AINASMAGAZINE Nº1.03/2018

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aínas Nº1 . 03/2018




AÍNAS Nº1 . 03/2018 WWW.AINASMAGAZINE.COM INFO@AINASMAGAZINE.COM Direttore Roberto Cossu Condirettore Giorgio Giorgetti Direttore artistico Bianca Laura Petretto Grafica e layout Sofía Arango Echeverri Comunicazione Andrea Castro, Maria Victoria Gómez Le fotografie e i collage in copertina e nei capitoli sono realizzati per la rivista e concessi da © Sofía Arango Echeverri © Aínas 2018 La traduzione, la riproduzione e l’adattamento totale o parziale, effettuati con qualsiasi mezzo, inclusi la fotocopiatura, i microfilm e la memorizzazione elettronica, anche a uso interno o didattico, sono consentiti solo previa autorizzazione dell’Editore. Gli abusi saranno perseguiti a termini di legge. Is aínas faint is fainas . gli strumenti fanno le opere AÍNAS nº1 © 03/2018, reg. n° 31/01 Tribunale di Cagliari del 19 09 2001, periodico di informazione trimestrale, cartaceo e telematico Iscrizione n° 372004 al Registro della stampa periodica Regione Sardegna, L.R. 3 luglio 1998, n° 22, ART. 21. Editore Bianca Laura Petretto, Cagliari, Quartu Sant’Elena, viale Marco Polo n. 4 Direttore responsabile Roberto Cossu

B&BArt MuseodiArte contemporanea

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Un ringraziamento speciale a Guido Festa Progettazione e costruzione di “GLOVE BOXES” e prototipi per la ricerca farmaceutica e nucleare www.euralpha.it

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AÍNAS Nº1 6

EDITORIAL 6 il divin segreto

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CHAPTER I . SPECIAL 10 they’re coming... 18 visioni del dopo 19 le apocalissi di maurizio radici 30 maschere e voci

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CHAPTER II . INTERVIEW 40 du côté de chez vian 51

CHAPTER III . NEWS 52 hell hollywood

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CHAPTER IV . THE NEW CODE 58 memento mori 63

CHAPTER V . CROSSING 64 i drusi del golan 68 nella terra dei miracoli

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CHAPTER VI . PATAATAP

78 hector castro, l’umano labirinto 82 alvaro galindo, viajante de la tercera dimensión 95

CHAPTER VII . SWALLOW 96 il tempo fra i denti

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EDITORIAL

aínas IL DIVIN SEGRETO

Nel museo World Things di Beatenman, in Nuova Posidonia, c’è un’installazione di arte contemporanea che ha ottenuto in breve tempo uno straordinario successo. È in realtà un gioco per bambini che dello spirito infantile utilizza tutti gli schemi canonici: l’uso delle armi, pistole e coltelli, il suono amplificato degli spari, una calcolata violenza nella lotta, uno sguardo affettuosamente crudele verso le lucertole cui si potrebbe mozzare la coda (i visitatori sono invitati a procedere), automobiline che grazie a dispositivi di nuovissima concezione possono superare i 200 chilometri orari, la tendenza a riunirsi in branco per affrontare altri branchi possibilmente più esigui. E parliamo di tendenze preistoriche, lievemente adattate. Solo la prima sezione, comunque già interattiva. La seconda e ultima sezione mostra le stesse tendenze consolidate nei minori, ma utilizza arsenali contemporanei: super bombe, pallottole modificate, droni nervosi e persino gas. A prima vista, è sensibilmente aumentata la contesa fra branchi. I coltelli sono spariti. E si capisce che le uniformi offerte in dotazione provvisoria all’ingresso del museo sono meno grezze, tirate a lucido. Più spavalde, insomma. Altra particolarità che differenzia le due sezioni: a intervalli più o meno regolari gli altoparlanti fanno esplodere proclami similbellici che di fatto sono chiamate alle armi. Perché in realtà l’installazione è una pirotecnica messinscena artistica chiamata banalmente “La conquista del mondo”. Bondiana, umoristica, ma assolutamente in linea con le finalità del museo. Il segreto del successo sta nel fatto che l’interattività viene spinta ai limiti estremi. Piccini e grandi, tutti possono partecipare. E tutti effettivamente partecipano. L’installazione si estende per i dieci chilometri quadrati del verdissimo e bucolico parco che circonda il museo, percepito come castello dominante e protetto che svetta al centro del gioco. Non è stata necessaria una particolare promozione: il passaparola globale ha funzionato a meraviglia. Dapprima poche centinaia di persone. Poi migliaia. Poi, senza soluzione di continuità, affollatissimi voli charter dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, dalla Nigeria all’Indonesia. Ciò che attrae, è stato detto, è il fatto che si tratta di un gioco. Un gioco così pericoloso da diventare meraviglioso. Che non fa parte del nostro sentire reale - s’intende - se non in termini di esorcismo e sublimazione. Ecco, dicono, il proficuo significato dello spirito infantile, che l’arte contemporanea, e forse solo questa, può cogliere e interpretare. Sembrano trascurabili, quindi, alcuni intoppi, come gli accenni di rissa al momento della scelta delle uniformi. Alcune tirano più di altre ed è una coincidenza che con alcune, statisticamente, si vinca più che con altre. Il termine “vittoria” è tollerato, ma non consigliato. Ai proprietari del museo non piace, o quanto meno

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giurano di aborrirlo: vogliono evitare spiacevoli comparazioni con i già diffusi e beceri “giochi di guerra”. Come se si trattasse di un’Olimpiade, conta la partecipazione. Il confronto. Lo slancio. Il divertimento. E comunque, dirottando più concreti entusiasmi, sono previsti accostamenti, per quanto sbrigativi, con opere pittoriche del passato, in particolare di Goya e Picasso. Sempre in linea con le finalità del museo. Sta di fatto che il successo è strepitoso: folle si interscambiano, imbracciano, lanciano, si avvinghiano. Dapprima si ride, poi pian piano ci si fa attenti, concentrati. Si diventa seri. Si entra impercettibilmente nello spirito del gioco, della creazione artistica. Il rumore è assordante, le teste si piegano e quasi si spezzano, i colori – soprattutto il rosso cupo – si diffondono come fioriture a cascata, il sudore brilla, i berretti si torcono, si cacciano i piccoli animali che sbucano all’improvviso (un tocco del mago Don T). La narrazione è automatica e convincente e non a caso il museo schiera un plotone di fotografi di rango che fissano i momenti salienti. Istantanee esposte il giorno dopo in una megasala del museo. Al termine dell’anno è prevista un’ulteriore selezione per la mostra finale, impossibile da visitare se non si prenota per tempo. Ciò che conta, in poche parole, è l’impressionante ventaglio di momenti creativi che i giochi infantili riescono a offrire. Da qui una stranezza: statistiche alla mano, i piccoli visitatori si stanno diradando. In pratica ormai restano solo gli adulti. Ma non è ancora comprensibile il successo se non si precisa che tutti i partecipanti fingono inconsapevolmente. In un vertiginoso allineamento con lo spirito teatrale, “La conquista del mondo” regala un modello assoluto di finzione. Si finge soprattutto di morire. Se va male, di restare feriti, disarticolati, smembrati. Di perdere pezzi, insomma. Il fattore K. Non si può negare che le automobiline sfreccianti a 200 all’ora sollevino qualche inquietudine. Incidenti? Finora poca roba. Ed è questo l’autentico fulgore del progetto: si preme un bottone e parte un missile, si accende un lanciafiamme, cadono bombe a grappoli, ma non si contano vittime. Il glorioso mistero dell’installazione. La sua intuizione miracolosa e, insieme, il divin segreto meglio custodito del museo. Così finora sono state poche le proteste, a parte tre cartelli esposti nottetempo sul cancello principale e rimossi all’alba: “Bastardi” il più sintetico, “Idioti” il più equilibrato, “Je ne suis pas sur terre pour tuer” il più esplicativo. Poche anche le accuse di fake news. Se non sentite più parlare di questa installazione è solo perché il successo planetario ha suggerito agli organizzatori di tenere un basso profilo. Anzi, hanno detto, meglio che si creda a una fake news. Anzi, è una fake news. Roberto Cossu

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______________ Between my Country – and the Others – There is a Sea – But Flowers – negotiate between us – As Ministry. (Emily Dickinson)

Fra il mio Paese – e gli Altri – Esiste un Mare – Ma – tra noi – i Fiori Son come Ambasciatori. (Tr. Giovanni Bernuzzi)

MONTAÑA © Sofía Arango Echeverri


I SPECIAL


SPECIAL

they’re coming...

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“They’re coming”. “They’re coming”. La paura sul volto di Tippi Hedren è un’immagine universale e senza tempo. “Stanno arrivando”. Stormi di uccelli sfrecciano dai campanili e dai tetti. Sono punti neri, ali appena intuibili. Forse non sono neppure uccelli, dice il regista Alfred Hitchcock. Forse <sono la proiezione delle nostre paure>. Non è un caso che il terrore sia più lacerante quando non ci sono. Quando sono attesi nel silenzio e nel vuoto. Quegli stessi uccelli assumono sembianze umane sull’orlo di un cancello, di una barriera nella città franca di Melilla, in Africa. Africa o Spagna, i ghirigori politici sono oltre il senso. Davanti a quella rete (di protezione?) si gioca a golf. È un’immagine fotografica, cioè eterna, e una voce esorta a fermarsi. Guardiamo bene: nel “green” le piante provengono dall’Africa o dall’Asia o da altri posti lontani. La manodopera non è locale, se si esamina la pallina. Curioso: quel campo sembra proprio il pianeta, la sua geografia, raccontano foglietti appuntati da mani che si muovono rapide. Ma questo è un luogo che non accetta la simbiosi internazionale. Non accetta che altri esseri migrino e bussino. Eppure la Terra è più buona: permette ai rondoni di volare fino a sud per miglia e miglia senza mai posare le zampe. Perché il cosmo, il suo essere, è movimento. Incessante, come le sue mattonelle essenziali, come l’atomo. L’immobilità non esiste. E sarebbe pure stupida. In scena si muovono battaglioni di “cose”. Minute, eppure complesse. Sembrano truppe in movimento. Fatte di tutto ciò che si può trovare in un mondo dove i rifiuti sono la produzione più colossale. Si muovono come i pinguini. Come mille altre specie. Quella umana è un tantino speciale. Pensa e seleziona i suoi pensieri fino a raggiungere, ad assorbire, quelle paure di cui parla Hitchcock. A temere gli uccelli che volano e che prima o poi si fermano. Fino a respingere un’altra umanità. Lo sanno anche gli attori e tecnici dell’Agrupación Señor Serrano, che portano in giro “Birdie”, teatro multimediale e arte contemporanea, che racconta tutto questo con apparente freddezza. Come ingegneri che invece ci mettono il cuore. E la ragione. Alla fine raccolgono tutto e tutto depositano nelle valigie. Sono pronti a partire. A migrare. A fermarsi in altri luoghi. Come gli uccelli. R.C. Le opere pittoriche da Pg. 9-15 sono dell’artista Henry Bismuth

