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Andrea Bertozzi

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NEXT TIME Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-499-4 Copertina: Sturm und drang Omaggio dell’Autore a W. Kandinskij Olio su tela - cm. 200x100

Prima edizione Marzo 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova


ad Anna, grande dolce amica e compagna di una vita



Avvertenza dell’Autore

I personaggi descritti in questo racconto, cosĂŹ come i nomi e i cognomi, i caratteri, le situazioni, le ipotesi, eventuali implicazioni religiose, i luoghi, le denominazioni di aziende, di strutture istituzionali, enti e media sono puramente inventati e immaginari, frutto della fantasia dell'Autore. Pertanto le opinioni espresse dai personaggi, mai esistiti, di questa finzione letteraria sono, appunto, opinioni dei personaggi stessi e non affermazioni di carattere storico, indipendentemente dall'uso di una fonte documentaria, come in alcuni casi Wikipedia, che comunque ringrazio.



Si vis corde tenus compungi intra cubile tuum et exclude tumultus mundi. (T. à Kempis: “De imitatione Christi”, 20,5)



Le forme del tempo: κρóνος, καιρóς, αιών

Il dio del tempo, il tempo di Dio, il tempo di Satana



PARTE PRIMA:

κρóνος Il dio del tempo



13

UNO

«Sono sicuro… sì, sono sicuro… non la vediamo da tre giorni… - ripete quasi meccanicamente, come una cantilena, il giovane filippino.» Pelle scura, capelli corvini, basso e magro come un chiodo, con i regolamentari baffetti da sparviero, saltella sulle proprie gambe piagnucolando per l’eccitazione. E’ visibilmente angosciato. Invece il capopattuglia della volante, accorsa dopo la sua chiamata, è grande e grosso e gli fa segno bonariamente, con entrambe le mani a palme rivolte in giù, di stare quieto. «Bono… bono… bono…» Il poliziotto è molto calmo, quasi indolente e svogliato. «Vi dico che non la vediamo da tre giorni… Non l’ha mai fatto… senza avvertire…» «Va bene, ho capito… Non la vedi da tre giorni.» L’abitudine al “tu” è quella confidenziale propria del sud e di chi si sente autorizzato a usarlo dal fatto di svolgere una qualsiasi funzione che ritiene importante. «Adesso, però» prosegue «ricominciamo tutto da principio. Con ordine… Okkei? … Intanto, tu chi sei?» «Io sono Kidlat Palawan, portinaio di questo stabile.» «Tanto piacere. Io sono Catello Taglialatela, agente scelto di P.S.… E questo qui vicino a me, che non parla mai, è l’agente Oronzo Lopollo. » Lo dice alla napoletana, beffardo come se fosse “O’st Ronzo Lo…Pollo”, con un infinitesimale “st” nel mezzo del nome, al posto dell’apostrofo, e con una lievissima pausa tra “Lo” e “Pollo” nel cognome. Poi riprende con ostentata pazienza: «Allora, cosa è successo?» «Non lo so, non lo so… so solo che da tre giorni non la vedo passare…» «Questo lo hai già detto. Chi è che non vedi passare?» «Miss… la signorina Nadira…»


14 «Che è?» «Che è l’inquilina del quinto piano, scala B.» «Sì, ho capito, ma come fa di cognome questa Nadira?» «Si chiama Nadira Al-Azhar bint Nur-al-Din. » «Cacchio! Un nome importante! Naturalmente extracomunitaria… e cosa fa? Vive sola? Dai, non farti pregare, dì tutto quello che sai.» «Miss Nadira è indossatrice presso una casa di mode, qui di Milano.» «Quale?» «Mah, mi sembra una importante, ma il nome non me lo ricordo.» «Andiamo bene! Vai avanti. Vive qui da sola? Quanti anni ha? Non farti pregare… su…» «Vive qui da sola da tre anni… La signorina Nadira è giovane e bellissima…» «E’ per questo che la tieni d’occhio, eh? » «No, no… E’ bellissima… ma io non la guardo per questo…» «No? E allora perché la tieni d’occhio… perché sei così sicuro di non averla vista da tre giorni?» «Perché questo è il mio lavoro… E’ bellissima… e io adesso sono molto, molto, molto, come si dice, preoccupato…» «Ho capito. E’ molto… molto bellissima e tu la tieni d’occhio, no?» a Catello Taglialatela piace sfottere un po’. «Lei sta molto… ritirata, sì, sì… esce ogni mattina regolarmente alle dieci e rientra puntuale al pomeriggio verso le sei… Qualche volta, se ritarda o va via, mi avverte…» «E fa sempre così, non cambia mai?» «No, no. Fa sempre così e se cambia qualcosa, se ritarda o sta fuori, mi avverte prima…» «E tu sei certo che questa volta non ti ha detto niente?» «Sì, sicurissimo…» «E che da tre giorni non la vedi passare? » «Sì, sicurissimo…» «E tu stai qui tutto il giorno e magari anche la notte nella tua portineria…» «Oh, sì… sicurissimo…» «Sicurissimo… sicurissimo! E non ti muovi mai? Non mangi, non vai al cesso? Proprio mai?» «Quando mi devo muovere viene mia moglie Kaila.» «E anche lei non l’ha vista passare?» «No… Siamo molto impensieriti…» L’agente scelto Taglialatela stacca, con un sospiro di rassegnazione, la


15 ricetrasmittente dal cinturone, dal quale pendono anche le manette d’acciaio ripiegate, e con un ulteriore sospiro di condiscendenza fa scattare l’interruttore di chiamata. «A’ Giusè, ci sei?» Dalla radio esce in risposta un gracidio incomprensibile e il Taglialatela allora prosegue: «Il portinaio che ci ha chiamati dice che una donna manca all’appello da tre giorni… Noi saliamo a vedere, tu sta’ in campana.» Altro gracidio in risposta e il poliziotto spiega: «L’autista della volante ci aspetta qui fuori… Hai detto che sta al quinto? Spero che almeno ci sia l’ascensore…» «Oh, sì, certamente, vengano, vengano… vengano…» Kidlat accompagna i due agenti verso la tromba della scala B e chiama l’ascensore. Al quinto piano vi sono tre porte. Il filippino ne indica una. «Ecco, questo è l’appartamento della signorina Nadira.» Lo stabile è di lusso, situato in una delle zone più chic di Milano. Sul pianerottolo, negli angoli e ai lati della soglia dell’ascensore, vi sono fioriere di porcellana con grandi piante ornamentali. Taglialatela incolla l’orecchio alla porta indicata da Kidlat e ascolta attento per un minuto buono, sempre con aria di grande calma, in ostentato contrasto con l’agitazione di cui è preda il portiere. «Ora vediamo… Non si sente niente, però…». L’agente scelto sembra molto sicuro di sé. Appoggia il dito guantato sul campanello e lo preme una volta brevemente, con una certa insospettabile delicatezza. In risposta si ode, al di là dell’uscio, un “din…don” appena ovattato. «Magari è nel bagno» ghigna rivolto al collega che lo segue silenzioso come un’ombra. Lascia passare un paio di minuti tamburellando sullo stipite un motivetto. Poi, non avendo ottenuto risposta, risuona il campanello, ma questa volta più a lungo e con maggiore decisione. Parecchi “din…don” si rincorrono in puntuale e ripetitiva sequenza. Trascorrono inutilmente altri due minuti e il poliziotto, innervosito, incomincia a bussare energicamente con grandi manate a palmo aperto. «Signora… signora Nadira… apra… polizia… polizia.» Ma ancora i suoi sforzi si rivelano inefficaci. Allora si gira vero il portinaio e lo interroga, ma questa volta con una nota di aggressività nella voce. «Sei proprio sicuro, sicuro che non è uscita? Magari ti ha detto che an-


16 dava via e tu te lo sei dimenticato?» «No, no… Sono assolutamente sicuro. Non ha detto niente e non è passata.» Anche il giovane filippino si accosta alla porta e chiama preoccupato. «Miss Nadira, miss Nadira, la prego… la prego… apra la porta…» «Macché, questa o non c’è o dorme o … sta tranquillamente scopando…» ridacchia l’agente, che tuttavia incomincia anche lui a preoccuparsi. «Oh no, no» Kidlat appare sinceramente inorridito. «La signorina Nadira è una donna molto seria… molto per bene… in tre anni che è qui non ha mai ricevuto uomini. Solo un paio di volte suo cugino…» «E tu come lo sai? Eh? … che è il cugino? Forse è con te che se la fa?» «Ma come può dire una cosa simile?» «E c’è anche un cugino… figuriamoci!» Taglialatela sogghigna in direzione di Lopollo, che continua imperterrito nel suo immobile silenzio. «Adesso, visto che non risponde, dovremmo buttar giù la porta… Ma se questa è che dorme, magari con i tappi nelle orecchie… o se ne è andata da qualche parte, poi i nostri capataz ci fanno un cazziatone… ci fanno un culo così… capisci?» e pollici ed indici allargati rendono esattamente l’idea. «E fanno pagare a noi i danni per la porta fracassata» prosegue l’agente. «Vero O’Ronzo? Non sarebbe la prima volta…» L’agente Lopollo annuisce appena questa volta, insensibile all’abusato sfottò, con un movimento sincronizzato delle sopracciglia e del mento. La smorfia di uno che la sa lunga. Allora Taglialatela toglie dal cinturone la ricetrasmittente e richiama l’autista. «A’ Giusè, qui la donna non risponde... Fai uno squillo in centrale e digli che mandino i pompieri, così con la porta se la vedono loro e noi non abbiamo grane.» In riscontro arriva il solito gracidio e il poliziotto borbottando qualcosa va a sedersi sul primo gradino della scala, subito imitato dal collega. Tira fuori un pacchetto di sigarette, non ne offre al Lopollo, che oltre che taciturno non è neanche fumatore. Di offrirne al filippino non ci pensa proprio. «Adesso ce ne stiamo qui buoni buoni e aspettiamo i pompieri. Forse, che so, riescono ad entrare da qualche finestra. Tu sai se c’è una finestra da cui…» «No, no… le finestre danno tutte sul giardino interno e al quinto piano non è possibile… forse i pompieri con una lunga scala… però nel giar-


