No, le immagini non ci consolano, neppure quelle dei palloncini blu e viola che si sono levati in cielo dopo l’annuncio della morte. Ma non possiamo farne a meno. Ci chiedono di affrontare i tempi di rumore e aggressione. Di non frugare nei cimiteri di macchine arrugginite, simboli davvero reali e pragmatici del millennio. Se provassimo a vagarci dentro capiremmo come è cambiata l’idea di camposanto. “Safe in their Alabaster Chambers/ Untouched by Morning and untouched by Noon/ Sleep the meek members of the Resurrection” cantava la leggerissima Emily Dickinson, un luogo dove “cadono le corone e si arrendono i Dogi”. La leggerezza ormai è un’utopia. Se la tocchiamo si sfarina, come una vecchia pergamena. Che tenerezza il balzo in avanti di Don Qujiote che, a bordo di Ronzinante, attacca i mulini a vento. La leggerezza in una guerra che non è guerra. Regna più che mai l’insostenibile pesantezza dell’essere. Quanto pesano le solitudini metropolitane, il mancato sviluppo dell’Africa o il terzo figlio di William e Kate? Quanto pesa il chiacchiericcio indistinto di Internet? Quanto pesa il cemento dei muri che si innalzano dove bussano nuove moltitudini? Più o meno delle statistiche senza nomi, senza racconti, che si compilano in Siria? Più o meno dei canotti carichi di profughi o dei canotti che gonfiano le labbra delle nuove nobildonne? Più lo spazio dell’Occidente si restringe e più assomiglia a un campo di concentramento, sempre più affollato, sempre più pesante. A parti invertite. Molto è cambiato da quando le stelle hanno abbandonato il firmamento per sfilare sul red carpet. Ma in fondo la presunta nobiltà d’immagine è il pane di tutti: c’è la banalità del male e c’è la banalità della pesantezza. Intrattenimento leggero vengono definiti gli show televisivi di tutto il mondo, mentre cascano come piombo sulle teste chiuse e sulle bocche aperte. E non esistono riserve protette contro la pesantezza. Come restiamo davanti al rombo dei tempi? Se fossimo

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nobili, nobili sul serio, parleremmo come Baudelaire, fra coloro che sanno trasformare la pesantezza in leggerezza: “Je suis come le roi d’un pays pluvieux/ Riche, mais impuissant, jeune e pourtant très vieux”. Tira aria di stanchezza, mentre si parla di energia. E non solo nella scienza. Le immagini? C’era una volta, il cielo, l’aria. Persino i demoni avevano un corpo aereo e mediavano tra la divinità e l’uomo. Lo dicevano gli ellenici e persino Sant’Agostino. La leggerezza prima di Satana. La leggerezza che ha trovato un nascondiglio. O forse è stata cacciata nel ripostiglio. Ogni tanto qualche scrittore ci pensa su. Serve di nuovo Gesù perché la buona merce torni sui banchi e Dostoevskij si inventa la “Leggenda del santo Inquisitore” e un tipo più “leggero” come John Niven scrive “A volte ritorno”. Vorremmo credere che l’arte è leggerezza contro la pesantezza. Vorremmo credere che valgono qualcosa le figure leggerissime di Chagall che volano sui tetti delle case. O che il gioco della natura, frusciante e sospeso, teneramente celebrato dai film di Terrence Malick, non sia il nuovo innocente nemico. Vorremmo leggere qualcosa di simile alla “Leggenda del santo bevitore” di Joseph Roth. Forse vorremmo un ippogrifo. O forse soltanto la cara, mitica Ragione. O forse abbiamo smesso di volere. E Guido Cavalcanti salta nel vuoto. Roberto Cossu

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MOMENTOS DE DANZA Nº1 Bronzo a cera persa, 1993 - 1998 © Clemencia Uribe


I SPECIAL


SPECIAL

dreamers 1968: come eravamo, come saremo – 12 –


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In occasione del 50° anniversario del 1968, l’AGI-Agenzia giornalistica Italia ricostruisce l’archivio storico di quell’anno, recuperando il patrimonio di tutte le storiche agenzie italiane e internazionali, organizzando una affascinante mostra fotografica e multimediale allestita al Museo di Roma in Trastevere dal 5 maggio al 2 settembre 2018. La mostra a cura dell’AGI, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza capitolina ai Beni culturali e con il patrocinio del MIUR – Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, è resa possibile dalle numerose fotografie provenienti dall’archivio storico dell’AGI e completata con gli altrettanto numerosi prestiti messi a disposizione da AAMOD – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, AFP Agence FrancePresse, AGF Agenzia Giornalistica Fotografica, ANSA, AP Associated Press, Marcello Geppetti Media Company, Archivio Riccardi, Contrasto, Archivio Storico della Biennale di Venezia, LUZ, Associazione Archivio Storico Olivetti, RAI-RAI TECHE, Corriere della Sera, Il Messaggero, La Stampa, l’Espresso. I servizi museali sono di Zètema Progetto Cultura. L’iniziativa nasce da un’idea di Riccardo Luna, direttore dell’AGI, curata a quattro mani con Marco Pratellesi, condirettore dell’agenzia, e intende delineare un vero e proprio percorso nell’Italia del periodo: un racconto per immagini e video del Paese di quegli anni per rivivere, ricordare e ristudiare quella storia. Per l’occasione abbiamo intervistato Riccardo Luna. Il Sessantotto come ultimo sogno dell’Occidente: è questa l’atmosfera della mostra? Ultimo spero proprio di no. Anzi, questa vuole essere una mostra sul futuro. Il futuro che sognava l’ultima generazione che non ha avuto paura di provare a cambiare il mondo e renderlo migliore. Ma l’idea generale è andare a scoprire i sogni di oggi. Perché il mondo sta molto meglio di 50 anni fa ma non sono certo finite le ingiustizie contro cui mobilitarsi e sono molto aumentate le opportunità di fare passi avanti straordinari. La mostra guarda al futuro. Ma se guardiamo il mondo oggi vediamo l’esatto contrario di quel sogno. Non sarei così negativo. Bisogna saper guardare le cose in prospettiva. Dal punto di vista statistico per esempio quasi tutti gli indicatori parlano di un mondo dove si vive molto più a lungo, dove la povertà si riduce e con meno guerre. Ma se restiamo sul piano fondamentale dei diritti civili, un esempio fra tanti: nel 1968 in Parlamento le donne erano tre su cento; quest’anno sono trentatre su cento. Non mi pare pochissimo. Forse è ingeneroso porsi la domanda, ma quali differenze vede tra il giovane del Sessantotto e quello di oggi? Esistono ancora i dreamers? Intanto va detto che io nel 1968 avevo tre anni e quindi non sono tecnicamente un sessantottino. Quello che mi affascinava di quella generazione era l’empatia verso chi pativa una ingiustizia anche geograficamente lontana e il desiderio di provare a cambiare le cose per creare un mondo più giusto. Quanto ai giovani di oggi mi piacerebbe che fossero loro a raccontarsi, Dreamers l’abbiamo fatta per loro soprattutto. Mi limito a un raffronto numerico: nell’Italia del 1968 gli under 35 erano la metà della popolazione, oggi meno di un terzo. L’Italia invecchia e i giovani sono numericamente pochi e contano sempre meno nelle scelte di chi governa.

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SPECIAL

Nº12 DREAMERS 1968 Parigi, 1 maggio 1968 Giovani donne sfilano durante la manifestazione del Labour Day organizzata dalla CGT e dal Partito Comunista. © AFP Agence France-Presse