◀ THE HEART OF THE RAVEN Olio su tela, 1998 130 x 162 cm – 11 –


SPECIAL

ROOK’N ROLL Olio su lino, 2008 114 x 162 cm

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CROSSING THE DARKNESS Olio su lino, 1995-1996 114 x 146 cm

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SPECIAL

REBIRTH Olio su lino, 1995 97 x 146 cm

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SPECIAL

WINTER BLACK Olio su lino, 1993 88,5 x 115,5 cm __________________ MAN-O-WAR Olio su tela, 1999-2000 140 x 180 cm

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SPECIAL

visioni del dopo

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LE APOCALISSI DI MAURIZIO RADICI Maurizio Radici non è semplicemente un artista: possiede il piglio dell’annunciatore, malgrado la sua spiccata tendenza all’introversione. Sarà per via di quel corredo emozionale che diventa colore e segno con la forza tipica di una scrittura sacra e terribile. Non sono, dunque, liete novelle, i “racconti” di Maurizio Radici, quanto più delle apocalissi di sperabile rinnovamento. Così le tele dell’artista sono animate da un movimento di sciamanico nervosismo, quasi rivelazioni estemporanee che non possono soggiacere a giudizi di facile semplificazione. Il messaggio che ne deriva diviene, così, visione escatologica, esaltata da una evidente solennità “quantitativa”. Maurizio Radici ama, infatti, le grandi superfici, poiché è solo attraverso lo spazio dilatato che le sue creature acquistano quella monumentalità e quel vitalismo facilmente rintracciabili nell’arte primitiva delle grotte di Lascaux e di Altamira. Il paragone non pare fuori luogo. L’arte di Maurizio Radici è divinamente predialettica, prefilosofica, prepolitica. L’artista non ama i ragionamenti né il dibattito o il confronto. Il gesto del pittore è quasi un action painting di breve concentrazione formale. Insomma, Maurizio Radici dipinge quasi sognando e nel preciso istante della campitura non c’è né tempo né modo per il pentimento o per la finitura classicamente intesa. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: gli animali di Maurizio sono dei pazzeschi non finiti di disarmante verità. Sono pitture per così dire “provvisorie” (ma solo all’apparenza), eppure vere, energiche, palpitanti, misteriose. Sono figure di pura potenza. Le creature di Maurizio Radici non mostrano alcuna corrispondenza con la realtà: sono esseri mitologici, primordiali, estinti o forse ancora esistenti in quello che, filosoficamente parlando, è “il migliore dei mondi possibili”. Maurizio Radici si nutre, infatti, di letteratura antica, osserva il cosmo, ne indaga le suggestioni, ne trae auspici di speranza e di rinnovamento. Il caso è semplice e complesso allo stesso tempo: Maurizio è una sorta di asceta, un puro non contaminabile. È un uomo energico e dritto. Sa la vita e le sue storture. Ma lì, in quegli spazi di molto biancore che sono le sue tele-sindoni di risurrezione futura, s’accampa la sua religione, il suo credo ancestrale di armonia e di libertà. Ma a Maurizio Radici non basta una corsa di bianchi cavalli selvaggi in una natura incontaminata. Gli animali improbabili di Maurizio sono la sintesi di un “prima del prima” o di un “dopo”. Non basta l’idealismo per riparare a tutte le storture del contingente. Maurizio Radici strappa ogni possibilità di mediazione. Vediamo il pittore aggirarsi con l’unica compagnia del suo inseparabile amico a quattro zampe, perché forse è l’unico a non abbandonare mai la presa di contatto con una verità che, per forza di cose, non è più quella che ci circonda. Ti guarda, talvolta, Maurizio, e alza l’angolo sinistro della bocca in un quasi sorriso perennemente insoddisfatto eppure eternamente obbligato all’amicizia. Razza in via di estinzione, questa degli artisti come Maurizio Radici. Massimo Rossi Conservatore Pinacoteca di Sarnico Le opere della collezione “Homo Homini Lupus” da Pg. 18-27 sono dell’artista Maurizia Radici Fotografie di Marzia de Tavonatti, Officina PhotoSensibile

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maschere e voci

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“Maschere e voci” è il titolo di un incontro-dialogo tra artisti contemporanei in programma il 12 aprile (alle 18) al Museo delle Maschere Amleto e Donato Sartori ad Abano. <La maschera mi ha sempre interessata, incuriosita, affascinata. Per maschera in generale si intende un oggetto che serve a nascondere, modificare, svelare. Ricopre in parte o del tutto il corpo di un uomo e di una donna nascondendone l’identità o, più spesso, cambiandola: tende a caratterizzare l’intera sembianza di chi la indossa in un personaggio, sacro o profano. Costruita con diversi materiali (paglia, fibra vegetale, legno, cera, cartapesta, tessuto, plastica, cuoio, metallo), la maschera ha cambiato uso e significato da un contesto all’altro nel tempo e nello spazio, rimanendo tuttavia sempre parte integrante della comunicazione sociale. In quanto oggetto-scultura, ha funzioni strettamente legate alla vita quotidiana e si assume il compito di tramandare e comunicare la cultura dei popoli attraverso forme simboliche, diventando così strumento di comunicazione in un contesto religioso nonché politico-sociale-teatrale nei riti tribali, propiziatori, evocativi e spettacolari, da Oriente a Occidente. La maschera trasmette il concetto di libertà e democrazia, il suo animo è libero, non costretto da abitudini e conformismo. L’uomo in maschera non è più diviso dal colore della pelle o dal ceto sociale, può far a meno anche della lingua, se si identifica con la maschera, ed esprime tramite il movimento felicità o dolore, paura o coraggio, presente, passato o futuro. La maschera è uno strumento universale e come la poesia ha un suo respiro e una sua vita. Come la poesia, è arte sublime capace di svelare e di celare la persona. Il mio primo incontro con le maschere fu fortuito, durante un viaggio di studio con Donato Sartori in Indonesia. Le maschere hanno cambiato la nostra vita e il nostro lavoro. Oggi, che Donato non cammina più nel nostro giardino, si svelano le maschere antiche e fioriscono nuove voci che ricordano gli incontri e i volti. Risuona la poesia dell’umanità>. Paola Piizzi Sartori “Ci fu un tempo in cui la maschera serviva per la guerra, quando la guerra era considerata arte.” Edward Gordon Craig “L’ordine dell’universo si identifica in una sorta di microcosmo ridotto a dimensione umana attraverso il linguaggio articolato della voce, le emozioni espresse dai muscoli mimici del volto, il viso luogo di comunicazione tra gli uomini. Da qui il potere straordinario riconosciuto, da tempo immemorabile, alla maschera, da un estremo all’altro della terra.” Claude Leví-Strauss “Una buona maschera è una maschera che cambia espressione mentre si muove.” Jacques Lecoq “… con la maschera sul viso devi forzare ogni espressione sul corpo, sulle spalle, la mascella, braccia, busto, gambe, piedi e mani. La maschera non vive per se stessa. Si realizza nel proprio valore solo nel rapporto ritmico, gestuale con tutti gli arti fino alle ossa.” Franca Rame e Dario Fo “La maschera è la carta geografica dell’essere che risiede nel volto dell’attore.” Jean Louis Barrault “La maschera neutra è la più straordinaria esperienza di liberazione che si possa immaginare…” Peter Brook “La maschera è un istrumento misterioso, terribile. A me ha sempre dato e continua a dare un senso di sgomento. Con la maschera, siamo alle soglie di un mistero…” Giorgio Strehler “La maschera è un oggetto esatto, uno strumento di comunicazione. Le linee ed i piani dovranno caratterizzare un’età, uno stato psicologico, un’emozione inventando un linguaggio poetico.” Donato Sartori

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MASCHERE E NOMI Andiamo soli per il mondo si può volare o andare a fondo e c’è chi spera e chi dispera siamo voci, maschere e nomi nel vasto paese della sera

Pg. 30 CORO DELLE DONNE Donato Sartori, Orestea di Eschilo, Regia di Peter Oskarson Maschera vibrofonica in resina Gävleborg (Svezia), Folkteatern, 2001 __________________________________

◀ ERINNI

Maschera dei Sartori, Orestea di Eschilo, Regia di Jean-Louis Barrault Cuoio dipinto e patinato, Parigi,Teatro Marigny, 1955

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NELLA VITA Vita, magia di segni impercettibili che tracciano la via Cammino su un raggio di luna forse non porta da nessuna parte forse è questa la mia fortuna

◀ ARLECCHINO GATTO

Maschera dei Sartori, Lezione-spettacolo di e con Dario Fo Cuoio dipinto e patinato, Roma, Università Statale, 1980

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LA MAGIA DEL MONDO Pigra, dolce vita di poeta a volte asceta e a volte esteta Tra il silenzio del cielo e la voce del mare è la magia del mondo il senso impercettibile e profondo della notte di luna piena così chiara, così serena

LE POESIE SONO TRATTE DA “Trasparenze” di Giovanni Bernuzzi Happy Hour Edizioni giovannibernuzzi.blogspot.com ______________________________ NEUTRA FEMMINILE Maschera dei Sartori, Cuoio naturale, Montreal,Teatro di Stato, 1968

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SPECIAL

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◀ Pg. 34, 35 ERINNI Donato Sartori, Orestea di Eschilo, Regia di Peter Oskarson Maschera vibrofonica in resina Gävleborg (Svezia), Folkteatern, 2001 ______________________________ ◀

