Nessuno dopo di noi

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ALESSANDRO LEGGI

NESSUNO DOPO DI NOI

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NESSUNO DOPO DI NOI

Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-607-3 Copertina: immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Ottobre 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova


A Raggio di Luna, Falco e Cheyenne



A

rriva un momento nella vita in cui bisogna fare i conti con un incontenibile desiderio di fuga. Scappare dalla società, dai luoghi comuni, dalla crudeltà del mondo. Dall'assumersi le proprie responsabilità, forse. Ho vissuto intensamente questo stato d'animo nel 1991. È stato l'anno della cosiddetta tempesta nel deserto. Usando un’espressione militare tipica dell’epoca: una piccola operazione chirurgica, un intervento includente centinaia di tonnellate di bombe sganciate in una sola notte. Una catastrofe umanitaria ed ecologica raccontata dal vivo. Finalmente, dopo secoli di attesa, la guerra in diretta. Il 1991 è stato anche l'inizio dei festeggiamenti per il cinquecentesimo anniversario della scoperta dell'America. Festeggiamenti planetari per un genocidio di razze e annientamento sistematico di culture che, nel nome di una fantomatica civilizzazione, accompagna la storia dell'umanità, fino ai confini più remoti della Terra. Nel 1991 ho detto basta! Insieme alla mia compagna di allora, una ragazza tedesca, ho deciso di mollare tutto. Per alcuni mesi mi sono ritrovato immerso in un'avventura fantastica. Un universo così lontano dalla realtà quotidiana, da sfuggire quasi alla percezione cosciente. Ho visitato luoghi meravigliosi, incontrato e conosciuto moltissima gente. Non si può immaginare quante persone, proprio in questo istante, stanno facendo il giro del mondo. A piedi, in bicicletta, in treno, in aereo, in moto. Ognuno con mille storie e avventure da raccontare. Di tutto e di tutti serbo un ricordo indelebile. Un bagaglio d'esperienza difficile da comunicare. Una miscela di memorie densa e profumata che, e non poteva essere altrimenti, non mi abbandonerà mai.


In lingua guaranì "ne' é" significa parola e significa anche anima. Gli indigeni guaranì credono che coloro che mentono, o abusano della parola, tradiscano l'anima. Questa è una filosofia comune a molte culture indigene. Più dei massacri indiscriminati, dell'introduzione mirata di alcool e malattie, delle deportazioni di massa, più della superiorità tecnologica, l'arma più potente di cui l'uomo bianco si è avvalso e su cui ha costruito il proprio dominio è stato l’uso sistematico della menzogna.


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OTTOBRE

"...Vanno tutti nudi come la madre li partorì, comprese le donne, e una di queste era assai giovane. ...E tutti quelli che vidi eran giovanissimi, che non ne scorsi alcuno che fosse di età superiore ai trent'anni, e sono tutti assai ben fatti, bellissimi di corpo e di graziosa fisionomia... Taluni si dipingono di grigio, altri di bianco o di rosso o d'altro colore; taluni si dipingono la faccia, altri tutto il corpo, o solo gli occhi o solo il naso... ...Non portano armi e nemmeno le conoscono: mostrai loro le spade ed essi prendendole per la parte del taglio, per ignoranza, si tagliavano... Non hanno alcuna specie di ferro. Le loro zagaglie sono certe verghe senza ferro, alcune delle quali recano all'estremità un dente di pesce e altre un corpo duro di qualsiasi specie... Debbono essere buoni servitori e ingegnosi perché osservo che ripetono presto tutto quello che io dico loro, e ritengo anche che possano diventare agevolmente cristiani, poiché mi pare che non appartengano a nessuna setta... ...Piacendo a Nostro Signore, quando partirò da qui prenderò con me sei di questi uomini per condurli alle Altezze Vostre, affinché imparino a parlare (il castigliano)..."

"Cronaca del primo incontro” dal Diario di Cristoforo Colombo Venerdì 12 Ottobre 1492


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LA PARTENZA

Venerdì 18 Ottobre Stazione di Freiburg (Germania) Vento, freddo, pioggia. La domanda che continuo a farmi è la seguente: cosa diavolo avrò messo nello zaino? Fare mente locale rappresenta un buon mezzo per controllare se ho dimenticato qualcosa, ma non mi impedisce di imprecare sottovoce. Sto praticamente maledicendo ogni singolo calzino, pantalone e maglietta che ho stipato a forza la sera precedente. Capire poi perché mi stia portando tutta questa roba è destinato a restare un mistero insolubile visto che, puntualissimo, alle cinque e mezzo di mattina, ora locale, il treno sta partendo. Verso le nove inizio ad avere le normali reazioni spaziotemporali di un comune essere vivente. Solo adesso mi rendo conto che stiamo viaggiando a bordo di un treno all'avanguardia. C'è la moquette dappertutto, anche nei posacenere, ogni scompartimento risulta acusticamente isolato, quindi, se non fosse per il paesaggio che scivola via veloce fuori dal finestrino, si avrebbe l'impressione di essere completamente immobili. In dotazione abbiamo anche dei telefoni funzionanti per mezzo di carte di credito e (lo giuro: l'ho visto!) uno sportello bancomat! Velocissimi e comodissimi ci ritroviamo all'aeroporto di Francoforte. Luoghi singolari gli aeroporti, così simili e così diversi dalle stazioni ferroviarie a causa di quel loro ritmo più lento, meno esasperante. Probabilmente perché bisogna trovarsi sul posto con largo anticipo sull'orario di partenza e si può godere dell'infinito tempo a disposizione una volta esaurite le formalità legate alla procedura d'imbarco. Alla fine si ha la sensazione di trovarsi in un'immensa sala d'attesa.


9 Qualcuno arriva, altri partono, c'è chi accompagna, chi viene a prendere, ma la maggior parte dei presenti aspetta. In breve siamo a Londra, dove dobbiamo cambiare aereo. Un estenuante controllo passaporti genera una fila da saldi di fine stagione. Un bus-navetta deve condurci alla sala d'imbarco, ma tarda a mettersi in moto riempiendosi di passeggeri. Tra gomitate e pestoni ho l'impressione di rivivere l'incubo quotidiano del trasporto pubblico di Roma. Mi tranquillizzo solo quando l'autista prende finalmente posto: l'effigie stampata sul cappello non è dell'ATAC. «Anything else?» Lo steward della compagnia non è più giovanissimo ma ha ancora un bell'aspetto ed è gentile, e, solo per non essergli da meno, accetto il terzo "mignon" di Bailey's. Sto tentando, senza per altro molto successo, di seguire il film in programmazione sullo schermo comune, ma deve esserci un problema audio in quanto le mie cuffie continuano a trasmettere le istruzioni su come vomitare nell'apposito sacchetto. Quasi ci siamo, comunque. Con generosi sorrisi, le hostess distribuiscono un modulo, mentre dagli altoparlanti uno speaker esorta alla lettura e compilazione dello stesso. Trattasi in pratica di una dichiarazione autocertificata per la richiesta del visto d'ingresso negli Stati Uniti. Tale permesso è negato, o quantomeno sottoposto a ulteriori verifiche, a: 1) Tutti coloro che fanno parte di un'organizzazione comunista. 2) Tutti coloro che, almeno una volta nella vita, abbiano partecipato a manifestazioni di piazza, dove sembra siano stati notati comunisti. 3) Terroristi internazionali (praticamente tutti i musulmani più gli appartenenti alle categorie 1 e 2) 4) Tutti i cubani non residenti a Miami. 5) Tutti coloro in possesso di un disco degli Inti-Illimani. 6) Citare almeno tre film interpretati da John Wayne. C'era una volta la rigidità a est!!


