Musica nuova

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In uscita il 28/2/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2017 ( ,99 euro)

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JESSICA PECCHIOLI

MUSICA NUOVA

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MUSICA NUOVA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-076-4 Copertina: “Musica Nuova” (2016), un dipinto di Graziella Atzori

Prima edizione Febbraio 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Alle dediche che non si possono fare



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PREFAZIONE

Nel corridoio non c’era anima viva, solo noi tre e la porta, chiusa come le altre. Era bianca, come doveva essere in un ospedale, di una plastica striata che voleva passare per legno, ma che non gli somigliava per niente. Al centro, abbastanza in alto da essere ad altezza occhi, c’era una targhetta ancora più bianca, con su scritto in bei caratteri grandi: Prof. Tilli. Mi buttai su una delle sedie di plastica schierate alla parete, i miei mi si misero di fronte; non c’era che da aspettare. «Salite al primo piano e prendete la prima porta sulla sinistra; vi troverete in un corridoio, la terza stanza a destra è quella del professore. Se avete l’appuntamento aspettate che vi chiami lui.» L’infermiera giù al bancone delle informazioni era stata precisa e aveva parlato a voce alta e chiara, non avevo perso una parola. Detti un’occhiata ai miei: la mamma era rigida come la sua sedia e tormentava il laccio della borsa appoggiata sulle ginocchia strette. I suoi occhi sembravano più ansiosi del solito, giravano come pazzi nel viso immobile, come di cera, senza passare mai nei paraggi dei miei; e neppure di quelli del babbo che pareva perso nel suo torpore solito che le situazioni fuori dall’ordinario accentuavano invece di spazzare via. Mi sfilai il cellulare dalla tasca e mi collegai a internet; i pulsanti erano quasi muti e le dita mi ballavano un po’, non era facile azzeccare tutte le lettere. Sbagliai più volte a digitare, mentre girovagavo nella rete a cercare qualche amico collegato, così, tanto per scacciare i pensieri.


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Assorbito com’ero dalle mie cose, mi riscossi di colpo nell’avvertire la mamma sussultare e persino il babbo: si erano voltati tutti e due verso la porta che, aperta, lasciava uscire un vecchio. Camminava piano, mentre con una mano si sistemava il collo della camicia, come per finire di rivestirsi. «Arrivederci» sussurrò appena, o forse no. La mamma intanto si era alzata, come sull’attenti, e aveva fermato gli occhi sulla porta che il vecchio aveva lasciato socchiusa dietro di sé. Passò qualche minuto prima che si aprisse di nuovo e ne uscisse, stavolta, un’infermiera, piuttosto carina con i suoi capelli scuri raccolti sotto la cuffietta bianca. Aveva in mano un foglio, ci lesse sopra il mio nome: era abbastanza vicina da essere capita. «Siamo noi, siamo noi!» La mamma sembrò schizzare ancora più in piedi e strattonò la spalla del babbo, per farlo alzare. «Andiamo» mi disse poi, e mi fece passare prima di sé sospingendomi appena da dietro; l’infermiera ci seguì e richiuse la porta. La stanza era piccola e quadrata, c’entrava giusto un mobile che, appoggiato alla parete di fondo, aveva i ripiani pieni di apparecchiature e di file di schedari. La parete a sinistra era quasi tutta occupata da una grande finestra dagli infissi sottili, di un metallo verde oliva, più chiaro però e mezzo corroso da una ruggine spessa. Non c’erano tende a schermare la gran luce di quella bella mattina di marzo che riempiva la stanza di un’allegria che sentivo fuori luogo. Al centro della stanza c’era una scrivania di un bianco liscio e lucido e, dietro, due camici con due dottori dentro. Uno dei due, quello che, seduto al centro della scrivania, sembrava esserne il titolare, si alzò: «Buongiorno, prego accomodatevi.» Chissà se aveva detto proprio così, ma il gesto della mano che


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accompagnava le sue parole era esplicito. Muovendo il passo verso le sedie che fronteggiavano la scrivania, mi sentii le gambe tremare. «Buongiorno, buongiorno» si affannava a salutare la mamma mentre si sistemava accanto a me. Il babbo rimase in piedi, dietro la mia sedia: sentivo l’alito del suo respiro solleticarmi i capelli. L’infermiera intanto era scivolata silenziosa oltre la scrivania e, dal ripiano del mobile dove si allineavano gli schedari, aveva tirato via una cartellina gialla. Tornata verso di noi, confrontò ligia il nome scritto sulla lista delle visite con quello sull’etichetta e fece calare il plico in mezzo ai due dottori, fino ad appoggiarlo davanti al primo, quello che ci aveva fatto accomodare e che ora inforcava un paio di occhiali tondi come i suoi occhi. Sulla cartellina era proprio scritto il mio nome, ora lo leggevo forte e chiaro: Vanni Francesco, in pennarello nero, senz’altro indelebile. Nel vedermi lì, steso su una cartella clinica, mi sentii un tonfo dentro e il cuore mi salì in gola; lo sentivo battere forte, fin dentro alle orecchie, mi finiva di stordire. Il primo dottore intanto, doveva essere il Professor Tilli, aveva aperto la mia cartellina e leggeva e girava le pagine e diceva qualcosa, perché la mamma di lato annuiva, seguiva con la testa il suo discorso. A forza di girare pagina, finì tutti i fogli e allora chiuse il plico, lo rigirò dal giusto verso, quello dell’etichetta che ancora portava su il mio nome, e ci appoggiò sopra i gomiti e gli avambracci tutti, che incrociò in una posizione conclusiva. Tenne un po’ lo sguardo basso, scuotendo il capo in un dondolio che poteva essere un sì ma anche un dubbio, poi si dette una grattatina pensosa alla testa e alzò gli occhi su di me, occhi tondi che mi parvero di compassione dentro le lenti tonde. Il mio cuore allora urlò più forte dentro le orecchie, mi scuoteva i timpani come una batteria in una sala prove minuscola, sembrava