MOSTRA MASCHERE E VOCI La poesia di Giovanni Bernuzzi L’arte della “persona” di Paola Piizzi Sartori e Sarah Sartori Museo internazionale della Maschera A.D. Sartori . Abano Fotografie di Mauro Magliani © Centro Maschere e Strutture Gestuali

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CABALLO DE LA PAZ © Sofía Arango Echeverri


II INTERVIEW


INTERVIEW

du côté de chez vian

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Il y a des lieux qui nous racontent les hommes qui les ont habités. Des espaces qui deviennent contes et révélations ; des architectures qui prennent la forme de récits, de pages ouvertes. Des endroits où les mots et la musique resonneront, encore et toujours, comme autrefois. Le 6bis Cité Véron est l’un de ces lieux. Une adresse au fin fond d’une longue et jolie impasse au cœur de Pigalle ; une destination pour touristes exigeants, aussi, car dans cet immeuble anonyme, qu’autrefois hébergeait les anciens ateliers du Moulin Rouge, Boris Vian vécut les six dernières années de sa vie avec sa deuxième femme, la danseuse Ursula Kübler Vian. Une plaque, en bas de l’immeuble, raconte que leur voisin de palier était un certain Jacques Prévert, avec lequel les Vian partageaient une immense terrasse qui surplombait le Moulin Rouge ; la plaque rappelle également que Boris Vian, Jacques Prévert et son chien Ergé furent élevés au rang de Satrapes du collège de Pataphysique, et que le site est appelé « Terrasse des trois Satrapes ». Voilà pour l’histoire et la mémoire. L’immeuble n’est pas pour autant un musée ouvert au public ; il ne fait pas partie des maisons d’écrivains dont la France foisonne et qui nous attendent en guise de mausolée pour une visite guidée un peu artificielle. Le 6bis Cité Véron est un lieu bien vivant et toujours habité - au sens strict comme au figuré - et dans lequel on a vraiment l’impression d’entendre la voix et la musique de Boris et de son entourage. À la Cité Véron on rencontre d’emblée l’homme que fut Boris Vian, et on se rend compte que celui-ci n’était pas finalement bien loin de l’ingénieur, du musicien, du bricoleur, du traducteur, de l’écrivain, bref de cette machine en mouvement qui Boris Vian a été tout au long de sa vie. On sait que derrière un grand homme se cache toujours une grande femme ; il faut donc savoir que derrière Boris Vian ils s’en cachaient deux : sa femme en secondes noces, Ursula Kübler, qu’après la mort de Boris resta vivre à la Cité Véron, en se donnant la mission de garder vivante la mémoire de Boris ; et puis Nicole Bertolt, qui est aujourd’hui mandataire de l’œuvre de Vian et qui, à elle toute seule, incarne une sorte de performance. Celle d’une jeune femme désœuvrée et sans repères, qui débarqua un beau jour chez Ursula Vian Kübler, fut accueillie par une soupe et beaucoup de bienveillance, et qui quarante ans après est toujours là, vit dans ce lieu unique, et continue de gérer l’œuvre et le patrimoine de Boris Vian, tout comme Ursula Kübler l’avait fait jusqu’à sa mort, survenue en 2010. Nicole Bertolt est lumineuse et elle a réussi dans le défi de tenir en vie cet appartement sans qu’il devienne un temple ou un lieu de pèlerinage. C’est donc elle qui m’accueille à la porte, souriante et généreuse, et me raconte l’histoire des lieux, en la tricotant avec le récit de l’homme qui fût Boris, et du couple qu’il incarnait avec Ursula. Nicole Bertolt : « C’est là ou Boris Vian et Ursula arrivent en 1953, avec quelques caisses en cartons, même pas en bois, et avec deux, trois valises. Ils ont loué ce petit deux pièces que Ursula a trouvé dans ce quartier où il y a plein de studios de danse. Car Ursula est une danseuse et elle a besoin de s’entraîner des nombreuses heures tous les jours ; c’est aussi un quartier où il y a beaucoup de musiciens, beaucoup de créateurs ; donc ça va très bien à Boris. Et c’est un quartier qui est extrêmement populaire, c’est à dire pas cher. C’est très agréable pour eux d’être là, ils sont dans leur petit 40 mètres carrés, et Boris, qui est vraiment l’ingénieur type et qui est très grand aussi, voit deux choses fondamentales ; la première : je vais faire des étagères partout... et la deuxième, c’est très haut de plafond, je vais m’en servir. Donc les étagères vont vraiment du sol au plafond vous le voyez. Il a même mis le lit de son fils, en l’air... et puis les choses qui n’existent pas il va les faire... alors il va faire une table, il va faire sa chaise de bureau, il va faire un petit meuble spécifiquement pour les 45 tours, il va faire un lit bateau pour son fils, et ce n’est pas rien, un lit bateau c’est très malin, car à l’époque un lit

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INTERVIEW

bateau ça n’existe pas. Des lits avec des tiroirs où on range des trucs ça existait seulement sur des navires ou sur des voiliers. Il va trouver aux puces, pour trois sous, avec Ursula, 2 chaises cœur, absolument ravissantes, parce qu’ils s’aiment tant quand ils arrivent là ; et puis ils vont trouver une petite table, de tas de petites babioles que Ursula ramène d’an endroit ou d’un autre parce qu’elle part quand même souvent en tournée. Ils vont être très heureux ici. Et ils vont se rendre compte rapidement qu’ils peuvent pousser les murs. Et vous voyez, justement, cette cuisine fait partie des pièces qui ont été créées par Boris et Ursula. Cette pièce est très importante. On oublie sans doute parmi tous les talents de Boris Vian celui de cuisinier. Il s’est illustré dans « L’écume des jours » avec le Gouffé, et le Gouffé, figurez-vous, existe réellement dans cette maison, et Boris cuisinait énormément à partir du Gouffé. Ursula Vian, comme Boris Vian sont des hôtes merveilleux. Ils invitent absolument tout le monde. Ils n’ont pas d’argent mais ça n’a aucune importance, donc il font quelque chose qui est assez drôle... il y a cette veille marmite bleu ici, et alors dans cette marmite on y met un jour des navets, des poireaux et puis un morceau de lard ; et puis le lendemain, un copain vient et il y met 3 carottes, et puis une copine vient le soir et elle y met un bout de saucisson ; et voilà, ça fait quelque chose comme ça, qui boue un peu tout le temps, et comme dit Ursula, elle me l’a dit à moi tellement souvent, il y avait toujours une soupe à la maison. Donc quiconque débarquait pour voir Boris ou Ursula, savait qu’il y avait toujours quelque chose de chaud à la maison ». Cette cuisine est un peu le cœur de la Cité Véron ; le cœur de ce lieu de vie qui bougeait et se transformait au gré des envies de ses locataires et que Boris su concevoir en tant que véritable espace évolutif. Au fur et à mesure des années, Boris Vian investira cet appartement par la force de son travail et de son imagination ; il poussera les murs et les plafonds et il l’agrandira à la mesure de ses ambitions et de ses horizons ; qui ne connaissaient pas des limites. Nicole Bertolt : « C’est la topographie du lieu qu’il a revue... il a justement à un moment donné, changé la cuisine, changé la buanderie, changé aussi l’atelier. Et on voit bien comme tout cela a évolué pour arriver à quelque chose qui est presque parfait. Je peux vous dire qu’avec Ursula Vian on a essayé plusieurs fois de changer des choses, et à chaque fois on remettait comme Boris l’avait fait, parce que c’était toujours optimisé ; c’était ce qu’il y avait de mieux... par exemple, son fils avait un tout petit peu de mal à se lever le matin, alors Boris l’avait collé dans une chambre où il y avait le soleil très tôt le matin, parce que Boris avait étudié le mouvement du soleil et chaque pièce avait vraiment une désignation très spécifique. Boris Vian est un ingénieur, donc Boris Vian ne laisse rien au hasard. C’est quelque chose qui coule dans ses veines, il ne le fait pas en planchant pendant des heures. D’ailleurs je vais vous montrer l’atelier car c’est incroyable l’atelier... c’est la pièce qui n’a jamais bougé depuis sa mort... ». Nous traversons le couloir où, à côté de nombreuses reconnaissances venant du Collège de pataphysique, est exposé son diplôme de l’École Centrale de Paris ; car malgré son ironie et son sens du ridicule et de la dérision, Boris était un ingénieur à part entière ; et qui plus est, il faisait partie de ces ingénieurs un peu particuliers sortis de l’école Centrale, avec une âme et des connaissances artistiques. Depuis une photo accrochée au mur, un Boris enjoué nous regarde. Nous pénétrons dans cette sorte de boite à outils qu’était son atelier. Des étagères jusqu’au plafond et un nombre incalculable d’objets de toute sorte et de toute dimension. Nicole Bertolt : « Boris Vian encore une fois ingénieur, il aime les outils, les ustensiles, les choses très précises ; il est un adepte de tous les catalogues d’outils à l’époque, et il commande donc des choses invraisemblables ; ça va pas forcement lui servir, vous voyez, il y a des choses ici, dont on ne sait absolument pas à quoi ça sert mais, tout cela, ça lui plaît beaucoup ; et puis aussi il faut bien dire que quand on fait presque une maison tout seul, il en faut quand

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BORIS E URSULA PLACE BLANCHE 1955 © Archives Cohérie Boris Vian

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◀ BORIS E URSULA VIAN Cité Véron 1953-1954 © Archives Cohérie Boris Vian – 45 –