17 dino il loro camion non potrebbe entrare… forse dalla strada…» «Va beh… non prendertela calda. Appena arrivano vedranno loro quello che c’è da fare.» Fuma placido mentre Lopollo scruta lontano, oltre il finestrone della scala, un punto indefinito. Dopo un po’ Taglialatela finge di guardare anche lui nella stessa direzione, poi scuote la testa prendendo in giro il collega. Trascorsa una mezz'oretta abbondante l’ascensore si spalanca e ne escono due tizi in divisa da pompiere, ma senza il casco. Il primo si capisce subito che è il caposquadra, spiccio e sicuro, mentre il secondo, un marcantonio ancora più grosso del Taglialatela, lo segue con rispetto portando quasi in verticale davanti a sé un’imponente ascia bipenne dipinta di rosso fuoco, che solo a guardarla mette spavento. «Allora, dov’è ‘sta porta da sfondare?» «E’ quella là» indica col dito il portinaio. «Un momento… un momento» interviene Taglialatela alzandosi. Tira un’ultima boccata dalla sigaretta, lascia cadere la cicca sul gradino, accanto alle altre quattro o cinque che ha fumato nell’attesa, la schiaccia con il tacco degli anfibi e si avvicina al capo dei pompieri. «Prima di spaccare ragioniamo…» «Cosa vuoi ragionare» ed anche in questo caso il “tu” vale a segnare la differenza di posizione gerarchica. «Ci hai fatto chiamare per buttare giù la porta, no? Visto che non ve la sentite di farlo voi» stuzzica il pompiere. «No, senti… magari questa dorme o è fuori… se sfondiamo, dopo ci tocca pagare il danno… non si potrebbe…» «Non si potrebbe cosa? Siamo venuti con una Panda, mica con lo scalandrone… e poi nel cortile per tirarlo su non potremmo nemmeno entrare.» «No, no… dicevo… di fare in qualche altro modo…» «Ho capito, ho capito… Certo che sei un bel furbacchione! Però adesso vi girate tutti dall’altra parte… così non direte bugie se vi chiederanno come…» Intanto trae dalla tasca interna della giubba una scatoletta piatta, dalla quale preleva un arnese appuntito che infila nella serratura. Con un altro attrezzo la fa scattare per tutte e cinque le mandate, con una serie di clack clack che risuonano secchi come pistolettate nel vano scala, ed infine aziona lo scrocco.


18 «Ecco fatto… Potete voltarvi» e ripone strumenti e scatoletta, poi chiarisce agli astanti soddisfatto: «Omaggio di uno scassinatore professionista che voleva lanciarsi di sotto dall’ottavo piano e che ho convinto a desistere portandomelo giù in spalla sullo scalone… Quella per cui voleva buttarsi non valeva così tanto… » Poi aggiunge: «Però ‘sta donna si era chiusa dentro proprio per bene…» Spalancata la porta, entrano tutti in un ampio soggiorno; quindi, ad un segno del Taglialatela, si avviano ciascuno a esplorare le diverse stanze di cui è composto l’appartamento. Dopo neanche due minuti è Lopollo che fa finalmente sentire la sua voce. «E’ qui» grida «Nella camera da letto!» Si precipitano. La donna è distesa con il lenzuolo tirato fino al mento, i capelli sparsi a raggiera sul cuscino. «L’avevo detto che dormiva… non ci sente perché magari ha preso qualcosa… magari è drogata». Taglialatela frena gli altri e si avvicina al letto. Si toglie un guanto e allunga una mano a sfiorare il viso della ragazza supina e subito la ritira spaventato. «Cazzo!… Ma… ma… questa è morta… è fredda di ghiaccio!» Il filippino lancia un grido mettendosi le mani sui capelli e scoppia in un pianto dirotto. «Povera signorina… povera signorina Nadira… lo avevo detto che c’era qualcosa di strano… non la vedevo da tre giorni… me lo sentivo che era successo qualcosa…» Taglialatela, in mezzo alla confusione che inevitabilmente si è generata, ripiglia subito l’iniziativa. «Fuori tutti… non toccate niente… tutti sulle scale… fuori!» Si riavvicina al letto e, fattosi forza, scosta delicatamente il lenzuolo fino alla vita. La giovane, sotto la coltre, è nuda. I capezzoli bluastri spiccano sul pallore della pelle. «Oh cazzo!» esclama e si affretta a rimettere le cose come stavano. Tuttavia non può fare a meno di costatare, pur in un lampo, che la ragazza doveva essere stata veramente bellissima, con delicati lineamenti del viso e un corpo che, anche nella rigidità della morte, lascia trasparire la propria armoniosità. Volge uno sguardo circolare alla stanza, che appare perfettamente in ordine, con le tende tirate e le tapparelle abbassate a metà. Con l’occhio del poliziotto fattosi attento nota, però, due cose: il condizionatore a tut-


19 to volume, che rende l’ambiente gelido, ed un bicchiere sul comodino. Senza toccarlo, si china ad annusare. «Oh cazzo! Cazzo!» ripete «Questo è cianuro!» L’odore di mandorle amare del cianuro di potassio è inconfondibile. Taglialatela esce anche lui lestamente dalla stanza richiudendone l’uscio, poi chiama ancora l’autista con la ricetrasmittente. «A’ Giusè, la donna qui è morta… sembra che si sia suicidata… chiama subito la Centrale, che mandino qualcuno e avvertano la Procura.» Intanto il pompiere caposquadra ha fatto un cenno discreto al collega marcantonio, che con l’ascia va quasi a demolire con pochi colpi il portoncino d’ingresso dell’appartamento. «Così si capisce come abbiamo fatto ad entrare» spiega con un sogghigno al poliziotto, che lo fissa facendo con la mano un gesto interrogativo. «Mica possiamo dire che io… no?» Dopo una mezz'ora, trascorsa in paziente attesa del magistrato di turno, arriva la dottoressa Cristina Migliavacca, sostituto procuratore presso il Tribunale di Milano, accompagnata da un giovane ufficiale dei Carabinieri. E’ una donna molto avvenente, appena al di là dei trent’anni, occhi nocciola spruzzati d’oro, abbastanza alta senza essere una spilungona, figura snella ma arrotondata piacevolmente nei punti giusti, capelli castani chiari lasciati lunghi sul collo, truccata con discrezione. Indossa un severo tailleur grigio con gonna-tubino al ginocchio che scopre belle gambe e tacchi a spillo. Il suo incedere è elastico e sciolto, senza ancheggiamenti volgari. Lo scollo della giacca, seppure poco accentuato, lascia tuttavia intuire una rispettabile consistenza sottostante. Vedendola uscire dall’ascensore, indistintamente tutti gli uomini presenti sul pianerottolo pensano la medesima cosa. Lei lo sa benissimo, ma non se ne cura. Chiede subito: «Dov’è?» Quindi, assumendo svelta la direzione delle indagini, dispone con cortesia, senza apparire troppo altezzosa, ma con decisione: «Vi prego, uscite tutti ed aspettate nel soggiorno, poi tornerete alle vostre normali occupazioni. Intanto lasciate i vostri dati e le vostre deposizioni al tenente Cordelli. Rimangano qui con me solo il portinaio e il capo pattuglia della volante signor… »


20 «Agente scelto Catello Taglialatela, dottoressa.» «Molto bene. Grazie. Mi faccia strada.» Il poliziotto, avviandosi verso la camera da letto dice sottovoce a Lopollo, ma questa volta senza la solita intonazione beffarda: «Oronzo, tu e Giusè aspettatemi di sotto. » Anche la PM, entrando in camera da letto, lancia un’occhiata circolare alla stanza, nota la temperatura rigida, poi si avvicina a fiutare il bicchiere sul comodino, tirandosi subito indietro con una smorfia di disgusto. Quindi scosta appena il lenzuolo e rimane un mezzo minuto ad osservare il viso e il busto nudo della ragazza morta. Nulla attira in particolare la sua attenzione, per cui rimette tutto a posto. «E’ sicuro che non sia stato toccato niente?» «Sicurissimo. Come lei, dottoressa, io ho solo annusato il bicchiere e sollevato con due dita il lenzuolo per accertarmi se ci fossero ferite evidenti. Gli altri non sono nemmeno entrati.» «Non faccia passare nessuno fino a quando non arrivano quelli della Scientifica.» «Stia tranquilla, mi metto di guardia qui fuori.» «Bene.» Tornata nel soggiorno, la dottoressa interroga il portinaio con l’assistenza del tenente Cordelli, che prende appunti: «Lei come si chiama? E da quanto lavora qui?» «Kidlat Palawan e sono al lavoro in questo stabile da circa sei anni.» «Cosa sa dirmi della donna?» «La signorina si chiama… chiamava Nadira… Nadira Al-Azhar bint Nur-al-Din.» «Araba.» «Sì, non so esattamente di quale paese. Probabilmente di un emirato o sceiccato o califfato, non so, forse del Golfo Persico, forse dello Yemen o dell’Oman, non so proprio… comunque un piccolo paese poco noto, non di quelli grandi di cui si parla sempre nei giornali e in televisione.» «Perché dice questo?» «Perché miss Nadira un giorno mi ha detto: Kidlat, io vengo da un Paese piccolissimo, molto ricco di petrolio ma senza libertà.» «E da quanto questa Nadira viveva qui? Era inquilina o proprietaria?» «Era padrona dell’appartamento da quando è arrivata, circa tre anni fa.» «Lei non l’ha vista per tre giorni, si è allarmato ed ha chiamato la Polizia.» «Oh, sì… la signorina Nadira, quando sapeva di rientrare tardi o se andava via per qualche giorno mi avvertiva sempre.»