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che me li volesse fare esplodere in mille pezzi. Il dottore parlava e io sentivo solo il mio cuore e il fiato del babbo che sopra di me accelerava, diventava affannato. E vedevo la mamma agitarsi tutta e mettersi le mani davanti alla bocca spalancata e lasciare cadere le lacrime giù, fino alle dita aperte come su un urlo. Dentro di me allora dicevo: “Zitto!” al mio cuore. “Zitto, fammi sentire almeno qualcosa, parlano di me, parlano di me…” Ma lui non voleva saperne e ora mi batteva anche in testa, contro le tempie. Dietro di me il babbo sembrava non respirare più, ma mi stringeva le spalle, forte, mi faceva male. La mamma parlava e le mani le tremavano in aria, il dottore rispondeva dondolando il capo, alzando le spalle, guardandomi appena con quei suoi maledetti occhi tondi. Intanto il cuore mi era sceso giù nello stomaco e pulsava, scuotendomi da cima a fondo, ormai ero solo il suo battito. Poi tutto si fermò e il dottore diventò blu, forse svenni.


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I

Il trillo del campanello si intromise tra il do e il fa; era il suono di Chiara, forte e prolungato. Cacciai fuori un sospiro: cavolo, doveva arrivare proprio ora che la canzone cominciava a girare. Smisi di suonare e appoggiai la chitarra dietro di me, sul letto su cui ero seduto, insieme al pigiama, allo zainetto rosso mezzo aperto e a una palla, pure lei rossa, che doveva essere di Zulù e che chissà cosa ci faceva lì. Rimasi così, ad aspettare. Sentii al piano di sotto la mamma aprire la porta e accogliere Chiara: «Ciao, sì sì che c’è, deve essere nella sua stanza, sentivo la chitarra fino a poco fa.» «Disturberò allora.» Chiara aveva capito, ma non se ne sarebbe andata. La mamma rise, un po’ in falsetto: «Ma cara, se aspetti che Francesco non suoni per vederlo, campa cavallo.» «Già, dimenticavo che sono fidanzata a un musicista prodigio, io. Prima viene la chitarra per lui, e poi tutto il resto.» Filtrata dalla porta, non smussata dal grande sorriso che sempre l’accompagnava, questa frase che Chiara tirava fuori spesso, suonava più velenosa di sempre. D’altronde era proprio così, non potevo farci nulla. Intanto le voci si erano avvicinate alla porta della mia stanza, fino a spegnersi sul bussare ritmico sopra il legno; non risposi, non mi alzai. «Francesco?» La mamma bussò più forte.


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Guardai la mia chitarra che era ancora lì, stesa sul letto, ad aspettare il mio fa, cacciai un altro sospiro e mi arresi all’idea che quel pomeriggio sarebbe stato rovinato. «Sì, entra mamma.» Mi uscì una voce irritata: pazienza, pensai. La porta si spalancò di colpo e dentro la sua cornice apparvero la mamma e, poco più indietro, Chiara, tutte e due con un sorriso che a unirli insieme si sarebbe fatto un cerchio completo. «Guarda chi è arrivata!» E la mamma si spostò, come se Chiara non si vedesse già, là in fondo. «Ciao amore.» Chiara passò dentro e mi sparpagliò i suoi capelli sul viso, per darmi un bacio sonoro. «Ciao.» «Stavi suonando? Ti disturbo?» E intanto si era già seduta accanto a me, spostando la chitarra con la mano dietro. «Non fa niente» non potetti che rispondere. «Ma dovevamo vederci stasera, no?» Lanciai un’occhiata alla mamma che era ancora là sulla porta. «Vi lascio soli ragazzi. Chiara, se vuoi rimanere a cena sei la benvenuta, lo sai.» «Grazie, volentieri!» Sprizzò gioia lei, mentre la porta si chiudeva energica come si era aperta. Calcolai che, a quel punto, era forte il rischio di perdere tutta la serata, proprio ora che mi mancava un soffio a fare mia la canzone, e sentii salirmi addosso quella cortina di gelo in cui mi rifugiavo quando la realtà non mi piaceva ma non c’era via di scampo. La voce mi si fece dura: «Allora? Non dovevamo vederci stasera?» Gli occhi di Chiara sembrarono brillare un attimo di furbizia: «Sì amore» miagolò, e si muoveva come una gattina, «ma ho studiato abbastanza per oggi e mi scoppia la testa. Allora mi sono detta: perché non andare a fare un po’ di shopping? Ci sono i saldi.»