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SPECIAL

Cosa resta del ’68 sul piano culturale? È una domanda troppo generica. Restano un sacco di cose: il discorso di Bob Kennedy sul PIL e la felicità, il fatto che l’adulterio femminile non è più reato, una diversa concezione dell’amore, il diritto allo studio per tutti (basta guardare il numero di iscritti all’università)... Poi certo ci sono stati errori, esagerazioni, ma oggi diamo per acquisite molte conquiste fatte proprio in quegli anni. Un termine chiave di quegli anni: rivoluzione. Che senso ha oggi questa parola? Non ha senso oggi. Ha senso sempre. Rivoluzione inteso come cambiamento. Uno dei mantra di Silicon Valley è “Change is Good”. La rivoluzione digitale è una rivoluzione appunto, che sta cambiando le nostre vite. E così quella energetica. E così quella genetica. Sono così tante le cose che stanno rivoluzionando la nostra vita che mi chiedo come fare a chiedersi che senso ha questa parola. Ha senso piuttosto non perdere le cose buone di prima, non rottamare tutto e provare a guidare il cambiamento perché non prenda direzioni sbagliate: mi riferisco in particolare agli sviluppi imprevedibili di intelligenza artificiale e genetica. “Dreamers 1968: come eravamo, come saremo”. La dolce vita, la vittoria dei campionati europei di calcio e le altre imprese sportive, il cinema, la vita quotidiana, la musica, la tecnologia e la moda. Un luogo “altro”, uno sguardo differente? Le cose non avvengono mai in una bolla, isolate da un contesto. E si comprendono davvero solo se inserite nel mondo in cui si sono verificate. Alla mostra si vede benissimo che certe cose, per esempio certe canzoni, non potevano non essere cantate nel 1968. E al contrario, fa effetto vedere le occupazione delle case da parte dei poveri di una periferia di Roma a un paio di chilometri dal Piper di Patty Pravo. Un concetto fondamentale: libertà. Oggi l’Occidente innalza barriere. Pessimi segnali dal futuro? Le barriere sono un pessimo segnale, ma in compenso le due Coree chiudono una guerra infinita. Insomma, bisogna guardare le cose nel loro complesso e in una prospettiva più lunga prima di vedere sempre pessimi segnali ovunque. Nel 1968 le Germania erano due, il Muro più importante di tutti è caduto, l’Europa si è allargata… Sì certo, ci sono problemi, ma sono stati fatti passi avanti importanti. Era l’epoca della battaglia per i diritti civili. Abbiamo camminato troppo lentamente? Sì certo, chi può dire che non avremmo dovuto e potuto fare di più. Ma fermiamoci un istante a vedere la strada percorsa: non è affatto breve, e se resta strada da fare questa consapevolezza è un incoraggiamento a farla non certo un invito ad accontentarsi. Si possono fare paragoni tra i movimenti di allora e i movimenti politici italiani di oggi? Paragoni si possono sempre fare ma per scoprire differenze più che somiglianze. Il mondo è così cambiato che ogni analogia rischia di apparire vuota. Basti un confronto tra gli strumenti del

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comunicare: dal ciclostile a Internet non è solo un salto in avanti, è un cambio di paradigma che impatta sulla nostra capacità di apprendere, comunicare, condividere. Tra le sale del museo di Roma rischiamo la nostalgia? Gli archivi talvolta nascondono questo pericolo. No, non stiamo idealizzando il 1968, lo raccontiamo per scoprire il 1968 di oggi, che assume forme diverse ma certamente anche oggi i ragazzi sognano un mondo migliore. Si tratta di scoprire quale e se possibile dare loro una mano. Questa mostra quale respiro internazionale propone ai visitatori? È una mostra internazionale, realizzata con il contributo di grandi agenzie internazionali che hanno messo a disposizione le loro fotografie migliori. E poi era impossibile raccontare il 1968 senza un approccio globale: si vede bene in certe foto di manifestazioni italiane per la Grecia, il Vietnam o Martin Luther King. AGI, ovvero informazione. E informazione ovvero Internet. Ma potrebbe scoppiare un Sessantotto virtuale? È già capitato qualche anno fa, con la primavera araba. E non è finito bene direi, ma speriamo nel prossimo.

Le fotografie da pg.12 a pg.29 sono gentilmente concesse da AGI - Agenzia Italia - Dreamers 1968, come eravamo, come saremo. Mostra Museo di Roma in Trastevere, 5 maggio - 2 settembre 2018. AFP, AGI, AP-ANSA, Camera Press/Contrasto, Carlo Riccardi/Archivio Riccardi, Getty Images, Marcello Geppetti - Media Company.

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SPECIAL

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Nº4 DREAMERS 1968 Roma, 1 novembre 1968 Riunione alla sede dell’Agis di attrici, attori, registi e produttori per la fondazione dell’accademia cinematografica. © AGI Agenzia Italia ________________________________

Nº3 DREAMERS 1968 Roma, 1 ottobre 1968 Adriano Celentano per film “Serafino” con la moglie Claudia Mori. © AGI Agenzia Italia ________________________________ Pg.20 Nº7 DREAMERS 1968 Memphis, 28 marzo 1968 Il reverendo Ralph Abernathy a destra, il vescovo Julian Smith a sinistra con Martin Luther King durante una marcia per i diritti civili. © AP Associated Press e ANSA

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SPECIAL SPECIAL

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SPECIAL

quando jagger voleva uccidere il re – 22 –


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La mattina dell’8 gennaio 1968 l’orologio del Big Ben segna le sei e ventotto minuti. Rimarrà fermo fino alle dieci e dieci, paralizzato da una tempesta di neve. Non accadeva dal 1955 e i londinesi, per quattro ore, si sentono smarriti senza quel punto di riferimento fermo nei cieli grigi della capitale, come racconta il Guardian il giorno dopo. La Gran Bretagna si è addentrata nel gelo del nuovo anno lasciandosi alle spalle quella che è passata alla storia come “the summer of love”, l’estate del 1967, che ha portato da San Francisco a Bristol il vento della liberazione sessuale e culturale, spazzando via in un solo soffio il puritanesimo di inizio decennio, lo sdegno per lo scandalo Profumo e per l’introduzione da parte del sistema sanitario nazionale di test sulla pillola contraccettiva. I cartelloni pubblicitari proiettano sulle città il sorriso e le minigonne di Twiggy, icona britannica della moda, mentre l’euforia della swinging London riempie i bicchieri sui tavolini intorno a una Carnaby Street assediata dai fotografi, che da qualche anno si chiamano paparazzi anche oltremanica. Paparazzi, Fellinesque e dolce vita, almeno tre i termini diventati di uso comune grazie al film italiano del 1960, e uno stile di vita da emulare, riassunto nel mito della cena “al fresco”, e poco importa se i giornali del tempo sottolineano come, in Italia, l’espressione indichi la galera. Sono gli anni del rilancio delle ferrovie e delle vacanze sulla costa, nei poster pubblicitari dalla grafica retrò. Gli inglesi scoprono Weston-super-mare e Clacton-on-Sea e inventano la loro “riviera”. L’ultima corsa dei treni a vapore sarà quella da Liverpool a Carnise dell’undici agosto 1968: 314 miglia prima che le locomotive finiscano nei musei o nelle discariche cedendo il passo all’era dell’elettricità su rotaie. Dopo anni di dibattiti il Sexual Offence Act del 1967 ha portato alla depenalizzazione dell’omosessualità tra adulti consenzienti, una “legalizzazione” che in Scozia e in Irlanda diventerà legge solo nei primi anni Ottanta. La Scozia è ancora lontana da Westminster e ancora più lontano è il Galles, dove proprio nel ’68 si registra il numero massimo nella storia di iscrizioni al partito indipendentista Cymru. Il 26 settembre il “Theatre Act” abolisce, dopo 231 anni, la censura negli spettacoli teatrali. Il giorno dopo il musical di Broadway “Hair”, fino a quel momento bandito dai palcoscenici inglesi, debutta a Londra. Lo scandalo suscitato dalle scene di nudità, dai riferimenti espliciti al sesso e all’assunzione di droghe occuperanno le prime pagine dei giornali per giorni. Eppure l’Lsd è ormai popolare non solo tra i musicisti della scena rock, ma nei campus universitari e nel mondo dell’underground, letterario e artistico, dopo che nel 1965 Michael Hollingshead ha aperto una filiale del World Psychedelic Centre a Chelsea, la sua missione il “proselitismo allucinogeno”. Mentre la primavera di Praga prende forma, gli inglesi al cinema vedono 2001: “Odissea nello spazio”. L’Apollo 11 toccherà il suolo lunare nel luglio del ’69. Il cinema, in ogni caso, arriva prima della Nasa. Il mondo della letteratura è in fermento dopo l’istituzione del Man booker prize, allora riservato ai soli autori cittadini del Commonwealth, in palio 5000 sterline, più del prezzo medio di una casa (4.000). Il primo vincitore, nel 69, è PH Newby con “Something to Answer For”. Il romanzo, l’unico oggi fuori catalogo tra i vincitori del Booker, è ambientato durante la crisi di Suez del ’56 ed esce proprio nei giorni in cui il Primo Ministro Harold Wilson rende operativa la decisione di ritirare gli ultimi contingenti dall’Egitto. Sono gli anni della distensione, economica e sociale. Niente lascia intravedere la stagflation e i picchi di disoccupazione dei primi anni Settanta. Ma la Gran Bretagna del mito, la Cool Britannia che il nostalgico Tony Blair cercherà di riportare in vita negli anni Novanta, è in bilico tra una rivoluzione spensierata e gli scontri di piazza, tra pacifismo e azione, tra Beatles e Rolling Stones. John Lennon e i suoi partono per l’India a febbraio, per ritirarsi al Maharishi Mahesh Yogy di Rishikesh; Mick Jagger partecipa alle manifestazioni contro la guerra in Vietnam