INTERVIEW

même des outils ; donc il va aussi régulièrement dans des grands magasins pour acheter des choses… il aime particulièrement le bois... regardez ces beaux manches en bois et ce nombre d’outils qu’on voit, c’est merveilleux... et puis, ce qu’il y a ici de très émouvant, c’est qu’ici sont restées de tas des choses qui auraient dû servir ; puisqu’il est mort, malgré tout, brutalement, un matin, il a laissé tout un tas de choses qui devaient aller sur de portes, sur des meubles ; et donc il y a des boites qui sont restées intactes ; et puisque l’appartement n’était pas complétement terminé quand Boris est décédé, des copains ont terminé les travaux, avec ses outils, justement ; puis, quand ils ont fini, tout a été rangé, on a fermé la porte et pratiquement plus personne n’y est jamais rentrée ; nous n’étions que 3 ou 4 personnes à rentrer dans cet atelier... moi-même je bricole pas mal... donc ça m’a toujours un peu servi... c’est ça qu’il faut dans cette maison, des bricoleurs... mais Boris, lui il était plus qu’un bricoleur... ». Comme dans l’atelier, tout dans l’appartement est resté presque intact, comme un dernier mot qui n’aurait pas pu être écrit dans l’œuvre de l’auteur. Ce lieu est donc un peu le livre que Boris Vian aura continué d’écrire ; une entreprise qu’il aurait souhaité inaccomplie ; un dernier clin d’œil à l’imperfection de l’existence et, forcément, de l’art ; le 6bis Cité Véron est en somme, l’œuvre d’art in progress du bricoleur acharné qu’était Boris Vian. Nicole Bertolt : « Vous voyez, cet appartement pour Boris c’était un peu comme un navire ; et comme sur un navire, évidemment, il lui fallait un ponton ; et figurez-vous que ce ponton il a fini par le trouver ; je vais vous le montrer ce ponton, il est en haut des escaliers. C’est certainement la grande terrasse sur le Moulin Rouge et la vue de l’horizon qui lui ont donné cette envie. Et cela l’aidait à prendre des grandes respirations car Boris, pendant les dernières années de sa vie, il n’arrivait presque plus à parler et respirait très mal ; il avait donc besoin des grands airs… et ça Ursula l’a beaucoup raconté, car c’était terriblement douloureux. Boris a donc réussi à pousser le plafond pour faire une chambre. Il a eu cette idée émouvante, parce que vraiment il savait qu’il allait mourir ; il ne savait pas quand mais cela lui créait parfois de telles angoisses et c’était tellement difficile à vivre, qu’il ne voulait pas toujours dormir avec Ursula et il ne voulait pas non plus errer dans l’appartement ; alors il s’est créé cette pièce. Et pour l’anecdote, pour aller très loin, il y a mis un lit et un lavabo, uniquement ; absolument rien d’autre qu’un lit et un lavabo, parce que ça lui permettait de rester, de boire et d’uriner, s’il en avait envie et de rester ici pendant 2 ou 3 jours. Parce que Boris Vian c’était quand même une force de travail énorme, c’était quand même un gars qui a 35-36 ans et qui a envie de vivre ; et il a envie d’être avec sa femme et ses enfants et pourtant il n’arrête pas d’entendre dans sa tête non non non tu vas mourir ; et en même temps c’est un gars qui n’a jamais été apprécié vraiment à sa juste valeur, donc, tout cela a créé au fil des années une difficulté d’être. Voilà, il était certes quelqu’un de terriblement joyeux mais, parfois, il montait dans cette pièce où il avait mis une trappe et voilà, il fermait la trappe et ça voulait dire terminé... et pour sa femme aussi, c’était pareil. Ursula n’avait absolument pas le droit de monter ici. ». Sur cette trappe et avec une petite tristesse s’achève cette visite. Boris Vian souffrait d’une pathologie cardiaque depuis son enfance. Il ne savait pas quand cela serait arrivé, mais il savait qu’il allait mourir jeune. D’où cette extraordinaire force de travail dont il était capable, qui lui a permis de produire une œuvre très prolifique et de se renouveler autant. Il est parti le 23 janvier 1959. Il s’était rendu à la projection du film tiré de son roman « J’irais cracher sur vos tombes » et, jugeant la mise en scène inadéquate, il a été emporté par sa colère. Boris Vian n’avait que 39 ans.

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En hommage à son ami et voisin, Jacques Prévert écrira : « Il connaissait la musique, il savait la mécanique, les mathématiques, toutes les techniques, et les autres avec. On disait de lui qu’il n’en faisait qu’à sa tête. On avait beau dire. Il en faisait à son cœur, et son cœur lui en fit voir de toutes les couleurs. (…) Il savait trop vivre, il riait trop vrai, il vivait trop fort, son cœur l’a battu, alors il s’est tu ». Carla Boi

BORIS BRICOLE CHEZ LUI Cité Véron 1956 © Archives Cohérie Boris Vian

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NICOLE BERTOLT © Archives Cohérie Boris Vian

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◀ CITÉ VERON AVEC

BORIS ET LES COPINES HEUREUSES Cité Véron 1954 © Archives Cohérie Boris Vian

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OMBRA E DIVA © Sofía Arango Echeverri


III NEWS


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hell hollywood

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Hollywood marcia. Dategli il significato che preferite. Anzi, dateglieli entrambi: quello che riguarda la rivolta femminile contro l’orco Weinstein (e a caduta libera contro qualsiasi sopraffazione), e quello da cui tutto parte, non da oggi. Hollywood è marcia. A dircelo, con un simbolismo formidabile, è quell’antica Babilonia di cartapesta del kolossal muto “Intolerance”, firmato nel 1916 da D.W. Griffith. “Hollywood–Babilonia” è anche il titolo di un libro che, quando uscì, nella seconda metà del secolo scorso, provocò sconcerto, ma non divenne un caso mondiale. Raccontava, Kenneth Anger, regista e scrittore statunitense d’avanguardia, di un mondo corrotto, di un sistema di produzione fondato sulla sopraffazione, di scandali a sfondo sessuale, eccessi, violenze, suicidi (il più clamoroso, nel 1932, quello di una promettente attrice inglese, che si arrampicò sul Monte Lee, fino alla cima della lettera H della Hollywood sign, e saltò nel vuoto). La Settima arte, la più popolare, globale, democratica, produttrice di miti, che mostrava sé stessa in tutta la sua perversione. «Più stelle che in cielo», era un motto della Metro Goldwyn Mayer. Un universo di stelle che per brillare dovevano sopportare di tutto. E un pugno di produttori, e major amatissime, a rappresentare i carnefici. Non cadde nessuna testa, allora. Altri tempi (altri intrighi?), e altra presa di coscienza femminile, quella che oggi ha scatenato la rivolta. Adesso, dopo lo scandalo che ha travolto e annientato Harvey Weinstein, fondatore della Miramax, produttore osannato, vincitore di Oscar e di sette Tony Award, nulla sarà come prima. Il re è nudo, e con lui sono nudi molti altri personaggi importanti del suo mondo. Il caso Weinstein, scoppiato dopo le denunce a catena che si sono succedute a Hollywood, dopo trenta inspiegabili anni di silenzi (molti sapevano e non parlavano, stampa compresa), ha travolto nomi illustri dello star system. Uno su tutti, Kevin Spacey, accusato, tra l’altro, di aver organizzato nel Golfo di Napoli, durante le riprese di “Gore”, una crociera hard core con undici giovanotti e due massaggiatori. Party selvaggio è il titolo che molti giornali hanno dato a questa vicenda imbarazzante. E “Party selvaggio” è il titolo di un film di James Ivory del 1975. Raccontava una storia assai più pesante di quella che ora ha bloccato la carriera di Spacey: lo scandalo che negli anni Venti travolse un comico-regista-produttore hollywoodiano, secondo solo a Charlie Chaplin per fama e bravura (e forse anche perversioni sessuali). Si chiamava Roscoe-Fatty Arbuckle e fu il tragico protagonista di un ricevimento, organizzato a San Francisco per festeggiare il rinnovo del suo contratto triennale con la Paramount per la cifra stratosferica di un milione di dollari all’anno. Era il 5 settembre 1921, e il party finì con una starlet, abusata in maniera atroce da Fatty, che cinque giorni dopo morì. Arbuckle venne accusato di violenza carnale e omicidio. Lo scandalo fu talmente grande che contro il “folle maniaco sessuale hollywoodiano” si costituirono comitati per chiedere la pena di morte. Altre storie orribili compaiono in un altro libro, scritto da due giornalisti inglesi che si firmano Selwin Ford, e pubblicato in Italia negli anni Novanta: “Il sofà del produttore”. Sottotitolo: “il rito del pedaggio sessuale nella storia di Hollywood”. Contiene già tutto quello di cui oggi si sta parlando con tanto sacrosanto clamore. I produttori assatanati di sesso, in testa il mitico Darryl F. Zanuck, (Twenty Century Fox), la sudditanza delle attrici alle prime armi, i capricci e le perversioni di molte di loro, le miserie di nomi intoccabili. È la caduta degli dei. Il crollo di un mito che ha affascinato gli spettatori di tutto il mondo. Una fabbrica di sogni che ha come retrobottega una macelleria. Lo scandalo Weinstein, che altri ha trascinato con sé, è scoppiato in un momento storico in cui certi comportamenti non sono più tollerati. Probabilmente ci saranno altri clamorosi sviluppi.

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Altri dei cadranno, non solo a Hollywood. Resta, importante, al di là di qualunque eccesso, la presa di posizione delle donne: quelle che hanno avuto, finalmente, la forza di denunciare Weinstein e non solo lui, quelle che sono scese in piazza ovunque. È una nuova caccia alle streghe? Un puritanesimo insopportabile? Certamente, chi riduce il dibattito a una questione moralistica tra puritane e libertine, giacobine e girondine, devìa l’attenzione dal nucleo centrale di questa brutta storia: il rapporto asimmetrico che, da sempre, caratterizza le relazioni fra uomini e donne e che si è rivelato in tutta la sua drammatica evidenza nello star system americano (e non solo). Ora, davvero, niente sarà più come prima. E la frase finale di “Pretty Woman”: «Questa è Hollywood, la terra dei sogni. Alcuni si realizzano altri no, ma voi continuate a sognare», suonerà come uno sberleffo. Maria Paola Masala

SERIE REFLEJO Andrea Castro Progetto artistico e fotografico, 2015 70 x 110 cm

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TRAPASSO © Sofía Arango Echeverri