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Squillava come una pubblicità, a volte, Chiara. «E che c’entro io? Non puoi andarci da sola?» «Dovrebbe essere un piacere andare insieme per negozi, in una coppia normale.» Chiara scandiva tutte le volte quel suo “normale” alzando il tono e rallentando il ritmo, come un adagio. Aveva anche incrociato le braccia sotto il seno che lì appoggiato ci stava proprio bene. Già accarezzando l’idea di tornare a imbracciare la mia chitarra, stavo per risponderle alla mia maniera: che per fare una coppia normale ci sarebbero volute due persone normali, che io per fortuna non mi sentivo tale e che quindi il suo shopping poteva andare a farselo da sola, quando il mio cervello fece il giusto collegamento: «Andiamo.» Mi alzai dal letto, mi sciolsi i capelli, me li riavviai un po’ a caso con le dita aperte e uscii dalla camera per fiondarmi giù per le scale che scendevano al piano terra. Dietro sentivo lo scalpiccio degli stivali di Chiara sui gradini in legno. Atterrato nel salone: «Noi andiamo!» gridai a chi avrebbe potuto sentirmi. Mi infilai il giubbotto, mi detti un giro di sciarpa al collo per proteggere le orecchie dal freddo e uscii in giardino. Dietro c’era sempre Chiara. «Fa freddo, andiamo al centro commerciale invece che per negozi, tanto dentro c’è tutto. Prendiamo la mia macchina, così non sposti la tua.» A lei piaceva guidare, anche a me in realtà, ma stavolta l’avrei assecondata. Da dietro l’angolo della casa sentii avanzare il respiro affannato di Zulù che, infatti, apparve di corsa, la coda agitata in balia del vento, per venire a strofinarsi alle mie gambe. Lo accarezzai dietro l’orecchio, dove il nero finiva nel bianco, mentre Chiara apriva il basso cancello del giardino e usciva in strada; la seguii lasciando Zulù a grattarsi da solo. La sua auto era pronta lì


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davanti, salimmo e lei partì con uno scossone. «Ho visto Elisa ieri sera, siamo state a prendere un aperitivo al Central Bar. Sono di nuovo in crisi con Stefano. Lui è uno stronzo, sono anni che lei gli chiede di andare a convivere e lui non vuole saperne, vuole stare dalla mammina, il pupo. Lei non ne può più insomma stanno insieme da otto anni sempre le stesse cose il rapporto non va avanti finché studiavano vabbè è normale che non potessero pensare a una casa loro maadessoluilavoralei qualcosaraccattaconleripetizioni…» Chiara parlava parecchio, da sola per lo più. Io per un po’ riuscivo a seguirla, ma poi perdevo il filo e mi rimaneva solo la musica delle sue parole, una nenia incolore che non cambiava mai ritmo. Anche quella volta lasciai il cervello scivolare via sulla versione musicale, mentre guardavo il paese scorrere oltre il finestrino, come in una vetrina. Il centro commerciale era appena fuori, ci arrivammo in un attimo. Era un edificio squadrato, con due estremità a cilindro. Queste specie di torrette erano più alte del corpo centrale ed erano tutte piene di insegne, luminose anche di giorno. Erano i marchi dei negozi ospitati che campeggiavano alle entrate principali per invogliare a entrare e comprare. Tutt’intorno all’edificio c’era un parcheggio ovale, con tanti raggi di posti messi a lisca di pesce. Era sempre pieno, anche quella volta dovemmo fare la posta alla gente che tornava alla macchina per piazzare la nostra. Chiara smise di chiacchierare insieme al motore; allora scendemmo, facendo cenno alle auto che erano in cerca di un posto che no, che non stavamo andando via, che eravamo anzi appena arrivati. Mentre ci si avviava verso l’entrata, lei mi prese sottobraccio e si strinse a me, forse per il freddo, forse per la contentezza di avere almeno quel pomeriggio la sua coppia normale. Io ero a disagio, i


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posti con troppa gente mi confondevano e le canzonette commerciali sparate dai megafoni del parcheggio erano una tortura per le mie orecchie. Strinsi i denti: quel pomeriggio avrei dovuto accontentare Chiara in tutto, un po’ perché in fondo se lo meritava, un po’ per ben disporla, prima di darle la notizia che non le sarebbe piaciuta per niente. Entrammo lasciando la folata di vento gelido fuori dalla porta a vetri. Dentro c’era un gran casino: mi chiusi nella mia capsula di gelo e mi affidai docile a Chiara che, invece, sembrava tutta nel suo centro e si muoveva risoluta tra il rimbombo della gente. Cominciò così la sua caccia a quello che le mancava e a quello che non le mancava ma che le piaceva troppo. Entravamo nei negozi, lei guardava, sceglieva e chiedeva consiglio a me, che non le davo mai la risposta soddisfacente. Allora faceva una foto col suo cellulare e la inviava a Elisa o a Sabrina e con il messaggio relativo domandava se secondo loro quella cosa era bella e se le sarebbe stata bene e di che colore fosse preferibile e così via. Le amiche rispondevano subito, erano tutte lì con noi ad aiutare Chiara nei suoi acquisti, io approvavo le loro risposte guardando a malapena l’oggetto del dilemma, così, tanto per farla decidere più in fretta. Allora lei prendeva due taglie del vestito scelto, si eclissava nel camerino e se le provava. Io dovevo rimanere fuori, proprio di fronte alla tenda, che lei tirava al momento giusto per domandare, con la sua voce squillante: «Come mi sta?» Gli occhi le brillavano e il sorriso era più largo di sempre. «Bene!» rispondevo io, più alla sua contentezza che alla roba che aveva indosso e lei, tutta saltellante, rientrava nel camerino, si tirava dietro la tenda e ne usciva poco dopo per andare alla cassa. Affare fatto, si poteva uscire almeno da quel negozio, pensavo io. Ogni tanto Chiara provava a coinvolgermi nella sua smania di comprare: «Guarda quella maglietta là, quella blu con quella