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SPECIAL

e lancia sassi contro l’ambasciata americana. È il 17 marzo 1968 e in 80.000 marciano da Trafalgar a Grosvenor Square, tra loro lo scrittore Tariq Alì, allora ventiquattrenne, portavoce della UK Vietnam Solidarity Campaign. La giornata, che si conclude con trecento arresti, 50 manifestanti e 25 poliziotti in ospedale, ispirerà a Jagger “Sympathy for the Devil” e “Fighting Man”. «Ovunque sento il suono dei passi di marcia, che caricano», canta Jagger, «perché è arrivata l’estate ed è il momento giusto per combattere in strada. Ma cosa può fare un povero ragazzo, se non cantare in un gruppo rock. Perché non c’è spazio nell’assonnata Londra, non c’è spazio per un guerriero di strada. No! É il momento per una rivoluzione a Palazzo, ma dove vivo io si gioca un gioco chiamato Compromesso. […] Ehi! Ho detto il nome, è Disordini. Griderò e urlerò, ucciderò il re e inveirò contro i suoi servitori». Mentre i Beatles prendono le distanze da qualunque rivoluzione violenta, Jagger descrive il torpore di una città inerme di fronte all’appoggio britannico alla guerra del Vietnam. L’eroe della working class Lennon e il ribelle di buona famiglia si conoscono, sono amici. Sembrano rappresentare le due anime della protesta ma Jagger stesso, intervistato in seguito, riduce l’adrenalina di quei giorni alla reazione alla noia, alla mancanza di ideali per i quali scendere in piazza. «Fighting man si chiede solo se la protesta possa essere una risposta. Non dice che io penso che lo sia», racconta il frontman dei Rolling Stones al giornalista Mill. Solo una canzone, in una società in cui il culto dell’individuo aveva già affondato le radici annacquando il collettivismo. I Beatles a manifestare non ci vanno, precluderebbe loro l’ingresso negli Stati Uniti per un nuovo tour. Il messaggio di Lennon è nei due singoli “All You Need is Love” e “Yellow Submarine”. Quando esce l’album un altro sottomarino, il Dakar, affonda nel mediterraneo, 69 membri dell’equipaggio perdono la vita. Il 15 febbraio il primo missile balistico viene lanciato dal Resolution, nelle esercitazioni per il piano Polaris, simbolo della guerra fredda e della corsa all’armamento nucleare. Quattro i sottomarini nella flotta britannica: Resolution, Repulse, Renow, Revenge, nessuno dei quali giallo, per un costo medio di 39.000.000 di sterline ciascuno. La swinging London, al di là delle vetrine e dei concerti, è attraversata da fratture profonde. Alle manifestazioni contro l’offensiva TET gli studenti delle public school si scontrano contro quelli dei sobborghi. Le prime crepe si allargano in una società che aveva fatto del multiculturalismo il proprio trademark nel mondo. Il Carnevale di Notting Hill diventa una festa popolare nel ’68, ma le tensioni razziali che gli hanno dato origine non si sono sopite. Da Smethwick a Londra gli attacchi agli immigrati indiani e caraibici si moltiplicano: negozi incendiati, manifestazioni di piazza contro la “africanizzazione” delle strade che porta alla svalutazione degli immobili. La generazione di cittadini del Commonwealth, arrivata a bordo della Windrush nel ’48, non si sente più a casa. Ad aprile Enoch Powell tiene il suo discorso sull’invasione della Gran Bretagna, prevede che fiumi di sangue scorreranno quando l’uomo nero prenderà il sopravvento sull’uomo bianco. Chiama “la gente per bene” a difendere la razza e il carattere britannico. Un discorso inaccettabile anche per i conservatori, che lo cacciano dal partito. Ma il velo è stato squarciato e il governo corre ai ripari con un nuovo Nationality Act che per la prima volta limita l’ingresso dei cittadini delle colonie. Ci vorranno altri quattro anni perché si inizi a parlare di deportazioni. Nell’oblio spensierato della vita quotidiana, tra shopping e allucinazione psichedelica, passano quasi inosservati altri scontri, che nei giornali del tempo occupano il fondo della pagina. Come quello di Derry del 5 ottobre, represso nel sangue, che apre drammaticamente la questione irlandese. Una ancora sconosciuta Margaret Thatcher condanna la società del benessere, il permissivismo e il declino dei valori vittoriani. Il commediografo Alan Bennett, in “40 Years On”, guarda con nostalgia agli anni del dopoguerra. Ma il passato è passato e gli occhi sono tutti puntati sui televisori che trasmettono “Top of the Pop”; gli Yes si esibiscono per la prima volta a

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Nº1 DREAMERS 1968 Forbach, 25 maggio 1968 Il leader studentesco francese Daniel Cohn Bendit e manifestanti tedeschi durante una protesta al confine franco-tedesco. © AFP Agence France-Presse

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Nº9 DREAMERS 1968 Praga, 21 agosto 1968 Soldati sovietici cercano di conquistare la sede della radio cecoslovacca. © Camera Press/Contrasto

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SPECIAL

un raduno estivo ad agosto; a settembre debuttano i Led Zeppelin, anche se ancora si chiamano The New Yardbirds. Hendrix caccia il manager e i Cream si sciolgono, suonando per l’ultima volta insieme alla Royal Albert Hall. Non c’è spazio per la nostalgia nell’accelerazione del 1968. Per i nostalgici di oggi, invece, o per chi per questioni anagrafiche quegli anni non li ha vissuti, c’è il Victoria and Albert Museum a ricreare “l’era del sesso, del rock and roll e della droga per le nuove generazioni”: Intitolata “Records and Rebels”, la mostra promette una full-immersion nell’atmosfera psichedelica del ’68: la moda, la musica e la politica, ma anche un giro (virtuale) attraverso gli effetti dell’Lsd. 350 oggetti, dagli abiti di scena degli Who’s alle minigonne con la pubblicità Campbell, dalle foto di Yoko Ono al testo manoscritto di “Lucy in The Sky with Diamonds”. E le performance di Jimy Hendrix e le prime trasmissioni delle “radio pirata”. Un’esperienza diretta dell’anno della rivoluzione. Perché, come spiega il co-curatore Goffrey Marsh, «La gente vuole sentire da dentro, non semplicemente guardare». Un modo per ricordare una rivoluzione mancata e celebrare il ’68 edonistico di un Paese distratto che c’era ma guardava altrove, verso le luci del palco. Eva Garau

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Nº10 DREAMERS 1968 Roma, 1 marzo 1968 Disordini durante la battaglia di Valle Giulia © Carlo Riccardi/Archivio Riccardi ________________________________ Pg.30 Nº5 DREAMERS 1968 New York, 3 aprile 1968 Joan Baez canta durante una manifestazione contro la guerra a Central Park © Getty Images ________________________________ Pg.31 Nº11 DREAMERS 1968 Roma, 16 marzo 1968 Scontri all’università tra studenti e forze dell’ordine © Marcello Geppetti - Media Company

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URBANO Nº1 Bronzo e acciaio, 2013 © Clemencia Uribe