21 «Che lavoro faceva?» «Era indossatrice per una casa di mode qui di Milano, ma purtroppo non ricordo quale.» «Non importa, verrà fuori dalle indagini. Lei sa se aveva parenti… amici… amiche… insomma se frequentava qualcuno?» «Un cugino è venuto un paio di volte, ma non credo avesse altri parenti e, comunque, non riceveva mai nessuno. Almeno qui in casa non abbiamo mai visto salire nessuno uomo.» «E donne?» «No, neanche donne… Solo mia moglie, che è incaricata di fare le pulizie.» «Quindi lei non ha nemmeno un’idea del perché si sia suicidata, ammesso che le cose stiano proprio come sembrano.» «No, no. Era sempre sorridente e gentile. Non sembrava avere problemi. Pagava con puntualità le rate del condominio, ordinava la spesa per telefono e dava subito i soldi per i negozianti che gliela portavano…» «Che quindi salivano…» «No… no… Lasciavano sempre la spesa in portineria e poi io o mia moglie provvedevamo a portare su tutto.» «Ed è sicuro che anche nei tre giorni in cui lei non l’ha vista non siano saliti fornitori?» «Assolutamente.» «Quindi lei pensa che si sia suicidata, dato che nessuno è entrato in casa. Perché, altrimenti, lei lo avrebbe visto passare e poi salire. E’ così?» «Certo. Nella guardiola abbiamo anche un ripetitore dei percorsi per il controllo degli ascensori e avrei visto in ogni caso se qualcuno saliva.» «E lei mi conferma che appariva tranquilla, non dava noie, non frequentava nessuno…» «Sì, sì… Posso solo dire che a volte sembrava un po’ triste e malinconica. Mi diceva che aveva nostalgia del suo Paese, ma che non poteva ritornarvi… che aveva vissuto a Londra e anche a Parigi, sempre lavorando come modella o indossatrice.» «Molto bene. Per ora basta così. Rimanga a disposizione perché, se necessario, la convocheremo in Procura.» Quindi con grande severità ammonisce tutti i presenti. «Vi chiedo una sola cosa, ma della massima importanza: non dovete parlare di questa storia con nessuno, specie con giornalisti e simili. E neppure con i vostri superiori e i familiari. Se vi chiedono qualcosa do-


22 vete rispondere che siete vincolati al segreto istruttorio. Se esce qualcosa, anche minima, vi assicuro che voi dovrete cercarvi alla svelta un buon avvocato e anche un nuovo lavoro, perché non avrò alcuna indulgenza. Non solo finirete sotto processo per ostacolo alle indagini, ma farò di tutto perché vi caccino. Dalla polizia, dai pompieri o da questo condominio. Ci siamo capiti?» Taglialatela, ora meno spavaldo, e il sempre silenzioso Lopollo accennano un assenso col capo. Altrettanto i due pompieri e così pure il mesto portinaio. Hanno afferrato subito che la Migliavacca non è uno di quei PM che flirtano volentieri con i giornalisti passando carte e notizie, siano esse vantaggiose o meno per le indagini, ma di sicuro sempre utili alla loro immagine. «Va bene. Siete gente seria e sono sicura che mi asseconderete. Capite bene che questo è l’unico modo per consentirmi di chiarire, se potrò, questo caso. Apparentemente si tratta di suicidio, però la presenza del cianuro in quel bicchiere mi lascia molto perplessa.»


23

DUE

Con Cristina, la bellissima PM milanese, abbiamo ormai da sette mesi, dopo che a Venezia ci siamo accorti di amarci follemente, una semiconvivenza. Nel senso che lei continua ad abitare nella casa di famiglia assieme all’anziana mamma, che non ha coraggio di lasciare sola, ed io rimango nel mio appartamento da scapolo, due piani sopra lo studio nel quale svolgo la mia professione di avvocato. Però almeno due o tre volte alla settimana, secondo gli impegni di entrambi, Cristina rimane a dormire da me e la nostra felicità non ha limiti. Come in altre occasioni, cerco di esserle utile nelle indagini ed anche nel caso della modella trovata morta per il cianuro sono al suo fianco. Oggi ha convocato il medico legale che ha eseguito la necroscopia, il dottor Santo Pacifici. A dispetto di nome e cognome è persona squisita, ma nervosissima, inquieta, sempre con le mani in movimento. Io assisto al colloquio in qualità di “consulente”, in realtà ufficioso e senza compenso, ma appagato dagli occhi stupendi della mia amata. In Procura nessuno è a conoscenza della nostra relazione. Cristina ha un comportamento riservato, cordiale con tutti, serio e fermamente indirizzato all’impegno nel lavoro. Durante il quale ha l’abitudine di ascoltare in cuffia brani di musica classica, con speciale predilezione per il barocco italico. Appena il medico è entrato, lei ha posato gli auricolari e spento il registratore, ma io, che nell’attesa studiavo una mia pratica legale, ho fatto in tempo a percepire il tema di Pergolesi da cui Rachel Portman ha tratto la colonna sonora del film Chocolat. Pur giovane e bellissima, Cristina il suo mestiere lo conosce bene ed il colloquio con l’anatomopatologo procede sui binari di una effettiva e corretta collaborazione. «Caro dottor Pacifici, la informo, anzitutto, in modo che lei abbia un quadro completo della situazione, che dal passaporto rinvenuto nell’abitazione, risulta che la signorina Nadira Al-AzharbintNur-al-Din aveva ventinove anni ed era originaria di Shayda, la capitale di Al-


24 Tahra, un antico sultanato sperduto nelle montagne dello Yemen, al confine con l’Oman. Un posto quasi medioevale. Fruiva, però, anche di nazionalità britannica, avendo ottenuto dal Governo inglese, circa una decina di anni orsono, asilo in qualità di rifugiata. La motivazione della concessione non è stata resa nota. A Londra ha abitato circa cinque anni, pare assieme a un’amica, poi per un paio d’anni è stata a Parigi e quindi a Milano per tre. Ne consegue che quando è venuta via dal suo paese aveva circa diciannove anni.» Cristina dà una rapida occhiata a un foglio che ha estratto dal fascicolo che ha davanti, poi prosegue: «Qui in occidente ha sempre esercitato l’attività di modella o di indossatrice per l’alta moda. Non era una “volante”, di quelle che fanno le sfilate un po’ qua e un po’ là, ma era fissa come presentatrice degli abiti alle clienti. Non è emerso alcun precedente e, secondo le prime informazioni giunte dalle autorità di polizia estere, non ha mai dato luogo ad alcun rilievo. Non risulta essersi mai sposata né si sa di particolari amicizie maschili, o femminili, perché ha sempre tenuto un comportamento serio e riservato, sia in generale sia sul posto di lavoro, come ha confermato anche la direttrice della casa di mode dove era occupata attualmente. Si è accennato all’esistenza di un cugino, ma non se ne sa praticamente nulla. L’abitazione era in perfetto ordine, come del resto ho potuto accertare io stessa durante il sommario sopralluogo, e nessuna impronta digitale diversa da quelle della ragazza è stata trovata dalla Polizia Scientifica. Dal telefono cellulare e dai relativi tabulati, così come da quelli del telefono fisso presente nell’abitazione, non è stato possibile ricavare alcunché di utile alle indagini. Ecco, molto in sintesi, questo è tutto. Ora tocca a lei, dottore. Ho ricevuto, leggerò e pondererò con la massima attenzione la sua relazione sull’esame autoptico, ma le sarei grata se volesse intanto anticipare, a me e all’avvocato Leo De Vecchi che mi assiste, i punti a suo giudizio di maggiore interesse per le indagini.» «Certamente!» Il medico, sempre molto nervoso, con vari tic facciali, in particolare all’occhio sinistro che sembra ammiccare in continuazione, e le mani in eterno movimento a sottolineare le sue parole, si è seduto senza saperlo sulla sedia scomoda destinata agli interrogandi, quindi cerca dimenandosi un po’ di sistemarsi al meglio. Poi prosegue spiegando: «Intanto posso dire che la morte risaliva al giorno prima o al massimo alla notte ancora precedente, rispetto a quando ho esaminato in loco il cadavere. A prima vista era ancora rigido e, come loro sanno, il rigor


