Veritatis, Chiara Guidarini

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In uscita il 31/ /2019 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine PDJJLR e inizio JLXJQR 2019 ( ,99 euro)

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CHIARA GUIDARINI

VERITATIS

ZeroUnoUndici Edizioni

ZeroUnoUndici Edizioni


WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ VERITATIS Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-311-6 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Maggio 2019 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A Marco e Ilaria



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PROLOGO

Oggi. La biblioteca era immensa. Un dedalo di corridoi cupi, ravvivato solo da qualche lume, separava le lunghe fila di volumi che si guardavano in faccia da tempo immemore. In quel sacrario giacevano conoscenze antiche quanto la Terra, intrappolate tra le pagine consunte di libri a volte senza copertina; libri anonimi a cui non sarebbe stato attribuito alcun valore semmai qualcuno, in un’epoca lontana, non li avesse consultati carpendone l’intrinseca importanza. Al sicuro, tra le ampie scaffalature dell’abbazia, né la luce troppo forte né l’umidità avrebbe potuto scalfirli: la conoscenza sarebbe stata preservata, la storia non sarebbe stata perduta finché qualcuno l’avesse custodita. Figure solitarie si muovevano nell’ombra esaminando i volumi riposti sui piani, ma Maddalena non vi fece caso: seguiva il sacerdote come una pecora segue il pastore, incuriosita da quell’improvvisa convocazione presso l’abazia di Marola, “assolutamente urgente e molto importante”. Aveva abbandonato lo studio di un reperto ceramico per raggiungere padre Domenico che, aggirandosi lungo lo spettrale


6 labirinto, le stava spiegando dell’intervento di manutenzione che era in corso nel ramo orientale del monastero. Pur non capendo come questo potesse riguardarla, Maddalena lo ascoltava incuriosita, perché padre Domenico, con la sua voce profonda e cadenzata, era una delle poche persone di cui lei avesse stima. Si trattava di uno di quei rari sacerdoti di cultura, ancora capaci di incutere timore reverenziale col solo sguardo o con un improvviso mutamento del tono di voce. Nei tanti anni in cui lei aveva frequentato quel luogo, avevano imparato a conoscersi, e comprendersi, e alla fine, erano diventati amici. «Ieri, nel corso dell’intervento di cui ti parlavo, è improvvisamente franata una vecchia muratura ed è saltata fuori una cella nascosta» le stava dicendo il parroco, «gli archeologi hanno fatto tutti i loro rilievi e tirato i nastri per indicare la zona pericolosa e invalicabile, ma durante la notte, alcuni studenti curiosi si sono addentrati nello scavo». Padre Domenico non emise alcuna sentenza in merito all’effrazione, ma Maddalena pensò che se fosse stata lei il rettore dell’istituto avrebbe volentieri dato un giro di vite a quegli scellerati. Il parroco svoltò nell’ala più antica, solitamente meno frequentata dagli studiosi. Tomi consunti dai titoli illeggibili osservavano il loro transito, e Maddalena fu tentata di sfiorarli con le dita, come faceva quando raggiungeva quel luogo per compiere la sua ricerca. Ora, le fila di libri recanti lo stesso dorso riempivano un lungo scaffale, esibendo con orgoglio una croce ondulata molto simile a


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quella che Andrea Pezzi portava tatuata sulla scapola. Pezzi. Accidenti a lui. Fermandosi davanti a un ampio tavolo di noce, il parroco aprì un cassetto con una chiave che teneva in tasca e vi frugò dentro. «Nel compiere la loro opera di sabotaggio, i due studenti hanno trovato questo» disse, estraendo una fila di fogli arrotolati e uniti tra loro da una rudimentale rilegatura. Maddalena osservò il reperto. Si trattava di un libro dalle pagine sgualcite, ripiegato su se stesso come se fosse stato infilato a forza in un cunicolo troppo stretto. «L’archeologo l’ha già visto?» domandò. Il sacerdote scosse il capo. «Non è ancora arrivato. L’ho avvertito prima di aver letto l’iscrizione…». Prendendo un paio di pinzette aprì il plico nella prima pagina. «Ho pensato che dovessi vederlo anche tu». Provò un lieve capogiro quando, abbassando gli occhi sul punto indicato, Maddalena lesse a caratteri terribilmente deformi la serie di lettere che da tempo la perseguitava: CAIVS Dovette fare uno spaventoso sforzo per mantenere saldi i muscoli e non mettersi a tremare. «Ho bisogno di chiedere i permessi per analizzare questo reperto e…» il fiato venne a meno. Al diavolo, doveva sapere subito. Se le avessero requisito il plico, se non le avessero permesso di visionarlo, se se se. Aprì la borsa ed estrasse i guanti di lattice poi prese in mano il libro e lo osservò con occhio critico.


