Più unico che raro

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LUCA ALFANO ALESSANDRO PIERRO

PIÙ UNICO CHE RARO

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PIÙ UNICO CHE RARO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-682-0 Copertina: Immagine fornita dall’Autore

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Prima edizione Febbraio 2014 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Mio figlio ha scritto un libro di 150 pagine. A me che sono la mamma, forse, non ne sarebbero bastate 1.500, perché la mamma oltre a conservare e meditare le parole del figlio, sa leggerne anche i silenzi. Ed è per questo motivo che si dice “il figlio muto lo capisce la mamma”. Tutto quello che mio figlio ha scritto in questo libro è tutto vero e vissuto in prima persona, con rinunce, lacrime e dolore! La malattia di Luca ha avuto inizio all’età di undici anni, il 18 maggio 2013 ne ha compiuti trentasei. In questi venticinque anni, Luca è stato ospite di diversi ospedali, da Pavia a Bologna, da Genova a Parigi, da Milano a Brescia… Ha dovuto rinunciare a tutto, al calcio che era la sua passione, a una compagna con cui avrebbe condiviso gioie e pene e a tante altre cose che offre la vita. Ultimamente si è dovuto anche distaccare da una casetta comprata con sacrifici e arredata con cuore. In poche parole il destino con lui è stato crudele e lui è stato un martire. Io, il padre e il fratello, gli siamo stati sempre vicino con tutte le nostre forze per tirarlo su di morale, ma purtroppo le malattie fisiche diventano anche malattie psicologiche. Arriva il momento in cui ti fanno cedere anche avendo un supporto più forte per essere sostenuti. L’unica via d’uscita è accettare,


accettare, accettare! La soluzione è dentro di noi, spesso la si trova con molta fatica, ma quando la si trova si è finalmente più sereni. Si dice che non tutti i mali vengono per nuocere, ed è vero. La malattia di Luca mi ha cambiato la vita. Mi ha fatto crescere moralmente e mettere in opera tutte le mie forze fisiche e psichiche. Mi fa essere comprensiva con tutti, soprattutto con i più deboli e indifesi. Per questo ringrazio la divina provvidenza, alla quale mi sono sempre rivolta e fidata e dalla quale sono stata sempre aiutata. Attualmente sto vivendo una sfiducia totale nella medicina, negli ospedali e negli stessi dottori. Questo però è un mio stato attuale, anche se non perdo la speranza e la fede in esse. Tutta questa situazione mi ha fatto diventare disinteressata e apatica perché non esiste nessuna cosa al mondo più cara di un figlio. Ma come mi ha insegnato Luca, non perdo mai il sorriso. Maria Cascone


Alla mia famiglia che mi è sempre accanto



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SUPERTELE

Il signore con gli occhi chiari e un accenno di stempiatura che tiene in braccio il neonato si chiama Catello, ma tutti lo chiamano Lello. Ha trentadue anni ed è vestito a “festa” con un bel paio di pantaloni grigi e una camicia a righe dal colletto alto. Osserva il piccolo con entusiasmo e un leggero nodo alla gola. Un decennio prima, Lello si era trasferito da un paese del napoletano famoso per la pasta, Gragnano, ed era capitato in una ricca città del nord conosciuta per le scarpe e i laghi. Si era spostato a malincuore per seguire il padre e le coincidenze che lo avevano guidato fin lassù. È il 18 maggio del 1977, Maradona sta per esordire nella nazionale argentina, Juventus e Torino lottano testa a testa per lo scudetto e Battisti appare ancora in televisione. Lello è il primo dei dieci figli di mio nonno Gennaro e, come da tradizione, il bambino che tiene in braccio dovrebbe ereditare il nome di suo nonno. Fortunatamente Maria, mia mamma, in un attimo di lucidità ha optato per Luca. Anche mammà è originaria di Gragnano e anche lei fa parte di una famiglia numerosa, chiamata da tutti i “catarell” per via dell'attività di mio nonno Luigi, venditore di catini. Lei ha un lavoro come maestra di scuola materna ed è felice ora che il bambino che ha da accudire è il suo. Pesavo quattro chili e trecento grammi, ero sano e, a sentire tutti, ero anche bello, come confermarono i miei nonni che, con sette figli da una parte e dieci dall’altra, di bambini se n'intendevano. Per il lieto evento era venuta da Gragnano anche mia nonna materna. Poverina, a settant'anni si era fatta una notte di treno, un