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specie di stella sulla spalla, ti starebbe bene sui jeans.» «Ne ho fin troppe di magliette e poi quella non mi piace granché.» «Già, ti piacciono solo quelle di tua mamma, a te.» Era normale che mi vestissi con l’abbigliamento della nostra ditta: non costava niente e potevo scegliermi tutto quello che mi pareva, anche crearmelo volendo, ma per Chiara no, non era normale, era anzi un pizzico patologico e non mancava di ribadirlo quando il discorso si aggirava in quei paraggi. Io la lasciavo parlare, tanto poi continuavo a fare come mi pareva e lei continuava a prendermi coi “vestiti della mamma”. Quel pomeriggio del resto lei era così contenta dei propri, di acquisti, che tranne quello non fece altri accenni al mio vestiario. Quando, come in un circuito obbligato ad anello, ci ritrovammo alla stessa porta del centro commerciale da cui eravamo entrati qualche ora prima, Chiara aveva cinque sacchetti diversi tra le mani e io le braccia incrociate, a trattenermi in corpo l’impazienza di andarmene. Mentre già l’alito di vento che entrava a tratti dalla porta insieme alla gente le sollevava pezzi di frangia dalla fronte, ebbe ancora il coraggio di chiedere: «Un caffè lo prendiamo?» «È quasi ora di cena, direi di andare» risposi, cercando una motivazione oggettiva tra le tante faziose che mi salivano dallo stomaco. «Già.» E con le dita svincolate dai sacchetti si liberava gli occhi dai capelli, per poter leggere l’ora sul display a numeri rossi che stava appeso sopra l’uscita. «Rimango a cena da voi allora.» Non era una domanda e la voce suonava squillantissima. Io strinsi più forte gli avambracci sullo stomaco e cacciai fuori un: «Certo» per niente credibile. Ma c’era vento e gente e quella musichetta elettronica e tante cose nei sacchetti: lei non sembrò accorgersene. Passammo la porta, fuori il freddo era aumentato e si era fatto buio pesto. A stento ritrovammo la macchina, che era proprio


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nello stesso posto dove l’avevamo lasciata, ma nel frattempo era cambiato tutto il resto. Chiara mise tutti i suoi sacchetti nel bagagliaio e partimmo verso casa. Lei ricominciò a chiacchierare, stavolta dei suoi acquisti, io mi sforzavo di seguirla per inserirmi al momento giusto nel suo discorso e darle la cattiva notizia. «Le scarpe nere le ho comprate per domenica, per il matrimonio. Non ne avevo nessuna che stesse bene col vestito che ho in mente di mettermi.» Eccolo, eccolo qua il punto giusto. «Domenica io non potrò venire.» Lo dissi con voce pacata, come se fosse una cosa di nessuna importanza, e mi girai a guardare il suo profilo. Lei si voltò di scatto verso di me: «Come non vieni?» Nel buio i suoi occhi brillavano di rabbia, le feci cenno di tornare a guardare la strada davanti a lei. «Non posso venire, ci hanno fissato il concerto al Play Music, in città. Lo sai da quant’è che aspettiamo questa data, è un posto prestigioso e pagano bene, non posso rinunciarci e farci rinunciare tutto il gruppo per il matrimonio di tua cugina, mi spiace.» Lei continuava a guardare me invece della strada e guidava a strappi, come se volesse strattonarla la macchina. «E io che faccio?» In quello spazio chiuso il suo grido mi rimbombò nell’orecchio. «Vai da sola, in fondo la cugina è tua, oppure vieni a vedermi suonare, il pubblico serve sempre.» Voleva essere una coda di ironia, così, tanto per alleggerire l’atmosfera, ma non fu presa con il giusto spirito. Chiara batté il palmo aperto contro il volante, si girò definitivamente verso la strada e si chiuse in un mutismo ostile. In macchina era rimasto soltanto il suono forte del suo respiro; io


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non ritenni di dover dire altro, accesi la radio sulla stazione del rock e, tamburellando a tempo le dita sulla gamba, mi voltai verso il mio finestrino e vidi scorrere le case già della mia strada. Sulla via non c’era parcheggio. «Metti la macchina dentro se rimani a cena», suggerii io. Lei non mi rispose, continuava a guardare dritta la strada. Quella storia cominciava a seccarmi, in fondo era solo un fottuto matrimonio di una tizia che appena conoscevo, ci sarebbero stati tutti i parenti di Chiara sì, ma la famiglia mica era la mia. Per intrattenimento poi, mi aveva detto lei, gli sposi avevano scelto un tizio col sintetizzatore che metteva su canzonette sceme, tipo piano bar. Insomma, non mi sarei perso proprio niente, il concerto al Play Music era quasi provvidenziale. «Allora?» Stavolta alzai la voce io. «Ti fermi o non ti fermi a cena?» Le uscì una voce che sembrava sul punto di farsi pianto: «Scendi ad aprirmi il cancello, vai.» E mi spinse, con un certo garbo ma mi spinse. Io resistetti alla pressione della sua mano, con un colpo aprii lo sportello dell’auto e con un altro me lo richiusi dietro. Il cancello era vecchio, aveva la maniglia indurita dalla ruggine delle tante piogge passate: dovetti usare tutta la forza che avevo per sbloccarlo. Con una spinta spalancai poi la seconda anta e richiusi entrambe dietro la macchina di Chiara. Senza aspettarla, lei che ancora racimolava i suoi sacchetti da dentro il portabagagli, entrai in casa.