II NEWS


NEWS

errare floreale

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Liane viola si lanciano sull’altana dell’avita dimora, con colpi di frusta attorno alla ringhiera di ferro della terrazza. È tutto un ricadere di sirene. “E intanto era aprile, e il glicine era qui, a rifiorire…”, Pasolini e mille calabroni intorno alla nuvola lilla. Borgo San Lorenzo, Mugello. Villa Chini è un’apoteosi del Liberty. I padroni di casa, Vieri e Patrizia Chini, hanno il privilegio di abitare un luogo fuori di un secolo dall’insostenibile consapevolezza di essere contemporanei. Mi siedo sotto la schiusa delle sirene, con la schiena poggiata al muro, luce violetta e punte nere dei “Pretziada boot” davanti, che si trasformano in furlane di velluto cremisi. Perché i passi siano felpati e possa così entrare, non vista, come uno dei tanti spiriti che indisturbati qui albergano. Cos’è questo vivere nella pienezza, nell’ingombro di una casa che non ha più pareti ma squarci di Modern Style, Art Nouveau, Jugendstil, palpitanti impressioni di Modernismo e Secessione? È senz’altro una scelta di alterità esistenziale. Dopo un secolo, quella consapevolezza estetica che si opponeva all’imperante eclettismo, alla dittatura degli stili del passato, è rappresa tutta in questa casa di famiglia, dove si è fermato lo Zeitgeist Liberty. Chino, poi Augusto, nel 1923 diedero forma a un sogno. E, proprio come nei sogni, non importa più dare una durata a quel momento fatale: il Liberty ha vivificato l’Italia nei due primi decenni del Novecento, ma, a guardarlo qui ed ora, i suoi confini temporali sfumano, si perdono come un’antica, grande civiltà. Informata da una sensibilità europea in tutti gli oggetti che ha prodotto: mobili, decorazioni, trasparenze, opalescenze, giardini, vestiti, profumi. Tanto del nostro sfrenato contemporaneo, almeno di quella parte sopravvissuta a un malinteso senso di minimalismo, deve i suoi empiti alla libertà del Liberty. Vago per Villa Chini. Incedere delle furlane su geometrie di pavimenti. Una ricerca della bellezza che parte dal basso e pervade tutto, anche il tintinnio dei pendagli di vetrini appesi ai lampadari, in leggera vibrazione. Dove sono? Dove siamo, fuori da queste vetrate quadrettate, da questi lampadari di ferro e vetri verdi, dai piatti d’oro appesi al muro, dalle ceramiche lustrate, dai tessuti ricadenti dai soffitti come manti rinascimentali? Dopo cento anni, nessuno sta festeggiando il Liberty. Non fosse per la richiesta di un direttore di rivista d’arte, starei scrivendo del Fuorisalone di Milano, di “A familiar place” dei Pretziada, per esempio. Invece no: sono dentro a Villa Chini, sortilegio di un glicine di inizio primavera. A festeggiare il Liberty, denominazione presa dai magazzini fondati a Londra nel 1875 da Arthur Lasenby Liberty, specializzati nella vendita di prodotti provenienti dall’estremo Oriente. Uno stile che è l’esordio del Moderno. Contiene una promessa di libertà, evidente in tutte le sue istanze: fascino per terre lontane e misteriose, chinoiserie, linee sinuose, ondulate, “colpi di frusta”, gusto per l’asimmetria, uso del corpo femminile, di fiori, piante, animali come soggetti di decorazione. Mi trovo davanti a un albero genealogico pieno di cerchi dai colori pastello, sembra un’opera di Julie Cockburn. Una legenda di stemmi spiega che quei tondi sono famiglie: Massai, Bastiani, Bitossi, Barletti, Pananti… avi e avi, prima di quello “stile nuovo”, vivificatore, che John Ruskin e William Morris avevano preconizzato con “Arts and Crafts”: emancipazione dalla gerarchia delle arti; opposizione al decadimento estetico da produzione industriale. Un anelito rinnovatore che in Italia arriva dopo, all’inizio del XX secolo, con il decorativo che feconda il funzionale e le linee, morbide e vitali, tendono verso l’organico, insistendo sul legame fra uomo e natura. Il Liberty è il nostro orgoglioso rifiuto nazionale all’eclettismo. E questa declinazione italiana dell’oro mitteleuropeo, del fruscio degli abiti femminei di Toulouse Lautrec, dei sogni architettonici di Gaudì ed Eiffel, è raccolta qui, dentro ad una delle ville più belle che il nostro centenario stile abbia espresso. Villa permeata dalla geniale creatività di Galileo Chini,

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pittore, ceramista, affrescatore, scenografo, costumista, fondatore, nel 1896, a Firenze della manifattura “L’Arte della Ceramica”, con produzioni che arrivano alle esposizioni di Torino (1898 e 1902) e all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Nel 1906, Chino e Galileo portano la loro manifattura proprio qui, contigua a Villa Chini, la chiamano “Fornaci San Lorenzo”. Ora la fornace, di proprietà di un gruppo belga, si chiama “Pecchioli Ceramica”. Produce anche una linea denominata “ceramica dei Chini”. Osa riparlare di Liberty. Esco, mi risiedo sotto al glicine, via le furlane rosse, di nuovo gli scarponcini neri. E a cena a “Le train bleu”, Gare de Lyon. Raffaella Venturi

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◀ DETTAGLIO LIBERTY Decorazione muraria di Galileo Chini Fotostudio Adriano Buccoliero Per gentile concessione Vieri Chini, Firenze ___________________________ ◀

VILLA CHINI Fotostudio Adriano Buccoliero Per gentile concessione Vieri Chini, Firenze ___________________________ Pg. 38 - 39 INTERNI VILLA CHINI Fotostudio Adriano Buccoliero Per gentile concessione Vieri Chini, Firenze

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sarnico, scrigno liberty

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A volte solo le piccole città sanno conservare le grandi opere. Sarnico si affaccia sul lago d’Iseo e custodisce uno scrigno di Art Nouveau. Un luogo dove si vive davvero un’esperienza tra natura e architettura. Atmosfere da Belle Epoque, come un film che rievoca la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Eppure qui siamo nella realtà. L’anno scorso l’istituzione culturale Italia Liberty ha consegnato a Sarnico il premio “Best Liberty City”. Nella miglior città Liberty dell’anno è cominciato allora un percorso impegnativo per far traghettare il brand in tutto il mondo. Prossimamente comparirà anche sull’elenco delle città della “Ruta Europea del Modernisme”. Di cosa parliamo? Di un nucleo di costruzioni Liberty, firmato dell’architetto milanese Giuseppe Sommaruga, un protagonista del Liberty italiano, chiamato a Sarnico nel 1907 per trasformare una vecchia filanda in una villa nel nuovo stile. L’itinerario “Sarnico Liberty” parte dall’Asilo Infantile (1912) in piazza SS. Redentore, si sale per la provinciale dove appare l’imponente facciata del cimitero; dentro c’è il Mausoleo della famiglia Faccanoni (1907), una sepoltura laica, quasi uno ziqqurat orientale senza segni cristiani. La struttura è decorata con sculture e fregi dello scultore milanese Ambrogio Pirovano. Proseguendo in direzione Predore si incontra Villa Surre (1912). Ritornando verso il centro di Sarnico, dopo essere passati per un bellissimo borgo dell’anno 1000, sulla riva del lago si trova Villa Faccanoni (1907). Il percorso si conclude in piazza XX settembre, con Villa Passeri (1906). La perla è Villa Faccanoni. Su due piani, si sviluppa tra mansarde, terrazze, bovindi e una torre. L’ingresso principale è sull’angolo smussato prospiciente il lago. Pietre diverse accarezzano l’andamento irregolare della villa che si arricchisce di fasce in cotto e in maiolica. Come specifica particolarità dello stile Liberty l’edificio accoglie elementi naturali, animali più o meno riconoscibili scolpiti nella pietra. Gli stessi calchi si trovano nella villa Romeo Faccanoni di Milano, oggi Clinica Columbus. In questo “villino per scapolo” il richiamo alla struttura di una nave diventa elemento simbolico e rimanda ad un preciso intento nella complicità tra architetto e committente. La planimetria e la facciata ricordano le ville fiorentine del Quattrocento. Le decorazioni floreali su nastri che attraversano l’edificio e che seguono la curvatura degli archi sono, invece, tipiche del Liberty. L’interno della villa è decorato e arredato con una boiserie e mobili a muro. Nei soffitti si legge la tecnica del cemento graffito in forma di motivi floreali. Scenografico il cancello d’ingresso in ferro battuto che ospita un campionario di fiori e di insetti catturati da improbabili ragnatele. Un’atmosfera di magia e allo stesso tempo di smarrimento. Andrea Speziali, Presidente di Italia Liberty

Pg. 42 VILLE LIBERTY Nº1 1. Mausoleo Faccanoni, 1907 2. Asilo Infantile “Antonio Faccanoni”, 1910-1912 3. Villa Luigi Faccanoni, poi Bortolotti, ora Surre, 1912 Fotografie di © Sergio Ramari - Comune di Sarnico ____________________ Pg. 43 VILLE LIBERTY Nº2 1. Villa Giuseppe Faccanoni, 1907, vista sul lago di Iseo 2. Villa Giuseppe Faccanoni, 1907 3. Villa Pietro Faccanoni, ora Passeri, 1907 Fotografie di © Sergio Ramari - Comune di Sarnico

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URBANO Nº2 Bronzo e acciaio, 2013 © Clemencia Uribe