8 Odorava di polvere, storia e magia. Le pagine avevano gli angoli rovinati, alcuni ripiegati su se stessi. Ma la scrittura, lei la conosceva, durante la ricerca aveva letto due sue lettere e, nonostante l’autore fosse lo stesso, nella prima la grafia era ordinata mentre nell’altra, era spaventosa. Come questa. Non sapeva cosa gli fosse successo e come mai avesse iniziato a scrivere a quel modo, ma sapeva che era lui la chiave di tutta la sua esistenza. Ora il libro era lì, l’aveva in mano, ed era quanto di più prezioso potesse chiedere. Quando lo aprì, palpitò tra le sue mani come un cuore, o come un fiore che sboccia in un fresco mattino di primavera. Leggerlo era una decisione irrevocabile, e non era solo sua: Caio l’aveva guidata al manoscritto e ora voleva che sapesse, che conoscesse la sua storia. L’avrebbe riportato in vita, ma prima doveva scontrarsi con un esercito di permessi e di burocrazia. Chiese chi avesse l’appalto dei lavori. La S&P perfetto. Quel cafone ciarlatano di Andrea Pezzi non le avrebbe fatto visionare lo scavo nemmeno da lontano. Per non parlare del reperto. Prese le pinze e, con reverenza, girò la prima pagina. La scrittura era tremenda ma se lo aspettava, quello che non si aspettava era trovare una parte di lui, trovare lui, quel giorno, in quell’abbazia sperduta. «Chi è esattamente quest’uomo che ti tormenta tanto?» volle sapere il sacerdote.


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«Chi, Pezzi? Un idiota…». Poi, ricordandosi improvvisamente dov’era, si affrettò a rettificare: «scusi Don. Io e Andrea abbiamo visioni differenti su come si svolga il lavoro presso uno scavo archeologico. Io, per esempio, sono ligia alle regole, lui no». Il sacerdote sorrise. «Mi riferivo a Caio Valerio Secchi, a quanto pare, l’unico uomo della tua vita». Alzando gli occhi sul prete, Maddalena non riuscì a dargli torto. Da quando aveva incontrato Caio, tempo prima in uno dei tomi conservati proprio in quella biblioteca, non era più riuscita a dimenticarlo. «Non è cosa da tutti essere un soldato in congedo che ha giurato fedeltà al marchese di Ferrara e poi è stato inviato a servire il Vescovo a Reggio di Lombardia» spiegò, abbassando lo sguardo sulle pagine del libro. «La nostra adorata Regium Lepidi». Il sacerdote sorrise, «Conosciuta come Reggio Emilia. Quando sono accaduti questi fatti? Seicento anni fa?». «Più o meno». Il sacerdote non parlò, si limitò a osservarla mentre analizzava il reperto. «Grazie per aver ricordato la mia richiesta» disse Maddalena, senza alzare gli occhi dal libro. «Considerando che me lo hai rammentato per un anno di fila quasi tutte le settimane, direi che era impossibile dimenticarsi. Poi, effettivamente, un nome come quello di Caio Valerio Secchi non si dimentica facilmente». Sorridendo, il parroco si appoggiò


10 a una delle alte scaffalature di noce, che non si spostò di un millimetro. «Dio ha voluto che ricordassi dov’era l’agenda dove ho messo l’appunto sul nome, e ho fatto il confronto. Sono passati tre anni, ma alla fine, l’hai trovato. O hai trovato qualcuno che si chiama allo stesso modo». Erano già passati tre anni. Ne erano cambiate di cose in tutto quel tempo, ma la ricerca della storia di Caio era rimasta una costante, sicuro perno su cui si fondava la sua vita. Era lui, non c’erano dubbi, la scrittura declamava con forza chi fosse il proprietario del manoscritto. Quando lo disse, il sacerdote annuì. «L’ho capito da come lo guardi. Cosa succederà dopo che l’avrai letto?». Se una voce nuova e irriverente non avesse spezzato la conversazione, Maddalena avrebbe soppesato la domanda. Invece si limitò a girarsi specchiandosi nelle iridi celesti dell’archeologo Pezzi, che aveva espresso a gran voce il suo, non troppo simpatico, pensiero. «Lo dimenticherà e si dedicherà ad altro». Soffocando l’istinto di piantargli le pinzette nel collo, Maddalena gli concesse un sorriso falsissimo. «Andrea! Come sono felice di vederti!». «Immagino…» disse Pezzi senza convinzione. «Io, invece, sono realmente felice di vederti. Allora, cos’abbiamo qui?». Idiota, cafone, pensò Maddalena, ma non lo disse. I begli occhi celesti passarono in rassegna il ritrovamento, e nell’avvicinarsi le arrivò il profumo del dopobarba mischiato a un aroma di cocco e vaniglia. Molte donne avrebbero voluto essere