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II

La mamma era in sala, leggeva il suo libro mezza sdraiata sul divano; davanti a lei la televisione accesa farfugliava qualcosa. «Chiara?» «Arriva.» E intanto mi sfilavo il giubbotto e lo buttavo sul lato libero del divano. «Buonasera.» Chiara era arrivata davvero. «Ciao, come sono andate le vostre compere?» chiese la mamma guardando i sacchetti che, chissà perché, Chiara non aveva lasciato in macchina. «Bene.» Ma la voce diceva altro. «Fammi vedere un po’ che hai preso.» Chiara si avvicinò al divano e si sedette sopra il mio giubbotto. Poi, con fare solenne, tirò fuori dagli imballaggi tutte le cose che aveva comprato e le mostrò una dopo l’altra alla mamma, squadrandola in viso. Lei diceva: «Bello, una chicca» per ogni cosa, ma aveva una voce alta alta e un sorriso troppo stirato sul viso. «Vedo che non ti piace niente» disse Chiara con un tono tra il rotto e lo spazientito, e rimetteva alla rinfusa le cose a posto. Io avanzai di qualche passo per godermi la scena. «Ma che dici, ti ho fatto un sacco di complimenti.» La mamma finì di stirare il suo sorriso al massimo, ma la voce rideva un po’. «Scusate, io, è meglio che vada a casa mia.»


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Chiara si era fatta tutta rossa in viso e gli occhi erano carichi di pianto. Con le dita che le tremavano arpionò le buste dal divano, si alzò e si avviò verso l’uscita. «Ci sentiamo» mi sussurrò senza voltarsi, e richiuse piano dietro di sé. Lì per lì mi sentii sciogliere dentro, avrei voluto correrle dietro e abbracciarla forte, ma già un attimo dopo ero di nuovo chiuso nella mia scatola di gomma che mi lasciava immobile, come di sasso, a guardare il rumore della macchina di Chiara che se ne andava dietro la porta. «Che ho detto di male? Cercavo di essere carina; non mi piace come si veste, che ci posso fare? Cercavo di non ferirla, ho sbagliato?» Guardai la mamma, sembrava davvero mortificata. «Non c’entri te, era nervosa per problemi suoi» dissi con un fondo di contentezza stonato nella voce: in un angolo della mente mi si era affacciata l’idea gioiosa di riprendere in braccio la chitarra già quella sera stessa, dopo la cena.


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III

«Ma che è successo tra te e Chiara?» La mamma non voleva saperne di non farsi i fatti miei. «Niente.» E mi piegai ancora di più sul mio piatto. «Ma insomma, qualcosa deve esserci stato, era sul punto di mettersi a piangere.» Lei si era alzata e si era diretta verso il frigo, io non risposi, guardavo se tornava a tavola con qualcosa di interessante. «Proprio non vuoi parlarne eh?» «Taglia un po’ di formaggio anche per me.» Sospirò e me ne passò una fetta. «Prima o poi ti lascerà quella ragazza.» «Non credo.» E cercai la complicità negli occhi del babbo che, seduto davanti a me, rideva sotto i baffi. Eravamo della stessa pasta noi due, ci intendevamo al primo sguardo, senza bisogno di parole. Dovevo a lui la mia passione per la musica: ero cresciuto con le sue melodie nelle orecchie e, appena bambino, avevo imparato da lui a maneggiare la chitarra. Da qualche anno aveva smesso di suonare e da allora mi seguiva con una passione ancora più forte, mi vedeva come un prolungamento di sé, diceva, ed era quello che sentivo anch’io. «Lascia stare no? Saranno affari loro» intervenne il babbo; e intanto rubava il formaggio dal piatto della mamma. «Ma non puoi prendertene un pezzo per te?» diceva lei colpendogli la mano col manico del coltello. «No, mi piace proprio questo!» E con gli occhi che gli ridevano


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faceva finta di gustarselo un mondo quel morso di formaggio, menandolo per aria con fare deliziato. Io ridevo, malgrado il boccone in bocca, mentre la mamma si alzava con un rumore spazientito della sedia e iniziava a sparecchiare. «Guarda come si fa: si rimette tutto via, formaggio compreso, e si fa finita.» Ma sotto sotto anche la sua voce rideva. Bene, potevo correre a rintanarmi nella mia stanza. «Vado a suonare un po’, buonanotte.» Sentii alle spalle lo sguardo compiaciuto del babbo accompagnarmi fino alla porta. Salii a due a due i gradini che portavano al piano di sopra; oltre la camera dei miei, oltre il bagno grande e quello piccolo, raggiunsi la mia stanza. Entrai e accesi la luce gialla: la mia chitarra era ancora lì ad aspettarmi. Mi tolsi con i piedi stessi le scarpe di dosso, mi legai i capelli con un elastico sformato trovato in giro per la scrivania e mi sedetti sul letto. Tirai fuori il telefono dalla tasca, lo spensi e lo feci saltare lontano. Fuori Zulù iniziò ad abbaiare, forse stava chiedendo la sua palla; la presi, aprii la finestra, lasciando che l’aria fredda investisse la stanza, e mi affacciai a cercarlo. Vidi la sua parte bianca splendere di luna laggiù, nell’angolo più lontano del giardino. Stava abbaiando a un altro cane che, silenzioso e come imbarazzato, filava dritto al guinzaglio sul marciapiedi oltre la rete. «Zulù!» lo chiamai; lui si girò nella mia direzione, lasciò stare lo sconosciuto e corse sotto la mia finestra: un’onda mezza bianca sotto il cielo chiaro di stelle. «Prendi Zulù!» Feci volteggiare a lungo la palla per aria, con lui che oscillava il muso di conseguenza, e gliela lanciai lontano. Lui le corse dietro, tutto balzellante, e il bianco si perse nel nero, come se le macchie