10 Aeroporto di Los Angeles ore 16:30 Il DC 10 atterra senza problemi. Sto ripensando alle assurdità contenute nella richiesta del visto mentre mi trovo davanti a un'enorme apertura circondata da un anello di tapis roulant, in attesa che questa si decida a restituirci i bagagli. In fondo ho realmente mentito solo al punto 5 perché, lo ammetto, possiedo un disco degli Inti-Illimani, ma è anche vero che l'ho ascoltato poche volte in quanto noioso. Sono uno spirito comunista ma sprovvisto di qualsiasi tessera, per cui mi dichiaro innocente. Comunque sia, posso sempre avvalermi del diritto di chiamare il mio avvocato, come è usanza da queste parti. È proprio vero che la paura rafforza il nemico: mentre fantastico su un mio possibile arresto immediato, ci accorgiamo dell'approssimarsi di una nuova serie di controlli. Siamo bloccati da quasi mezz'ora: visto, bolli, esame delle emanazioni ascellari, passaporto. Ancora dichiarazioni da firmare. Respiro profondo, calma. La chicca finale a circa quindici metri dall'uscita. L'incaricato del benemerito Ministro dell'Agricoltura U.S.A. sorride mentre ci esorta cortesemente ad aprire gli zaini. "No guys, non avete capito: non solo aprire, li dovete svuotare gli zaini. Thanks" Mi viene quasi da piangere osservando inerte, mutande, calzini e dopobarba, rimbalzare allegramente in tutte le direzioni sopra l'ampio bancone. Tento disperatamente di ricordare se ho poi infilato da qualche parte quel pacco di spaghetti da utilizzare solo in situazioni di estrema necessità. Ma come?Tutta quella pubblicità "parti tranquillo che dove c'è la pasta c'è casa", la musichetta, la bambina, lui che prende l'aereo... Sta a vedere che adesso mi rimandano indietro per quel fusillo nella tasca della giacca!!!


11 Sabato 19 - Martedì 22 Ottobre California dreaming Sarà a causa della stanchezza ma non conservo molti ricordi dell'arrivo di ieri sera. Dopo aver colto, tra la folla in attesa, il volto sorridente di Hugo, lo zio di Heike, ho vaghe e nebbiose visioni di una fila interminabile sulla Pomona highway e la sensazione opprimente di una metropoli che sembra espandersi senza limiti. Siamo a casa di Hugo e Aida a Monterey Park, periferia sudovest di Los Angeles. Raccontiamo loro del viaggio in aereo dialogando in inglese. Hugo mi chiede aggiornamenti sul calcio ma, dopo alcuni minuti, devo convenire che ne sa più di me. Mi spiega che almeno una mezza dozzina dei cento e passa canali televisivi sono riservati agli avvenimenti sportivi europei, soccer in testa. Al quinto minuto della ripresa chiedo la sostituzione. Mi congedo dalla compagnia e, esausto, mi catapulto sul letto. La mattina di domenica ci sentiamo già meglio. Sicuramente ci vorranno alcuni giorni per adattarsi al cambiamento di fuso orario. In ogni caso la lunga dormita e la doccia rigeneratrice hanno sortito l'effetto dovuto. Visitare i grattacieli di Los Angeles non faceva certo parte del mio capiente carnet di sogni nel cassetto, ma, visto che siamo qui, tanto vale dare un'occhiata. In prima serata ci dirigiamo verso la downtown, il cuore della città. Il centro storico di Los Angeles è formato praticamente da non più di una quindicina di immensi grattacieli. Uffici, grandi alberghi, ristoranti di classe. Questi enormi pezzi di vetro e cemento fanno da cornice a un mondo irreale dove, gettando uno sguardo discreto, si può ammirare la ricca lady scendere da automobili lunghe come motoscafi, passare accanto al corpo inanimato di alcuni homeless riversi sulla zona buia del marciapiede, coperti solo dai propri stracci e da un marcato velo di desolazione. Che siano morti?! Pensiamo di essere gli unici ad avere l'atroce dubbio. Giusto a due passi da qui inizia (o finisce) la Quinta Strada, un luogo dove, a detta di Hugo, è meglio non trovarsi né di giorno,


12 né tantomeno di notte, e in cui neanche la polizia osa mettere piede. È soltanto uno dei tanti ghetti di Los Angeles. Proseguiamo il tour come dei bambini accompagnati per la prima volta al Luna Park. Beverly Hills, il quartiere delle stelle del cinema. Quindi Hollywood dalle mille luci accecanti, aggressive di lucida follia. Le impronte delle star in uno scenario da fiera paesana. Gli zii di Heike, presso cui siamo ospiti, sono molto gentili e premurosi nei nostri confronti. Hugo ci presta la sua auto (un maggiolino rosso fiammante) per una prima escursione solitaria. Attraversiamo completamente l'intera metropoli per circa quaranta miglia. Il tempo è un po' incerto. Lasciata la freeway per la statale, ci inerpichiamo tra le St. Monica Hills delle soffici colline verdeggianti giusto a ridosso dell'oceano. Una nebbia statica aleggia implacabile lungo quasi tutta la costa. Ci ritroviamo a Malibù senza rendercene conto e soprattutto senza vedere praticamente niente. Santa Monica e, in rapida successione, quel lembo di spiaggia rinomata e pazzoide chiamata Venice Beach. Siamo alla fiera del tutto e del nulla. Le bancarelle offrono l'inverosimile, qualcuno si cimenta in esercizi yoga, altri corrono sui pattini facendo sfoggio di fisici perfetti e sorrisi da ritardati mentali. Un'oscena palestra di body-building all'aperto completa lo spettacolo deprimente. La curiosità, associata al desiderio di uscire comunque dal caos della grande metropoli, ci porta a Venice Beach anche il giorno seguente. Stavolta l'atmosfera è più tranquilla. Abbraccio finalmente l'immensità della spiaggia. Dall'acqua alla strada ci saranno almeno quattrocento metri. C'è poca gente. Una coppia passeggia distratta. Dei cani si rincorrono sul bagnasciuga. Individui solitari cercano di carpire quel po' di sole che stenta a farsi breccia tra nuvole compatte e grigiastre. Camminiamo senza parlare lungo questa infinita distesa di sabbia. A circa cinquanta metri dalla riva un gruppo di delfini salta fra le onde. Deve essere uno spettacolo consueto visto che nessuno sembra farci caso. L'atmosfera è ovattata, quasi impalpabile, come lo sarebbe in una