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guardate da lui come ora lui guardava quel tomo polveroso. Nel seguire i suoi movimenti, Maddalena notò i riccioli biondi, il bel viso sottile, il fisico che poteva eguagliare quello di un antico atleta elleno. Ma era un cafone maleducato, idiota, antipatico! «Un libro! Meraviglioso, l’hai già datato Mad?». Brutto scellerato d’un marpione, pensò Maddalena che, invece di dare adito ai suoi pensieri, gli rivolse l’ennesimo sorriso a trentadue denti. «È senz’altro del millequattrocento. Potrebbe appartenere al primo ventennio, ma dovrei analizzarlo per saperlo bene, e leggerlo con tranquillità, passandolo anche allo scanner…». Nelle iridi di Pezzi brillò qualcosa. Una cometa in una notte buia. Si mise dritto sulla schiena. «Molto bene. Vediamo lo scavo così capiamo un attimo da dove viene questo prezioso cimelio. Mad, vuoi venire?». Il cuore le balzò in gola. Sul serio Andrea Pezzi la invitava sul suo scavo? Cioè quel Andrea Pezzi, quello che meno di un anno prima le aveva promesso che mai e poi mai le sarebbe stato concesso l’alto onore di mettere mani, piedi e, soprattutto occhi, su qualsiasi scavo che fosse sotto la sua giurisdizione? Si chiese se non fosse una trappola per ucciderla e tumularla dentro qualche anfratto dimenticato. «Grazie, mi farebbe piacere» rispose garbatamente. Pezzi si accordò col sacerdote su alcune cose, poi le fece cenno di seguirlo.


12 Abbandonando la biblioteca, uscirono da una porta secondaria e attraversarono il piccolo giardino, che fungeva anche da isola comune tra i vari edifici. Andrea la condusse verso un’ala in disuso che un tempo aveva ospitato i monaci laboriosi, quella appunto, dove si stava compiendo la manutenzione. «Come stai?» le chiese Pezzi mentre apriva la piccola porta di legno. «Bene grazie. E tu?». «Bene». Ecco, tutto quello che rimaneva tra loro si riduceva a questo. Il corridoio era lungo e silenzioso. Un’unica fila di porte si affacciava sulle tavelle del pavimento perdendosi nell’oscurità. Lungo le pareti spoglie vi era traccia di una muratura vecchia quanto il monastero, il cui intonaco era caduto in più punti rivelando le primitive giunzioni. «Un luogo interessante» commentò Maddalena, «di costruzione antica. Quanta storia tra queste pareti…». Andrea annuì. «Sì. Lo scavo che stiamo compiendo è lungo l’apparato matildico. Non tutta la struttura venne posta in commenda e, fortunatamente, i monaci sono riusciti a limitare i danni». Si fermò in prossimità della parte franata, debitamente segnalata da un nastro rosso e bianco che ne bloccava l’ingresso. Davanti a essa sostavano un paio di ragazzetti visibilmente imbarazzati. Indossavano un caschetto identico a quello che ora Andrea le stava porgendo.


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«Ottimo lavoro ragazzi!» esclamò allegramente l’archeologo mentre toglieva la separatoria, «mi raccomando, quando entrate abusivamente nei siti archeologi state attenti a due cose: non farvi male, e non fare danni». Sebbene Maddalena avesse voluto dare una sonora lezione a quei due sfacciati, si trattenne perché Andrea, con delle belle parole, stava spiegando loro i rischi connessi all’entrare negli sterri senza alcuna protezione. Non solo indicò i pericoli per loro, ma quando illustrò le possibilità di danneggiare le murature, sul volto dei giovani studenti si dipinse un’espressione di puro sgomento. Tuttavia, esaltando la loro scoperta, Andrea tramutò la marachella in un’opera d’ingegno archeologico e, nel giro di un istante, i ragazzi passarono da teppisti a eroi. Cosa che a loro piacque molto perché dopo facevano a gara nell’indicare il posto dov’era avvenuta l’importante scoperta e, al contempo, essere più discreti possibile nello sfiorare le vetuste mura. L’ambiente era di dimensioni ridotte, non più grande di tre metri per due, quel tanto che bastava per contenere un giaciglio e uno scrittoio. La stanza era rimasta per lo più integra, ma senza alcuna finestra, per questo era passata inosservata. La porta tamponata poteva apparire un diretto proseguimento del corridoio, o atta ad aprirsi dall’altra parte, sempre che ci fosse qualcosa al di là di essa. Ma Maddalena sapeva leggere le mura e vide chiaramente che la tamponatura era seicentesca, opera forse dell’introduzione di qualche feudatario. «Avete trovato ossa?» domandò, una volta congedati i novelli paladini dell’archeologia abusiva.