25 mortis completo impiega circa dieci-dodici ore per svilupparsi in un adulto medio, quando la temperatura ambientale è di venti-venticinque gradi. Il corpo rimane però in stato di apparente rigidità fino a ventiquattro-trentasei ore, a questa stessa temperatura, prima che la decomposizione inizi a dissolvere i muscoli e li induca a rilasciarsi. Ma la rigidità cadaverica è influenzata dalla condizione termica ambientale e, come è stato appurato nel nostro caso, l’impianto di condizionamento a tutto volume manteneva in quella stanza una temperatura attorno ai quindici-diciassette gradi, allungando proporzionalmente i tempi. Un corpo è nel rigor completo, come in effetti ho potuto costatare, quando i giunti della mascella, del gomito e del ginocchio sono bloccati. Inoltre, i deceduti per avvelenamento da cianuro presentano, proprio come quella donna, macchie ipostatiche di colore rosa-rosso. Concludendo, confermo che la morte è avvenuta o il giorno prima o la notte ancora precedente. » «Quindi» interviene Cristina «tenendo conto che il portinaio assicura di non averla vista per tre giorni e che è stata ritrovata la mattina di lunedì, si può pensare che sia rientrata il pomeriggio o la sera di venerdì, che abbia trascorso in casa tutto il sabato e che sia morta nella notte o nella domenica successiva.» «Sì, i tempi così corrispondono a quanto ho appurato con l’autopsia» il dottor Pacifici è categorico e per dare maggior rilievo a quello dice si aiuta gesticolando in modo ancora più evidente del solito. Poi riprende: «La mia conclusione è avvalorata anche con riferimento ai residui di cibo presenti nello stomaco e nell’intestino. Però, a scanso di equivoci, devo puntualizzare subito che quella povera donna non si è suicidata, come sembrerebbe, ma è stata assassinata e in un modo veramente atroce.» «Come temevo! Con il cianuro?» «Sì, però in questo caso non si è trattato del modus operandi classico, come chi l’ha uccisa ha voluto farci intendere lasciando sul comodino un bicchiere che emana odore di cianuro, ma di un procedimento assai singolare e crudele: la ragazza è stata dapprima narcotizzata con etere e poi le è stato praticato un enteroclisma con una soluzione mortale di cianuro.» «Accidenti! Ne è sicuro?» «Al cento per cento. E’ lo stesso sistema che è stato usato, secondo alcune recenti ipotesi, per sopprimere Marilyn Monroe facendo credere il


26 suicidio. Dall’esame della mucosa anale e del retto è risultato in modo inequivocabile che il veleno è stato introdotto da quella via. E dall’analisi degli organi respiratori è stata ugualmente accertata l’inalazione di etere dietilico.» «Ma perché usare un sistema tanto barbaro e, tutto sommato, molto complicato?» «Beh, da un lato l’assassino voleva essere certo del risultato e l’assunzione del veleno per via rettale è quella che non lascia il minimo scampo. L’etere, invece, era necessario per rendere la vittima incosciente e totalmente inoffensiva, in modo da avere libero il campo per la somministrazione del clistere letale. Poi, per cercare di confondere le indagini, l’assassino ha messo qualche goccia della soluzione al cianuro nel bicchiere, perché se ne percepisse immediatamente l’odore.» «Davvero diabolico!» «Diabolico ed inusitato. Per ucciderla poteva strangolarla o usare qualche altro sistema meno complicato. Oltretutto non è tanto facile, al giorno d’oggi, procurarsi sia l’etere sia il cianuro. Ma, se mi consente, si tratta di un metodo anche parecchio ingenuo, perché era facile capire che con l’autopsia avremmo subito scoperto tutto. Nel modus operandi dell’assassino c’è però, ed è innegabile, un risvolto sadico, che non va sottovalutato: una volta che ha avuto la donna narcotizzata ed in suo completo potere, perché somministrarle il veleno in quel modo? Poteva benissimo versarglielo in bocca…» «Ad agire, secondo lei, è stata una sola persona o più di una?» «Potrebbe essere stata anche una sola. Di sicuro qualcuno conosciuto dalla vittima, che non ha sospettato nulla fino a quando l’assassino non le ha premuto sul viso, a sorpresa, il tampone con l’etere. Sul corpo non ho trovato, infatti, a conferma dei rilievi effettuati dalla Scientifica nell’apparta-mento, alcun segno di colluttazione o di contrasto all’azione dell’omicida. Il resto non è stato difficile: ha spogliato completamente la donna e preparato la soluzione sciogliendo i cristalli bianchi di cianuro, quindi con una peretta o una siringa l’ha immessa nel retto. La dose letale del cianuro di potassio per via orale varia da centocinquanta a trecento milligrammi, secondo la corporatura. In questo caso, dalle analisi compiute e tenendo conto che la ragazza pesava circa quarantasei chili, abbiamo potuto ipotizzare con una discreta approssimazione, considerato anche il modo di somministrazione del veleno, che le furono propinati non meno di cinque o seicento milligrammi. Una dose così massiccia di cianuro o di acido cianidrico provoca la morte in circa sei-otto secondi. Quindi la ragazza è morta subito, poi è


27 stata distesa nel letto e coperta con il lenzuolo. Probabilmente all’assassino interessava guadagnare un po’ di tempo. Forse l’introduzione per via anale è servita ad evitare che il volto assumesse la facies caratteristica, dovuta alle convulsioni, che sono il sintomo più appariscente dell’avvelenamento da inalazione o da ingestione di cianuro. Però questa spiegazione non mi convince troppo… la cosa potrebbe avere un altro significato…» Il dottor Pacifici è preciso nella sua esposizione, ma il suo muovere continuamente le mani trasmette anche a me una certa involontaria agitazione. «Dottoressa » prosegue il medico «ci sono poi altre cose che devo segnalarle, in quanto poco usuali e che caratterizzano questo caso dal punto di vista medico-legale: innanzitutto, nel centro del monte di Venere, poco al di sopra della vulva, la ragazza aveva un marchio.» «Un marchio? Vuol dire un tatuaggio?» «No, no. Proprio un marchio a fuoco, come per gli animali.» «Caspita! Ma fatto quando, al momento dell’omicidio?» «No! Si tratta di cosa vecchia. Dallo stato della cicatrice posso azzardare che sia stato impresso molti anni fa, forse quando la ragazza era ancora giovanissima, praticamente una bambina. E’ un cerchio della grandezza di una nostra vecchia moneta da cinquecento lire con all’interno un calligramma tra due spade…» «Un che?» «Un calligramma, cioè una figura costituita da lettere dell’alfabeto arabo intrecciate. In questo caso, se non ho preso un abbaglio, si tratta di “Nur-al-Din”, che significa “luce dei miei occhi”, cioè il patronimico… il “nasab”… in altre parole figlia di… Come ad esempio per le donne russe il suffisso ”vna”… Antonovna, Petrovna, eccetera… Figlia di Anton, figlia di Pyotr... In sostanza, è il cognome della donna, evidenziato dal “bint” inserito dopo il nome, a formare il disegno di un globo oculare. Se non sapete l’arabo, aggiungo che Nadira significa “preziosa” e alAhzar “fiorita”. Quindi le generalità complete sono “preziosa fiorita figlia di luce dei miei occhi”. Ma il calligramma contiene, come ho detto prima, il solo cognome della ragazza.» «Grazie. Davvero poetico, ma assolutamente inadeguato alla fine che ha fatto quella poveretta. Piuttosto, lei è sicuro che il marchio sia stato eseguito molto tempo fa?» «Sicuramente. E per rendere l’incisione così netta e profonda il ferro


28 rovente deve essere stato mantenuto sulla pelle per almeno cinque o sei secondi o anche di più. La vittima deve aver provato un dolore veramente atroce. Inoltre, sempre allo stesso scopo, prima di applicare il marchio è stata completamente e permanentemente depilata… » «Permanentemente?» Cristina non può fare a meno di intervenire ancora. «Sì, proprio così. » «Ma come è possibile?» «Guardi, già nell'antico Egitto le donne si radevano i peli del pube, dato che solo un corpo liscio e senza pelurie, con l'eccezione dei capelli, rappresentava la vera bellezza, la giovinezza e l’innocenza. Si faceva con creme a base di miele e oli. Idem in Grecia, dove le donne con peli pubici, solitamente molto scuri, erano considerate orribili, soprattutto nei ceti più elevati. Non per niente sembra che Elena di Troia fosse considerata la più bella del mondo proprio perché … lì, invece, era bionda naturale… Paride se ne è perdutamente innamorato avendola per caso vista nuda durante una corsa, in un ginnasio… da gymnos… cioè “nudo"… perché in quel modo facevano allora attività fisica…» «Dottor Pacifici, lei mi stupisce!» «Cara dottoressa, sono, per così dire, i ferri del mio mestiere: un anatomopatologo queste cose le deve ben sapere! A Roma era la stessa storia, ma si operava tramite apposite pinzette. In Oriente le leggi rituali prescrivono la depilazione della regione pubica: i peli vengono fatti cadere con una sostanza composta da trisolfuro d'arsenico e calce oppure da resine ed impacchi caldi di pece.» «Tremendo!» «Oh, certamente! Però poi, per un tempo molto lungo, usano creme e balsami per guarire e ammorbidire la cute… Ma, tornando a noi, come ho già detto, tutta la procedura… chiamiamola così… nel caso in esame deve essere stata molto dolorosa. Tenga anche presente che al momento di applicare il marchio sulla pelle nuda del pube deve essere stata sparsa una sostanza che, bruciando al contatto con il ferro rovente, ha reso il disegno parecchio scuro, in modo da risaltare sull’epidermide ambrata della ragazza che, detto per inciso, era veramente molto bella… Credo che sia stato nella stessa occasione che le hanno anche forato entrambi i capezzoli…» «Aveva dei piercing sui seni?» interviene Cristina. «Non mi sembrava di averglieli visti, quando ho scostato il lenzuolo, anche se è stato per un brevissimo istante…» «Infatti, ha ragione. Non li aveva e non ne portava da parecchio tempo,