13 mattinata d'autunno in un film di Frank Capra. Approfitto di questi attimi di relax per concedermi al jogging. Più tardi, agli amici, potrò raccontare di aver corso a piedi nudi sulla spiaggia di Malibù, con molto più orgoglio di quanto non possa avere riguardo al tempo speso, controvoglia, sui marciapiedi di Hollywood. Sono circa le sei di mattina di martedì 22 Ottobre. Mi trovo alla guida di un mitico maggiolino Volkswagen che ha da poco compiuto vent'anni. Umore dei passeggeri: buono. Colonna sonora: oldies anni '50-'60. Note particolari: pestilenziale odore di cracker alla cipolla nell'abitacolo. L'avventura sta per avere inizio. Lasciati i caotici sobborghi di Los Angeles, caratterizzati da interminabili code di auto in direzione della metropoli, attraversiamo un tratto di pianura umida a cui si alterna una serie di colline nebbiose. Piove e la temperatura è abbastanza bassa. Non appena cominciamo a scendere, la nebbia si dirada progressivamente, e lentamente sotto i nostri occhi estasiati comincia a prendere forma l'incredibile deserto Mojaves. In questo preciso istante sta mutando il mio personale concetto di spazio. L'orizzonte sembra espandersi senza limiti. Non avrei mai immaginato che la vista potesse perdersi così all'infinito. Il paesaggio muta di minuto in minuto, pur restando praticamente lo stesso. Ho come la sensazione che la mente non riesca a catturare e registrare tutte le immagini che ci si pongono di fronte, anche se non c'è nulla da osservare se non lo sbalorditivo vuoto che ci circonda. La vegetazione è rappresentata da scarni ciuffi d'erba e sterpaglie di un verde molto cupo, inframmezzati da vaste porzioni di deserto vero e proprio. Lontanissima, all'orizzonte, una catena montuosa. Mentre qualche sparuto villaggio disturba il panorama, passiamo il ponte sul fiume Colorado, che rappresenta il confine di stato. Siamo in Arizona ed è tempo di fare una pausa: la vecchia Mag ne ha bisogno e noi più di lei.


14 Non ci eravamo ancora resi conto che potesse sopravvenire il problema alimentazione. Durante il soggiorno a Monterey Park, Hugo e sua moglie Aida hanno allietato i nostri stomaci con deliziose cenette e allettanti spuntini. Non si era quindi paventato direttamente lo scontro con la non cultura americana a tavola. "Dimmi come mangi e ti dirò chi sei". Il fatto che questo paese sia per antonomasia il regno dei fastfood mi lascia alquanto perplesso. Area di ristoro in Arizona, possibilità di approvvigionamento: libera scelta tra ben sei schifosissimi e puzzolenti fast-food. Sto già rimpiangendo il soave profumino dei cracker alla cipolla. Inutile sottolinearlo, siamo rimasti ben alla larga e il nostro timido tentativo di ripiegare nello shop dell'area di servizio è stato prontamente sedato da una controfigura di panino alla plastica ai limiti del codice penale. Mentre la fame inizia a far sentire i suoi morsi, il paesaggio va mutando. La vegetazione si fa più fitta e in breve siamo circondati da alberi d'alto fusto. Le ripetute salite e i tornanti mettono a dura prova la resistenza dell'auto, ma nonostante sussulti e timori, alfine, giungiamo. Giusto il tempo di tirare il freno a mano e correre verso la pensilina. Lì, accarezzato dalle penombre del tramonto, ci appare il Grand Canyon. È un'altra visione di immensità. Per quanto vasto l'avessi immaginato, lo è ancora di più e gli ultimi bagliori del giorno lo rendono pieno di fascino e mistero. Siamo colti all’istante da un incontrollabile desiderio di scendere ed esplorare, studiare fessure e anfratti che innumerevoli si stagliano sotto di noi. Siamo stanchissimi e affamati. Abbiamo percorso le settecento miglia che separano Los Angeles dal Grand Canyon senza praticamente toccare cibo. Giusto il tempo di capire dov'è il campeggio e cosa fare per mettere in moto le mandibole. Consumiamo un pasto penoso in uno dei ristoranti del Village. Mi risulta difficile trovare le parole adatte per commentare adeguatamente quelle fettuccine Alfredo: una sorta di bavette immerse in una sostanza verdina dal sapore di semolino. Complimenti allo chef!


15 Mercoledì 23 Ottobre Grand Canyon Se non si è in possesso di buone cognizioni riguardanti le molteplici sfaccettature dello slang americano, che spesso non ha niente a che vedere con la lingua inglese, visitare il Grand Canyon può diventare problematico; nel senso che non si capisce da che parte cominciare. Schiere di ristoranti, alberghi, uffici pullulanti di mandrie di turisti allo stato brado, tanti ranger, molti dei quali obesi: il tutto senza esplicita chiarezza del dove, quando e perché. Alla fine centriamo l'ufficio giusto, quello cioè dove ti informano su cosa devi fare per arrivare all'Ufficio Informazioni. Risolto lo stratagemma veniamo messi al corrente che per scendere giù nel canyon bisogna farsi rilasciare un visto speciale ed effettuare una prenotazione. Il tutto, logicamente, in another office! La fortuna ci dà una mano. Oggi è ormai troppo tardi, ma domani siamo i secondi della lista, e se tutto andrà bene, presentandoci alle nove presso lo stesso ufficio (oddio, quale?) ci rilasceranno il permesso d'ingresso e l'autorizzazione a pernottare nei due campeggi che si trovano giù a valle. Grande, grandissimo sospiro di sollievo. Siamo più rilassati e decidiamo di fare un giro per saggiare il sentiero e le nostre condizioni fisiche, anche perché il village è colmo di giapponesi in preda ai soliti raptus fotografici e di pensionati made in U.S.A., vestiti alla John Wayne, dalla mascella scolpita e l'alito pesante. Pur essendo a due passi dalla riserva Hopi, di indiani neanche l'ombra. Nel primo pomeriggio ci rechiamo nel grande ipermercato del villaggio. Spesa da escursione: cracker, risotti liofilizzati, merendine energetiche, l'indispensabile acqua. Una volta tornati al campeggio prepariamo con cura gli zaini. Ancora non pesano moltissimo, ma dobbiamo aggiungere le tenda e il sacco a pelo. Il nostro fornellino ad alcool ci fornisce una buona cena calda. Il freddo pungente e l'ansia di avventura rendono difficoltoso il riposo notturno.


16 Giovedì 24 Ottobre Yaki Point-B.A.C . Alle nove in punto siamo davanti all'ufficio di ieri. Un'esemplare femmina di ranger ci rilascia il visto, mentre un suo collega ci illustra verbalmente gli eventuali contrattempi che possono verificarsi durante l’escursione. Ognuno deve pensare a se stesso. Una volta scesi non si può comprare cibo in quanto non esistono negozi. L'acqua è scarsa e non tutta potabile (ne dobbiamo portare tre litri a testa per il viaggio di andata); ci sono scorpioni, serpenti a sonagli e la temperatura può raggiungere valori proibitivi. Rimugino sul fatto di aver acquisito elementi sufficienti per tornarmene nel sacco a pelo. La signorina Montgomery ci sorride augurandoci buon viaggio. Di comune accordo abbiamo stabilito che il nostro tour comprenderà un primo pernottamento al Bright Angel Camp e un secondo all'Indian Garden Camp. L'adrenalina sale. Usciti dal ranger's office, lasciamo l'auto nel punto dove faremo ritorno tra due giorni: il Bright Angel Lodge a 2500 metri sul livello del mare. Da lì un bus navetta ci conduce, insieme a un'altra ventina di arditi, allo Yaki Point, da dove partiamo alle undici e un quarto circa. Dallo Yaki Point il Grand Canyon sembra non avere fine. Le nuvole si espandono lungo il vasto orizzonte, proiettando ombre fluttuanti sui costoni rocciosi, aggiungendo nuove tonalità e accenti al già di per sé frastagliato paesaggio. Il sentiero è stretto e chiaramente molto sconnesso. A tratti, grosse formazioni rocciose formano una sorta di scalinata che agevola, in parte, gli spostamenti. Dopo quarantacinque minuti ci concediamo una piccola pausa rifocillandoci alla pallida ombra di un alberello rinsecchito. Il peso dello zaino e il caldo cominciano a farsi sentire, costringendoci a effettuare una fermata per liberarci del jeans e della felpa.