14 «Nessuna». «Pensi che questa stanza sia stata chiusa perché legata ai benefici introdotti dalla commenda?». Andrea si strinse nelle spalle. «Per ora non ne ho idea. Vorrei però fare un giro nella biblioteca per studiare le carte» la guardò troppo intensamente, e lei dovette distogliere lo sguardo. Brutto cafone dongiovanni! Pensò. Ma si pentì subito. Lei lavorava per la ditta concorrente e lui non aveva avuto nessun problema a mostrarle il sito. Lo farà apposta per dimostrarmi quanto è bravo! Disse la mente. Ma smettila, lo fa perché in fondo ti vuole ancora bene. Sentenziò il cuore. Decise di non ascoltare nessuno dei due, avvicinandosi invece al punto che Andrea stava analizzando: quello dov’era stato trovato il documento. Era una cavità nel muro, bloccata da una pietra che si poteva estrarre. Con la torcia elettrica, Andrea stava illuminando l’interno. «Non c’era nient’altro. La tamponatura improvvisata ha fatto sì che quelle tue preziose carte arrivassero integre…» lasciò la frase in sospeso e corrugò le sopracciglia. Maddalena conosceva quello sguardo. Si avvicinò per vedere meglio, perché sapeva che, tra quelle pietre, nel grigiore della muratura, lui doveva aver colto qualcosa. «Passami lo scalpello» le disse.


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Come se lei fosse un suo garzone. Ma ubbidì, senza remore, perché era successo ancora, più di una volta, quando avevano lavorato insieme, quando avevano portato alla luce mura, reperti, archeologia, storia. Porgendogli l’attrezzo, provò il delizioso gusto dell’anticipazione, della speranza della scoperta. Andrea tolse delicatamente un leggero strato di arenaria, che si sbriciolò lungo il muro, poi le disse di dargli la pinza. Era concentrato e austero. Senza fare domande, Maddalena gliela allungò: l’aveva già preparata. Conosceva il suo modus operandi e sapeva che lui l’avrebbe richiesta. Come ubbidendo a un ordine naturale delle cose, lei aveva preso dalla valigia sia lo scalpello che la pinza, e quando lui se la trovò tra le mani non si stupì affatto, e con mossa esperta l’infilò nel foro. «Dai…» mormorò a qualcosa di visibile solo a lui. Maddalena notò che si mordeva il labbro inferiore. Notò gli occhi che gli brillavano. E vide che, attaccato alla pinza, c’era un piccolo, e antico, chiavistello. Sollevò la torcia di Andrea, illuminò il reperto arrugginito. «Mi pare di fattura quattrocentesca…» fu tutto quello che riuscì a dire. Il cuore le batteva forte, come il batacchio di una campana, e le mani tremavano. Andrea, invece, sogghignava. «Be’, dottoressa, direi che hai appena vinto il manoscritto da decifrare. Te la senti?».


16 Maddalena fu tentata di saltargli al collo e abbracciarlo con calore, ma represse quell’istinto. In un altro momento, in un altro tempo, l’avrebbe fatto, ma ora no. «Volentieri» disse, nel tono più professionale possibile. Andrea parve deluso. Prese i suoi attrezzi e li rimise nella borsa, dopo aver posto la chiave dentro un sacchetto di plastica e avendo cura di catalogare il luogo di provenienza. «Be’, potresti almeno ringraziarmi» mormorò quando uscirono dallo scavo. «Per cosa?» accorgendosi della freddezza con cui stava parlando, abbassò il capo. «Hai ragione. Scusami. Grazie». Lui le sorrise, ma era un sorriso spento. «Domani riprendono i lavori al cantiere. Manderò immediatamente un avviso ai capi spiegando loro il compito che ti ho affidato e il fatto che ti porti il manoscritto a casa». A quel punto, il cuore di Maddalena fece un nuovo balzo in avanti. Nel suo studio aveva tutti gli strumenti, gli scanner, e poteva scansionare, e ingrandire, la terribile scrittura di Caio! Andrea le porse il libro, già inserito dentro alla busta, ma aveva gli occhi tristi, meditabondi. Troppo chiedevano quegli occhi e lei non riuscì a fare altro di diverso da quello che faceva sempre: guardare da un’altra parte. «Pare che finalmente l’hai trovato. Ne sono contento. Davvero». «Grazie» fu tutto quello che riuscì a dire. Ora non se la sentiva più di pensare a lui come un cafone imbecille. Era una persona che aveva sofferto, ecco cos’era. Aveva sofferto per colpa sua, e aveva trasformato quella