29 tuttavia i fori erano evidenti, anche se quasi prossimi a richiudersi, proprio per il mancato uso. Un’ultima cosa: non era vergine e… lo debbo evidenziare… non lo era né sotto il profilo vaginale né sotto quello anale, diciamo così. La precisazione è necessaria perché dagli esami compiuti è emerso che la muscolatura sfinterica era stata a suo tempo allentata artificialmente, non di molto ma in modo permanente e rilevabile, di sicuro per mezzo dell’introduzione prolungata di oggetti di calibro progressivamente diverso, adatti a provocare un leggerissimo prolasso… cioè il graduale rilassamento dell’anello sacrale, allo scopo di favorirne la penetrabilità. » «Ma è incredibile!» Cristina è sbalordita quanto me da quello che ci sta dicendo il dottor Pacifici. «La condizione evidenziata dal marchio» prosegue imperterrito il medico, sempre con quel suo gesticolare irritante «comportava evidentemente, nel suo paese, voi mi capite… una totale disponibilità sessuale… Sono pratiche utilizzate nell’ambito dei cultori del sadomasochismo, ma è evidente che non sono sconosciute e, anzi, sono praticate anche negli harem dei sultani… chissà con quali mezzi… Tuttavia al momento della morte la ragazza non aveva avuto rapporti recenti… di nessun tipo.» «Riguardo al marchio, che opinione si è fatto?» è ancora Cristina ad intervenire su questo aspetto cruciale. «Beh, il marchio a fuoco non è certo diffuso come il piercing e il tatuaggio, però da qualche tempo, in certi ambienti giovanili di cultura punk, viene praticato il cosiddetto burning, come modo di caratterizzare il proprio corpo e di richiamo sessuale. Mi avete detto che la ragazza ha abitato a Londra e proprio lì è nato il movimento punk, per cui potrebbe essere un ricordo di quella esperienza… Anche l’introduzione di vari aggeggi nell’ano, che se non sbaglio loro chiamano buttplugs, potrebbe riferirsi, in teoria, a quel periodo… Non escluderei, a questo proposito, un possibile collegamento con le modalità utilizzate dall’assassino per compiere l’omicidio. Una personalità fortemente deviata che ne fosse a conoscenza potrebbe aver voluto…» «Ma lei ha detto che non si tratta di episodi recenti…» «Certamente. E’ vero… Considerando poi la cosa nel suo insieme e tenendo presente l’origine della ragazza, sono propenso a credere, in definitiva, molto probabile che si tratti piuttosto di usanze tribali di quei luoghi… Forse rituali… Il marchio, la foratura dei capezzoli, eccete-


30 ra… mi sembra tutto riconducibile, in effetti, all’evidenziazione di uno stato di totale disponibilità della donna alle esigenze di sottomissione al maschio… di appartenenza… insomma di sostanziale schiavitù… Non dimenticate che lì vivono ancora in una specie di medioevo… Però non posso escludere, come ho accennato, che rappresentino pure una specie di “rito di passaggio”, per solennizzare e segnare il transito dalla fanciullezza alla maturità» «Forse è proprio così. Anche perché, stando a quanto lei ci ha detto, il marchio le sarebbe stato impresso da giovanissima, mentre a Londra è arrivata quando aveva circa diciannove anni, un’età in cui nei paesi orientali la donna è considerata già abbondantemente adulta.» «Già. Non credo di aver nient’altro da dire… Ah! Era sanissima e non faceva uso di droghe… Aveva mani molto belle e unghie curatissime, sotto le quali non ho trovato nulla di significativo… Voglio dire che non ha graffiato il suo assassino, anche perché, come ho detto prima, non si è assolutamente difesa… il resto lo potete leggere nella mia relazione scritta.» «La ringrazio, dottor Pacifici, per la sua gentilissima collaborazione e la prego, se dovesse emergere qualcos’altro, di farmelo sapere. Non occorre, naturalmente, che io le raccomandi di tenere la cosa assolutamente riservata.» «Non dubiti. » Il medico ci lascia e noi restiamo qualche minuto in silenzio, poi Cristina mi guarda e dice: «Non so davvero cosa pensare. Quella povera ragazza, salvo la faccenda del marchio e tutto il resto, che dovremo approfondire, aveva una vita normale, casa e lavoro. Viveva in un condominio di lusso, ma nessuno dei vicini di casa che ho interrogato ha sentito niente. Alcuni sono in viaggio… Nessuna impronta significativa… Non sembra aver avuto problemi, né di carattere economico né di tipo sentimentale… Quando ha acquistato l’alloggio, tre anni fa, ha pagato con un assegno sulla Westminster Bank di Londra dove i fondi erano liquidi e disponibili… Resterebbe da chiarire, è vero, la faccenda dell’asilo concessole come rifugiata. L’Inghilterra è piena di immigrati di tutte le nazionalità, ma il Governo di Sua Maestà non concede tanto facilmente l’asilo, salvo che sussistano ragioni molto valide. Lei veniva da un paese quasi sconosciuto… Certo laggiù l’influenza britannica a suo tempo si è fatta sentire… Mah, è un bel mistero. Questo e quel marchio così crudele, i capezzoli forati, le penetrazioni anali… mi lasciano parecchio perplessa» «Hai ragione, scoprire questo dannato assassino non sarà per nulla faci-


31 le. Però potresti insistere con Londra per avere maggiori dettagli sulla concessione dell’asilo per ragioni umanitarie e, se possibile, ottenere da Scotland Yard qualcosa di più sulla permanenza della ragazza in Gran Bretagna. Dopo tutto ha vissuto là per un certo periodo, quasi cinque anni, e qualcuno dovrebbe ricordarsi qualcosa… i vicini, che so, qualche amico o conoscente, alla casa di mode dove lavorava… Nell’insieme potrebbe venir fuori qualcosa, qualcosa che permetta di avere un quadro più chiaro della situazione. Poi c’è anche la permanenza a Parigi… si può indagare anche lì…» «Sì, farò così... Però ho paura che l’assassino sia ormai chissà dove e che non riuscirò a prenderlo.» «Beh, non angustiarti troppo…Tu quello che potevi fare lo hai fatto.»


32

TRE

Invece Cristina ha continuato ad affliggersi per settimane, durante le quali tutte le indagini ed ogni più attenta e scrupolosa ricerca hanno dato, purtroppo, esito negativo. Nessuna pista utile è emersa. L’assassino resta sconosciuto ed inafferrabile. Ad un certo punto, vedendo che deperiva a vista d’occhio, che era sempre nervosa, che anche con me, a volte, alternava momenti di grande sconforto ad improvvisi scatti di nervi, di cui subito si pentiva cadendo in uno stato di insoddisfazione e di malumore, ho pensato di toglierla per un po’ di tempo da quella situazione e, approfittando delle lunghe ferie estive di magistrati e tribunali, ho proposto di fare assieme una crociera, considerandola il mezzo migliore per un diversivo rilassante. Abbiamo così fatto un ampio giro nel Mediterraneo orientale, da Venezia ad Alessandria d’Egitto, a Rodi, Cipro, Malta, fino a Tripoli. A Venezia, prima di partire, siamo passati a salutare l’amico Dorigo, nel frattempo promosso maggiore, anche per i meriti acquisiti in occasione di altre vicende1. Poi la vita di bordo sulla lussuosissima nave e le gite giornaliere a terra, in luoghi carichi di storia e di fascino, hanno a poco a poco allentato la tensione e Cristina è ritornata quella di sempre: amorevole, gentile ed appassionata. Il viaggio si è trasformato in un’autentica luna di miele. Da Alessandria d’Egitto, una volta a terra, abbiamo percorso la Via del Deserto fino a Saqqara, abbiamo sostato presso la Piramide di Zoser e la Mastaba di Mereruka. Quindi ci siamo diretti verso Memphis per una visita al Colosso di Ramsete II. Abbiamo proseguito per Gizah e ammirato lo spettacolo grandioso offerto dalle Piramidi di Cheope, Chefren e Micerino e dal loro enigmatico guardiano: la Sfinge.

1

narrate in “Il caso Caipex” e in “Dossier xilo”dello stesso Autore. Edizioni “Il Melograno”, Milano 2007 e “0111 Edizioni - Gli inediti”, Milano 2008.