8 espresso di quelli che fermato in tutte le stazioni. Ma per assistere a “O’ MIRACOL” ne valeva la pena. I primi tempi abitavamo in un appartamento in affitto in un quartiere della città giardino, come viene soprannominata Varese. Oltre ai boschi e ai giardini, Varese ha intorno una cintura di fabbriche. È una piccola Milano e in sé è un vero e proprio miracolo economico. Vicino alla Svizzera e non lontano dal capoluogo lombardo, le sue fabbriche girano a pieno regime. La florida economia permette a tante famiglie come la mia di nascere e vivere serenamente. Si stava bene in quei tempi in una città come Varese e i miei primi mesi di vita scorsero felicemente accanto a mia madre. I miei nonni paterni vivevano non lontano da noi e la domenica era il giorno canonico delle loro visite. Durante una di queste domeniche, in uno dei miei primi anni di vita, ricevetti un regalo che avrei amato per sempre: il pallone. Il Supertele, ve lo ricordate? Che aggeggio fantastico e incontrollabile allo stesso tempo, lo tiravi a destra e questo andava a sinistra e viceversa. Un Supertele blu e nero, che dal primo momento divenne il mio migliore amico, da cui non mi volevo più separare, eccetto quando lo lanciavo per andare a recuperarlo. E sì, IL CALCIO si stava già impossessando di me, non sapevo ancora parlare ma sapevo già calciare! E lo facevo tutto il giorno. I miei primi passi furono con lui, il mitico Supertele, bello gonfio come lo ero io per via della mia faccia che ispira simpatia a tutti quelli che incontro. Si dice che alcuni siano predestinati, io personalmente non credo a questa cavolata, ma contemplando la sfera blu e nera, vedevo il mio futuro come in una striscia di fumetti. La mia babysitter era una ragazza. Insomma, una ragazza, pareva più un maschio. Sembrava uscita per errore da una delle storie che mia madre mi raccontava la sera e che fosse rimasta in giro


9 per casa. Quando i miei genitori erano a lavoro, mi toccava sbolognarmela tutto il giorno. Facevo io da baby-sitter a quella lì, che tra l'altro non sapeva manco cucinare. Mi piazzava tre ore sul seggiolone della cucina e io la osservavo adoperarsi dietro ai fornelli con il risultato di un intruglio difficile da mandar giù, pur sotto l'effetto delle sue stregonerie. Mi stava proprio antipatica! Meno male che la sera arrivava mamma con la sua cucina e io mi rifacevo la bocca, tranne quando scendeva a trovarmi Mauro, che aveva il vizio di fregarmi la carne dal piatto. Ad ogni modo lo perdonavo, perché era il mio migliore amico ed era simpatico, a differenza della strega che mi curava di giorno. Se Mauro fosse venuto a rubarmi il pranzo invece che la cena, ne sarei estremamente felice. Per fortuna dopo qualche tempo i miei decisero che era ora per me di fare l'ingresso nella scuola materna. Il nuovo ambiente non era male, dopotutto preferivo stare in compagnia, e, in più, lì c’erano palloni a volontà. Inoltre ero un privilegiato, perché mia madre lavorava come maestra nella stessa scuola e io avevo l'opportunità di incontrarla tra un'attività e l'altra. Mi piaceva molto questa possibilità di finire fra le sue braccia durante la giornata, anche se non ero un mammone e passavo la maggior parte del tempo con i compagni. Come ogni bambino, forse come dovrebbe essere per ogni bambino, questi furono gli anni della spensieratezza, qualsiasi cosa facevo era divertente, ogni giorno era nuovo ed era diverso. Anzi quasi tutti bellissimi, a parte quel giorno quando litigai col mio amico Davide. Litigammo per un pezzo di pane, lui me lo strappò dalle mani, io gli diedi una spinta e lui rispose con un pugno in faccia, e lì sangue dal naso. Ecco in quel momento divenni mammone e corsi da mammà che ovviamente si incazzò con Davide.