17 Ho le gambe molli e il carico non indifferente provoca delle fitte dolorose alle spalle, ma la ricompensa offerta dall'incomparabile scenario mi toglie dalla testa l'idea di lamentarmi. Verso le tredici avvistiamo il fiume Colorado. Il Bright Angel Camp, nostra meta, deve essere lì da qualche parte. Gradualmente ci investe il mutare del colore delle rocce e della vegetazione. La luce così filtrata proietta strani riflessi verdastri sui biondi capelli di Heike. L'ultima serie di tornanti è massacrante. Un breve tratto scavato nella roccia ci introduce al ponte sul Colorado, la cui acqua assume delle tinteggiature di un verde intenso, corposo. Il Bright Angel Camp sorge in prossimità della sponda sinistra di un piccolo affluente del fiume. Vi giungiamo alle tre del pomeriggio, dopo aver percorso dieci chilometri ed essere scesi da 2500 a 800 metri s.l.m. Circa trecento metri più a nord si trova il Phantom Ranch, che rappresenta il punto di riferimento centrale qui a valle, mentre alla fine del ponte da poco attraversato c'è un eliporto di emergenza. Mostriamo le nostre credenziali al ranger, quindi montiamo la tenda al cospetto di alcuni daini intenti a masticare le foglie di un giovane arbusto a pochi passi da noi. Si comportano come se la presenza umana non desse loro alcun fastidio. L'avevo già notato in precedenza, durante la discesa. Tutti gli animali incontrati sinora, daini, scoiattoli, minuscoli topolini del deserto che saltellano sotto il tavolo alla ricerca di qualche briciola vagante, non hanno infatti mostrato particolare timore alla presenza di esseri umani. È una sensazione molto bella a cui ho ripensato a lungo. Durante il tragitto di stamane ho commesso l'imperdonabile errore di non bere a sufficienza. Credo sia questo il motivo della lancinante emicrania che sta rovinando questa intensa giornata. Di fatto devo ricorrere a un'aspirina per ottenere un po' di sollievo. Dove ho trovato un'aspirina nel bel mezzo del Grand Canyon? Ebbene viaggiare con un'infermiera presenta diversi vantaggi.


18 Venerdì 25 Ottobre B.A.C. - Indian Garden Camp Quando, specialmente al mattino, il tempo stringe, una coordinata suddivisione dei compiti è di vitale importanza. Così, mentre uno di noi smonta la tenda e arrotola i sacchi a pelo, l'altro prepara la colazione o viceversa. Una buona sincronia di tempi è un ottimo viatico per ben iniziare la giornata campale e ha anche una positiva influenza sul rapporto tra compagni di viaggio. Tutto ciò per dire che sono di buon umore anche se avrei assoluta necessità di una doccia, ma vista la drammatica scarsità di acqua, non mi sembra il caso. Ci sono 7,4 chilometri da Bright Angel Camp a Indian Garden e si risale da 800 a 1500 metri. Per una buona mezz'ora costeggiamo il lento incedere del Colorado. Attraversiamo quindi un ponte di ferro proprio mentre l'elicottero dei ranger si alza in volo, diretto chissà dove. Raggiungiamo la sponda sud del fiume da dove ha inizio la risalita. Questa volta niente errori: ingurgito la mia razione di liquido pur non avendo molta sete e cerco di mantenermi, per quanto possibile, fuori dalla portata della luce solare diretta. Breve sosta alla prima rest-house del percorso. Il Colorado è ancora lì, a sole poche centinaia di metri da noi, scintillante del suo verde smeraldo. Sulla sponda opposta al nostro punto di osservazione due pescatori intenti a consumare lentamente preziosi istanti di quiete assoluta. L'ascesa inizia a farsi pesante, anche se ho l'impressione che risulti meno impegnativa della discesa di ieri. Lo spettacolo offerto dal Grand Canyon è così mutevole che ormai non ci sorprende più. Delle marmotte ci accompagnano curiose lungo il sentiero. Effettuiamo una seconda sosta consumando dei cracker e una scatoletta di tonno a ridosso di una parete di nuda roccia. Chiaramente ogni sorta di rifiuto prodotto quale carte, cartine, cartacce, lattine, mozziconi di sigaretta, deve essere conservato, trasportato e gettato una volta fatto ritorno al villaggio. Ripartiamo. Declino decisamente ogni paternità riguardante una mia fantomatica precedente affermazione indicante una preferenza delle salite. Mi consola solo che, secondo i miei calcoli, non dovrebbe manca-


19 re ancora molto. Avvistare l'Indian Garden è stato come veder concretizzare una sorta di miraggio anelato da almeno una ventina di minuti a questa parte. Ci concediamo finalmente un po' di riposo, quindi azione combinata preparazione pranzo-montaggio tenda. Persone normali, non affette da turbe psicofisiche, ne avrebbero avuto abbastanza, ma questo, purtroppo (o per fortuna) non è il nostro caso. Ci muoviamo quindi per un rapido blitz al Plateau Point. Percorrere i due chilometri e mezzo di sentiero, largo e pianeggiante, che dividono l'Indian Garden Camp dal Plateau Point, senza il peso degli zaini, è una comoda passeggiata. Fa molto caldo e solo ora mi rendo conto del perché i ranger debbano compiere circa duecento interventi di salvataggio all'anno. In agosto, da queste parti deve essere terribile. Oltre al gran caldo pullulano serpenti a sonagli e scorpioni, che in questo periodo se ne stanno rintanati in qualche tana o sotto delle grosse pietre. Di conseguenza, tenendo le mani a posto e badando attentamente a dove si mettono i piedi, non si dovrebbero correre rischi. La veduta dal Plateau Point è ancora una volta magnifica. Il Colorado appare come un enorme serpentone verde che sembra farsi largo a forza attraverso i costoni di ruvida roccia. Sulla via del ritorno una stupenda coppia di daini si concede gentilmente per una foto ricordo.

Sabato 26 Ottobre Indian G. Camp - Bright A. Lodge La rapida ma sostanziosa colazione rappresenta per noi un rito a cui non rinunceremmo per niente al mondo. Questa, unita all'aria fresca del mattino, ci aiuta a essere immediatamente reattivi. Stando a quanto indica la mappa, 7,4 chilometri ci separano dalla vetta a quota 2500 metri. La pendenza della risalita si accentua repentinamente. Nei tratti di sentiero battuti dal sole il caldo è opprimente, mentre nelle zone d'ombra la temperatura si abbassa notevolmente e i ve-


20 stiti, intrisi di sudore, provocano brividi di freddo lungo la schiena. L'incontro con le carovane del turismo organizzato lungo il sentiero è stato oggetto, da parte dei ranger, di ripetute e particolareggiate raccomandazioni. Data l'esigua ampiezza del paesaggio e la suscettibilità dei muli, non si devono compiere movimenti bruschi, ma solo attendere che questi passino oltre restando il più possibile aderenti al costone e ingoiando, in religioso silenzio, tonnellate di polvere. La riverenza non è obbligatoria. Abbiamo avuto bisogno di cinque soste ma alla fine raggiungiamo il Bright Angel Lodge. La foto ricordo è un classico (mi auguro solo che il ragazzo americano che dichiara raggiante di avere "a friend in Melano" ci abbia centrato) e sarà il giusto sigillo a tre giorni indimenticabili. Il resto della giornata trascorre tributando il sacrosanto riconoscimento a tutte quelle comodità quotidiane di cui non afferri l'importanza se non quando non ne puoi disporre a piacimento (una doccia per esempio!).