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scure avessero mangiato le altre. Richiusi la finestra, mi sedetti sul letto e presi in braccio la chitarra. Cominciai con i miei soliti esercizi, per riscaldarmi le dita che quel giorno avevano preso una bella dose di freddo. Poi cercai tra gli spartiti sparsi sulla coperta quello che mi serviva e mi posi l’obiettivo: non sarei andato a dormire finché le mie mani non avessero imparato quella canzone. Mi concentrai un attimo, buttando fuori tutto e lasciando che la mia testa scendesse giù fino alla punta delle dita, e cominciai. Quando riemersi, mi accorsi che erano passate quasi due ore: l’orologio della sveglia dichiarava 23:26, con quei suoi numeri tratteggiati di giallo e i due punti che pulsavano a suon di secondi. Tirai un sospiro di soddisfazione: la canzone era pronta, era l’ultima da mettere a posto per il concerto di domenica. Nei giorni seguenti avrei ripassato le altre, per non perdere la confidenza raggiunta. Posai la chitarra, calda del lavoro fatto, sul letto, buttai sul pavimento lo zainetto rosso e gli spartiti, presi il pigiama e iniziai a prepararmi per la notte. Prima di spegnere la luce riaccesi il telefono: non c’era nessun messaggio di Chiara. Vabbè, si sarebbe fatta viva il giorno dopo, pensai. Guardai però l’altra parte di letto dove, sola, campeggiava la chitarra, e mi sentii salire nello stomaco un po’ di malinconia: in quel momento avrei voluto trovarci Chiara lì, accanto a me.


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IV

Finalmente era domenica. Prima di uscire chiamai Chiara al telefono; aveva un tono di voce gelido e poche parole a disposizione. «Visto che tu non vieni, mia cugina ha deciso di mettermi al tavolo dei suoi amici scoppiati, almeno avrò qualcuno con cui parlare» disse tra le altre poche cose, con voce insinuante. Avrei dovuto essere geloso, pensai, ma non lo ero per niente, ero troppo sicuro di quello che Chiara provava per me. Feci finta però di indispettirmi un tantino, così, per darle soddisfazione e per rigirare la situazione a mio favore. «Ah, bene. Così mentre io sarò a lavorare, tu te ne starai a chiacchierare piacevolmente con altri uomini.» «Lavorare è una parola grossa.» Stavolta mi indispettii davvero. «La musica per me è il mio primo lavoro, lo sai, e dovresti essere contenta che io abbia una passione così bella da portare avanti.» «Già, è che rimane così poco spazio» mi sembrò di udire, un sussurro dall’altro capo dell’etere. Mannaggia, ora non era il momento di sentirsi in colpa; feci finta di non aver capito, del resto non ero sicuro di aver capito davvero in quel modo. «Bene, buon matrimonio allora» conclusi in modo frettoloso. «Grazie.» E la sentii triste triste. Riattaccai pigiando forte la cornetta rossa, buttai il telefono sul letto, giusto a sbattere contro lo zainetto, presi la chitarra e la


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ficcai nella sua custodia, insieme alla scatolina dei miei plettri preferiti, ai cavi per l’elettrico e agli spartiti, che sapevo ormai a memoria, ma, insomma, non si sa mai. Ripresi poi il cellulare dalla tana dello zainetto in cui era andato a nascondersi, me lo infilai in tasca e uscii dalla camera. Da sotto la porta dei miei genitori filtrava una lama di luce, bussai due colpi: nessuna risposta, doveva esserci dentro il babbo; allora aprii e mi affacciai. Il babbo era disteso sul letto, con i piedi incrociati, stava guardando o leggendo qualcosa sul suo palmare, non aveva neanche sollevato lo sguardo. «Babbo.» Sobbalzò. «Il concerto inizia alle dieci, ma se arrivi prima ci dai una mano con i suoni.» «Sì, volentieri», mi rispose con una punta di gratitudine nella voce. Richiusi la porta e saltellai giù per le scale, con la chitarra che mi rimbalzava ritmica sulla schiena, come a spingermi ad andare. La macchina era parcheggiata per strada; stringendomi forte nel giubbotto, attraversai il giardino, già carico del freddo che il timido sole invernale di quella giornata aveva lasciato al buio della sera. Uno scalpiccio famigliare mi prese alle spalle. «Zulù!» E mi girai. Zulù mi correva incontro con la palla in bocca. Da quando gliel’avevo riconsegnata non la perdeva mai di vista e quando ci incontravamo me la mostrava con fare provocatorio, come a ribadirne il possesso. Io facevo finta di volergliela strappare dai denti e lui girava a grandi scatti il muso evitando la mia presa. Ci giocai un po’ così, con i guanti neri che sembravano confonderlo un tantino, poi lo salutai con la solita grattatina dietro l’orecchio e lo lasciai lì, a mollare la palla e riprenderla tra i denti.