10 Il 1982 iniziò con un cambiamento. Papà e mamma decisero di trasferirci in un nuovo quartiere della città. «Vedrai come ti piacerà», mi diceva papà mentre impacchettava le nostre cose come se dovesse fare tanti regali per Natale. «È un bel posto con tanti prati non lontano da qui». A me non andava di lasciare i miei amichetti, tra cui Mauro, però mio padre mi ripeteva che dove ci saremmo trasferendo era pieno di nuove famiglie e di tantissimi bambini che sarebbero stati i miei nuovi amici e Mauro sarebbe venuto a trovarmi ogni volta che lo avresse voluto. Mia madre era in attesa di mio fratello Simone e io ero felicissimo, finalmente ci sarebbe stato qualcuno con cui giocare tutto il giorno. Il posto dove ci trasferimmo aveva un nome buffo, Bustecche, ed era pieno di gente calorosa che ti abbracciava al posto di stringerti la mano e che strillava al posto di parlare. Ci misi poco a capire che questo era il quartiere fatto su misura per me. Gente stupenda, piena di vita, socievole e altruista, tipico dei meridionali. La mia sveglia al mattino non erano le campane come in un silenzioso paesino di campagna, bensì gli altoparlanti del camion della frutta, sembrava di essere nel pieno centro di Napoli. «Signò scennit c'abbiamo le patate, le patate dell’amore» e dalla finestra si sentiva qualche donna urlare «guagliò quann e vennit e patan». Fantastico. Che poi, cosa saranno 'ste patate dell’amore… bah! Ero nel mio habitat. Strapieno di bambini, tutti coetanei, tutti in giro per i prati e sempre con un pallone fra i piedi pronti per una sfida in qualsiasi zona del quartiere. Nei parchetti, sotto i portici dei palazzi, nei garage, qualsiasi angolo era adatto per una partita di pallone. Noi abitavamo al secondo piano di un palazzo giallo e davanti alla mia finestra c'era una betulla, un pino e altri alberi, già


11 designati pali di un ipotetico campo da calcio. Poco ipotetico quando fossero comparsi miei nuovi amici… Non vedevo l'ora! Il signor Esposito era uno dei primi a tornare da lavoro. Nella strada dei garage dove la gente riponeva le auto, pareva di assistere a una processione. Rincasavano, ognuno su una macchina, con la schiena sudata e i finestrini abbassati in estate, o con la giacca a vento e le luci accese in inverno. Stop davanti a una delle innumerevoli porte di colore verde, apertura, parcheggio dell'automobile, chiusura del garage e breve tragitto verso il proprio palazzo. La vita degli inquilini delle quattro torri era all'incirca così, per come la vedevo io. Noi eravamo i bambini che si occupavano di distruggere i prati che gli adulti tagliavano puntualmente ogni prima domenica del mese. In prossimità delle porte ricavate da due alberi vicini, avevamo creato degli spiazzi a furia di calpestare il terreno, sfoltito i cespugli a suon di pallonate e strappato i rami che creavano intralcio allo svolgimento del gioco. A molti inquilini non importava che giocassimo a calcio nei giardini, purché non rompessimo i vetri degli appartamenti dei primi piani, ma ad alcuni non andava proprio giù. C'era qualcuno che s'impalava di fronte a noi e ci fissava con sguardo severo in completo silenzio, con il proposito di intimorirci. Altri ancora urlavano dalla finestra minacciando di chiamare i nostri genitori, altri invece adottavano un approccio più aggressivo come il sequestro del pallone. Il signor Esposito apparteneva a quest'ultima categoria e, dopo un breve appostamento dietro una delle porte, riusciva sempre nel suo intento di rubarci la palla. Funzionava così. Nella fascia oraria del tardo pomeriggio bisognava mettere in conto il sequestro della sfera, o addirittura il taglio della stessa, mentre nella fascia immediatamente successiva al pranzo si poteva stare tranquilli perché tutti i ROMPIPALLE, nel vero senso della parola, erano a lavoro.