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sofferenza in dedizione al lavoro, diventando un grande archeologo, bravo e ricercato. Ma a lui non importava. A lui importavano cultura, storia, verità. Portare alla luce le vite, le anime che avevano calpestato questa terra, che avevano lasciato un segno o non avevano lasciato nulla, ma che pur sempre erano state l’archetipo della civiltà da loro ereditata. Quando si erano imbattuti per la prima volta in Caio Valerio Secchi, Andrea aveva saputo fin da subito di avere un rivale. E nonostante i tentativi miseri di Maddalena, alla fine aveva vinto il soldato quattrocentesco morto stecchito da secoli e sepolto chissà dove. In silenzio, avevano costeggiato l’eremo fino all’auto di Maddalena. «Ti farò avere la traduzione» disse, aprendo la portiera ma senza salire. «Ci conto». «Anche il libro originale quando avrò finito di decifrarlo». «Le copie che fai non le commercializzare». Idiota. Ma sorrise. Come la conosceva! Ovvio che avrebbe fatto una copia. Ma non l’avrebbe mai messa in commercio. «La copia che farò sarà solo per poterci lavorare meglio». «Certo» disse poco convinto. Avrebbe voluto aggiungere altro, ma lui si girò sui tacchi e la salutò con un cenno della mano. «Ciao» sospirò.


18 *** Sola, nel suo studio, con l’unica compagnia della lampada accesa e del computer al fianco, Maddalena aprì il libro. Con le pinzette girò le pagine attaccate e accartocciate, abbeverando gli occhi di quella grafia così imperfetta e così tanto amata. «Oh, Cai» mormorò. Sulla scrivania aveva già messo copia delle due lettere che aveva trovato ai tempi della ricerca: erano lettere semplici e prive d’importanza, una risalente al 1423 che raccontava una battaglia, e l’altra, quella scritta male, non recava alcuna data e pareva per lo più indecifrabile. Caio doveva essersi impegnato a scriverla in quel modo terrificante. Mentre analizzava il reperto, si accorse che c’era un foglio staccato, inserito dentro a un punto impreciso della narrazione. Lo estrasse con delicatezza, dopo aver girato le pagine. Era un ritratto. Lo sollevò con le pinze, per poterlo osservare meglio alla luce. Una donna, abbozzata, ma con alcune finiture decise. Gli occhi, per esempio, erano disegnati con una precisione quasi maniacale, come le labbra perfette e delicate. I capelli, invece, si poteva solo supporre che fossero lunghi e ondulati. La posizione ricordava vagamente quella delle dame di Leonardo, ma di sicuro quella era un’opera di un artista il cui nome era andato perduto nel tempo. Dai particolari del vestito e dell’acconciatura, sembrava una nobildonna. Si chiese se si trattasse della donna amata da Caio.


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Dietro di lei c’era un paesaggio appena schizzato, mentre sotto, tra le pieghe del vestito, erano stati inseriti malamente alcuni simboli che ricordavano le araldiche nobili del quattrocento. Posò un segnalibro di carta nel punto in cui aveva trovato il disegno, poi lo mise dentro a una velina e lo appoggiò accanto alla copia delle lettere. Più tardi l’avrebbe scansionato. Ma ora… era troppa la smania di leggere, di conoscere. Raccolse i lunghi capelli rossi, preparò una pagina del foglio di word e, con libro a fianco, iniziò la trascrizione. Come suo solito, essendo paleoscrittura, un frammisto di latino e volgare, scrisse in terza persona, un lavoro assurdo perché prima doveva tradurre in prima poi tramutarlo, ma a lei sembrava giusto così. Era Caio il narratore, non lei. Lei doveva capire, spiegare, lasciare una traduzione a chi sarebbe venuto dopo di lei, dopo di loro. Se tutto fosse andato bene, avrebbe saputo quello che c’era da sapere sull’uomo che aveva cambiato la sua esistenza. «A noi due, Cai» disse. La prima pagina era datata novembre 1425.


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I

NOVEMBRE, 1425 Il castello torreggiava all’orizzonte, emergendo dalla nebbia mattutina come sospeso su di essa. La brina che i cavalli calpestavano era il segno dell’arrivo imminente dell’inverno, e dalla fredda collina che dominava il paesaggio, Caio ammirò il panorama che aveva davanti. Non solo il castello, ma tutta la valle, appariva come dentro a un sogno: eterea e ovattata, brillante tra i colori dell’alba. «Credo che dovremmo proseguire, mio signore» disse il giovane Jacopo, agitandosi sulla sella e stringendosi nel mantello. «Per quale motivo, mio giovane scudiero?» domandò Caio scoccandogli un sorriso storto, «sono ore che cavalchiamo, possiamo anche concederci una pausa prima di addentrarci nel fitto della nebbia». In effetti quella prospettiva non era delle più attraenti. Si trovavano sulla sommità del monticello, ma se volevano raggiungere la roccaforte era necessario seguire il sentiero che scendeva in quella coltre argentea così simile ai veli che adornavano gli abiti delle signore a Ferrara. Lo scudiero era a disagio, si guardava intorno confuso. «Mio signore… gli spettri…» mormorò.