III INTERVIEW


INTERVIEW

boccalini, l’arte in comune

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Se gli si chiede una graduatoria personale delle sue opere, Stefano Boccalini non ha dubbi: al primo posto mette quella scritta in metallo sul fiume Oglio in Valle Camonica. A Temù. L’acqua del fiume scorre sulle lettere di “PubblicaPrivata”. La parola Pubblica è stata realizzata in acciaio inossidabile, resistente al tempo e all’acqua. La parola Privata in ferro, che fatalmente arrugginisce e si deteriora. Il colpo di ali è un simbolo e una realtà: nel tempo l’opera vivente certifica, alimenta e rende visibile il concetto. Un bene pubblico inalienabile che si contrappone alla “merce” da cui trarre profitto privato. Semplice, con una forza d’urto impareggiabile. Visto come vanno le cose, servirebbero molte repliche. Nato a Milano, già assistente di Gianni Colombo, da tempo docente di Arte pubblica alla Naba di Milano, lavora da anni con le parole. “DebtCredit” nasce da una lettura: “La fabbrica dell’uomo indebitato” di Maurizio Lazzarato, dove il filosofo e sociologo dimostra come la relazione debito/ credito, oggi, regola sostanzialmente i rapporti sociali. Il lavoro è composto da due stampi in acciaio che servono per produrre pane. Al Miart del 2013 nello stand dello Studio Dabbeni di Lugano ha esposto i due stampi e tre sacchi contenenti 50 kg di pane che riproducevano le due parole Debt e Credit. I visitatori della fiera potevano prendere il pane e mangiarlo. L’idea era di porre l’attenzione sul funzionamento dell’economia e sull’impatto sociale delle sue scelte. Sono molte le parole che l’artista utilizza e rende protagoniste del suo lavoro: Normalità, Emergenza, Accoglienza, Esclusione, e anche Dono, Profitto o Affetti. Ma parliamo di un politico con fantasie artistiche? No, di un artista con dubbi e certezze “politiche” nel senso greco del termine. Di un esponente internazionale di spicco dell’Arte pubblica, insomma. Definizione che non si esaurisce nel senso riduttivo di “arte nello spazio pubblico”. Piuttosto e soprattutto arte come identità, partecipazione, coinvolgimento e condivisione. Non si tratta solo di guardare e magari giudicare. Ma di vivere ciò che si è creato. Ed è chiaro che si è creato perché il risultato possa essere vissuto. La definizione più sintetica di Arte pubblica? < “Arte e sfera pubblica”, credo che questo binomio rappresenti bene il mio pensiero, ma mi spingerei oltre e comincerei a parlare di “Arte del comune”. Oggi, a mio avviso, occuparsi del “pubblico” significa inevitabilmente occuparsi di quelli che consideriamo i “beni del comune” che, sempre più spesso, sono oggetto di attenzione da parte di chi vuole privatizzarli per trarne profitto. > Quale è il confine fra arte pubblica e semplice intervento di utilità pubblica? < Se partiamo dall’idea che per arte pubblica si intende quell’arte che è in grado di confrontarsi con il contesto pubblico, allora è difficile trovare un confine, ma esistono delle differenze nell’approccio. Gli “strumenti” che l’artista utilizza quando si trova ad operare nel contesto sociale non sono certamente quelli che utilizza il sociologo, ma rimanere aperti a tutte le possibili contaminazioni credo sia utile per entrambi. > Inevitabilmente Arte pubblica significa impegno sociale e politico? < Per quanto mi riguarda fino a questo momento è stato così. Il mio lavoro si è sempre mosso dentro il contesto pubblico, ma negli anni si è modificata la mia consapevolezza rispetto ad esso: all’inizio era un “luogo fisico” dove il confronto era con l’architettura e la natura, poi è

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INTERVIEW

PUBBLICAPRIVATA Opera permanente Acciaio, ferro, 2015 100 x 700 x 20 cm

Opera realizzata per Aperto_art on the border 2015 Temù, Italia Cortesia Distretto Culturale di Valle Camonica Foto di © Stefano Serretta

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diventato un “luogo antropologico” e il confronto si è spostato con le comunità e il loro vissuto, e negli ultimi anni un “luogo politico” dove il confronto si sviluppa attraverso il linguaggio. > Non è un caso che stia lavorando con le parole? < Assolutamente no. Il terreno di confronto, o forse è meglio dire di “scontro”, col passaggio dalla fabbrica fordista alla fabbrica linguistica, si è spostato sul piano linguistico. La parola è diventata un vero e proprio strumento di produzione e di captazione di valore ed ha assunto, col trascorrere degli anni, una dimensione sempre più importante nel contesto sociale. Allora nel mio lavoro le parole diventano protagoniste e attraverso la fisicità con cui le metto in scena risultano dei veri e propri dispositivi di comunicazione in continuo dialogo con i luoghi che le accolgono. Sono dei momenti di riflessione su tematiche che riguardano tutti, a partire da quelli che consideriamo “i beni del comune”. > Di quale opera parlerebbe per spiegare questi concetti? < Dell’ultima, “Dono”. È un’opera realizzata insieme ad un cestaio, l’ultimo rimasto in Valle Camonica. È un cestino che prende forma dalla parola dono, ed è un omaggio ad un artigiano che con impegno e determinazione porta avanti un mestiere che in Valle sta scomparendo, un “dono” alla sua comunità. Questo lavoro è un modo di provare possibili vie di uscita da un pensiero economico omologante che pone al centro il profitto e non l’uomo e la tutela della natura, come di fatto dovrebbe accadere. > In che senso parla di tutela della natura? < Prima di tutto mi sembra importante chiarire che per me il concetto di natura non è solamente legato ad un concetto ecologico, ma porta con sé anche l’idea di territorio nella sua interezza e complessità. Quando parlo di tutela della natura, quindi parlo di tutela del territorio, che comprende si l’aspetto naturale, ma soprattutto quello antropologico, quello del vissuto delle comunità che lo abitano. > Cosa è un luogo per lei? < È un terreno dove poter seminare.> Roberto Cossu DEBTCREDIT Istallazione, 2 scritte d’acciaio, 3 sacchi di carta contenente pane, 2 basi di legno, 2013 8.9 x 27 x 3 cm e 8.9 x 19 x 3 cm

Opera vincitrice del Premio Rotary. Club Milano Brera per la scultura al Miart 2013, presentata nello stand dello Studio Dabbeni di Lugano, Milano Collezione Rotary Club Milano Brera Foto di © Paola Di Bello ____________________________________________________________________ DONO Legno di salice, legno di noce, 2017 20 x 113 x 22 cm

Opera realizzata per Aperto_art on the border 2017 Foto di © Stefano Serretta

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ECONOMIA, CHRISTIAN MARAZZI Fusione in oro 18k, 2014 1 × 6.5 × 0.3 cm Esemplare unico Opera realizzata per la mostra personale Parole a cura di Simone Frangi Studio Dabbeni, Lugano, 2014 Collezione privata Foto di © Paola Di Bello

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URBANO Nº3 Bronzo e acciaio, 2013 © Clemencia Uribe


IV THE NEW CODE


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macis, della calma e del silenzio – 56 –


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i due mondi di clemencia

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TRA LA TERRA E IL CIELO Nº5 Fotografia di Fabio Costantino Macis ________________________________ MOMENTOS DE LA DANZA Nº1 Bronzo a cera persa, 1993 - 1998 Scultura di Clemencia Uribe