12 Tuttavia noi bambini eravamo preparati e adottavamo i nostri metodi di sopravvivenza. Utilizzavamo il pallone più scadente che avevamo quando arrivava la fascia oraria critica o eravamo lesti nel riagguantare il pallone con un'azione diversiva nei confronti del sequestratore. Eravamo in tanti, un piccolo esercito di cui io mi sentivo uno dei generali, dato che passavo tutti i miei interi pomeriggi a giocare e a organizzare tornei. Dicevano che ero forte col pallone! Ero quello a essere scelto sempre per primo quando venivano fatte le squadre. Tutto mi veniva naturale e io mi sentivo il numero dieci, il fantasista. Il mio impegno era sempre al massimo per dimostrare a tutti che ero il più forte. Dai fatemela tirare un po’… In questo, mio fratello Simone mi era di grande aiuto, mi supportava e sopportava negli allenamenti domestici quando fuori pioveva e non si poteva giocare. Lo posizionavo tra i divani e tiravo le punizioni con una pallina da tennis. Dovevo dividere con lui stanza e giochi ma perlomeno mi faceva da portiere! L'estate alle Bustecche era fantastica. Niente scuola e così tutto il giorno era dedicato al calcio. Il pranzo e cena erano gli unici momenti di pausa durante la giornata che iniziava alle nove del mattino e terminava col buio, quando le nostre madri ci richiamavano dalle finestre. Dopo poco tempo avevo già diversi amici. Paolo, un bambino che abitava alla prima torre e aveva la mia stessa età. C'era Luigi, che noi più avanti avremmo chiamato “tiro geometrico”, per via della sua tecnica nel calciare la palla che neanche i migliori scienziati avrebbero compreso. Cristian detto “Valderrama”, per la sua folta capigliatura, dal giocatore della nazionale colombiana, e Stefano, il portiere ufficiale delle torri. Poi altri ancora come il grande Renzo in grado di squarciare un pallone con un solo calcio o Gianluca, mio vicino di casa, che agli inizi fu il mio “allenatore” personale. I ragazzi più grandi ci


13 seguivano e, per un sentimento di appartenenza ai palazzi in cui abitavamo, ci facevano da allenatori e supporter. Davanti ai nostri palazzi c'era un gruppo di case rosse: le case popolari. A quei tempi i nostri genitori ci vietavano di andare dall'altra parte della strada, dato che le popolari si erano create una brutta nomea. C'erano state risse, un paio di macchine bruciate, e inoltre vi abitavano alcuni drogati del quartiere. La rivalità con i nostri coetanei delle popolari era elevata e spesso ci scontravamo in partite che disputavamo nel campo di sabbia ubicato vicino all'oratorio. Io di loro non avevo paura e venivo rispettato. In una mitica partita fui autore di un doppietta che ci regalò una memorabile vittoria, perché vincere contro le popolari voleva dire essere uomini, dato che loro non te le mandavano mica a dire. Quelle partite erano delle vere proprie battaglie fra due squadre contrapposte dello stesso quartiere. Vincerle significava acquistare onore e rispetto. Era un'aspra e, ai nostri occhi, interminabile guerra a suon di partite in stile “Holly e Benji”, il popolare cartone animato dell'epoca. Noi c'immedesimavamo nella New Team, ovvero nei buoni, e loro, invece, li avevamo trasformati nei Meiwa, cioè i cattivi. Sembrava di stare in una favela di Rio, perché il contesto era un po’ degradato. Sulla cartina in Questura sicuramente le Bustecche erano cerchiate di rosso, era il boom dell'eroina e trovavamo siringhe ovunque, le auto venivano scassinate e col buio era meglio starsene a casa. Noi eravamo bambini che non si ponevamo molti problemi e col tempo sviluppammo un certo spirito d'orgoglio nel pronunciare la frase “vengo dalle Bustecche”. Voleva dire essere coriacei come il nostro quartiere che, da cucciolo mansueto, si era trasformato in un mastino pronto a mordere anche i suoi stessi simili. Tra un inverno rigido e un'estate afosa, la mia vita scorreva tranquilla e serena. Settembre pareva arrivare ogni anno a tradimento e


14 coincideva con la fine dei giochi che ci impegnavano tutto il giorno. A me non piaceva andare a scuola e stare seduto tutto quel tempo su quella sedia di legno, che era anche scomoda. Non amavo neanche vedere i miei amici con quegli orrendi grembiuli neri, al posto di tute sporche di verde. La scuola Pogliaghi delle Bustecche era bianca e squadrata, un edificio di due piani dalle esili finestre da invitare a provarci anche al più scarso degli scassinatori e, in effetti, veniva perennemente saccheggiata al punto che la si sarebbe potuto lasciare aperta. La mattina era facile trovarla sottosopra e, se ciò non avveniva, c'era una discreta possibilità che il mitomane di turno telefonasse annunciando lo scoppio di una fantomatica bomba. In quel caso le bidelle correvano alle aule in lacrime urlando ai maestri di evacuare. Sulle Bustecche aleggiava un'aria strana, forse mefitica, ma io le amavo sempre di più. Ci abitavano un sacco di personaggi da film. A scuola conobbi Salvatore, un bambino dalla stazza di un uomo, con mani da marinaio e uno sguardo da gigante buono, che tutte le mattine arrivava con la sua “merendina” preparata da mammà; un bel panino che ci potevamo mangiare in cinque!