33 A Limassol, nell’isola di Cipro, abbiamo visto la Roccia di Afrodite e, a Paphos, le Tombe dei Re e i meravigliosi mosaici romani. A Rodi, passando per piccoli paesi immersi in un fantastico scenario di uliveti, siamo stati all'antica città di Kamiros, una piccola Pompei, assieme a Lindos e Ialyssos. Poi al palazzo medievale del Gran Maestro dei Cavalieri dell'ordine di San Giovanni. Ed ancora, a Malta, La Valletta ricca di storia e cultura, dai templi megalitici di Hagar Quim e di Tarsia alla grotta Ghar Dalam, che svela il remoto passato di quest’isola. Infine la perla più bella: Leptis Magna, in Libia, a un centinaio di chilometri da Tripoli. Rimasta sommersa nella sabbia per migliaia di anni e solamente agli inizi del ventesimo secolo riscoperta con campagne di scavi per rimuovere le dune e scoprire le grandi strade, l'arco di Settimio Severo, il Teatro romano, le sontuose Terme di Adriano, il Mercato, il Foro Severiano, il magnifico Anfiteatro in riva al mare, alcuni eccezionali mosaici, tra i più pregevoli e meglio conservati al mondo. E proprio la sera in cui, dopo la partenza da Tripoli, la nave si dirige ormai verso il porto di arrivo, a Venezia, mentre stiamo prendendo il caffè al termine di un’ottima cena, con gli occhi luccicanti di Cristina pieni di promesse, si avvicina al nostro tavolo un ufficiale nell’impeccabile divisa bianca di gala. «Dottoressa Migliavacca, avvocato De Vecchi, vogliate scusare la mia intrusione, sono il Commissario di bordo. Il Comandante Pittaluga desidera parlarvi in privato nella Saletta Vip, qui accanto.» Ci guardiamo un po’ sorpresi e un po’ preoccupati. «Ma … è successo qualcosa?» «Vi prego di seguirmi, il Comandante vi spiegherà tutto.» Ci accodiamo sempre più impensieriti e veniamo accolti molto cortesemente dal Comandante, Giacomo Pittaluga, assieme al Primo Ufficiale della nave e all’Ufficiale addetto alla sicurezza, che ci invitano a prendere posto nelle comode poltrone del salottino. Dopo i convenevoli di rito e le scuse per la seccatura arrecataci, Pittaluga entra subito in argomento, facendoci in qualche modo tirare, sul momento, un sospiro di sollievo. Non si tratta, per fortuna, di qualcosa che riguardi direttamente noi o i nostri parenti, come temevamo. Ma poi… «Dottoressa Migliavacca, noi abbiamo bisogno di lei, perché dai suoi documenti abbiamo visto che ricopre la funzione di Sostituto Procuratore della Repubblica a Milano. E naturalmente» aggiunge guardando


34 verso di me «anche della competenza e dell’assistenza professionale dell’avvocato De Vecchi. » Lo sbrigativo uomo di mare fa una breve pausa, con visibile apprensione, quindi prosegue: «In poche parole si tratta di questo: poco fa uno degli addetti al servizio sul ponte Otello ha trovato nella cabina esterna numero 9202 una passeggera deceduta. Forse suicidata. Ci occorre un primo, per quanto sommario, verbale che, vista la sua presenza a bordo, riteniamo opportuno sia redatto da lei.» Cristina non smentisce la sua abituale gentilezza e si dichiara subito disponibile. «Va bene, non vedo problemi. Però mi dica, intanto, qualcosa di più su quello che è accaduto. Poi faremo un sopralluogo. Penso che, nel frattempo, lei abbia già provveduto a far isolare tutta la zona in cui si trova quella cabina.» «Certamente. I passeggeri di cinque cabine avanti e cinque indietro rispetto alla 9202 sono stati trasferiti in suite libere sul ponte dieci, di categoria superiore, non senza qualche protesta, perché non ne abbiamo manifestato a nessuno il motivo, esponendo invece difficoltà di ordine tecnico.» «Giusto. Avete fatto bene a tenere la cosa riservata. Vi consiglio, anche in seguito, di mantenere strettamente questo atteggiamento. Però mi dica qualcosa di più.» «Dunque, il cameriere, un peruviano di nostra completa fiducia, ha raccontato che, dovendo riordinare nel pomeriggio la cabina per la notte, non aveva potuto farlo perché sulla maniglia era esposto il cartellino “non disturbare”. Pensando che la passeggera, che aveva notato in precedenza, sia perché viaggiava sola, sia perché si trattava di una ragazza molto appariscente, volesse riposare dopo la gita a terra, ha rinviato la sua incombenza a più tardi. Circa un’ora fa, quando ormai tutti gli ospiti si erano recati a consumare la cena, tanto del primo che del secondo turno, è tornato per sistemare la camera, ma ha trovato ancora esposto il cartellino. Ritenendo che si trattasse di una svista da parte della passeggera è entrato usando il suo passe-partout e si è trovato di fronte alla donna che dormiva nel letto, con il lenzuolo tirato fino al mento. Non volendo disturbarla è uscito, ma poi ha avuto un ripensamento, sembrandogli impossibile che la passeggera non si fosse accorta che lui era entrato facendo inevitabilmente un certo rumore. Allora è rientrato e l’ha chiamata: “miss … miss …”, ma quella non rispondeva. Sempre più allarmato, si è avvicinato per scuoterla leggermente e in quel mo-


35 mento si è accorto che era fredda, gelata, morta. Ha richiuso subito la cabina e ci ha avvertiti. Con il Primo Ufficiale e il Commissario ci siamo precipitati ed abbiamo potuto constatare che, purtroppo, quanto aveva detto il cameriere era vero. Abbiamo immediatamente sbarrato la cabina e disposto il trasferimento dei passeggeri vicini, di cui le ho già detto. Abbiamo, tuttavia, potuto notare che sul comodino, vicino al letto, c’era un bicchiere e, senza toccarlo, lo abbiamo fiutato avvertendo subito il caratteristico odore di mandorle amare del cianuro di potassio.» Cristina ed io ci scambiamo un’occhiata che, improvvisamente, più allarmata di così non può essere. «Andiamo subito a vedere.» Entriamo nella cabina 9202 e Cristina assieme al Comandante si avvicina al letto dove la donna giace supina, scosta completamente il lenzuolo e si ritrae con un’esclamazione soffocata, pallidissima. A mia volta mi avvicino e vedo, atterrito, che la donna, completamente nuda, reca ben visibile al centro del monte di Venere depilato, pochi centimetri al di sopra delle grandi labbra, un marchio del tutto simile a quello apposto sull’inguine della modella assassinata a Milano. Purtroppo la nostro fulminea intuizione si è rivelata esatta. Cristina, riavutasi presto dallo choc, prende velocemente in mano la situazione, come il suo solito: «Mettete il condizionamento al massimo, in modo che la temperatura all’interno scenda il più possibile, chiudete bene la cabina e fate in modo che fuori ci sia costantemente un uomo di guardia, che non permetta a nessuno di entrare.» Ritorniamo, quindi, nel salottino Vip e Cristina chiede al Comandante: «Avete i documenti della passeggera?» «Certamente» risponde per lui il Commissario. «Il passaporto era stato depositato al momento di scendere a terra a Tripoli, secondo le norme vigenti in Libia, e non è stato ancora restituito.» «Era scesa anche lei?» «Così risulta dalle nostre evidenze. E’ tornata a bordo con gli altri verso le diciotto.» «Quindi deve essere stata uccisa tra quell’ora e le ventitré circa, quando il cameriere ha fatto la scoperta.» «Perché dice “uccisa”?» interviene stupito il Comandante. «Assassinata, sì. Comandante, non si meravigli, ma la prego di control-


36 lare se la donna deceduta aveva il cognome Nur-al-Din, se era originaria di Shayda e se le era stato concesso asilo dalla Gran Bretagna.» L’ufficiale sfoglia il documento ed esclama sbalordito: «Ma sì… Farida Al-Azhar bint Nur-al-Din, nata a Shayda... e dal passaporto risulta destinataria proprio di asilo come rifugiata… Ma come è possibile? Lei la conosceva?» «No, no! In qualche modo ho tirato ad indovinare e, purtroppo, ho colto nel segno... Ha visto quel marchio che ha sull’inguine? E’ identico a quello riscontrato su un’altra giovane donna trovata uccisa a Milano, poche settimane orsono, con il medesimo cognome e la stessa provenienza. Dopo le spiego meglio il caso. Dal passaporto risulta che lavoro faceva questa Farida?» «Qui risulta “dipendente di casa di mode”.» «Era prevedibile… comunque approfondiremo meglio a terra. Però è sicuramente omicidio, proprio come quello di Milano. E finora non siamo riusciti a trovare l’assassino. Ma è molto probabile che sia stata la stessa mano a colpire di nuovo... Ci sono troppe analogie.» «Se è così, o è ancora qui intorno oppure ha fatto in tempo a scendere a Tripoli, ma non capisco come possa essere salito a bordo, dato che controlliamo scrupolosamente sia chi scende per le escursioni sia chi dopo risale.» «Controllate anche il personale, oltre ai passeggeri? Che so, i portuali, gli uomini addetti ai rifornimenti, il personale tecnico?» «Beh, sì» interviene di nuovo il Commissario «anche quelli devono farsi identificare ed esibire i documenti, le autorizzazioni e le credenziali delle ditte di appartenenza. E così pure i nostri uomini.» «Allora, a meno di una falla nel vostro sistema di controllo, l’assassino è qui a bordo. Occorre una stretta vigilanza, anche se penso che farà di tutto per non essere individuato.» L’Ufficiale addetto alla sicurezza interviene, un po’ piccato: «Dottoressa, il nostro sistema non ha falle! Abbiamo una apparecchiatura in grado di leggere diverse migliaia di badge, che tutti a bordo devono… dobbiamo avere ed esibire ai controlli, e di memorizzarli in tempo reale nel nostro sistema informatico. La nave non riparte se l’elaboratore non dà il nulla osta, cioè se non conferma che tutti coloro che sono sbarcati sono anche tornati a bordo.» «Le credo, ma lei sa meglio di me che anche i controlli più ferrei possono essere elusi da qualcuno male intenzionato. Siamo di fronte a un assassino… Comunque, se è qui, dobbiamo cercare di individuarlo» conclude Cristina.