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«Abbiamo gli amuleti». «I defunti…». «I defunti sono nelle tombe». «Il gigante…». «Il gigante non deciderà di risollevarsi oggi». Caio spronò docilmente il cavallo tenendo l’occhio l’alta montagna che, man mano che scendevano lungo al pendio, andava scomparendo tra la foschia. «Com’era la storia del gigante?» domandò dopo un po’. Si guardava attorno con circospezione, anche se quelle pareti grigie non lasciavano intravedere null’altro che non si trattasse di faggi secolari. Non un rumore. Nemmeno il fruscio di un torrente. Niente. Poteva trattarsi di qualche maleficio, ma la sua mente razionale, da soldato, si rifiutava di crederlo. Aveva visto troppe sanguinose realtà per pensare che la magia fosse onnipotente. «Il gigante abbandonò il gregge per cercare la pecora smarrita e, non trovandola, si distese, addolorato, sulla cima delle colline. Dalla lacrima che versò scese il fiume Secchiello. Col trascorrere dei secoli gli nacquero addosso prati e campi, divenendo una catena montuosa. Il profilo del monte che si staglia dietro a questo castello è proprio quello del gigante! E se si risvegliasse?» chiese Jacopo con voce tesa. «Se si sveglierà gli chiederemo se ha dormito bene». Caio non vide l’espressione dello scudiero, che procedeva dietro di lui. Tuttavia, il giovane non sbagliava a non sentirsi tranquillo. Quella nebbia avrebbe impensierito chiunque.


22 Era come se… fossero osservati. Sì, quella era la sensazione corretta. E Caio, ormai, oltre ai suoi sensi, poteva contare solo sulla daga che teneva legata in vita e sulla poca esperienza da spadaccino che Jacopo possedeva. «Non doveva essere una strada trafficata, questa?» domandò il ragazzo dopo un po’. Che insolente. Aveva sempre da ridire su tutto. Però Caio amava questa sua predisposizione, perché a volte riusciva a individuare qualcosa che a lui sfuggiva. Lui era troppo razionale. Troppo attento ai rumori, alle ombre. Come se fosse perennemente in attesa di un nemico invisibile. Invece Jacopo, che mostrava i tratti caratteristici di quella fanciullezza che si avvia dolcemente alla maturità, era uno strano miscuglio di irruenza e riflessione. «La strada di cui parli è quella che circonda il castello, dovevamo giungere da sud» spiegò. «Eh sì. È ovvio. Ci sono due strade: una agevole e piena di gente simpatica, e una che si addentra in un bosco spettrale con una nebbia talmente fitta da non permettermi nemmeno di vedere la punta del mio naso, e lui quale sceglie? La seconda, è naturale!» sbuffò il giovane. Caio sorrideva, ma il ragazzo non poteva vederlo. «La strada agevole è troppo lunga, noi non abbiamo alcunché da commerciare, e non è detto che sia piena di gente simpatica». «Più simpatica di te di sicuro» brontolò Jacopo. «Sei il peggior scudiero che mi sia capitato» disse Caio, girandosi per osservarlo. Il ragazzo era imbacuccato fino alla punta dei


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capelli e dal pesante mantello non uscivano nemmeno gli occhi. Per forza non riusciva a vedere la punta del proprio naso! «Non hai mai avuto altri scudieri, non puoi fare paragoni». «Smettila o ti rimando da tua madre». Ecco, quella minaccia funzionava sempre. Per un po’ il ragazzo quietò sia il proprio animo insofferente che le orecchie di Caio. Quando finalmente uscirono dalla densa foschia, il sentiero roccioso che s’inerpicava in salita fu un toccasana per entrambi. Lo presero senza esitazione, spronando le cavalcature verso i cancelli chiusi, dove due guardie si misero sull’attenti e, vedendo i forestieri arrivare, intimarono l’altolà. Arrestando i cavalli davanti alle porte, Caio accompagnò la propria presentazione a una missiva nella quale torreggiava il doppio sigillo Vescovile e Papale. «Sono Caio Valerio Secchi, inviato dal Vescovo di Reggio di Lombardia». Il soldato, intimorito forse dall’epistola che veniva presentata in maniera così solenne, fece segno di spalancare velocemente il portone. «Sei il benvenuto, mio signore» disse in tono formale, riconsegnando la lettera. Le pesanti porte si aprirono con un tonfo sordo e, spronando lo stallone verso il pianoro, Caio fu investito dalla vita del borgo, costellata di grida, uomini all’opera e donne intente ai lavori quotidiani. A differenza delle corti di Ferrara, di Reggio di Lombardia o dei piccoli borghi che avevano attraversato, il castello era arroccato su uno sperone di roccia e la vita del paese