IV THE NEW CODE


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memento mori

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Il Memento mori di Andrea Previtali, ora conservato al Museo Poldi Pezzoli di Milano, adornava nei primi anni del ‘500, con ogni probabilità, un tavolo o uno scrittoio nobiliare, oppure ecclesiastico. Posto su un sostegno rotante, mostrava in perpetua alternanza ora il viso atterrito di un giovane uomo, ora un teschio sovrastato da un cartiglio recante la scritta “Hic decor, hic forma manet. Hec lex omnibus una”. La legge del trascorrere dalla vita alla morte è unica, ineluttabile, e le velleità delle vestigia mortali sono dissolte nei resti avvolti dal buio. Se pure si anticipa il truculento florilegio barocco di teschi e scheletri, anche qualche decennio prima il tema del memento mori, di origine romana, è diffuso nella pittura e nei monili: basti pensare al celebre olio su tavola di Hans Holbein il Giovane, Gli ambasciatori. In Holbein l’attenzione è attirata dalla macchia allungata di colore al centro del quadro, che assume i contorni di un teschio solo se si scruta l’opera da un punto di osservazione defilato, quasi a dire che la morte debba essere letta in filigrana rispetto alle attività mondane. L’effetto dato dall’anamorfosi è comunque catartico, perché spezza nello scioglimento del rebus la tensione causata dall’amara scoperta. A ben vedere, ogni memento mori gioca sul gusto di esercitare la propria percezione. L’orrore lascia spazio al piacere estetico, il dolore alla contemplazione, che è immagine transeunte dell’eternità. Previtali, invece, non mira alla soluzione immediata della tensione. La paura s’affaccia anche sulla vita, con gli occhi sbarrati del giovane che si affissano nel futuro prossimo o remoto. Le due metà non si conoscono, pur essendo complementari, e la vita trapassa e si annulla nel movimento che intende scoprire la notte. E sul movimento bisogna fermarsi, per capire qualcosa e perché è una cifra del contemporaneo, per quanto il nostro tempo non ne detenga l’esclusiva. La differenza con le concezioni proprie di altre epoche sta nell’assumere il movimento come essenza del reale, invece che come un suo attributo. Viene alla mente una frase di Manzoni: «la strada dell’iniquità, dice qui il manoscritto, è larga; ma questo non vuol dire che sia comoda: ha i suoi buoni intoppi, i suoi passi scabrosi; è noiosa la sua parte, e faticosa, benché vada all’ingiù». L’essere in movimento ormai equivale all’essere vivi. Viandanti, pellegrini, viaggiatori. Ristretto è il numero di chi lo è davvero, enorme quello di chi millanta, spera, spergiura di esserlo. Un passaporto imbrattato di timbri sembra sufficiente, ma non lo è affatto. L’essere in viaggio, il percorrere una strada, il non essere fermo è il merito di chi ricerca, di chi non si accontenta del punto di partenza; ma questo si è già detto, e a profusione, per la verità. Fin troppo, al punto che muoversi è vita e restare è immobilità, precorrimento della morte, non già fermezza e consistenza in se stessi, come diceva Plotino: «ogni essere è in cerca di se stesso e non di un’altra cosa, e l’uscita da sé è segno di stoltezza o è frutto di necessità». Lo spostamento del corpo spesso sostituisce la mobilità psichica, come se solo vedere nuovi luoghi donasse occhi e pensieri nuovi. I turisti della vita che tutti noi siamo, invece, hanno occhi antichi e non lo sanno. Quanto più il corpo si acquieta, tanto più il pensiero si svolge e prende il sopravvento. Al contrario, il movimento cerca proprio di evitare il confronto col sedimento della nostra vita. Manzoni scrive la frase prima citata nel capitolo XVIII de I promessi sposi a proposito di Don Rodrigo, che si ritrova ad aver lanciato ai suoi compagnoni una terribile sfida che non avrebbe più voglia di continuare, perché comporta fatica e perché comincia ad affiorare in lui un rarefatto disgusto. Si impone però di portarla a termine per puntiglio e orgoglio. C’è della pena anche nella sua strada, dice Manzoni, per quanto la via dell’iniquità sia larga. Ci sono ostacoli che potrebbero essere occasioni di sosta, di pensiero, di una certa nausea di

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fronte al male, forse. Far del male, ancora, quando ciò comporta tanta noia? O, piuttosto, cambiare strada? Ciò che poi avviene nel romanzo non è meno che la verità: si prosegue, per inerzia, sulla propria strada, nel proprio viaggio, che è un viaggio di polvere e di lutto. Stare in movimento dona l’oblio, ma intorpidisce, anestetizza, e chi vi edifica intorno la vita tanto cerca se stesso, quanto finisce per perdersi e non capire più dove porti la sua via: in su o in giù? Il memento mori di Andrea Previtali ci rivolge la stessa domanda. Roberto Medda

CRUZ N. 2 Jaime Arango Correa Olio su carta, grafica, 2015 48 x 34 cm ______________________

Pg. 59, CRUZ N. 3 Jaime Arango Correa Olio su carta, grafica, 2015 48 x 34 cm

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ERRANTI © Sofía Arango Echeverri


V CROSSING


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i drusi del golan

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Il Golan è una steppa ondulata d’erba, sassi e risorgive che nelle pozze sparse raccolgono l’imbrunire o la macchia assetata di una piccola volpe. Dalle sponde del lago Tiberiade la strada si arrampica sul pendio e sfocia sull’altopiano, infila le distese di aranci e meli, entra e riesce dai kibbutz come un rammendo e s’inoltra verso il confine. È Siria, è Israele, è terra drusa. È oblio e memoria. Ormai al buio le telecamere riprendono la statua fiera di Sultan al-Atrash, eroe della resistenza a ottomani e francesi. Gerusalemme ha appena imposto il nuovo sindaco a Majdal Shams e l’indignazione è poco più che un mormorio. Al-Atrash oggi governa una rotatoria e i cronisti sono congelati come nello spegnersi di una commedia teatrale. Il territorio fu strappato da Israele con la fulminante vittoria del giugno 1967, e annesso alle leggi della Knesset con un decreto nel 1981. Per l’ONU il Golan è illegalmente occupato. Il colonialismo indossa sempre lo stesso vestito. A fare il pieno al costante flusso dei camion sono giovani ragazze dai capelli sciolti che parlano tre lingue, l’arabo indurito dall’ebraico e l’inglese, come i cartelli per strada. Un grumo di locali appena fuori dal centro erode l’oscura metafisica neoplatonica dei drusi, religione che da sempre respira quieta fra le pieghe degli stati nazionali. Lustri i marciapiedi e scintillanti le automobili, anche i cani che si svuotano con discrezione sui muri o si spalmano su una chiazza di sole portano la medaglia. È un compromesso d’ordine, emanazione burocratica, assimilazione. “Ma se solo il 10% degli abitanti del Golan in mezzo secolo ha preso la cittadinanza vuol dire che Israele ha fallito”, spiega Salman Fakhreddine, attivista, direttore del centro per i diritti civili al-Marsad o “enciclopedia”, come lo chiama Majdal Shams. Svegliato al mattino, accoglie il seccatore in pigiama, fuma, getta ceppi di legno sulla stufa inchiodata al centro della stanza, rilascia interviste per telefono, frigge uova in camicia al peperoncino e bagna d’olio hummus e formaggi. Nella grande finestra del soggiorno il villaggio scende dalle pareti di roccia nuda, come in un imbuto. Il telegiornale passa le ultime dalla Siria, l’eterno disastro di macerie e soldati: appena più in là, oltre l’ultimo avanzo di neve sulla montagna. “Non abbiamo diritto di voto, tutte le risorse convergono sulle colonie nate dopo la conquista” sostiene Fakhreddine. “Welfare, infrastrutture e finanziamenti per il turismo vanno prevalentemente ai kibbutz. E l’acqua: Israele dipende dai nostri bacini per il 30% del suo fabbisogno nazionale. Il governo ha fatto in modo che il ceto professionale e intellettuale emigrasse, o venisse assorbito”. La guerra civile siriana ha sicuramente accelerato il processo, devastando le città e il sogno del ritorno per gli abitanti del limbo incastonato fra le alture. Bastano pochi passi per attraversare ciò che resta del villaggio e incontrare il confine, l’ultima fila di case, una strada sterrata e la barriera di reti e filo spinato che si solleva sul pendio, sfiora le ultime case, supera la cresta e continua fino ad altre rette contese, quelle con il Libano. Pochi giorni prima i caccia israeliani hanno portato a termine l’ennesima incursione in territorio siriano, bombardamenti su installazioni militari che il governo Netanyahu ha negli anni giustificato con la necessità di fermare l’avvicinamento al confine di Iraniani e Hezbollah libanesi, protagonisti della vittoria di Assad sugli insorti. Nel racconto della guerra siriana diverse fonti hanno accusato Israele di aver aiutato le forze salafite, soprattutto i qaedisti di al-Nusra. “Israele ha fornito assistenza medica ai siriani feriti oltreconfine. Questo è un dovere per uno stato, non deve essere politicizzato. Naturalmente nulla si fa gratis. L’intenzione è quella di estendere il controllo sul territorio siriano in disfacimento”, afferma Fakhreddine. Non è d’accordo Hossam, medico di quarant’anni. Dalla collina dove in passato i drusi divisi comunicavano con pazienti dialoghi urlati indica la valle oltre la barriera di confine, tace quando arrivano rare e invisibili le raffiche di mitraglia o i tonfi dell’artiglieria, e ripete un’opinione