Domenica 27 Ottobre Grand Canyon – Los Angeles Ore 5:30. Piove! Ancora in preda al sonno più profondo, siamo costretti a smontare la tenda e gettare alla rinfusa tutte le nostre cose nell'auto. Lasciamo il village imprecando in italiano, tedesco e inglese. Percorse una decina di miglia inizia a nevicare e anche a Mag la cosa non sembra andare particolarmente a genio così, prima di addentrarci nel deserto, dove avere un guasto potrebbe rivelarsi problematico, ci poniamo alla ricerca di qualcuno che sia in grado di verificare l'efficienza dell'auto. Pur non essendo un meccanico professionista, nei miei precedenti e svariati sopralluoghi avevo immaginato che il difetto doveva essere causato dalla cattiva circolazione del carburante, imputando ciò alla pompa C, in quanto il filtro della benzina appariva ancora in buone condizioni. Neanche a dirlo, era proprio il filtro della benzina all'interno del


21 quale qualcosa ostruiva il corretto passaggio del carburante. Il titolare della gas-station presso cui ci siamo fermati impiega dieci minuti per effettuare la sostituzione (ce ne vogliono al massimo due) e ha il coraggio e la faccia tosta di chiedere 17 dollari per l'operazione. Praticamente un furto. Proseguiamo. Alcune miglia dopo Needels decidiamo di lasciare la freeway per la provinciale che taglia il deserto Mojaves in direzione del Joshua Tree National Park. L'impatto con la vastità del deserto è reso ancora più intenso dal fatto di avere come unico punto di riferimento l'esile striscia d'asfalto rappresentata dalla strada secondaria che stiamo percorrendo. L'orizzonte gioca con le vette di lontanissime montagne, mentre un assoluto nulla ci accompagna ovunque volgiamo lo sguardo. Arriviamo in una cittadina dal nome insolito, 29 Palme, e improvvisamente scoppia la vita. Così, da un momento all'altro, appaiono insegne colorate, shop-center, semafori, e un tangibile stato di frenesia emanato dalla gente in strada. Non so se classificare ciò come la fine o l'inizio di un incubo. Per quanto riguarda l'albero Joshua, è una sorta di grosso cactus dalla forma insolita. Ce ne sono a perdita d'occhio e la tenue luce del tramonto li rende simili a mesti soldati di un esercito immobile. L'avventura del Grand Canyon si conclude con due ore di coda sulla freeway per tornare a Los Angeles. Una volta elargito a Hugo e Aida il racconto particolareggiato dell'escursione presso il Grand Canyon diamo inizio ai preparativi per la nuova partenza. Di comune accordo, sentite anche le ripetute lamentele delle nostre schiene, abbiamo deciso di ridurre il peso degli zaini, lasciando a casa Fressle tutto ciò che appare superfluo. Alterniamo così l'accurata preparazione dei bagagli a rapide escursioni lungo la costa californiana a sud di Los Angeles ma l'approssimarsi della data fatidica ci rende insofferenti e il tempo sembra non trascorrere mai.


22

AUSTRALIA

Non è dipinta espressione alcuna sul volto dei quattro uomini che sono saliti a bordo del jumbo. Con entrambe le mani impugnano delle bombolette con le quali diffondono un misterioso quanto all'apparenza inodore spray. Siamo all'aeroporto di Auckland in Nuova Zelanda e una voce all'altoparlante sta spiegando che trattasi soltanto di misura precauzionale, ma ciò non sembra risultare cosa gradita ai passeggeri tutti. Sto ancora ripensando a questo curioso episodio nel momento in cui l'aereo si appresta ad atterrare a Melbourne. Mi ha dato così fastidio essere trattato alla stregua di un insetto che per poco non presto la necessaria attenzione alla portata dell'evento. Sono almeno otto mesi che aspetto questo momento. Ricordo esattamente l'attimo in cui Ulrike, un'amica di Heike in visita a Roma, ci regalò una cartina dell'Australia. In quel preciso istante è scattato nella mia mente quel meccanismo teso alla realizzazione di un progetto. Stavo facendo cioè delle serie congetture sulla possibilità di affrontare un viaggio in Australia. Tutto il resto, a partire dalla strutturazione del viaggio stesso, suddiviso in diverse tappe, e merito assoluto della perfetta organizzazione di Heike, è venuto dopo. Seduto sul bus che ci sta conducendo in città, cerco di sbirciare oltre la fila compatta di eucalipti che cinge l'autostrada per carpire il primo scorcio del paesaggio. Impaziente di conoscere tutto e subito, faccio incetta di suoni e colori, analizzo attentamente i volti dei passeggeri del mezzo di trasporto che non sembrano essere turisti, cercando di cogliere l'impressione generata dalla vista del primo australiano. E mentre i miei occhi si fissano sull'apparente caos di luci riflesse dal finestrino, i pensieri corrono all'indietro. Rivivo in un attimo tutti i mesi che hanno preceduto l'inizio di questa avventura.


23 Il desiderio di fuggire da una società che aveva esaltato gli orrori di una guerra definendola semplicemente un'operazione chirurgica. Sfuggire al diabolico gorgo dei luoghi comuni che risucchiano, annullandole tutte, le emozioni. Via dall’assurda equazione: “molto sangue molta audience”. Ma anche i volti degli amici, le esortazioni di mia madre a non partire, il lavoro. Un taglio netto, via, più lontano possibile, se non altro per sfuggire alle celebrazioni per il cinquecentenario del genocidio compiuto nelle americhe. Molto probabilmente pensieri diversi girano nella testa del tipo che è appena entrato dalla porta centrale del bus. Sicuramente un australiano, coperto di tatuaggi, certamente sbronzo. Non è una buona impressione, ma lui è uno e gli australiani sono circa 35 milioni, mi sembra doveroso non trarre conclusioni affrettate. È come se a un australiano appena giunto in Italia facessero conoscere Emilio Fede e poi gli domandassero cosa ne pensa degli italiani. Sarebbe iniquo! L'impatto con l'inglese locale è incoraggiante. La ragazza alla reception dell'ostello della gioventù capisce, risponde alle nostre domande e anche noi la comprendiamo bene. Le difficoltà legate al contorto slang americano appaiono superate.


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NOVEMBRE

...Entravano nei villaggi e facevano a pezzi tutti, senza risparmiare né vecchi, né bambini e sventrando le donne, pregne o puerpere che fossero... ...Strappavano gli infanti dai petti delle madri e tenendoli per i piedi ne fracassavano le teste contro le rocce... Bartolomé De Las Casas (Frate Domenicano) + …Ma quando uccidiamo o feriamo prestiamo attenzione nel farlo in difesa della fede di Nostro Signore Gesù Cristo, affinché in suo nome e sotto la sua tutela possiamo guadagnare il cielo per mezzo della lancia e del coltello. Simon De Villalobos (Autorità Coloniale)