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La città distava mezz’ora di macchina dal paese, nel mezzo c’erano campi grandi e piatti, alternati a qualche prolungamento mostruoso della periferia industriale cittadina. Complice il buio di quella domenica d’inverno, ai lati della provinciale, così dritta che pareva tagliata con il righello, si vedevano solo neri profili a scatola su un piano uniforme altrettanto nero. Dopo avere annaspato un po’ tra i cd che tenevo infilzati ai due lati del freno a mano, trovai quello che cercavo: era l’ultima registrazione delle prove dei nostri pezzi nuovi; con una mano lo liberai dalla mezza copertina che ancora resisteva e lo infilai nella bocca dell’autoradio. Voleva essere l’ultimo ripasso prima del concerto: anche se non era necessario per me, che mi sentivo già abbastanza sicuro, poteva essere utile alla mia chitarra, che chissà se aveva imparato tutto a dovere. Sorridendo, guardai attraverso lo specchietto la custodia distesa sui sedili posteriori e alzai il volume, perché il suono arrivasse fin là. Intanto ero arrivato alla prima uscita utile per la città, la presi e mi diressi verso il centro. Il Play Music era ai suoi confini, poco prima di entrare nella zona a traffico limitato; trovai parcheggio in uno di quegli spiazzi a triangolo che si formano tra due strade convergenti. Scesi di macchina: faceva meno freddo che in paese, tutta quella congestione di edifici e tutte quelle auto che sputavano veleno a qualcosa dunque servivano, pensai. Io, però, preferivo continuare a starmene al freddo, constatai quando lo strombazzare di un’auto dietro a un’altra, che si era spenta al semaforo accanto, mi stordì le orecchie. Aprii lo sportello di dietro, feci scendere la mia chitarra, me l’agganciai dietro la schiena e, con le mani a tapparmi le orecchie, mi avviai nella direzione del Play Music.


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La zona era piena di locali: musica di ogni genere usciva da porte a vetro rischiarate dalle luci di dentro e coronate da insegne luminose di forme e colori diversi. Fuori, alla luce mista delle insegne e dei lampioni, c’erano gruppetti di ragazzi, birra e sigarette alla mano, che parlavano, ridevano, stavano al telefono: una bella atmosfera, della città era questo che mi piaceva. Passando, mi fermavo a salutare qua e là la gente che conoscevo, giusto due parole però, perché erano quasi le otto e dovevamo provare i suoni. Arrivai al Play Music che gli altri c’erano già. Erano tutti e tre fuori, appollaiati su degli sgabelli intorno a un tavolo tondo, così piccolo che sembrava non servire a niente. «Ciao.» «Ciao, andiamo.» Mi guardarono e scesero dai loro sgabelli. Non fecero nessun accenno al mio ritardo, il tempo tra noi era una cosa relativa. Max mi aprì la porta e mi fece passare avanti a sé. «Pronto?» «Sì, lo siamo tutti no?» risposi. Da dietro mi tirò un colpetto sulla nuca con una delle sue bacchette. Max era l’elemento più incostante del gruppo e anche il più pigro: spesso arrivava alle prove impreparato e allora si affidava al suo istinto e all’ispirazione momentanea, che a volte funzionava bene, ma altre era poco precisa e mandava fuori fuoco noi altri tre. Sandro e Liuk invece erano dei professionisti: si preparavano con scrupolo, erano attentissimi agli aspetti tecnici, non smettevano mai di aggiornarsi e di sperimentare con i loro strumenti; me li sentivo molto vicini nell’approccio alla musica. Non ero più tornato al Play Music da quando era stato rinnovato; mi guardai un po’ intorno in cerca dei cambiamenti. Il nuovo bancone era sempre dallo stesso lato, alla sinistra di chi entrava, ma era più lungo e di un legno più chiaro dell’altro, da sauna


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finlandese. Guardai le etichette appiccicate sui cinque distributori di birra che si allineavano nella parte centrale del banco: erano quelle di prima e questo mi piaceva perché erano tutte buone. Anche il ragazzo dietro le birre era lo stesso, ma aveva una maglietta nera con tante bolle rosse; in alcune c’era scritto, in caratteri fluidi come fossero sott’acqua, Play, in altre Music, in altre niente. La divisa vecchia non mi ricordavo com’era, ma non era così, forse era verde. Passato lo stretto corridoio del bar, entrammo nella sala del palco. Lì i tavolini, con le loro poltroncine intorno, erano gli stessi di prima, ma sembravano di più perché il palco era cambiato, era più piccolo e tutto fatto di assi di legno chiaro. I muri erano pitturati di fresco, di un colore crema spugnato, e le luci di scena adesso erano lungo tutte le pareti anziché sospese intorno al solo palco, come fari puntati contro gli occhi di un interrogato. L’impressione generale era di un ambiente più naturale, più diurno, non era affatto male. In un angolo del palco erano ammucchiati gli strumenti dei ragazzi, ci posai la chitarra e mi sfilai il giubbotto. Con un colpo d’occhio vidi che l’impianto suoni era nuovo e dalla marca sembrava ottimo. «Lui è Fede, il fonico di qui.» Mi girai, Liuk mi indicava un tipo, l’unico presente in sala, seduto a uno dei tavolini a ridosso del palco. Stava controllando il permesso per la SIAE che doveva aver compilato Sandro, come di prassi. «Ciao» buttai in quella direzione, lui neppure alzò la testa. Liuk scosse il capo e, alzando la mano e dandogli una girata, mi fece cenno che era un tipo bizzarro. Si avvicinò poi al tavolino dove Fede era seduto e gli disse: «Siamo al completo, possiamo cominciare.» Lui, con la penna puntata sul documento che aveva sotto mano,