37 «Quando arriveremo a Venezia?» intervengo a mia volta. «Domattina alle sette circa. Il tempo è buono e non avremo ritardi.» Guardo Cristina, che capisce al volo cosa intendo dire e mi approva con un lieve cenno d’intesa, allora soggiungo rivolto al Comandante Pittaluga e al Commissario: «Noi ora ci mettiamo in comunicazione col maggiore Dorigo, del comando provinciale dei Carabinieri di Venezia, che è nostro ottimo amico, spiegandogli sommariamente l’accaduto e pregandolo di avvertire anche la dottoressa Lamperti, sostituto Procuratore, che pure conosciamo bene. Dovrebbero poter venire a bordo con gli addetti della Scientifica e altro personale di supporto, in modo da eseguire tutti i rilievi del caso prima dell’arrivo della nave al terminal marittimo. Direi che si potrebbe combinare un appuntamento appena fuori dell’imboccatura del porto del Lido. Una pilotina potrebbe affiancare la nave e trasbordarli. Così saremmo anche sicuri che nessuno possa sbarcare senza controllo. Che ne dice?» «Sì, in linea teorica si può fare. Il mare è calmo e un trasferimento potrebbe essere possibile fermando la nave. Però noi abbiamo un orario da rispettare. E i controlli saranno lunghi e difficoltosi; abbiamo a bordo più di tremilacinquecento persone, tra passeggeri e membri dell’equipaggio. Ci vorrà parecchio tempo.» «Non so, potreste fare un largo giro nel golfo, prima di arrivare a Venezia. Tranne gli addetti, nessuno si accorgerà che giriamo a vuoto.» «Ma i passeggeri sanno che dobbiamo arrivare in mattinata.» «Potete avvertirli che, per motivi tecnici, l’arrivo della nave a Venezia avverrà nel pomeriggio, o addirittura in serata.» «Questo li metterà di malumore. E dovremo anche servire pasti in più… la Compagnia mi pelerà vivo… Poi ci sono anche gli altri, quelli che aspettano a Venezia e che dobbiamo imbarcare per la prossima crociera … Ne verrà fuori un enorme caos… un vero casino… mi scusi.» «Eppure bisogna farlo, se vogliamo avere qualche possibilità di scoprire l’assassino.» Poi, rivolto al Commissario, aggiungo: «Intanto, questa notte stessa, la prego di far predisporre dai suoi collaboratori un tabulato con tutti i dati in vostro possesso, sia dei passeggeri sia dei membri dell’equipaggio. Credo che sia opportuno produrre un database consultabile secondo i diversi parametri: anagrafici, di nazionalità, di provenienza, eccetera, in modo da permettere agli agenti di


38 eseguire controlli incrociati.» «Provvederemo senz’altro.» «Vi ringrazio» conclude il Comandante «il vostro aiuto è fondamentale in questa triste ed angosciosa circostanza.» Quindi noi ci avviamo verso la nostra cabina, fortunatamente piuttosto lontana dalla tragica 9202, per telefonare a Dorigo mettendolo al corrente di quanto è accaduto e chiedergli di fare l’impossibile, data ormai l’ora tarda, per essere puntuale all’appuntamento con i suoi uomini. Trascorso poco tempo riceviamo la conferma: alle nove la pilotina potrà essere sotto bordo alla nave, appena fuori dalle dighe di San Nicolò del Lido. Lo riferiamo al Comandante, che pur con un lieve mugugno, assicura che la nave attenderà il contatto all’ora prevista. Poco dopo gli altoparlanti diffondono un comunicato che preannuncia l’arrivo ritardato. Per quasi tutta la notte Cristina ed io continuiamo a far congetture, a scambiarci impressioni e ad elaborare programmi di lavoro per il proseguimento delle indagini. Che saranno, è ovvio, formalmente di competenza, per l’omicidio avvenuto durante la navigazione, della Lamperti, in quanto autorità giudiziaria del primo porto toccato dalla nave successivamente alla scoperta del delitto, ma che dovranno necessariamente intrecciarsi ed integrarsi con quelle svolte da Cristina a Milano.


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QUATTRO

Nella notte la nave ha modificato la propria rotta, deviando fin quasi alla costa dalmata, poi è rientrata con un largo giro, così che al mattino successivo si presenta in tempo all’imboccatura del porto di Venezia. La pilotina, un fragile guscio rispetto alla mole della grande imbarcazione da crociera che lo attende immobile, ballonzola un po’ sulle onde, ma riesce agilmente ad avvicinarsi alla fiancata di dritta dove, a pelo d’acqua, i marinai hanno aperto una delle porte usate normalmente per scendere e salire a bordo. Da lì viene gettata una passerella sulla quale trasbordano Dorigo, che aiuta la Lamperti un po’ timorosa, gli uomini della Scientifica con le loro valigette, cinque o sei collaboratori del maggiore ed un tipo alto con capelli e pizzetto bianchi, sicuramente il medico legale. Ci riuniamo tutti nella saletta VIP e, dopo le presentazioni di rito, stabiliamo rapidamente il piano d’azione: Dorigo e i suoi utilizzeranno il centro informatico della nave, mentre quelli della Scientifica effettueranno i rilievi in cabina, dopo che il dottor Cancian avrà esaminato il cadavere e dato il nulla osta per il suo trasferimento provvisorio nella camera mortuaria della nave, in attesa dello sbarco a Venezia. Con Cristina e il Comandante decidiamo di seguire dapprima il gruppo di Dorigo. Il commissario di bordo e l’ufficiale addetto alla sicurezza hanno fatto un buon lavoro durante la notte e possiamo passare subito all’esame dei tabulati che hanno predisposto. Nei saloni-bar adiacenti, intanto, prosegue l’identificazione di tutti i presenti: i passeggeri da un parte e i membri dell’equipaggio dall’altra sfilano lentamente davanti ai tavoli dove gli addetti controllano i loro documenti. Dopo nemmeno una mezz'ora, però, dal bar più vicino ci perviene una certa agitazione e subito un giovane ufficiale irrompe, piuttosto concitato, nel centro informatico dove ci troviamo, rivolgendosi a Pittaluga: «Comandante, uno dei nostri aiuto cuochi è stato assassinato!» «Come dici?»


40 «Uno dei peruviani addetti alle cucine è stato trovato nascosto tra i quarti di bue, nella cella frigorifera, strangolato ed appeso ad un gancio da macellaio.» Pittaluga reagisce con prontezza: «Avverti il nostro medico ed anche quello legale che è appena salito a bordo e sta esaminando il corpo della ragazza.» Poi, rivolto soprattutto a Dorigo e a Cristina, aggiunge: «Andiamo a vedere. Ci mancava solo questa…» «Forse» ipotizza Dorigo «c’è un collegamento con la morte della donna.» «Lei crede?» «Mah… Questo peruviano potrebbe essere stato complice di qualcun. Oppure aver visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere…» «Sì… però quei membri dell’equipaggio non hanno libertà di accesso alle cabine e, in genere, non possono circolare negli spazi riservati ai passeggeri» «Non resta che andare a vedere.» Il Comandante, seguito come un’ombra dagli altri ufficiali del suo stato maggiore, tutti nelle loro divise immacolate, ci guida nei meandri della nave verso i locali adibiti a cucine. L’impressione è quasi di assistere ad una scena da ospedale, con il primario e il codazzo degli assistenti. In realtà il poveraccio risulta proprio appeso nel grande frigorifero, seminascosto tra i quarti di carne avvolti in teli di juta. Un gancio infilato nel colletto della tuta da lavoro lo trattiene in posizione eretta. Il volto è cianotico, la lingua pende orrendamente all’esterno e gli occhi spalancati mostrano i bulbi fuori dalle orbite. Attorno al collo sono ben visibili le ecchimosi provocate dallo strumento usato per il soffocamento, probabilmente un laccio o una corda, che ha lasciato uno spesso solco nerastro. Dorigo prende in mano la situazione e, dopo aver ordinato di staccare il poveretto dal gancio e di trasportarlo in un vicino locale, dispone di isolare e piantonare immediatamente le cucine e la cabina o, comunque, il posto in cui viveva abitualmente l’assassinato nelle ore libere dal servizio. Poi fa chiamare uno degli agenti della Scientifica e gli chiede di effettuare in tali luoghi una minuziosa perquisizione. A noi non resta che ritornare al centro informatico. A fare ipotesi su ipotesi, ma senza approdare a niente di concreto. La faccenda però si sblocca entro un’ora, quando dal rapporto dell’agente apprendiamo che tutto è risultato in ordine, salvo un fatto determinante: nonostante accurate ricerche manca il badge personale