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MELBOURNE

Pur essendo affascinati dal fatto di trovarci in una città australiana, ciò non coincideva esattamente con le nostre smanie di avventura e fuga dalla civiltà. Volevamo abbandonare al più presto traffico e cemento per iniziare la parte più eccitante del viaggio. Era abbastanza chiaro che un mezzo di locomozione nostro avrebbe di certo facilitato le cose, avendo piena autosufficienza negli spostamenti e anche in considerazione di un notevole risparmio dal punto di vista economico. L'inconveniente maggiore era rappresentato dal fatto che, a causa della scarsa disponibilità finanziaria, avremmo dovuto rivolgerci al mercato dell'usato, anzi del molto usato. Un ragguardevole numero di turisti che visitano l'Australia optano alla fine per questa soluzione, chiaro quindi come la città pullulasse di garage pieni di usato d'occasione. In seguito a una serie infinita di calcoli matematici, eravamo giunti alla conclusione che il tetto per la spesa alla voce acquisto autovettura non potesse superare i duemila dollari australiani (circa due milioni di lire). In questo modo, girovagando tra vecchie Ford e un'infinita gamma di fuoristrada, trascorsero i nostri primi due giorni a Melbourne, alternando abbuffate di prezzi e occasioni da non perdere, alla degustazione di inattesi, ottimi caffè in Lygon St. a Charlton, il quartiere degli italiani. Era comunque giunto il momento di rivolgerci alla nostra collezione di indirizzi utili. In Italia amici e conoscenti, che sapevano dell'approssimarsi del mio viaggio in Australia, si erano prodigati nel fornire recapiti di parenti, amici o presunti tali, sparsi un po' su tutto il continente. Per conto mio, dopo aver sottoposto mia madre a un lungo interrogatorio sui trascorsi familiari, dovetti rassegnarmi all'idea di non aver nessun legame diretto con australiano alcuno. Una coppia di amici di vecchia data mi parlò di Paola e, quasi


26 immediatamente, misi a fuoco l'idea che si trattasse della persona giusta. Paola viveva stabilmente in Australia da circa tre anni, eccezion fatta per alcuni backhome estivi e sapevo per certo che in quel periodo, vale a dire l'estate precedente la partenza, si trovava a Roma. Ottenuto il suo numero di telefono, passai due settimane a cercarla, ma inutilmente. Telefonare a Paola era divenuto ormai un gesto quotidiano, del tipo lavarsi i denti. Non passava giorno senza tre o quattro inutili tentativi di stabilire un contatto con lei. Ero quasi sul punto di abbandonare ogni speranza quando un sabato pomeriggio di fine luglio, dopo un po' che il telefono squillava, una voce femminile rivelò la sua presenza all'altro capo dell'apparecchio. L'improvviso approdo al dunque, nonché il mio status di "amico di amici", fecero seguire attimi di panico. Nonostante ciò, quella breve conversazione servì a stabilire un primo contatto e mi permise di ricevere preziose informazioni sulla natura e l'entità dell'equipaggiamento necessari. Sono trascorsi circa tre mesi da quell'insolito colloquio telefonico e mentre sorrido al ricordo del mio balbettare sorpreso e confuso, Paola e il suo boyfriend australiano fanno il loro ingresso all'interno del Central Youth Hostel di Melbourne. Il rapporto che si stabilisce tra noi quattro è immediato e armonioso, quasi fosse di vecchia data. Tim rappresenta un po' lo stereotipo dell'australiano, sia fisicamente che a livello comunicativo: di bell'aspetto, corporatura robusta, sguardo attento, piuttosto silenzioso ma sempre pronto alla battuta come nella miglior tradizione anglosassone. Non da meno anche the first look of Paola è positivo. Proprio una bella coppia. Osservandoli mi viene da pensare a qualcosa di equilibrato, anche se non riesco a comunicare questa mia impressione perché non mi viene la traduzione in inglese. Elargisco comunque ampi sorrisi. Fin dai loro primi racconti sulla vita Aussie (termine usato dagli australiani per indicare la propria terra), emerge da entrambi, in maniera palese, l'amore e il rispetto per la natura e gli animali. Mi sono sempre più simpatici.


27 Ci dirigiamo con la vecchia Alfa Romeo color crema di Paola alla volta di St. Kilda, la spiaggia più famosa di Melbourne. Sto analizzando velocemente queste prime impressioni quando Adidas, il loro dobermann, che si erge fiero tra me e Heike, mi alita affettuosamente sulla guancia destra. Trascorsi un paio di giorni all'Ostello di St. Kilda (quello in centro era indubbiamente più comodo ma troppo esoso), Paola e Tim ci invitano a casa loro e la cosa ci riempie di gioia. Dopo aver superato le prime rimostranze di Adidas, il quale non gradì molto il fatto di essere stato sfrattato dalla comoda cuccia dello stanzino per essere relegato su un tappeto vicino alla porta d'ingresso, le nostre giornate nella nuova dimora trascorsero all'insegna dell'allegria, condite da scorpacciate di pastasciutta preparate dal sottoscritto, in barba a una fantomatica dieta in realtà mai posta in essere da Paola. Tutti questi nuovi eventi non avevano di certo cancellato il problema automobile, nella risoluzione del quale il contributo di Paola risultò fondamentale. Faraday St. è una traversa di Lygon St. nel bel mezzo di Charlton e presenta due importantissime peculiarità: c'è il Caffè Brunetti, ossia il miglior cappuccino di Melbourne e l'officina di Mario, il meccanico di fiducia di Paola. L'incontro con Mario durò pochissimo ma fu sufficiente a farci capire che si trattava di una persona onesta che sicuramente ci avrebbe procurato una buona vettura di seconda mano a un prezzo adeguato alle disponibilità monetarie che gli avevamo espresso come condizione basilare per l'acquisto. La telefonata di Mario non si fece attendere più di tanto. Il venerdì successivo ci trovammo al cospetto di una Ford Familiare del 1978, ancora in buone condizioni e di un simpatico color arancione brillante. Venne immediatamente battezzata Orangina. Avevamo pattuito una quota d'affitto di 170 dollari al mese, anche se, per motivi legati all’assicurazione, eravamo costretti ad acquistare la macchina per un importo complessivo di 1600 dollari. Ciò forniva a Mario una sorta di garanzia nel caso non fossimo tornati più indietro.


28 Effettuati ripetutamente i debiti scongiuri, dovevamo adesso affrontare un altro problema. Vivere, nell’accezione più estesa del termine, è di per sé abbastanza ostico. Non mi capacito quindi se sopraggiungono ulteriori elementi a complicare l'esistenza. Voglio dire non capisco a chi possa esser venuto in mente un concetto come la guida a destra. Ci sono pochi paesi sulla faccia della terra che si sono fatti portatori di questa insana abitudine. Uno di questi purtroppo è l'Australia. Rivivo mentalmente la sigla di una vecchia comica in bianco e nero in cui il protagonista, al volante di un'auto d'epoca, semina il panico nel traffico sornione di una cittadina anni venti, evitando, per miracolo, tram, pedoni e marciapiedi. Paola ci impartisce la prima lezione on the road e, superati i primi istanti di logica confusione, cominciamo a familiarizzare con l'insolita posizione di guida. Il problema sarà, d'ora in avanti, quello di ricordarsi di percorrere la carreggiata opposta, cioè la sinistra. Ci consola il fatto che non avremo molte occasioni di immergerci nel traffico caotico, o almeno questo è ciò che ci auguriamo. Sono le ore quattordici di domenica 10 novembre. Le condizioni meteo qui a Melbourne lasciano un po' a desiderare, comunque siamo praticamente pronti alla partenza. Il vano posteriore della Ford, che è privo di sedili funge da camera da letto e da armadio. Vi abbiamo sistemato un materasso di gommapiuma, acquistato ieri in un sobborgo della città. Tutto è stipato in maniera funzionale: sotto i sedili anteriori trovano giusta collocazione la tenda, le scarpe da trekking, alcune pentole, il fornellino ad alcool e una tanica di plastica da 10 litri. Mentre un po' emozionati salutiamo i nostri amici, c'è una sorpresa per noi: una guida dell'Australia nuova di zecca. È l'ultima gentilezza che Paola e Tim ci offrono unitamente ai loro sorrisi, mentre l'auto si allontana lentamente dal 7/117 di Manningham St.