24 si svolgeva ai suoi piedi, entro le ampie mura. Non vi erano strade se non vie segnate da molti passi e da scalini scavati nella roccia, e le fabbriche che erano state erette a ridosso della fortificazione non riuscivano ad apparire gradevoli alla vista. Ma, nonostante questo, Caio capì subito che quella costruzione non era nata per essere esteticamente piacevole, ma per essere un potente strumento militare. Melocis era un piccolo feudo nel cuore dell’Appennino emiliano, e il suo castello non sarebbe stato così apprezzabile se non fosse sorto su un’importante via di comunicazione che portava direttamente al Volto Santo. Se da lì non fossero transitati quasi continuamente animali, merci, commerci, quel piccolo paese sarebbe quasi sicuramente morto. Ma il castello, impervio sulla sua rupe sassosa, era come un titano che abbracciava, e proteggeva, le abitazioni sottostanti. «Hai visto che posto? Mio signore è… impenetrabile!» disse Jacopo osservando le mura della sommità, dove sorgevano imponenti piani nobiliari. Caio aveva abbandonato il cavallo e seguiva il percorso della muratura che svettava sopra di lui. Si stava sfilando i guanti, e nel farlo, non riusciva a smettere di guardare l’imponente torre centrale che si innalzava a sud della costruzione. Per forza quel castello non era mai stato assediato! Chiunque avesse tentato sarebbe sicuramente perito nell’impresa. Ma, se mancavano gli assedi, non erano mancati i suicidi. Per questo era stato inviato.


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Jacopo disse: «Vado trovare un alloggio per i cavalli. Dopo posso…». Caio gli rivolse un gesto secco, alzando il guanto per zittirlo. «Io andrò dal podestà. Dopo che avrai sistemato i cavalli, va' a mangiare qualcosa e presentati nella mia stanza tra un paio d’ore». Lo scudiero non se lo fece ripetere. Ogni volta che poteva scappare via lo faceva sempre senza porre nessuna obiezione. Chissà come mai. Addentrandosi lungo il camminamento, Caio arrivò alla seconda porta principale, dalla quale partivano diversi scalini di arenaria. Quando i soldati davanti al cancello lo invitarono a fermarsi, bastò compiere lo stesso rituale effettuato in precedenza per riprendere il cammino. Fu uno di loro a scortarlo fino all’abitazione del podestà. Il pianoro sommitale sembrava il prodotto di molti assemblaggi avvenuti nel tempo. All’interno di una costruzione rettangolare, con stanze su vari piani e bifore che guardavano verso la Pietra di Bismantova, era stata ricavata una galleria che conduceva fino a un piccolo cortile dove l’allegro cicaleccio di donne all’opera si interruppe al suo passaggio per riprendere subito dopo. Lasciandosi alle spalle le occhiate curiose, attraversò uno stretto corridoio che si affacciava su una serie di ambienti pericolanti. Quella rocca, come molte altre che aveva incontrato nel suo viaggio, aveva bisogno di ricostruzioni impellenti e probabilmente da Ferrara sarebbe arrivato ben poco aiuto.


26 Tuttavia, non era per quello che era stato inviato. Si augurò solo che quel castello non decidesse di franare proprio oggi. La guardia l’abbandonò davanti a un piccolo edificio quadrato che confluiva direttamente dentro al torrione principale, mentre dall’altra parte della fabbrica c’erano un piccolo granaio, un pollaio, l’ennesima struttura che sembrava sul punto di cedere. Bussò e, ottenuto il permesso di entrare, aprì la porta. Battista Pezzosi era il podestà di Melocis, inviato su nomina del marchese, ed era un uomo attorno alla quarantina, i cui occhi grigi si sposavano con lo stesso colore di barba e capelli. Aveva un viso austero, ma l’espressione vigile svanì come neve al sole non appena incontrò lo sguardo di Caio. Abbandonò le carte che stava osservando e, con ampie falcate, aprì le braccia e accolse l’amico nella sua stretta. «Caio! Che insperata sorpresa!». Staccandosi, Caio gli rivolse un sorriso leggero. «Anche per me, amico mio. Quanto tempo!». Il primo pensiero di Caio fu che Battista non era lo stesso uomo di cui serbava il ricordo. Notò le piccole rughe d’espressione sul volto, la barba che poteva essere un vezzo come pure il tentativo di nascondere una ferita o un difetto, e soprattutto i capelli grigi che contornavano l’ovale del viso come avvolgendolo dentro una nuvola. Ma, al di là dell’aspetto fisico, c’era un cambiamento più profondo, un cambiamento nell’anima, che era avvenuto col passaggio dal ruolo di servo a quello di padrone. E quella trasformazione si rifletteva nei modi garbati di esprimersi, nei movimenti del corpo, nel modo in cui ora lo stava guardando.