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NON SI PREOCCUPI SIGNO'

Nell'estate del 1984 avevo sette anni. La mia vita era felice, spensierata, nella norma per un bambino. Il Supertele era più che mai il mio migliore amico, ma mi piaceva anche molto pedalare in bicicletta. Forse fu questo l'inizio di tutto. Un giorno con la bici sbagliai una curva e strusciai il gomito su di un muro per poi cadere a terra. La vista del sangue mi spaventò e corsi a casa piangendo. Mi trovavo a casa di alcuni parenti e per fortuna mio zio Antonio, infermiere, aveva l'occorrente per disinfettare e bendare la ferita che si presentava piuttosto profonda. Avevo una paura matta dei punti, quando succedeva che qualcuno dei miei amici finisse al pronto soccorso e tornasse in seguito con dei punti al braccio o a una gamba, rabbrividivo io per lui. La gravità degli incidenti di gioco si misurava con i punti di sutura. Io proprio non sopportavo quella vista e fui contento che, in quell'occasione, mio zio fosse in grado di medicarmi evitandomi una corsa al pronto soccorso, dove già sapevo che mi attendevano con ago e filo. Nei giorni successivi partimmo per Gragnano, dove i parenti ci aspettavano con l'ansia con cui si aspetterebbe i propri cari provenienti dall'America. In effetti ,con la guida di mio padre, era un po' come viaggiare da un continente all'altro. Si partiva, la cosiddetta partenza intelligente, alle 3 del mattino e si prevedeva di arrivare dopo 12/14 ore. Un’odissea fare quel viaggio, ci volevano tre giorni solo per smaltirlo… La macchina era la mitica Talbot Horizon 4 marce con portapacchi di


16 serie; quando ci vedevano arrivare esclamavano: «guagliò hann arrivat e pulenton». Durante il viaggio di quell'anno dimostrai ai miei genitori quanto fossi bravo a cavarmela nelle difficoltà. In una delle soste mio padre chiuse per errore tutte le portiere della vettura dimenticando le chiavi inserite nel quadro. «Oddio cos'ho combinato», esclamò mio padre che si rese subito conto della cazzata. «Che è succies??» replicò mia madre che durante il viaggio iniziava la full immersion di dialetto. «Ho chiuso la macchina con le chiavi dentro e mo’ COME FACCIAMO??». I miei genitori si disperarono e l'unica soluzione pareva essere la rottura di un vetro. Mentre loro discutevano, io rimediai un fil di ferro, lo raddrizzai, feci un uncino all'estremità, e, calatolo nella fessura tra la portiera e il finestrino rimasto leggermente abbassato, riuscii a far scattare la sicura della portiera, STAC! «Sei un grande!» mi urlò mio padre. «Si vede che sei mio figlio…». Ero entusiasta, in pochi minuti eravamo riusciti a ripartire, avevo risolto un grosso problema e di questo ne ero fiero e orgoglioso. Ovviamente al paese fu la prima cosa che i miei raccontarono ai parenti, «i figl so piezz e core». Trepidavo nell'attesa di godermi il mare e i pranzi preparati dai parenti. Cosa che feci per qualche giorno, finché improvvisamente una notte non iniziai a vomitare e mi sopraggiunse la febbre. Inizialmente i miei genitori pensarono a un’insolazione, ma dopo qualche ora la temperatura toccò i quaranta. I miei chiamarono la guardia medica che consigliò di recarci al pronto soccorso. Andammo a Castellamare e dovetti aspettare il mattino seguente prima di effettuare le analisi.