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sentita più volte fra gli abitanti del villaggio: “Israele ha fornito denaro, armi e cibo ad al-Nusra, non solo cure mediche. Volevano creare una zona-cuscinetto contro Assad e i suoi alleati. Per favorire il passaggio dei miliziani e nascondere l’operazione due mesi fa hanno interrotto per diverse ore l’energia elettrica del villaggio. Chi ha filmato gli incontri fra generali israeliani e capi ribelli ora marcisce in prigione. Con l’aiuto degli abitanti drusi Assad ha liberato la zona. I combattimenti ora riguardano lo spazio intorno al villaggio druso di Hadara, le ultime sacche di resistenza”. È una maledizione antica quella del Vicino Oriente, un principio di forza elementare che l’egemonia ha corroso fino a farne la favola bislacca di una minoranza resistente: imploso l’impero ottomano un secolo fa, Francia e Gran Bretagna hanno partorito Siria, Libano, Iraq, Giordania e Palestina, dove già da mezzo secolo gli ebrei in fuga dall’antisemitismo europeo cercavano rifugio. Confini dove prima esisteva una lenta progressione di accenti, una Pangea di culture e religioni, un’economia che la Sublime Porta aprì al capitalismo nella speranza di poter competere con gli stati-nazione europei. Poi la Prima Guerra Mondiale con gli imperi di Austria e Germania, il collasso. I drusi vennero divisi fra Libano, Siria e Palestina, fino a quando la Guerra dei Sei Giorni nel ’67 non li incluse in Israele, avamposto figlio della Shoah e degli interessi strategici americani. Oggi i curdi di Iraq, Siria, Turchia e Iran versano sangue per l’indipendenza. In Iraq sciiti e sunniti si abbracciano in uno scontro fratricida, il Libano è una concrezione malferma di genti, la Siria un’anomia di oligarchi, bande armate e orrore. Impossibile per la giovane Rita diventare traduttrice a Damasco, per il fratello Majd ampliare l’azienda nel settore tecnologico o crescere il piccolo che la moglie Alhan porta in grembo. Ascoltano le storie che vengono dalla Palestina occupata con sorpresa e senso di colpa. L’ultima visita risale a due anni fa, Jenin, dove i mobili per la casa nuova costano la metà. Così sono diluite l’identità e la coscienza politica, nelle parole, nel benessere anche se iniquo, da colonizzati, nella speranza esangue che la comunità internazionale restituisca alla Siria ciò che è Siria, terra d’arabi, e che le famiglie spezzate dalla guerra mezzo secolo fa possano ricongiungersi. Eppure, solo il 10% ha deciso di accettare il passaporto israeliano. “Conservo un ricordo indelebile del tempo in cui il Golan era siriano. Siamo arabi, abbiamo dentro un forte sentimento per la comunità” trascina in un sibilo roco Ibrahim Nasrallah. La moglie Montaha e la figlia Abir lo guardano, sospese: la mano obbligata a un tremito perenne sul bracciolo, il corpo che fu fiero e contadino piegato nella sedia a rotelle, i tubi dove scorre l’ossigeno. “Avevo trent’anni nel 1967, facevo il maestro elementare da undici” racconta con fatica l’ultimo cristiano di Majdal Shams. “Venni licenziato due anni dopo perché mi opponevo all’educazione nazionalista imposta dagli israeliani. Tornai ai campi, alle mele e alle ciliegie”. La figlia minore Wafa da sette mesi è in coma nella sua casa di Damasco. Israele nega il ricongiungimento, Wafa non tornò nel Golan dopo la laurea in medicina, come imposto dagli accordi fra gli stati ancora in guerra. La donna lo guarda dalla parete, vestita da sposa: “L’aspetto ogni giorno. E ogni giorno aspetto che il Golan ritorni alla madre Siria”, bisbiglia il padre. Luca Foschi

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DESERTO Fotografia di © Irene Melis

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nella terra dei miracoli

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La riva del Mar Morto è un brulicare di sdraio, lettini, ombrelloni e gente a mollo. Turiste in bikini convivono con donne impacchettate da tuniche/chador e con gli asiatici che hanno dato nuova linfa al burkini – anche in versione maschile – perché protegge dai tanto odiati raggi solari. Un crogiolo di popoli si muove goffamente tra i fondali bassi e melmosi della depressione più profonda della Terra: 428 metri sotto il livello del Mare. Il caldo di ottobre è torrido ma sopportabile. Nuotare nell’acqua fortemente salina, che sospinge naturalmente a galla, è un’esperienza catartica: sembra di volteggiare nel vuoto. Delle boe rosse delimitano il limite massimo di balneazione, onde evitare che bagnanti particolarmente rilassati vengano sospinti dalla corrente fino alle rive della Giordania. Riemersi da quello scenario surreale, si viene risucchiati in un vortice di negozi e profumerie: creme, fanghi, sali, una gigantesca Spa a cielo aperto. A pochi minuti di pullman, le rive del Giordano. Un’ansa di acqua verdastra, costeggiata da canneti, è pattugliata da soldati armati. Sotto i loro occhi, centinaia di fedeli ogni giorno si immergono completamente nelle torbide acque del fiume biblico, dove secondo la tradizione Gesù fu battezzato. Gruppetti in tunica bianca, ragazzini seminudi, cattolici inginocchiati a ricevere un po’ d’acqua sul capo, per rievocare il rito. Sacro e profano, spiritualità e folclore, in Israele sono presenti al quadrato. Con la difficile quando non precaria convivenza di due mondi e altrettante religioni, l’Islam e l’Ebraismo, che schiacciano – quasi invisibili – i Cristiani. A parte i Francescani, nominati Custodi della Terra Santa da tempo immemorabile, le attività commerciali dell’Holy Land sono prevalentemente arabe o israeliane: nei negozietti di cianfrusaglie incorporati in ogni chiesa, tappa della tradizione evangelica, la cartina di tornasole sono due paroline: “Toda” e “Shukran”. Entrambe vogliono dire “grazie”, ma la prima, in ebraico, nelle botteghe e nei ristoranti si usa più raramente. Una terra divisa in due anche in senso geografico: a Nord, la Galilea inonda di pace. Campagne riarse, molto simili a certi paesaggi sardi, non fosse che per le superstrade che le attraversano. Villaggi beduini ospitati in container. Qua e là, in mezzo al nulla, ciuffi di vegetazione e piantagioni di banano, frutto dei ben noti progressi israeliani in fatto di immigrazione. La bolla viola-rosacea del Lago di Tiberiade, dalle sponde che al tramonto diventano rossastre. Uno specchio d’acqua quasi ipnotico mentre in lontananza brillano le luci dell’omonima città. Cala la notte, si levano gli ululati degli sciacalli. Qui, dove la narrazione biblica ambienta la maggior parte di miracoli del Vangelo, nel primo secolo dell’era cristiana c’era una fitta concentrazione di villaggi, sinagoghe, legioni romane. Nomi come Cafàrnao, Corazym e Magdala possono anche rievocare memorie spirituali, ma sono anche importanti siti archeologici che raccontano antiche prosperità, datate con precisione grazie al ritrovamento di monete romane. Non mancano punte di involontario kitsch, come la chiesa-astronave di Cafàrnao, quasi sospesa sulle rovine, che racchiude la “casa di Pietro” o la cappella voluta proprio a Magdala dai Legionari di Cristo: un edificio a pianta cilindrica che, al posto dell’altare, ha una gigantesca barca in legno chiaro, con tanto di albero e vela. Molto meno pretenziose e forse più belle nella loro semplicità le chiesette di Tabga, che ricordano per esempio la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Strutture di pietra spoglia, panche ombreggiate da alberi secolari dove gruppi si raccolgono in preghiera. Poco distanti, le sponde sassose del lago. Andando alla volta di Gerusalemme, si incontra la città romana di Beit She’an, fondata nel quinto millennio a.C., ampliata dai romani e distrutta da un terremoto nel 749 d.C. Ampie strade bordate da colonne, terme e balnearia, lupanari, frammenti di pavimento con mosaici, ma soprattutto un anfiteatro in ottime condizioni, che originariamente conteneva 7000 persone e anche ora ha un’acustica impressionante. I lavori archeologici sono ancora in corso, Beit

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She’an – fino ad ora la testimonianza più interessante dell’epoca romana in Israele – riserverà sorprese. Gerusalemme lascia senza parole, da qualsiasi parte si approcci. Caotica città moderna (con l’indiavolato traffico mediorientale), vivace centro giovane e notturno in più quartieri, incrocio esplosivo di civiltà. Chi vi capita i primi di ottobre, durante la festa di Sukkòt, troverà la città – come l’intero Paese – apparecchiata di capanne, tende nei parchi o terrazze coperte con foglie di palma: vivendo là dentro per qualche giorno, ogni primo plenilunio di ottobre, gli ebrei ricordano i loro quarant’anni nel deserto. Palme e gazebo, anche nel lussuoso centro commerciale di Mamilla, ricavato da una via cittadina poco distante dalla porta di Jaffa, dove tutti gli edifici hanno la facciata di pietra color crema. Marchi occidentali si alternano ad eleganti negozi, gioiellerie, esposizioni di souvenir di alto livello. La seconda notte di Sukkot, Mamilla è illuminato a festa. Musica dai locali, musica in strada. Ebrei “Haredim”, con i caratteristici lunghi boccoli ai lati del viso, si esibiscono con chitarre, fisarmoniche e violini. Per una volta smettono quell’aria bellicosa che li rende trasversalmente poco simpatici e un tantino pericolosi. Tra le vetrine illuminate, portano a spasso le mogli e nidiate di bambini incredibilmente belli. Una componente etnica molto numerosa, mina vagante nel già difficile processo di pace, vista con fastidio dagli israeliani moderati e con preoccupazione dal turista che li vede – compatti come una falange macedone – mentre si sbrigano verso il Muro del Pianto: nelle strette vie del suk, scavalcano i passanti a frotte, le donne usando i passeggini come rompighiaccio: è venerdì, il sole sta tramontando. Sta per iniziare lo Shabbat. Un mare di boccoli e camicie bianche, cappelli a larghe falde e cappotti di lana dall’inimmaginabile praticità sotto il caldo torrido della lunga estate israeliana, gli Haredin hanno una corsia preferenziale davanti al metal detector, dove comunque si accalcano ballando, cantando e battendo le mani. Nel settore riservato al resto del mondo, un omone corpulento e svogliato blocca a caso le persone, piluccando borse e zaini che vengono minutamente perquisiti. Una volta sopravvissuti alla coda, comunque meno lunga di quelle necessarie per il Sepolcro o la Natività di Betlemme, ci si trova davanti a uno dei riti più suggestivi dell’ebraismo: a pochi passi dalla Cupola della Roccia, un fiume umano scorre lentamente verso il Muro. Le donne da una parte, gli uomini dall’altra. Leggono, pregano a lungo, battono ritmicamente la fronte sulla parete di pietra. Chi se ne ricorda, caccia compulsivamente foglietti di carta nelle pieghe tra i massi giganteschi. Le donne ebree si agghindano in stile grandi occasioni, con parrucche, gioielli, trucco vistoso e, per le giovani, i capelli acconciati in onde elaborate. L’apparente armonia si incrina all’improvviso: se una banale lite per il traffico avviene tra ebrei e arabi, può spuntare un coltello. Così, in pieno quartiere musulmano, sa di aperta provocazione la casa-fortino su cui sventola la Stella di Davide. Durante un soggiorno a Gerusalemme, merita una visita il più importante museo del mondo dedicato all’Olocausto. Il suo nome è tratto da un passo biblico del profeta Isaia (56:5): “concederò nella mia casa e dentro le mie mura un memoriale e un nome (Yad Vashem)... darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato”. Per osservarlo in tutta tranquillità bastano due ore, che non si dimenticheranno. Lo Yad Vashem è un monumento alla memoria di un popolo perduto, lo si intuisce già dal video che all’ingresso accoglie i visitatori: spezzoni in bianco e nero di villaggi negli anni Venti e Trenta. Bambini di scolaresche, orchestrine, balli in piazza, rabbini, lavandaie. Comunità del tutto inconsapevoli delle nubi che nel frattempo si addensavano nei cieli del mondo. Un’altra sezione ricorda l’antisemitismo della cultura occidentale, eredità del primo Cristianesimo, con i Giudei accusati di deicidio. E via così, passando per la lenta e lucida ascesa dei nazionalsocialisti di Adolph Hitler. Il visitatore, sala dopo sala, viene gradualmente