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FABIO COSTANTINO MACIS Fabio Costantino Macis da anni si dedica a lavori che oscillano tra la fotografia, sua forma d’arte espressiva prediletta, e l’installazione. Fino alla performance. Nei due concept Al Crepuscolo e Tra la Terra e il Cielo è possibile rintracciare quel fil rouge che lega indissolubilmente i lavori dell’artista sardo, nonostante la diversità tra forme e contenuti. E questo fil rouge è il silenzio. Tutti i lavori si caratterizzano per una grande attenzione al non detto, ai sottintesi, alla rappresentazione estatica. Da questo punto di vista sono le trame intrecciate di luci e ombre negli scatti a suggerire un mondo interiore in perenne dinamismo, in contrasto con l’aspetto imperturbabile e quasi mistico dei soggetti. In Al Crepuscolo l’artista esprime in modo evidente il suo amore per la pittura antica con echi di Caravaggio, di Zurbaran, di Rubens. Gli spiragli luminosi, come filtrati da un tessuto, rivelano personaggi avvolti in un’ombra densa, morbida e quasi palpabile. C’è un gusto estetico spiccato nel raccontare gli elementi naturali terra, aria, acqua, e poi l’uomo, colto in un languore consapevole e assorto. Una calma non priva di tensione, però, che si legge nel gesto e nell’espressione. Questo lavoro, ideato con grande equilibrio, ricorda la riflessiva ed immaginifica pittura preraffaellita in cui ogni dettaglio diviene simbolo, e in particolare richiama le opere di Sir Lawrence Alma-Tadema. L’elemento di citazione non è mai gridato e l’opera si presta ad una lettura a più livelli, acquisendo ulteriore valore e traendo forza dalla sua stessa capacità di evocare un silenzio vigile. Come nelle immagini scaturite dalla romantica penna di Foscolo l’ambiente esterno accoglie le figure, protegge i loro pensieri, li condivide. Tutto pare pulsare nell’ombra, dimora ideale perché i pensieri si rincorrano come ingredienti di una ricetta alchemica. Fabio Costantino Macis è affascinato da atmosfere oniriche che paiono un invito ad evadere dall’ordinario verso orizzonti interiori differenti: la composizione diviene visione e viceversa. La Natura è elemento fondamentale Tra la Terra e il Cielo: non è una scelta sentimentale quella di ritrarla in modo così importante, ma solo la necessità di trovare uno spazio in cui sia possibile per l’uomo raggiungere la catarsi. Sogni e traumi si liberano nel gesto estatico dell’ascensione e raggiungono una dimensione altra. Allentate le catene mortali, i corpi vibrano di dinamismo e lo spirito si astrae per osservare le cose da un altro punto di vista. Macis non è un sognatore che spicca il folle volo, ma guarda oltre le cose con sobria moderazione: i protagonisti dei suoi scatti fluttuano a poca distanza dalla terra e dal mare, dagli elementi certi della fisicità a cui si dovrà tornare, senza rifiutarla o allontanarsene eccessivamente, e questo li rende straordinari e comuni al tempo stesso. Sono attimi di distacco, abbandono meditativo, frammenti di tempo destinati ad esaurirsi lasciando un’eredità di consapevolezza in cui ci riconosciamo o vorremmo riconoscerci. Sono piccole rinascite in un ciclo vitale i cui vincoli avvertiamo stretti, sono le mille costrizioni che stratificano l’uomo ergendo mura che solo per qualche istante possiamo infrangere raggiungendo piani diversi e ariosi. La capacità di trasmettere questa sensazione di leggerezza è un dono. Il fascino di queste immagini risiede in ciò che non sappiamo, sia esso passato, presente o futuro. Non conosciamo il peso tolto dalle spalle dei protagonisti di questi scatti, ne supponiamo le sofferenze e i dubbi, ne intuiamo le gioie, le aspirazioni. Viviamo con loro l’entusiasmo dello slancio, certi della possibilità di astrarci dallo spettro delle emozioni terrene per un qualcosa di indefinito e soave, anche se solo per un momento e anche sapendo che la ricaduta è legge inesorabile per l’uomo. Conserviamo il ricordo dell’esperienza e ne nutriamo la memoria per ingannarci quanto basta e cullarci in questa illusione di amniotica felicità. Giacomo Pisano

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Fabio Costantno Macis has dedicated himself for years to works that oscillate between photography, his favourite expressive form of art, and installation, up to performance. In the two concepts Al Crepuscolo and Tra la Terra e il Cielo it’s possible to trace back a fil rouge that indissolubly bounds his pieces of art, notwithstanding the diversity in form and content. This fil rouge is the silence. All his works are characterized by a great attention to the tacit, and by an ecstatic representation. From this point of view, the weft between light and shadow suggests an inner world that is in permanent dynamism, and in contrast with unflappability and mysticism of his subjects.With Al Crepuscolo, the artist evidently expresses his love for ancient paintings, echoing Caravaggio, Zurbaran, and Rubens. As in fabrics, when chink filters the light, characters are enshrouded in a dense, soft and almost tangible shadow. There’s a marked aesthetic taste in recounting the natural elements and the human being, both captured in a conscious and engrossed languor. Calm and tension can be simultaneously seen in gesture and expression. This concept, conceived with extreme balance, recalls the reflective and imaginative pre-raphaelite paintings, where every detail becomes a symbol or even addressing to the art of Sir Laurence Alma- Tadema. The quoting element is never declared out loud and lends itself to a multi-level reading. In this way, it acquires more value and draws strength from its own ability to evoke a heedful silence. As in those images coming from the romantic pen of Foscolo, the external environment welcomes figures, protects their thoughts, and share them. Everything seems to pulse in shadow that appears to be the ideal dwelling to let thoughts run after each other as in an alchemical recipe. FCM is fascinated by dreamlike atmospheres that seem to be an invitation to escape from the ordinary towards different inner horizons: composition become a vision and vice-versa. Nature is the fundamental element in Tra la Terra e il Cielo. Portraying Nature in a so important manner doesn’t represent a sentimental choice, rather it is a necessity to find a place for mankind to reach out for catharsis. Dreams and trauma find freedom in an ecstatic gesture of ascension helping in reaching a “other” dimension. By losing mortal chains, bodies vibrate in dynamics so the spirit can abstract itself to observe things from another point of view. Macis isn’t a dreamer who loves to take a foolish gliding, he rather looks at things with a sober restraint. In his shooting, subjects fluctuate at a short distance from the ground and the sea, being them the constant element of the matter to which we all must go back. What makes subjects extraordinary and common at the same time is their staying close to elements, not too far and not too close. They represent detachment moments, a mediative abandonment, or time destined to expire and to leave an awareness legacy where we can recognize ourselves. They are like tiny rebirths within a vital cycle, where ties are felt too much tight. It’s about thousands of constraints that layer the human being and elevate walls we can throw down, just for some moments, by reaching other airy levels. The ability to transmit a sensation of lightness is a gift. The fascinating aspect of these images resides in something we don’t know, either past, present or future. We don’t know what burden once where on subjects’ shoulders. We just can suppose sufferings and doubts or we can perceive joy and aspiration. We participate in the enthusiasm of upsurging. We’re sure about the possibility to abstract from the earthly spectrum of emotions in favor of something indefinite and suave even just for a moment, and even knowing that relapsing is an inexorable law for the human being. We preserve a memory of the experience, we nourish that memory to mislead ourselves just enough to cradle in this illusion made of an amniotic happiness. Traduzione di Valeria Martini

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AL CREPUSCOLO Nº3 Fotografia di Fabio Costantino Macis ________________________________ AL CREPUSCOLO Nº5 Fotografia di Fabio Costantino Macis

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CLEMENCIA URIBE RIVERA Parlare di Clemencia Uribe Rivera significa esplorare due mondi apparentemente diversi passando attraverso il disegno, la pittura e la scultura. L’artista colombiana conosce l’anatomia come mezzo per indagare la realtà. La sua esperienza di ballerina rivela la scultura nel movimento in una tensione restituita attraverso l’ombra e lo spazio. Da un lato, l’insegnamento di Alexander Calder l’avvicina al bronzo, al legno, alla pietra. Si tratta di materiali che occupano un luogo, ma Uribe sembra interessata a conoscere i contorni, i limiti della forma. Un volume lo disegna, lo marca. Le sue figure volteggiano, richiamano il “leggerissimo Calder”, non per la trasparenza che perseguiva il maestro, piuttosto per entrare nell’essenza dell’opera. Dall’altra, il riferimento alle famose sculture Stabile sospese e a terra di Calder accentua l’idea del movimento naturale che nel suo caso non porta a progetti sperimentali o a movimenti casuali, ma risponde a una precisa architettura e a una disciplina in grado di concentrare in un gesto la forza della materia. Il loro movimento non è dato dall’aria, dal peso, dallo spostarsi delle persone in una stanza, ma dall’intersezione di linee, da rigorose geometrie che sintetizzano la potenza della forma. L’artista, che ha esposto in importanti musei e gallerie dei Paesi Latinoamericani e dal Canada all’Europa, spesso ha sottolineato che le sue aspettative si concentrano sul significato della vocazione: “Le abilità – afferma – si esprimono in funzione della trascendenza, rimangono fedeli ai valori estetici.” Le ballerine, i funamboli, la posizione di riposo o la tensione di un gesto, di una figura espressiva, l’attimo prima del passo di danza o l’attimo dopo lo sforzo del librarsi, prevedono la disposizione a questa sensibilità e la capacità di usare gli strumenti dell’arte per esprimere questa tendenza. Clemencia Uribe va oltre, supera i limiti. La forma statica conserva la memoria del movimento e scompone l’ordine, il rigore. In un certo senso la materia e le forme plasmate divengono indipendenti dall’esperienza. Forse vi è un approccio kantiano che trasforma le cose per restituire gli oggetti della nostra conoscenza. Forse una trascendenza dove il soggetto condiziona la realtà e il senso profondo dell’artista si rispecchia nell’opera, come in una esecuzione musicale richiede un virtuosismo eccezionale. Forse Clemencia Uribe pensa come scrive Antonio Machado: “Bisogna tenere gli occhi ben aperti per vedere le cose come sono; ancora più aperti per vederle altro da ciò che sono; e più aperti ancora per vederle migliori di quello che sono”* e forse per questo le sue opere consigliano una visione vigile. Bianca Laura Petretto *Antonio Machado, “Come un figlio del mare. Pensieri e aforismi”, Happy Hour Edizioni 2018, pg.39