17 Nel frattempo il mio gomito - quello strisciato con la biciclettaaveva assunto vari colori, giallo rosso verde. Ecco da dove arrivava la febbre ed ecco la diagnosi: infezione. E più precisamente un inizio di setticemia. «SETTICEMIAAA!» urlò spaventata mia madre. «Ma com’è possibile? Ma com’è che l’ha presa?? Non gli faccio mancare niente a mio figlio, come gli è venuta questa infezione??? E adesso che cure, cosa fate, la setticemia è mortale!». «NON SI PREOCCUPI SIGNO'» esordì tranquillo il dottore, «suo figlio è nel posto giusto e sta in buone mani». “Bò già la prima cazzata l'ha detta”, mi venne da pensare osservando il reparto dove mi trovavo; sembrava di essere in una stalla, anzi forse la stalla di mio nonno Luigi era più pulita! Puzza e sporcizia erano le caratteristiche principali del posto, senza contare qualche scarafaggio che si muoveva indisturbato. «Ma è grave la setticemia!» continuava a ripetere mia madre come a voler destare il medico dal suo torpore. «Abbiamo subito iniziato una cura antibiotica, signò, vedrà che suo figlio tornerà al più presto a nuotare nel nostro bellissimo mare». A sette anni scoprii il mondo dell'ospedale. All'apparenza un mondo monotono per un bambino della mia età. Sveglia alle sei e mezza, colazione dopo un'ora, alle otto eri già in attesa del pranzo che arrivava alle undici e trenta. Dopodiché iniziava l'interminabile pomeriggio. Andavo avanti e indietro per i corridoi con mia madre, poi con mio padre, in seguito con una zia, poi uno zio, per fortuna avevo tanti parenti. Camminando su e giù si sbirciava nelle altre stanze. C’erano molti bambini con i propri genitori, ognuno con una storia diversa. Chi aveva una flebo attaccata per colpa di un attacco d’asma, chi era caduto dalla bicicletta e aveva una gamba ingessata, chi a causa di un


18 petardo, anche in pieno agosto si scoppiavano i petardi a Napoli, aveva ustioni su di una mano. A un bambino, che avrà avuto tre anni, si gonfiarono mani e piedi senza un'apparente spiegazione dal mattino alla sera. Ognuno di essi si portava dietro il proprio fardello di sofferenza, già così piccolo. Per quanto mi riguardava, non ero messo poi così male, ero dopotutto in vacanza e i parenti, che venivano a trovarmi ogni giorno, mi coprivano di attenzioni e di regali. Dopo venti giorni di vacanza forzata ritornai a casa di zia Carmelina, dove rimasi ancora per qualche giorno prima di rientrare al nord. Il medico aveva avuto ragione, la cura antibiotica sortì l'effetto desiderato e guarii in fretta. “Il primo giorno di scuola ci chiesero delle vacanze e io parlai di Gragnano, del mare e dei pranzi coi parenti. Non accennai a nessuno del mio ricovero in ospedale. per me era stato uno smacco l'infezione al braccio. Io dovevo essere indistruttibile essendo un numero 10, non c'era alternativa. Non sarei mai più finito in ospedale, era il mio orgoglio a dirmelo. Gli esami confermarono la mia guarigione e alla setticemia non ci pensai più. Da lì in avanti mi sarei dedicato all'unica cosa a cui tenevo veramente: il calcio”.


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EL PIBE

L'anno successivo, tra i cartelli affissi fuori da scuola, scorsi la pubblicità della società calcistica di Azzate, paese vicino a Varese, che aveva indetto dei provini alla ricerca di nuovi talenti. L'Azzate era una società conosciuta tra noi ragazzini perché faceva parte della galassia Inter e giocarci era di gran prestigio. Era la mia occasione e io mi sentivo pronto, ed ero sicuro che una volta entrato in una squadra ufficiale avrei mostrato a tutti il mio talento. Per convincere i miei genitori a portarmi al provino promisi che mi sarei impegnato con tutto me stesso anche nella scuola. Il provino si svolse di sabato. Era quasi estate e la giornata è calda e soleggiata. Quando scesi dalla macchina di fronte al campo di calcio, provai un'emozione mai sentita prima. Mi pareva di essere un giocatore di serie A che stava per affrontare un'importante partita, anzi la partita della vita. La fila di macchine fuori dai cancelli era interminabile e capii che avrei dovuto lottare per conquistarmi un posto in squadra. Ma ero determinatissimo. C’era anche mia madre che scese con me dalla macchina, mentre mio padre andò a cercare posteggio con la sua “ammiraglia”. Ci incamminammo e mia madre tentò di prendermi la mano, ma io orgoglioso come sono la ritrassi, mica potevo presentarmi mano nella mano con mammà. Appena entrammo, inciampai con la scarpa nel cancello di ferro, ma meno male con un po’ di riflessi riuscii a rimanere in piedi. Arrivammo da una ragazza che mi