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IL VIAGGIO

Macchie di eucalipti si alternano a distese di pianura brulla a intervalli quasi regolari. Siamo cinquanta chilometri a ovest di Melbourne. I segni della civiltà stanno dolcemente scomparendo, come il ritornello nel finale di una canzone, senza strappi o impennate di ritmo, lasciando che l’immenso orizzonte ci avvolga con naturalezza. Così, quasi senza accorgercene, giungiamo a Ballarat, cittadina dai trascorsi pionieristici risalente all'età dell'oro. Qui ci concediamo un piccolo break a base di pizza in un ristorante italiano. Le foreste di eucalipto si fanno più fitte. L'autostrada, che da Melbourne porta ad Adelaide, altro ormai non è che un'esile striscia che sembra sul punto di essere inghiottita dal paesaggio da un momento all'altro. In qualità di australiano verace Tim ci ha fornito una lista sapiente e dettagliata di cosa fare e cosa evitare. Alla seconda categoria appartiene la voce guidare di notte". Le strade australiane pullulano nottetempo di canguri di ogni misura, dai piccoli Wallabies al mitico Big Red che può raggiungere anche i due metri di statura. Lo sport preferito da questi simpaticoni è quello di attraversare all'improvviso e senza neanche avvalersi delle strisce pedonali. Quindi memori dei consigli del buon Tim, poco prima del tramonto, ci fermiamo in una stradina secondaria a Dimboola, un piccolo paesino che fa bella mostra dei suoi ordinati giardini. Siamo curiosi di verificare l'efficienza e la comodità della nostra camera da letto viaggiante. Di canguri neanche un salto.


30 Lunedì 11 Novembre Dimboola -Tanunda La strutturazione del nostro viaggio è articolata in tempi e ritmi ben delineati. Tenuto conto del fatto di trovarci nell'emisfero australe, cioè a stagioni invertite, nella programmazione dell'itinerario da compiere abbiamo dovuto prendere in considerazione l'imprescindibilità di alcune cadenze climatiche. La zona centrale dell'Australia, quella composta quasi interamente da deserto, presenta, nel periodo estivo, temperature prossime ai 50° centigradi. Il settore nord del continente formato dal Northern Territory e dalla porzione settentrionale del Queensland e del Western Australia, trovandosi in piena area tropicale, è sottoposto a regolazione climatica dei monsoni. The Dry, la stagione secca da maggio a ottobre e The Wet, la stagione delle piogge da novembre ad aprile. Avventurarsi nella fascia tropicale durante the wet significherebbe automaticamente precludersi la possibilità di visitare molti posti interessanti, in quanto i violenti acquazzoni rendono impraticabili la maggior parte delle strade. Tutto questo per dire che ci sarebbe piaciuto fermarci più a lungo negli incantevoli luoghi che stavamo attraversando, ma farlo avrebbe rappresentato in seguito arrostire nel deserto per poi impantanarsi a nord nelle piogge tropicali. In ogni caso non abbiamo molti rimpianti mentre lasciamo la periferia di Adelaide senza aver visitato la città. L'itinerario studiato presenta, almeno nella sua fase iniziale, quella riguardante cioè gli stati di Victoria, Southern Australia e Northern Territory, alcune tappe obbligate segnalateci da Tim. La Barossa Valley si trova a soli cinquanta chilometri a nord-est di Adelaide ed è rinomata per la sua produzione vinicola. Arriviamo a Tanunda e piove. Direi di più: piove e fa freddo. L'intero centro abitato e la maggior parte delle aziende vinicole sono opera della forte immigrazione tedesca avvenuta sin dagli inizi del secolo. Tutto ricorda un po' la Germania: l'architettura delle case, le strade ordinate, la pulizia e, soprattutto, il clima...


31 Viste le avverse condizioni atmosferiche non ci resta che infilarci in un caravan park, dove, trovato riparo sotto un capannone, consumiamo la nostra cena a base di riso.

Martedì 12 Novembre Tanunda - Woomera Nonostante stia ancora cercando di convincere Heike che la considerazione sul maltempo in Germania era solo un’innocente battuta e che (forse) la cancellerò, continua a piovere. Optiamo per una serie di strade provinciali che ci porteranno lo stesso a Port Augusta senza però seguire l'autostrada lungo la costa. In questo modo la numero dieci, la ottantatre e la cinquantasei ci regalano tre ore di incanto, solo parzialmente disturbate dal persistente maltempo. Dolci pendii tappezzati da vigneti, vaste distese di campi coltivati a grano e ancora prati viola agitati dal vento come onde del mare. Di tanto in tanto i soliti, immancabili eucalipti. Port Augusta ha invece un aspetto deprimente. Le concediamo solo il tempo di un paio di sandwich frettolosi ma squisiti. Superato l'ennesimo tratto collinare, il tempo inizia a migliorare e, nel breve volgere di alcuni minuti, si apre, inatteso e sconfinato, il deserto australiano. È incredibile come in meno di mezz'ora la temperatura si sia alzata di almeno una quindicina di gradi. Adesso fa caldo! Ci immettiamo sulla Stuart Highway, l'autostrada (si fa per dire: due corsie in tutto) che taglia a metà il continente australiano snodandosi per più di tremila chilometri da Port Augusta a Darwin. È così compressa dalla vastità che ci abbraccia, da apparire ai nostri sguardi disorientati come un filo sottilissimo che si perde all'orizzonte. Nulla intorno per 360°. Corpi martoriati di canguri giacciono sul ciglio della carreggiata e il macabro spettacolo sta assumendo, purtroppo, una cadenza


32 quasi costante. Dopo circa due ore finalmente un segno di vita. Siamo a Woomera, cioè il cartello indica che siamo a Woomera. Sulla cartina risulta lampante come essa dovrebbe essere un paese di piccole dimensioni, ma ciò che appare davanti ai nostri occhi è una squallida e desolata stazione di servizio. Il sole intanto sta per tramontare, ma la temperatura permane piuttosto elevata. Quindici chilometri a nord del paese fantasma c’è una rest-area. Queste rappresentano dei timidi tentativi che l'uomo compie con l'intenzione di rendere gradevole una pausa di viaggio nel deserto. Avete presente un'oasi? Ecco, le rest-area non c'entrano nulla. Ci fermiamo comunque, giusto il tempo di preparare un pasto rapido prima del sopraggiungere dell'oscurità. È la nostra prima notte on the road. Ci prepariamo ad affrontarla con qualche timore per l'ignoto che regna intorno a noi, ma anche con la consapevolezza di essere lontani dal mondo.