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condotto in un tunnel di freddo orrore e di vergogna per l’umanità. Gli strumenti per misurare il cranio agli ebrei, foto e video che mostrano come gli israeliti fossero incasellati in parametri che ne definissero una “razza a parte”, con tanto di scala cromatica per la pelle e i capelli. Pochi, essenziali oggetti si accompagnano a testimonianze video dei sopravvissuti. Un mosaico composto con tono sobrio, senza indulgere nel macabro. Particolarmente toccanti le sezioni dedicate alla vita nei ghetti sotto la dominazione nazista, fase storica spesso dimenticata rispetto ai campi di sterminio, quando in realtà li annuncia in tutta la loro inumanità: garitte, valigie impolverate, diari con la fitta scrittura di ragazzini increduli davanti a tanto odio, poi morti di tubercolosi. Tra i poveri oggetti esposti spicca una collana di brillanti e smeraldi: così un commerciante aveva investito tutti i suoi averi, gli serviva una cosa da prendere al volo in caso di fuga. Prima che lui e la moglie venissero portati ad Auschwitz, era riuscito a nascondere il monile sotto il pavimento della cucina. Lui solo sopravvisse al campo. Tornato a casa, ritrovò la collana dove l’aveva lasciata. Poteva rifarsi una vita vendendo il gioiello, l’ha donato al museo, in memoria della moglie. La sezione dei lager: casacche logore, posate arrugginite, pettinini, una piccola scacchiera miracolosamente nascosta agli aguzzini. Le foto segnaletiche delle giovani donne appena arrivate al campo, “prima” e “dopo”: le ritroviamo con i capelli rasati a sangue, la divisa a righe, gli occhi rossi di pianto, spavento, incredulità. I referti medici degli americani, quando in luride cuccette si trovarono davanti scheletri vivi, divorati dalla dissenteria. Le latte dello Zyklon B. Non manca l’accenno all’ambiguo comportamento del Vaticano, che non prese apertamente posizione a livello internazionale. Un angolo di speranza si apre nella sezione di chi non si fece intimorire. Foto di interi villaggi, la bicicletta di una staffetta partigiana, il tavolo cassapanca in cui una famiglia riuscì a nascondere un ragazzino. Poco prima dell’uscita, la Sala dei Nomi. Una cupola tappezzata di foto, mentre nelle pareti sono accatastati migliaia di fascicoli su altrettante vittime. Sotto il pavimento si apre una voragine. È per tutti gli ebrei uccisi assieme alle loro famiglie e ai loro amici, scomparsi dalla storia senza che nessuno possa piangere sulla loro tomba. Usciti all’aria aperta, tra gli alberi piantati in memoria dei Giusti, si arriva al Memoriale dei bambini. Nella sala completamente buia, una fiammella viene riflessa da una miriade di specchi. Si cammina dentro un cielo di tremule stelle, mentre una voce registrata recita nome, cognome, età dei piccoli morti. Qualcuno si commuove, qualcun altro resta perplesso da quest’ultima “scenografia”, per alcuni superflua dopo la ricostruzione realistica di tanto orrore. Tornare al presente, dove il “Mai più” è un imperativo, è di conforto. Quasi quanto tornare a perdersi nelle vie del suk. Caos e religione, regolamentati da uno stretto ordine di precedenze, convivono forzatamente un po’ dovunque, per esempio nella Chiesa del Santo Sepolcro. Un monstrum architettonico di epoca crociata edificato attorno alla cappellina che racchiuderebbe la tomba di Gesù. Nelle ore di punta, attorno al piccolo altare di pietra profumata, si snoda una coda avvolta a spirale. A smistarla, uno sbrigativo monaco ortodosso, che fa entrare e uscire i fedeli a colpi di “Go! Quickly! Don’t stay”. Un romantico raccoglimento sui luoghi della Passione è forse possibile per chi arriva qui alle cinque di mattina, un’ora dopo l’apertura della massiccia porta di ingresso che, da secoli, si tramanda di padre in figlio appartenenti alla stessa famiglia araba. Durante la giornata, turisti e pellegrini accendono candele nei numerosi bracieri, si inginocchiano sulla gigantesca pietra orizzontale su cui sarebbe stato deposto il corpo del crocifisso, spargendoci sopra portachiavi, occhiali da sole, tutto quanto il sacro masso dovrebbe rendere all’istante “benedetto”. Su una parete di roccia seminascosta sono incise tante piccole croci: opera dei Crociati, testimonianza di un passato di fede, ma anche sangue e fanatismo. All’interno della Chiesa, il traffico del venerdì è quello di una piazza all’ora di punta. Il solito

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CROSSING

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Pg. 70-71, NELLA TERRA DEI MIRACOLI Fotografie di © Annapaola Ricci

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gigante della security sbarra la strada ai fedeli: sta per passare la Via Crucis dei Francescani. Ed eccoli, in un salmodiare gregoriano tra suoni d’organo e candele. Dieci minuti dopo, in una cappella laterale è il momento degli armeni, che percorrono lo stesso itinerario. Oltre a cattolici e armeni, nella Basilica convivono greco ortodossi, siriani, copti ed etiopi. Molteplice divisione anche nella Chiesa della Natività, a Betlemme: cattolici, greci ortodossi e armeni. Questi ultimi due gruppi, qualche anno fa, protagonisti di una memorabile scazzottata immortalata dai circuiti video di tutto il mondo. La causa? I turni delle pulizie. Ci si aggira quindi titubanti, tra le pareti coperte di teli a causa di un restauro eterno, facendo attenzione a non finire nelle botole (senza cordoni o segnali di pericolo) che permettono di ammirare i mosaici sottostanti, e cercando di non mancare l’ennesima coda per visitare la mangiatoia, altro motivo di brontolii che possono culminare nell’intervento della sicurezza. In territorio palestinese, Betlemme – sindaco palestinese di fede cristiana – è una città pulita e ben tenuta. Le botteghe di antichità arabe convivono con i laboratori in cui si intaglia il legno di ulivo e pregiati negozi di gioielli. Meno conosciuta delle chiese più famose, c’è la Grotta della Madonna del Latte. Sembra scolpita nel latte in polvere. Donne che vogliono avere figli ne grattano le pareti per ricavarne una polvere bianca, carbonato di calcio, che ingeriscono. Funziona? Fra’ Salvatore, francescano di Nazareth e custode della chiesetta, ci porta nel suo ufficio, tappezzato di foto di neonati di diverse nazionalità. L’ultima testimonianza viene dalla Siria, dice entusiasta, e mostra una lettera scritta a penna, in arabo. Ci dobbiamo fidare. Prima di salutarci, indica delle bustine trasparenti, con dentro una polverina bianca. Immagine singolare, che per un attimo lo fa sembrare un frate pusher. È la pietra grattata dalla grotta, secondo Fra’ Salvatore può essere un regalo per amiche che cercano di avere figli. Basta recitare la preghiera annessa e poi ingerire la polverina con un bicchier d’acqua. Cicogna assicurata, alla modica cifra di due euro. La Terra dei Miracoli fa affari anche così. Annapaola Ricci

◀ LA TORAH Fotografia di © Annapaola Ricci – 75 –


Logo patafisico di Š Gigi Rigamonti


VI PATAATAP


PATAATAP

hector castro, l’umano labirinto – 78 –


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Maschere, elmi, volti nascosti, spazi sospesi, metallo, legno, oggetti riciclati accompagnano il gesto e la torsione dell’artista Hector Castro. Uno dei maggiori maestri colombiani, scultore, disegnatore, sperimentatore e viaggiatore. Ha lavorato con artisti e studiosi di tutto il mondo, da Giulio Carlo Argan a Emilio Greco, Edgar Negret e Angel Loockartt. Le sue opere sono oggetti che hanno fascino, personalità, parlano e guardano. Sono cavalieri alati capaci di rapirti, sono maschere dell’umanità. Un labirinto mitologico che evoca tempi storici, i greci, gli spartani, le guerre, le battaglie medioevali. Oltre i ferri, i metalli, le sculture e le iperboli, i cilindri e i meccanismi che blindano i volti c’è un tempo interiore. Un luogo della contemporaneità. Castro raccoglie oggetti che hanno un’anima. Ogni forma ha la sua visione e nel dettaglio l’artista crea una figura e un luogo completamente nuovi. Ha un rapporto molto intimo con le sue sculture-casco, con ciascuna persona che vive dentro. Sono maschere che svelano per parlarci di conflitto, di disagio, di assenza o semplicemente per raccontare un pezzo di quotidianità. Guardando a Picasso Hector Castro non cerca, incontra. Il blocco di legno, di pietra, di metallo trasuda unicità e dalla forma compatta si compongono e scompongono i volumi. La linea, la forma grafica diventano bidimensionale e tridimensionale. Descrivono una scultura integrata. Per Giulio Carlo Argan gli oggetti della società contemporanea sono estetici e per questo la scultura di Castro gioca con la bellezza nella quotidianità. Una sua opera concava e lucida formata da un unico elemento compatto basculante riflette tutto quello che accade e crea, integrandola, deformandola, un’altra forma. Esiste un riflesso anche sociale, collettivo, tra il suo elemento materico e la realtà che lo circonda. Si tratta di uomini che vivono l’eterno conflitto, di persone che migrano e cambiano e incontrano nuovi orizzonti a volte feroci e dolorosi, a volte sorprendenti e sereni. L’impressione che si ha nell’osservare le sculture dell’artista è quella di essere circondati da relitti cosmici approdati sulla terra da lontani pianeti. Hanno la caducità della storia e la forza del presente. I suoi oggetti casuali svelano il mistero dell’umanità, della sopravvivenza, della lotta per il bene comune. Esiste una forte relazione tra la sua mente e la mano, tra il pensiero e il fare nel realizzare l’opera d’arte che diviene espressione di un’etica dell’esistenza. Lo scultore spagnolo Eduardo Chillida cercava la profondità dell’aria, in Hector Castro la misura delle cose, la forma e lo spazio della casualità aprono varchi sul nulla per descrivere guerrieri contemporanei, uomini alla deriva, miti improbabili di una realtà carica di umori invisibili ai più. Alcuni suoi elmi hanno evidenti citazioni, dalla figura mitologica del Minotauro all’uomo con l’elmo d’oro di Rembrandt, quasi a sottolineare l’orrore della guerra, la conseguenza del sangue, del dolore, la capacità di sopravvivere di fronte all’imponderabile. Lo spazio è quindi elemento vivo che ha una relazione con la forma creativa. Nelle stanze bianche i cavalieri alati di Hector Castro sono muti, ma l’osservatore che passa a fianco o che guarda attraverso le fessure, i pertugi e gli ingranaggi avverte presenze. L’artista crede che gli angeli di Wenders si possano trovare anche sotto il cielo di Bogotà. Le maschere si muovono come angeli non visibili dagli adulti ma dai bambini. Qualcuno si chiama Damiel o Cassel e può sentire i pensieri delle persone; stando accanto cerca di lenire il dolore. Qualcuno vorrebbe diventare uomo per percepire la materia e la quotidianità. Hector Castro, che è temerario e un maestro, realizza il suo disegno per affermarsi come creatore. Di lui rimane traccia, anche se noi, che siamo da questa parte della riva, non riusciamo a riconoscere se si tratti di cavalieri o angeli. Sicuramente opere. Bianca Laura Petretto