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MOMENTOS DE LA DANZA Nº2 Bronzo a cera persa, 1993 - 1998 Scultura di Clemencia Uribe


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◀ AL CREPUSCOLO Nº6

Fotografia di Fabio Costantino Macis

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TRA LA TERRA E IL CIELO Nº4 Fotografia di Fabio Costantino Macis ________________________________

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MOMENTOS DE LA DANZA Nº3 Bronzo a cera persa, 1993 - 1998 Scultura di Clemencia Uribe


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MOMENTOS DE LA DANZA Nº4 Bronzo a cera persa, 1993 - 1998 Scultura di Clemencia Uribe

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URBANO Nº4 Bronzo e acciaio, 2013 © Clemencia Uribe


V CROSSING


CROSSING

harji e le altre, i fucili e le rose – 74 –


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Cosa portava davvero nel cuore Harji, quando il silenzio è sceso sulla battaglia come una sera e ha camminato spinta dal diritto primordiale: “Sì ho ucciso. Ho ucciso. Poi mi sono avvicinata al corpo, ma non sono riuscita a guardarlo negli occhi”. Non deve esistere pietà, chi oserebbe mai tenere in grembo l’incubo lacero dello Stato Islamico, vedere l’uomo oltre l’uomo, l’uomo oltre la storia. Ciò che può una guerrigliera è impedire ai suoi compagni che le spoglie del nemico siano violate. Se non una carezza una donna può dare un nome e quindi un limite all’orrore, sottrarre un gesto al divenire di una severa disciplina rivoluzionaria. È emersa dal bosco Harji, a comando di un drappello che comprende Jiuyan e Amara. In esilio, fra le maestose montagne di Qandil, dove l’Iraq tocca l’Iran, il PKK ha negli anni allestito il suo laboratorio politico e militare. I volontari s’induriscono nello studio delle teorie comuniste e lungo le interminabile marce, sia neve o canicola. Il naso sempre al cielo, dove improvvisamente sfrecciano e bombardano gli aerei turchi. Il sonno e il fuoco sono protetti da alberi e caverne. Chi insegnava letteratura prima di darsi alla rivolta spiega come i soldati diventino una cosa sola con la natura. Forgiarsi al combattimento conduce al panteismo e i nomi di guerra che hanno eroso l’individuo civile sono nuvola, fiume, albero e montagna. Da Qandil i guerriglieri partono per i diversi fronti della causa curda, Turchia, Iraq, Iran e Siria, i frammenti della nazione negata. Harji è una veterana, ventinove anni e nervi spessi per reggere il fucile, polvere e sole nel volto sereno e smagrito: “Sarei bugiarda a dire che non mi manca la mia famiglia. Non vedo mia madre da otto anni, ma ricordo di averla chiamata solo quando ero circondata dai nemici”, racconta concedendo un sorriso. “Il mondo là fuori è solo schiavitù, interesse, dalla grande economia al sesso”. “La rivoluzione può essere solo interiore. Quando la nostra terrà sarà libera lavoreremo subito alla trasmissione dei valori sociali”, interviene Jiuyan, che chiede alle donne europee di “continuare a combattere contro il mondo dominato dagli uomini”. Ma le eroine di Kobane che cantavano “Bella ciao”, chi ha strappato gli Yazidi del Sinjar da eccidio e schiavitù, sono già dimenticati nell’epopea mediatica. Raqqa, la capitale siriana del Califfato, è stata riconquistata insieme ai cugini del PYD e agli aerei occidentali. La Turchia e le sue milizie offendono da nordovest e minacciano il progetto autonomistico dei curdi nel Rojava, la striscia di terra dove vive il “confederalismo democratico”, lo Stato senza Stato di Ocalan nato a Qandil, dove un cimitero accoglie fra i papaveri chi ritorna martire dal fronte. Quante sono le infanzie inghiottite dalla guerra e quale nazione può emergere dalle macerie se saranno uomini e donne che non sono stati bambini a reinventarla? Asma veniva da Aleppo, le bombe avevano sommerso una casa e un padre e costretto alla fuga la madre Mona e tre sorelle, Hama, Homs, sei mesi in viaggio inseguite dal caos mentre i pochi risparmi si assottigliano e poi la Valle della Bekaa in Libano, una capanna di legno e cartone nell’insediamento di Saad Nayel, a pochi chilometri da Zahle. Nella penombra Mona tornava sui sentieri della fuga, porgeva agli ospiti i beni più preziosi come in un vangelo, tè fumante e acqua gelida. “Sono stata costretta a mandarle a lavorare”, spiegava interrotta dalle lacrime. Così Asma tutti i giorni saliva sul carro insieme agli altri fanciulli, piccoli corpi curvi sulle panche o appesi come scimmie esaltate dalla velocità e dall’asfalto che corre. Un accordo stretto fra lo shawish, l’anziano capo dell’insediamento, e gli agricoltori libanesi. A dieci anni dieci ore sotto il sole a scoprire patate dalla terra secca, niente acqua niente cibo, solo il bastone di un caporale siriano sulla schiena di pettirosso, cinque dollari al giorno e altra tristezza per gli occhi. Così sempre fra i 180.000 bambini siriani al lavoro in Libano, a spingere i carretti della frutta, lavare i parabrezza fra i semafori, riparare le gomme in un garage o piegare pane in un forno. A vendere le rose a notte nelle strade ubriache di Beirut est, e diventare presto adulti, prima o

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dopo l’essere saliti in una macchina per un invito gentile e assassino. La scuola allestita dalla ONG era chiusa quando a sera Asma e le sue sorelle tornavano all’insediamento, un breve dedalo di polvere e acquitrini velenosi percorso da adolescenti cresciuti senza autorità, giovani lupi che trascorrono nel crepuscolo. Poi una lampadina e la notte, le chiacchiere dimesse, tutta la forza e la dignità di quattro donne perdute, la televisione e la notizia negli anni che Aleppo è finalmente libera, libera e distrutta. Gaza invece è sotto assedio da oltre dieci anni, da quando Hamas ha vinto democraticamente le elezioni, ma nessuno, non gli altri palestinesi, non Israele, l’Europa o gli Stati Uniti hanno accettato che il movimento di resistenza all’occupazione sionista mettesse le mani sui brandelli di Stato concessi dagli accordi di Oslo. Un breve conflitto civile per sottrarre la Striscia a Fatah e tre guerre con tre nomi presi da una Bibbia che continua a comporsi nel presente, nel sangue, “Piombo fuso”, “Colonna di difesa”, “Lama protettiva”. I passi di frontiera si stringono, nemmeno il cemento per ricostruire scuole, case e ospedali filtra dai check point, i pescatori sono bersaglio dopo tre miglia e Gaza diventa un labirinto sotterraneo dove scorrono armi, soldati e beni per due milioni di persone, la più grande prigione mai inventata. I terroristi sono al potere, tengono il popolo stretto nel vigilantismo fondamentalista, si racconta. I palestinesi sono divisi, a Fatah rimangono la Cisgiordania e i rapporti con Israele e Washington, la diplomazia e la collusione. Hamas ormai è trasceso in para-Stato e non serve più far saltare i bus a Tel-Aviv, non serve più neanche la guerra, l’elettricità viene per tre ore al giorno, la risacca in riva trascina lo sterco e la droga annebbia in massa la gioventù. Non rimane che la protesta pacifica per farsi ascoltare, la “Marcia del ritorno” che spinge le moltitudini verso il filo spinato, sassi, pneumatici in fiamme e propaganda come nella prima Intifada, quando il mondo si accorse dell’ingiustizia. Oggi l’America ha regalato Gerusalemme a Israele e i cecchini tirano sugli animali in gabbia, esultano. Eppure un altro presente è stato possibile. Lo si poteva immaginare a Nablus, all’ultimo piano di un centro commerciale, nell’ufficio dove Khaloud al-Masri gestisce la sua piccola casa editrice. “La religione non dovrebbe mai occupare lo spazio politico”, spiegava coperta dal velo e dal lungo impermeabile. Studiosa di scienze sociali e vice sindaco della città nel 2007 per Hamas, nei mesi della vittoria elettorale. Nablus, crocevia di olio, spezie e saponi, di borghesia indipendente e riottosa fin dai tempi dell’Impero Ottomano. Per il movimento alMasri era stata coordinatrice di tutte le attività sociali dedicate alla comunità femminile, teatro, musica, sport, laboratori di sartoria, informatica e inglese, il welfare spontaneo che occupa il vuoto statuale, il lavoro sotterraneo di formiche che costruisce la massa e l’identità politica. “L’offensiva di Israele è stata feroce dopo le elezioni. Centinaia di membri di Hamas sono finiti in prigione, io compresa. Il partito ha fatto di tutto per restare al governo, sono state scelte le anime più moderate perché la situazione risultasse conforme alle pressioni della comunità internazionale. Ma nessuno infine ha voluto accettare la decisione dei Palestinesi di opporsi, democraticamente, alla corruzione dell’OLP e all’occupazione di Israele. Il risultato è stata la guerra civile di Gaza, su commissione, e lo scivolamento di Hamas verso le posizioni degli esponenti più radicali, verso la chiusura. Per me sono stati cinque mesi molto difficili, lontano dalla mia famiglia. Da tempo ho abbandonato il movimento, dove trovare spazio per le donne è sempre più difficile. La religione è un luogo di libertà e forza, non di costrizione. Ora mi dedico alla pubblicazione di piccoli libri che difendono i diritti delle donne palestinesi”. Quanto è difficile scalfire il potere e le sue narrazioni, disseppellire la colpa come un tesoro. L’esercito italiano portava i giornalisti in visita all’ospedale pediatrico di Herat, fiore all’occhiello della guerra che è pace e servizio, ricostruzione. Sessanta milioni di euro in sei anni spesi per istruzione, salute, pozzi d’acqua negli altipiani aridi. I soldati ne costano due al giorno. In