20 chiese il nome. Inizialmente la voce mi si bloccò in gola e fu mia madre a rispondere per me. «Ma questo bambino non parla?». «Mi chiamo Luca Alfano e sono nato il 18 maggio del 77», risposi con tutta la sicurezza che riuscii a trovare. Andai negli spogliatoi, fiducioso, aprii l’armadietto e mi accolse una scritta all’interno, a darmi il benvenuto: “Azzate fa solo cazzate”. “Iniziamo bene” pensai, “ma io cazzate non ne farò”. Mentre mi stavo cambiando, entrò nello spogliatoio un signore, alto, magro e capelli grigi, forse è il presidente.. e infatti si presentò come tale : «Ragazzi buongiorno a tutti e benvenuti all'Azzate, la nostra gloriosa società ha più di 50 anni di storia». “Quasi quasi gli faccio leggere la scritta che ho trovato nel mio armadietto… sì, così mi fa uscire a calci nel culo dal cancello. No meglio di no, facciamolo parlare”. «Non mi dilungo troppo perché so che avete voglia di giocare, solo voglio dirvi che verrete inseriti in una squadra formata da sette componenti e solo chi farà parte della squadra vincitrice della partita potrà essere selezionato». Tra gli altri aspiranti giocatori notai Alessandro, un mio compagno di scuola, che venne messo tra le file di una squadra avversaria. “Devo assolutamente vincere”, pensai, “che figura farei nel quartiere se perdessi?”. Il ragazzo bravo che tutti descrivevano, sarebbe stato uno dei tanti. E io non volevo essere uno dei tanti, io volevo diventare un campione! Uscii dallo spogliatoio più colorato che mai: calzettoni azzurri, pantaloncini bianchi e maglia rossa. Perlomeno mi riconosceranno più facilmente, mi venne da pensare. Eravamo un sacco di ragazzi, cinquanta, cento, non so, non li contai, ero concentrato esclusivamente su me stesso. Ci divisero in squadre.


21 Solo alcuni tra le squadre vincitrici sarebbero stati selezionati. L'allenatore mi chiese dove volevo giocare e io risposi che ero un attaccante e che m'ispiravo al gioco del mio idolo, Diego Armando Maradona. In tv ne osservavo ogni suo movimento e impazzivo per le sue punizioni e per i suoi giochetti con la palla. Come lui avevo l'estro, il tocco e la semplicità con cui i campioni fanno le cose più difficili. Lanci a scavalcare, dribbling, tunnel, colpi di testa, palleggi, salvataggi in extremis, stop, il mio repertorio era vasto e armonico come una sinfonia. L'allenatore mi sorrise e mi spronò: «Ok allora vai PIBE DE ORO e mostrami chi sei!». “Prendi, prendi in giro con quel sorriso sarcastico”, giurai a me stesso che avrei dato il 110% per stupirlo. La partita era di trenta minuti e dopo dieci la mia squadra era già sotto di due gol. Guardai i miei genitori al di là della rete e pensai che non potevo deluderli. Dovevo combattere. “Dai Luca”, cercai di caricarmi, “è la tua occasione, non puoi sbagliare”. Durante una nostra azione ricevetti la palla al limite dell'area, scartai un giocatore, portai la palla sul destro e tirai facendo centro alla sinistra del portiere. GOOOOOL! 2 a 1. Tutti mi abbracciarono, ma non ci fu il tempo nemmeno per esultare, perché la partita doveva già riprendere e purtroppo, nel giro di pochi minuti, subimmo il terzo gol. A pochi istanti dal termine perdevamo 5 a 1, “ormai è finita” pensavo “e dovrò tornare un altr'anno per un secondo tentativo”, quando ricevetti la palla in area, la controllai, ma subito venni pressato da due difensori e uno di loro mi atterrò. RIGORE! «Pibe tiralo tu!» mi ordinò l'allenatore. Posizionai il pallone sul dischetto come avevo visto fare tante volte in televisione, in pochi istanti pensai al Supertele, alle partite con gli amici, a Maradona. Non potevo sbagliare. Guardai