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YELMO N.1 Metallo, 2013 -2017 aprox. 40 x 70 cm ___________________

◀ TÓTEM N.1

Metallo, 2013 -2017 Dimensioni variabili

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◀ TÓTEM N. 2 Metallo, 2013 -2017, Dimensioni variabili __________________________________ ◀

YELMO N. 2 Metallo, 2013 -2017, aprox. 40 x 70 cm Fotografie di © Andrea Castro

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alvaro galindo, viajante de la tercera dimensión – 82 –


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La Obra del Pintor colombiano Alvaro Galindo Vacha viene desarrollándose en una permanente evolución expresiva desde aquella primera exposición donde yo lo conocí al realizar la curaduría de la muestra en la cual expuso “retratos” en lápiz y óleo de gran formato de los proceres de nuestra historia de independencia (Bogotá, Museo Nacional, Sala Alberto Urdaneta, 1991). Luego tras varias series diferentes, participa y gana el primer lugar en la “Bienal de Arte Gráfica de Novosibirsk” (Novosibirsk, Federación Rusa, 2003) y dos años mas tarde realiza una exhibición individual para la apertura del mismo evento (Bienal de Arte Gráficade Novosibirsk”; Nobosivirsk, Federación Rusa, 2005). En estas dos ocasiones largos laberintos de signos y rostros ora en tinta sobre papel, ora en acrílico y/o acuarela recorren la mirada del observador como una filigrana de historias esperando ser develadas… Desde ese entonces, serie tras serie, incansable, su obra explora diferentes aspectos de la comunicación/incomunicación entre los seres… Distintos materiales y técnicas van y vienen, se entremezclan y conjugan, intentando desarrollar una narrativa inmersa en caligrafías casi sordas y hieroglifos elocuentes que danzan al unísono de silencios reflexivos… En sus nuevas series comienzan a aparecer elementos tridimensionales que dan volumen a su universo en una tercera dimensión… Hilos metálicos con sus sombras en lápiz de grafitos; telas rasgadas, encoladas y con huellas de textos recortados de algún pasquín de diario, funcionando como recuerdos de un significado ya inconcluso, ya oculto… Emplastes de óleo creando una geografía multicolor sobre la obra llena de trazos y brochazos donde una espontaneidad controlada nos absorbe tratando de dar alas a nuestra imaginación para que vuele en los universos paralelos que Alvaro nos invita a explorar… Jaime Iván Gutiérrez Vallejo

◀ UNIVERSO GRIS

Mixed media su legno, 2017 70 x 70 cm

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HABLANDO SOBRE EL DORMIDO Acrilico su tela, 2005 84 x 37 cm

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ADÁN, EVA, CAÍN, ABEL Y YO Acrilico su tela, 2006 - 2008 100 x 100 cm

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TERMINANDO EL SUEÑO Acrilico su tela, 2006 - 2008 70 x 100 cm


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DIGITALIZACIÓN DEL SER Acrilico su tela, 2006-2008 100 x 120 cm _________________ INVENTO PARA SUBIR Acrilico su tela, 2005 50 x 60 cm

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TRAYECTO DE UNA ILUSIÓN Acrilico su tela, 2006 84 x 37 cm

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MÁQUINA PARA VER MÁS ALLÁ DE LAS NARICES Acrilico su tela, 2006-2008 60 x 60 cm

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AINAS MAGAZINE

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DÍA Acrilico su tela, 2006-2008 120 x 120 cm

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AHORA © Sofía Arango Echeverri


VII SWALLOW


SWALLOW

il tempo fra i denti

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AINAS MAGAZINE A volte immagino di essere privo di ogni senso, se non del gusto e dell’olfatto. Non mi ci vuole molto. Per qualche strana combinazione, la mia mente fatica a percepire le storie e le persone. Non comprendo mai dove le vicende cominciano, dove terminano. Quando una persona ha detto no, quando ha smesso di dire sì, di essermi accanto. Percepisco solo tensioni verso antiche conferme, un sapore, un gusto nella bocca che mi dice, più di qualsiasi religione, che io ci sono perché c’ero. In quell’istante, mentre mordevo, leccavo, ingoiavo, masticavo, esistevo perché oggi ne ho un ricordo non solo indelebile, ma persino ampliato dalla distanza. Mi accorgo di invecchiare quando tali ansie diventano senza speranza, come pulsioni che non hai più forza di onorare, cercare, soddisfare. Se dovessi esser condotto davanti a un plotone d’esecuzione, ricorderò il pomeriggio in cui mio nonno mi portò a vedere la pizza. Provincia di Firenze, mille anni fa: a un passo dalla casa di mia zia, una coppia di umbri arguti aveva aperto una pizzeria al trancio e la gente si fermava davanti alla vetrina fumé per aspirarne l’odore e guardarne la meraviglia. Ero troppo piccolo per sapere se fosse la prima invasione pizzaiola in una terra che, almeno per me, era patria dell’autoctono covaccino, una focaccia sottile e tosta, unta d’olio e cosparsa di sale. Ma non era questo il punto. Perché mio nonno, bontà sua, era un uomo amante delle novità e del progresso, in cui forse vedeva riflesso il sol dell’avvenire. Così mi comprò un pezzo di quel pane sottile come un’ostia, condito con briciole nerastre di funghi, fiordilatte, olio e - chissà perché - un goccio d’aceto. Quel che più ricordo è il profumo d’aceto che si snodava nell’aria come un pigro gomitolo, tra le zampe di quel gattone di pasta lievitata, come in quei film di Walt Disney in cui ti viene da piangere senza saper bene perché, anche se hai 60 anni. Ma non è questo il punto. Il punto è che, comunque mi rivolti, vedo fantasmi che si manifestano in ansie fisiche, palpabili e dolorose. Che non riesco a raccontare, perché ho solo quattro sapori in bocca e un naso che ricorda, ma che non annusa il futuro e fa fatica a riconoscere il presente. Elenchi, che non riesco a comunicare. Che senso ha enumerare questo catalogo? Nessuno, se non per raccontare, a me e solo a me, ancora una volta, che ero vivo e che c’ero, in quel momento, e che vorrei che in qualche modo queste ansie passate tornassero ancora a confortarmi. O che ne riuscissi a trovare altre per capire se ora, in questo istante, io sono ancora vivo o non solo il riflesso degli altri sensi: io che vedo, io che tocco, io che sento, io che attraverso di essi m’illudo di pensare e di procedere… La vita ristretta fra bocca e naso è una piccola vita. Nessun’aspirazione, nessun sogno se non la ripetizione, nessuna generosità o grandezza, soltanto l’eco di una tensione tra gola e palato… Non è fame, se non di certezza di esistere. E l’unico tempo è quello passato. Ricordo quando, in un Natale da ragazzino, aprii una bottiglia di Malvasia di Castelnuovo Don Bosco e per la prima volta scoprii che il vino dolce poteva profumare di rosa di bosco. Ricordo quando, nell’unico paese di Toscana in cui si osano mangiare, i miei nonni lavavano e rilavavano le budella del maiale. Venti volte fuori, venti volte dentro, come voleva la tradizione, perché restassero bianche e perdessero ogni fetore. E come poi venivo rapito, grazie all’incantesimo di tanta dedizione, da un piatto improponibile al gusto di ogni bambino, che a me pareva magico e apotropaico. Ricordo quando, dopo le dieci di sera, un amico del nonno piombò in casa come un partigiano, portandosi in collo il fagotto sanguinolento di una lepre che i fari dell’auto avevano ipnotizzato a morte. E mia nonna si mise lì a pulirla, e poi a fare il sugo e poi infine a fare le pappardelle, perché soltanto lei era capace di creare quel momento, quella magia di complotto proibito. Ricordo una bambina che piangeva disperata perché avevamo perso le fette di pane col burro. E io che le dicevo che, amen, non succedeva nulla, ma lei non smetteva di disperarsi, poiché i suoi le avevano raccontato che, per ogni briciola di pane sciupato, i diavoli dell’inferno le avrebbero acceso le unghie e costretta a vagare sulla terra finché non le avesse raccolte tutte. E come ci parve buono quel pane unto e bisunto, col burro ch’era quasi diventato olio, scordato sul sellino polveroso di una bicicletta. Questa è la mia vita fatta solo di bocca e di naso. Senza storie legate fra loro, senza inizi, senza fine. Un lungo elenco di ansie passate, che collassano tutte in un punto. Giorgio Giorgetti www.cucinodite.it – 97 –


Finito di stampare nel mese di Marzo 2018



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