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Come lui, anche Battista portava addosso l’invisibile marchio dei fasti e delle ferite. Il podestà si avvicinò a un tavolino, riempì una coppa di vino e gliela porse. «Ti credevo nell’esercito». «Mi hanno congedato a causa di una brutta ferita alla mano destra. Non posso più usare né arco, né spada». Bevve. Il vino era buono e finalmente si dissetava. Inoltre, il parlare di quella lesione suonava meglio se accompagnato da qualcosa di piacevole. «E sei a servizio del Vescovo ora?». «Così pare». Gli porse la missiva sigillata e Battista spezzò la ceralacca, lesse lo scritto ma tenne per sé il contenuto. «Attendevo un uomo del Vescovo in effetti, ma mai avrei pensato a te» disse, sedendosi, e facendo cenno a Caio di fare lo stesso. Separati solo dal tavolo di noce, Battista lo fissò per un lungo istante prima di parlare. «Un uomo dello stato a servizio della chiesa. È curioso». «Non così tanto. Il marchese non sa cosa farsene di un soldato storpio. Ha preferito regalarmi al Vescovo di Regium Lepidi». «E hai abbandonato Ferrara per Reggio di Lombardia?». «Non fai lo stesso anche tu, quando migri da un castello all’altro?». Il podestà gli regalò un mezzo sorriso; alzò la coppa e bevve senza staccargli gli occhi di dosso. «Sei invecchiato. I tuoi capelli biondi…» disse, quando si staccò dal bicchiere.


28 «Non sono bianchi quanto i tuoi». «E quella cicatrice che ti adorna la fronte?». «Il ricordo di una dama con le unghie troppo affilate». Il podestà si mise a ridere ma non chiese altro. «Sono contento che sia stato inviato tu. Questa storia…» si guardò attorno, come se temesse che qualcuno li udisse. Nella grande stanza quadrata l’unica cosa vivente a parte loro era il fuoco che scalpitava nel camino. «Questa storia deve essere tenuta segreta il più possibile. Se trapelasse, la gente griderebbe al maleficio e a Melocis regnerebbe il caos». Assaporando il vino dalla coppa, Caio mantenne lo sguardo vigile su quello del podestà. Gli anni non solo l’avevano invecchiato ma gli avevano regalato uno stato di inquietudine costante, impossibile ormai da rimuovere. «Il cadavere?». «Nei sotterranei». «Da quanto tempo?». «Un mese». Un mese! Caio rimase impassibile ma la speranza di identificare la salma vacillò come la fiamma di una candela nella tempesta. «Quella sciagurata creatura è rimasta senza sepoltura cristiana per un mese?» riuscì a dire. Evitò di pensare all’odore, ai batteri, all’impossibilità di comprendere come potesse essere stata uccisa. Dopo un mese, chissà cos’era rimasto di lei. «La gente dice di udire schiamazzi nella notte. Senz’altro il fantasma della fanciulla» spiegò Battista mettendosi comodo sulla seggiola.


29

«Indubbiamente» disse Caio senza convinzione. Poi si alzò. «Vediamola subito. Poi darai sepoltura a quella ragazza così forse la smetterà di tormentarvi la notte». «È una suicida, Cai» disse Battista alzandosi a sua volta, «non è possibile tumularla nel cimitero. Inoltre…», ancora una volta si guardò attorno, come per sincerarsi che nessuno li ascoltasse, «si mormora che sia una strega. C’è chi l’ha vista parlare con i demoni». Che cosa curiosa. Una morta suicida che parlava coi demoni. Una volta, durante una delle battaglie del marchese, l’esercito nemico si era portato dietro uno sciamano pescato chissà dove, e molti dei soldati ne furono intimoriti. Poi, qualcuno aveva scagliato una freccia nel cuore di quel poveretto, che cadde morto assieme ai suoi malefici. «È cosa buona che ci sia la nebbia, cerchiamo di dare poco nell’occhio» disse il podestà, guardingo come sempre. Si avviarono verso il luogo in cui giaceva il corpo. Mentre attraversavano il castello, Battista lo informò delle precarie condizioni in cui versava la roccaforte, di come ci fosse bisogno di restauri, e del suo continuo richiedere concessioni finanziarie al marchese, che regolarmente gli mandava lettere di scusa poiché non era in grado di elargire alcunché. Caio l’ascoltava, ma i pensieri erano lontani. In che condizioni avrebbe trovato la salma? Cosa l’aspettava? Sarebbe stato in grado di assolvere la sua missione? Al Vescovo bastava una sola risposta composta da due lettere: sì o no. Un compito apparentemente facile.


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Indice

PROLOGO.................................................................................... 5 I ................................................................................................... 20 II .................................................................................................. 34 III ................................................................................................ 42 IV ................................................................................................ 52 V.................................................................................................. 61 VI ................................................................................................ 72 VII ............................................................................................... 82 VIII.............................................................................................. 93 IX .............................................................................................. 101 X................................................................................................ 105 XI .............................................................................................. 112 EPILOGO ................................................................................. 121


Fonti storiche ............................................................................ 133 Ringraziamenti ………………………………………………..143


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Seconda edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2019) www.0111edizioni.com

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