22 il portiere, non mi sembrava insuperabile, anzi. Tirai e piazzai il pallone dove volevo, ancora alla sua sinistra questa volta vicino al palo. Gol! Tuttavia inutile perché perdemmo, 5 a 2. Sconsolato tornai allo spogliatoio, l'allegria dei vincitori, tra i quali c'era Alessandro, faceva da contrappeso alla tristezza di noi sconfitti. Nessuno della mia squadra aveva voglia di ridere, eravamo tutti sconsolati. Mi tolsi la maglia e la lasciai cadere sconsolato nella borsa. «Complimenti a tutti» disse il presidente varcata la porta dello spogliatoio. «Come vi avevo anticipato prima della partita, consegnerò ai ragazzi della squadra vincente una busta con le modalità di iscrizione alla società e la data in cui vi dovrete presentare per l’inizio della nuova stagione calcistica. Agli sconfitti faccio un grosso in bocca al lupo e l’invito a partecipare ai prossimi provini». “Ai prossimi provini??” pensai, con la testa ancora chinata, “e chi ci viene più, io con l’Azzate ho chiuso! Non mi vogliono e non mi avranno neanche in futuro. Si renderanno conto di chi hanno perso!” «Allora… adesso vi chiamerò uno per uno e verrete a prendere la busta. Torre Massimo, Demetri, Filippi… Tutti i giocatori della squadra che ha vinto hanno ricevuto la busta?». «Siiii» gridarono i vincitori. «Bene, come potete notare mi è rimasta una busta in mano. È successo pochissime volte che, in via del tutto eccezionale, abbiamo selezionato anche un giocatore della squadra che ha perso». Non vedevo l'ora che finisse la farsa, per tornarmene a casa, ai miei prati, al mio Supertele, a giocare con i miei amici, loro si che ne capivano di calcio e mi consideravano un campione. Aveva ragione l’armadietto: “qua ad Azzate fanno solo cazzate!”


23 «Considerata la sua fantasia e la naturalezza con cui si è espresso e per la doppietta realizzata in campo, chiamo a fianco a me LUCA ALFANO. Luca Alfano? Ci sei?». Non potevo credere alle mie orecchie, ce l'avevo fatta. Il cuore mi batteva all'impazzata, ripresi a sudare come se stessi ancora correndo sul campetto bruciacchiato dal sole. «Allora… Luca Alfano vuol diventare un giocatore dell'Azzate o ci ha già ripensato?». Me ne stetti seduto in silenzio per un momento stordito dall'emozione, non potevo crederci. «Sì Sì», risposi riprendendomi, «mi scusi, non avevo sentito». «Congratulazioni ragazzo, hai un futuro davanti, so che non mi deluderai». Uscii dallo spogliatoio con un sorriso più scintillante che mai, corsi dai miei e in un primo momento loro mi abbracciarono come a volermi consolare. «Dai Luca, andrà meglio la prossima volta». «MI HANNO PRESOOO» gridai. Sulla strada di casa non riuscivo a smettere di sorridere, il mio cuore cantava e fischiava un motivo che mi mandava su di giri. Fissando lo scorrere veloce del marciapiede, immaginavo già il mio futuro da calciatore con la maglia azzurra del Napoli, pensavo ai miei gol davanti a un pubblico di ottantamila persone che mi acclamavano, mi sostenevano, come facevano con EL PIBE. Avrei regalato spensieratezza e felicità a tutti. Si sarebbero abbracciati per ogni mio gol. “Forse già allora, inconsciamente, iniziavo a capire che non esiste cosa più bella di rendere felice gli altri, di strappare loro un sorriso. I miei gol avrebbero avuto questo nobile fine”.


24 Prima di mettermi a letto, mia madre mi ricordò della promessa fatta, di impegnarmi maggiormente a scuola, ma io, mentre lei parlava, pensavo già all'indomani, a quando avrei raccontato a tutti del mio provino. I miei compagni e amici avevano visto giusto, ero l'Holly delle Bustecche e presto, anche loro, mi avrebbero chiamato EL PIBE. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD 'LVSRQLELOH DQFKH LQ HERRN D HXUR GD PDU]R DSULOH


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