41 dell’uomo strangolato, la tessera che consente il controllo elettronico per poter salire e scendere dalla nave. Dorigo, come al solito, è il più veloce e concreto: «Adesso il collegamento con la morte della ragazza mi pare ben chiaro: l’assassino ha ucciso il cuoco per rubargli la card e scendere indisturbato a Tripoli, dopo aver commesso il delitto.» «Ma il sistema» interviene il Commissario «non avrebbe potuto dare il consenso alla partenza, se mancava qualcuno… se qualcuno risultava sbarcato e non tornato a bordo…» «Già… è vero… il vostro software se ne sarebbe accorto…» «A meno che…» il Commissario arrossisce come un peperone... «A meno che?» «Beh… Potrebbe essere sceso utilizzando il badge del morto e poi aver approfittato della confusione che di solito si registra quando i passeggeri rientrano dalle gite a terra. Quindi potrebbe aver consegnato effettivamente la tessera al controllore, perché la passasse nel lettore e registrasse il rientro, ma poi potrebbe averlo distratto, magari utilizzando una borsa incastrata ad arte nel detector, ed essere invece tornato indietro senza farsi scorgere, mimetizzato in mezzo agli altri passeggeri.» «In sostanza» Dorigo è piuttosto deluso, quando replica «lei sta dicendo che il controllo, nonostante l’impiego di un sofisticato sistema elettronico, può avere delle falle… » «Non il sistema in sé. Tuttavia non posso purtroppo escludere che una défaillance sia in effetti avvenuta… d’altro canto lei capisce che con migliaia di persone che in pochi minuti transitano davanti ai controllori è possibile che qualcuno tenti di ingannarli intenzionalmente. E’ un caso assolutamente impensabile che un passeggero o un marinaio agiscano di proposito per… restare a terra… fingendosi a bordo…» «Eh sì, ha ragione anche lei… Potrebbe essere andata proprio così. Però adesso siamo di nuovo nel buio più completo, per quanto riguarda l’omicidio della donna, dato che l’assassino ci è ormai sfuggito e che riprenderlo, a Tripoli, è un’impresa pressoché impossibile.» «E’ vero» interviene Cristina, che è rimasta a lungo pensierosa. «Sono tuttavia del parere che gli accertamenti incrociati che intendevamo fare utilizzando i tabulati preparati dal Commissario debbano essere proseguiti. Non dobbiamo tralasciare nulla.» Ma, nonostante l’impegno di diverse ore, non riusciamo a trovare alcuna soluzione: tutti i passeggeri risultano in regola, non sono emersi pro-


42 babili collegamenti, né di nazionalità né di residenza o altro, con la giovane morta, per cui non resta che consentire al Comandante Pittaluga di dare gli ordini necessari per l’attracco a Venezia, limitandoci a portare con noi l’intera documentazione. Il medico legale dottor Cancian ha confermato sia l’avvelenamento da cianuro della ragazza sia lo strangolamento del cuoco peruviano, riservandosi di produrre le sue relazioni entro brevissimo tempo. Anche gli uomini della Scientifica hanno completato il lavoro e manderanno a Dorigo e alla dottoressa Lamperti un rapporto circostanziato sui loro rilievi. Le ombre della sera incombono sulla laguna, non appena la nave ha superato il canale tra le dighe d’ingresso del porto, per poi esplodere in una fantasmagoria di luci quando transita nel Bacino di San Marco e imbocca il Canale della Giudecca, passando a pochi metri dalla Piazzetta e dal Palazzo Ducale, con il suo ponderoso corpo superiore incredibilmente sospeso su una successione di eteree colonne. Purtroppo l’intento di risollevare il morale di Cristina è sostanzialmente fallito, a causa dei drammatici eventi capitati in crociera, e nemmeno una lunga e tenera notte d’amore in quello che, ormai, è il nostro nido preferito a Venezia, l’Hotel Casanova, è servita a vincere il suo stato di insoddisfazione e di nervosismo. Siamo ritornati a Milano con il Freccia Bianca e lei si è rimessa a lavorare in maniera forsennata, dedicando la gran parte del suo tempo alle indagini sul caso delle modelle assassinate. Caso evidentemente unico, considerata la loro provenienza e la presenza su entrambe dell’inquietante, identico marchio. A rinforzare poi il legame tra le due donne contribuiva il fatto, verificato da Dorigo, con il quale Cristina era in continuo contatto, che l’indicazione sul passaporto di Farida: “dipendente di casa di mode” in realtà significava che anch’essa svolgeva a Venezia la medesima attività di Nadira a Milano. Una settimana dopo il nostro rientro sono giunte le relazioni del medico legale e della Polizia Scientifica. Nella cabina occupata sulla nave da Farida non sono state trovate impronte diverse da quelle dell’interessata e del cameriere addetto, così come nell’appartamento di Nadira non ve ne erano altre, oltre alle sue e a quelle della moglie del portiere filippino dello stabile, che vi svolgeva i lavori domestici. Il dottor Cancian, dal canto suo, ha ulteriormente precisato le modalità


43 in cui si è svolto l’omicidio. L’ora della morte è stata stimata attorno alle otto-nove di sera, cioè circa dodici-tredici ore prima dell’esame esterno svolto sul cadavere dal medico legale dopo essere salito a bordo della nave, la mattina successiva. Anche in questo secondo caso l’assassino ha reso incosciente la vittima, che probabilmente ha sorpreso mentre si stava preparando per scendere a cena al secondo turno del ristorante per il quale era prenotata, con un tampone imbevuto di etere, del quale è emersa traccia dall’esame dei tessuti dell’apparato respiratorio. Poi, dopo averla spogliata completamente, le ha praticato il clistere mortale con una soluzione di cianuro, che aveva già pronta in una peretta di gomma o in una siringa munita di cannello, del cui uso sono stati trovati piccoli segni sulla mucosa anale. Il decesso è avvenuto pochi secondi dopo l’assorbimento del veleno, con una successione di scosse convulsive e di tremori spastici provocata dall’arresto respiratorio e cardiocircolatorio, cui è seguito il rilascio generalizzato della muscolatura. Oltre all’inusuale depilazione radicale del pube e all’ancora più inconsueto marchio a fuoco sullo stesso, il medico legale ha rilevato anche in questo caso la pregressa foratura dei capezzoli e l’allentamento artificiale della muscolatura sfinterica. Nessun altro segno significativo sul corpo della ragazza e nemmeno dall’esame autoptico e dall’analisi dei tessuti degli organi vitali è emerso alcunché di significativo: era in buona salute, non assumeva droghe né alcool e anche lei non aveva avuto rapporti sessuali recenti, di nessun tipo. Praticamente la copia conforme della morta di Milano. Identico il modus operandi dell’assassino. Identiche le conseguenze. Né dall’esame del telefono cellulare che la ragazza aveva con sé e nemmeno dai relativi tabulati, così come per il telefono fisso nella sua abitazione, è stato possibile ricavare qualcosa di utile alle indagini. Cristina ha letto e riletto cento volte quei rapporti senza venire a capo di nulla. Dalle investigazioni della Polizia e dei Carabinieri e dalle informazioni giunte dall’Interpol è risultato che Farida Al-Azhar bint Nural-Din aveva trentun anni e che quando è venuta via dal suo paese ne aveva circa ventuno. Esattamente come Nadira, era originaria di Shayda, la capitale di Al-Tahra, l’antico sultanato sperduto nelle montagne dello Yemen, al confine con l’Oman. Anch’essa fruiva di nazionalità britannica, avendo ottenuto asilo dal Governo inglese. Ma pure in questo caso la motivazione della concessione non è stata resa nota. A Londra ha abitato circa cinque anni ed ormai è certo che lì conviveva


44 con l’amica Nadira; poi per un paio d’anni sono state, sempre assieme, a Parigi e quindi a Milano per un anno. Due anni fa, non si sa per quale motivo, si sono separate e Farida è andata a risiedere a Venezia per lavorare come indossatrice per l’alta moda. Nemmeno su di lei è emerso alcun precedente o rilievo. Non era sposata né sono note particolari amicizie maschili o femminili; ha sempre tenuto un comportamento serio, come ha confermato il titolare della casa di mode dove era occupata attualmente. C’era veramente da impazzire di fronte a queste due vite, tanto simili da apparire quasi una fotocopia l’una dell’altra, e con il medesimo, tragico destino. Dopo giorni e giorni tormentati, Cristina ha finalmente concluso che è necessario recarsi personalmente ad investigare nei luoghi in cui le due ragazze hanno vissuto, risalendo da Parigi a Londra, anche per cercare di comprendere la vera ragione della concessione del diritto di asilo, finora rimasta coperta dalla proverbiale riservatezza britannica. Lei non può muoversi da Milano a causa del suo ufficio e così, è inutile dirlo, mi sono ben volentieri offerto di provvedere al proseguimento delle indagini in terra straniera. FINE ANTEPRIMA Continua...


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