Mercoledì 13 Novembre Woomera - Coober Pedy L'efficientissima guida di Heike fa luce sul mistero di Woomera. Agli inizi degli anni '60 vi è stata installata una base sperimentale dalla Royal Air Force. Cosa si sia sperimentato rimane poco chiaro e quando i militari sono poco chiari c'è di che preoccuparsi. Non è risultato invece un grosso problema che il tutto abbia avuto luogo a due passi da una riserva aborigena. Successivamente la base è stata smantellata ed è così venuto meno il movente di creare alcunché di abitabile nel bel mezzo del deserto. È rimasta la stazione di servizio, peraltro ultima scarna testimonianza di civiltà che abbiamo incontrato da Port Augusta a questa parte. Sono le dieci del mattino, fa già caldissimo. Siamo in viaggio da circa due ore e mezza quando avvistiamo una coppia di emù (una specie di animale simile allo struzzo) aggirarsi con incredibile di-


33 sinvoltura tra le sterpaglie e le dune arroventate. Questa visione, unitamente al persistente macello di canguri, rappresenta l'unico segno di vita che abbiamo avuto modo di riscontrare. Finalmente, esausti, giungiamo a Coober Pedy. La traduzione del termine aborigeno Coober Pedy significa buco della terra. Gli abitanti di questo angolo d'inferno ricavano le proprie dimore da case costruite nel sottosuolo per scampare alle proibitive temperature estive. Chiaramente non si tratta di un caso di follia collettiva. La ragione che ha portato qui queste circa tremila anime risiede nel fatto che a Coober Pedy è concentrato il 90% dell'estrazione mondiale degli opali. Nel "buco della terra" abbiamo il primo contatto diretto con gli aborigeni. Descrivere la desolazione in cui vive questa gente, portatrice di una civiltà antichissima, mi riempie di tristezza. Quelli che non sono confinati nelle riserve vanno a zonzo ubriacandosi con il sussidio fornito dal governo australiano. Quasi tutti i tentativi di integrazione coatta sono falliti. Sono state assegnate loro delle case, ma chi non le ha rifiutate vi accendeva dentro dei falò e in ogni caso preferiva dormire sotto le stelle. Perché, mi domando, dopo aver constatato che esiste un abisso tra il nostro modo di condurre un'esistenza e quello di un altro popolo, dobbiamo imporre sempre e comunque i nostri modelli di vita? In base a quale divino privilegio ci arroghiamo noi il diritto di scegliere per gli altri? Perché questa gente non può essere libera di vivere secondo ritmi e cadenze che le appartengono da più di quarantamila anni? Domande le cui risposte sono destinate a perdersi nel nulla come la sabbia soffiata via dal vento di questo posto desolato. Ognuno di questi esseri umani, riverso sul ciglio della strada, evitato da tutti, senza più una speranza, coperto da mosche e consumato dall'alcool (un nostro gentile omaggio), avrebbe molte cose da insegnare a noi, portatori del venerato benessere, prima fra tutte il rispetto, l'amore e la perfetta simbiosi con la natura che ci circonda e che noi civili stiamo così ottusamente manipolando e distruggendo. Forse, a volte credo di essere troppo democratico nelle mie argomentazioni, tutto questo è ingiusto ma tornare indietro non è pos-


34 sibile. Intanto questa gente sta morendo, soprattutto dentro.

Giovedì 14 Novembre Coober Pedy - Ayers Rock Il bestiame che vaga errabondo in questi spazi senza limiti apparenti, alla ricerca di improbabili fonti di alimentazione, è ridotto in condizioni pietose. Più che altro assomigliano a delle radiografie ambulanti, copie lontane di animali in carne e ossa. Verso le undici, in preda a una forte crisi d'astinenza da liquidi, avvistiamo Marla, un piccolo centro, come indicato dalla mappa, un caravan park, una stazione di servizio con relativo pub annesso nella realtà dei fatti (che sia uno scherzo?). Entriamo nel piccolo bar contemporaneamente a una coppia di turiste. Il luogo ricorda moltissimo un saloon stile far west, ma risulta accogliente, soprattutto per merito dell'aria condizionata. Nel locale, oltre a noi ci sono alcuni Territorians (allevatori di bestiame), la coppia citata prima e due ragazze dall’espressione annoiata, appoggiate coi gomiti dietro il grande bancone di legno consumato. Al nostro ingresso una delle due girls, colta da improvvisa animosità, va ad accendere il juke-box situato in fondo al locale. Le note degli AC/DC e di Lynard Skynard risuonano a tutto volume e fanno da colonna sonora alle due lattine di birra che aspiro in meno di dieci minuti. Molto probabilmente una situazione del genere con ben otto persone ha, da queste parti, il significato di confusione, allegria, vita. Il radiatore della vecchia Ford è ancora bollente (non vedo proprio come possa raffreddarsi) ma decidiamo di ripartire lo stesso. Nella canicola infernale osserviamo un dingo scheletrico trotterellare con la lingua penzoloni a poca distanza dalla strada. Finalmente un segnale ci avverte che siamo al bivio per l'Ayers Rock.


35 Attentamente analizzata sulla cartina, la distanza ancora da percorrere risulta un tratto di pochi centimetri. Sono 265 chilometri! Con un paio di fermate, una delle quali con lo scopo di fotografare la stupenda visione di Mt. Connor che si staglia fiero all'orizzonte con l'arroganza di chi sa essere l'unica cosa da fotografare nei paraggi, arriviamo stanchissimi all'Ayers Rock. Per gli aborigeni questo è un luogo sacro. "Uluru". Colpisce immediatamente il loro vistoso balzo in avanti per quel che concerne le condizioni sociali. Uno è addirittura ranger del parco. "Uluru", la montagna sacra, si trova nelle immediate vicinanze di una delle più grandi riserve aborigene. Ultimamente una parte della riserva è stata espropriata dal governo australiano perché è stato scoperto un grande giacimento di bauxite (fonte: la guida di Heike). Non occorrono ulteriori commenti.

Venerdì 15 Novembre Ayers Rock e Mt. Olgas Le modalità d'uso per l'Ayers Rock consigliavano l'arrampicata mattutina e una visita all'imbrunire al fine di immortalare un imperdibile tramonto. Sveglia alle cinque e, alle sei e un quarto, siamo sotto l'Uluru. Ora mi rendo conto del perché sia considerato un luogo sacro. Ci troviamo al cospetto di un gigantesco monolite di roccia color amaranto, che si erge immerso nel nulla assoluto del deserto. Superati i primi istanti di ammirazione verso le sei e trenta iniziamo la scalata. Non è esattamente come entrare in una chiesa o in un tempio per ammirare affreschi medioevali o il perfetto allineamento di un colonnato, frutto dell'ingegno e dell'arte umana. Le sensazioni che provo sono di una intensità differente. La natura ha impiegato migliaia di anni per scoprirlo, lo ha plasmato giorno dopo giorno con l'ausilio di vento, sole e acqua e il risultato è semplicemente affascinante.


36 Un giapponese, incurante delle mie meditazioni, si arrampica ansimando con una sigaretta in bocca. Chissà se farebbe lo stesso nella Cappella Sistina?! Sulla vetta il vento soffia fortissimo e regala inattesi brividi lungo la schiena madida di sudore. Il paesaggio si espande ancora all’infinito. Trascorriamo più di un'ora esplorando le tante nicchie nascoste di questo monte solo apparentemente monotono, ma il caldo comincia a essere insopportabile. È venuto il momento di scendere. Lo spettacolo dell'Ayers Rock immerso nella luce del crepuscolo era un appuntamento a cui non volevamo mancare. Il parcheggio, creato appositamente in posizione strategica è già popolatissimo. Quasi tutti siedono sul cofano o sul tetto delle auto e non me ne spiego la ragione. Tutto è chiaro nel giro di due minuti. Ci sono formiche ovunque e, per evitare le sgradevoli spruzzate di acido formico, emuliamo gli spettatori presenti. Il rosso acceso del tramonto accentua i toni di misteriosa energia che "Uluru" sembra emanare.

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