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Afghanistan, sosteneva la propaganda occidentale, la metà della popolazione ormai ha il telefono cellulare. In Afghanistan gli uomini al mattino cercano le pozze di sole come cani randagi quando con la notte cala il gelo improvviso e quindici esseri umani nei villaggi intorno non riemergono dal sonno. Un governo corrotto, i Talebani, l’eroina e lo Stato Islamico, le bombe in città, i corpi sventrati sepolti nelle notizie in breve. Inglesi, russi, americani, l’Afghanistan rigetta l’Occidente ancora una volta. Ma i cronisti non immaginano, intabarrati e ridicoli nell’elmetto e nelle giubbe antiproiettile, scortati dalle forze speciali fra i corridoi miserabili dell’ospedale per bambini dove mancano siringhe e antibiotici. Entrano armati di fotocamere nelle stanze per raccontare la pace e trovano la morte, lei che non ha nome china sul delirio della figlia, la solitudine e l’ossigeno contro la polmonite, da giorni. Ma come alieni i giornalisti scattano, e solo dopo, solo dopo vedono il burqa scostato, uno sguardo di accusa. Scorgono se stessi, per un attimo. Luca Foschi

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CROSSING

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◀ HEART DAY TWO

Fotografia di Luca Foschi

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CROSSING

dancing to resist

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AINAS MAGAZINE

Rana Khalil

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CROSSING

The “Dabkeh national security forces” were founded by Yassir Arafat in 1971 as a body in the army in charge of preserving the Palestinian tradition and identity under the Israeli occupation. Dancing confronts cultural obliteration not only by bringing the Palestinian issue in theatres all over the world, but also by exercising a strengthening, purifying action on the artists and the spectators. In the dabkeh dance, hands cling together as evidence of unity and solidarity, and feet strike the ground as a sign of vigor and defiance, accompanied by songs expressing the depth of belonging to the Palestinian land. Luca Foschi

DABKEH Grafica di Sofía Arango

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AINAS MAGAZINE

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Logo patafisico di Š Gigi Rigamonti


VI PATAATAP


PATAATAP

www.francescocaredda.com

francesco caredda

Milano – 86 –


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www.francescardau.com

francesca ardau

New York – 87 –


PATAATAP

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AINAS MAGAZINE

◀ IBERICA Nº1 Museu do farol de Santa Marta, Cascais, 2015 Arch. Aires Mateus e Associados Fotografia di Francesco Caredda __________________________________ ◀

PART OF THE ART Nº1 Art and China after 1989: Theater of the World - Gu Dexin, 2009 Guggenheim Museum, New York, 2017 Fotografia di Francesca Ardau

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PATAATAP

PART OF THE ART Nº2 World Trade Center Transportation Hub Calatrava Oculus, New York, 2017 Fotografia di Francesca Ardau

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AINAS MAGAZINE

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PATAATAP

PART OF THE ART Nº3 MOMA, New York, 2017 Fotografia di Francesca Ardau _________________

Pg. 93 IBERICA Nº2 Museu do farol de Santa Marta, Cascais, 2015 Arch. Aires Mateus e Associados Fotografia di Francesco Caredda

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AINAS MAGAZINE

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PATAATAP

PART OF THE ART Nº4 Guggenheim Museum, New York, 2017 Fotografia di Francesca Ardau ______________________________ PART OF THE ART Nº5 Louise Bourgeois, Spider, 1997 MOMA, New York, 2017 Fotografia di Francesca Ardau

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AINAS MAGAZINE

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PATAATAP

PART OF THE ART Nº6 Art and China after 1989: Theater of the World Guggenheim Museum, New York, 2017 Fotografia di Francesca Ardau ________________________________

IBERICA Nº3 Museu do farol de Santa Marta, Cascais, 2015 Arch. Aires Mateus e Associados Fotografia di Francesco Caredda ________________________________

PART OF THE ART Nº7 Art and China after 1989: Theater of the World - Dettaglio Zhang Peili, “X?” Series No. 2, 1988 Guggenheim Museum, New York, 2017 Fotografia di Francesca Ardau

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URBANO Nº5 Bronzo e acciaio, 2013 © Clemencia Uribe


VII SWALLOW


SWALLOW

a neve fermissima

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AINAS MAGAZINE

In cucina la leggerezza è la lotta eterna della materia che vuole ascendere al cielo. E questa è una cosa che adoro, perché non ho mai pensato che tra le ricette vi fossero le dicotomie angeliche o luciferine della vita, ma solo la volontà di salire su una sedia, poi su una scala e magari su un tetto, per guardare meglio tutto ciò che ci vive intorno. Le metafore, a questo punto, si sprecano e sono tante quanto le pratiche usate per malleare sassi in nuvole, squame in piume, colori in biancori. Sono cose che in cucina si fanno, da quando secoli fa qualcuno ha provato a imprigionare l’aria. Fra le tante tecniche di prigionia, quella che ho sempre amato fin da piccolo è la neve fermissima. Non c’è bisogno di essere esperti per conoscerla: basta una torta. La neve fermissima è quella che gli albumi imitano quando sono montati a lungo con le fruste, elettriche o manuali. Questa finta neve è davvero bella, perché non è quasi mai solo ferma, ma fermissima, appunto. Una neve superlativa e immota, immutabile come ghiacciaio eterno, davvero a pochi gradini dal paradiso. Ed era una conquista come l’Everest, quando in casa non avevamo fruste elettriche e si usava soltanto il frullino a manovella e si girava, si girava, con mia mamma che mi guardava dietro le spalle, autrice maledetta di quel terribile “non basta”, con cui condiva ogni mia pausa. Perché la neve dell’albume nasce da due cose: dall’aria che resta prigioniera tra le vischiosità della chiara e dal lavoro umano, che lotta contro gli accidenti della vita: un uovo troppo caldo o troppo freddo, troppo giovane o troppo vecchio, condiziona la formazione della schiuma. Fatichi di più o di meno secondo le intemperie, insomma, o l’età dell’uovo che si somma a quella del polso che aziona la frusta. E poi c’insegna che le salite, al contrario di quanto pensava Dante, non sanno di sale, ma d’acido. Così, se vuoi favorire la fermezza della neve, al posto del tradizionale pizzico salino, smetti qualcosa d’aspro, come un poco di cremor tartaro. Salire è aspro, lo dicevano anche i latini, più o meno: per aspera ad astra, dalle asperità alle stelle, passando per obbligo attraverso la neve fermissima. La dolcezza, invece, è la gioia di quest’aria prigioniera, perché lo zucchero la tira a lucido e la fa brillare di una luce tutta sua, come quella di un opale bianco. Come se sul ghiacciaio eterno ci fossero soltanto cielo terso e sole. Da tutta questa storia è semplice cavare metafore, come avevo promesso. E questa lotta per ascendere al cielo la fa diventare arte agli occhi di molti. Ma è davvero così? Non lo so, faccio fatica a crederlo. Ogni volta che ci penso, sento la voce di mia madre che, dietro qualsiasi mio sforzo, dice ancora che non basta. Che ancora non basta. Penso che la cucina non sia davvero fatta da artisti, ma soltanto da gente che sta cercando di vivere. Magari con gli occhi alle nevi più alte. Giorgio Giorgetti www.cucinodite.it

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Finito di stampare nel mese di Giugno 2018



ISSN 2611-5271

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