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finì di controllare le ultime righe, prima di alzare lo sguardo e squadrarci tutti: «Andiamo allora su, sul palco.» Aveva una voce strana, tutta uniforme, pareva senza modulazione, mi sembrò paradossale per uno che faceva quel mestiere. Scartammo i nostri strumenti, li attaccammo agli amplificatori e ci posizionammo come da copione: la batteria centrale dietro, io e Liuk un po’ più avanti, ognuno sul lato suo, e davanti, più o meno al centro, Sandro, con il microfono e le tastiere. Cominciammo a provare; Fede, conficcato nella sua poltroncina, ci suggeriva piccoli spostamenti reciproci, e poi di alzare un po’ la chitarra, di abbassare le tastiere, e così via. Non c’erano da fare grandi aggiustamenti, però, perché l’acustica di quel posto era rimasta eccellente: noi ci sentivamo a meraviglia e, a giudicare dagli assensi della testa di Fede, la resa giù doveva essere perfetta. Mentre facevamo le prove finali, vidi comparire il babbo sulla porta della sala. Lo salutai con un cenno del capo e, sempre col capo, lo invitai a entrare. Lui avanzò sorridendo, si sedette al tavolino del fonico e gli si presentò con una stretta di mano. Finito l’ultimo pezzo di prova, lasciò che Fede desse l’ok definitivo e prese ad applaudire a piene mani. «Bravi, si sente molto bene, sarà un gran concerto.» Si alzò e venne incontro a me che stavo scendendo dal palco, mezzo impiccato dal laccio della chitarra che cercavo di sfilare in tutta fretta. Mi accarezzò sui capelli, che avevo ricci uguali a lui ma ancora neri. «Bravo Fra, lo sai che sono orgoglioso di te.» E gli occhi gli brillavano di quella luce che era un fatto tutto nostro, che passava tra me e lui come un guizzo, come un’intuizione che veniva prima delle parole e che le rendeva inutili. Sentivamo le cose nello stesso modo e non avevamo bisogno di nessuna spiegazione da buttarci sopra.


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Non sapevo se questa affinità di stomaco venisse prima o dopo la musica, non sapevo se anch’io avevo scelto di suonare perché avevo dentro quello che aveva il babbo, o se era suonando che avevo sviluppato quel modo di sentire che ci appiccicava insieme. Era comunque la cosa più vera che mi sentivo addosso, l’unico posto dentro di me in cui ero a mio pieno agio. Tutto il resto mi suonava sempre un po’ finto, un po’ forzato e dettato da fuori, e sentivo che anche per il babbo era così. Avere qualcuno con cui condividere le cose in modo così profondo mi sembrava un lusso, una magia, ed era questa magia che passava tra i nostri occhi ogni volta che si toccavano. «Fra, si mangia.» Anche i ragazzi erano scesi dal palco, si stavano sistemando intorno a un tavolo un po’ laterale, dove il barista aveva portato quattro boccali di birra e quattro cartoni con la pizza dentro. La cena era offerta dal locale, come da consuetudine: si aggiungeva al piccolo compenso pattuito per suonare. «Mangi qualcosa con noi?» «No, sono a posto grazie. Vado a farmi una birra al banco, avrete da sistemare le ultime cose voi» rispose il babbo mentre già si defilava verso la porta. Mi sedetti al posto rimasto libero intorno al tavolino, aprii il mio cartone di pizza e iniziai a farla a pezzi con le mani. Liuk e Sandro, i leader del gruppo, stavano buttando giù la scaletta per il concerto: Liuk scriveva su un tovagliolo di carta e la sua penna ogni tanto affondava e si arenava nelle fibre morbide della salvietta, mentre un po’ discuteva, un po’ trovava un accordo con Sandro sulle canzoni da mettere in lista. Era sempre così, passava una strana alchimia tra di loro; anche durante le prove battagliavano ore su un giro anziché un altro, sul ritmo più giusto, sull’arrangiamento che rendeva meglio e poi, in un attimo, i loro diversi punti di vista si incontravano in un


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compromesso che era perfetto, che era sempre la soluzione migliore. Quella strana collaborazione era il motore del gruppo, io e Max lo sapevamo e lasciavamo fare, sicuri che il risultato sarebbe stato soddisfacente. Anche quella sera, mentre Liuk scriveva e poi cancellava e poi aggiungeva un asterisco e poi metteva tra parentesi, Max giocava con le sue bacchette contro il boccale della birra, sperimentando forse il suono diverso che ne usciva allo scemare del liquido, mentre io mangiavo piano i miei brandelli di pizza e guardavo il palco vuoto, ascoltando i pensieri che mi montavano in testa. Mi facevano impressione i palchi spogli, mi sembravano di una nudità imbarazzante: tutte le luci della sala, ancora accese alla loro massima potenza, erano puntate su quei poveri strumenti abbandonati a terra. La batteria sullo sfondo era tonda e monca senza le sue bacchette, la chitarra e il basso, un po’ più avanti ognuno dal lato suo, da zitti erano così simili da sembrare uguali: appoggiati di faccia ai leggii, sembravano intenti a studiarsi la parte. Davanti a tutto, in primo piano, c’erano le tastiere e il microfono che, piantato lì, scheletrico, sembrava il più solo di tutti. Lassù, su quel palco a misura d’uomo, i nostri strumenti, abbandonati a loro stessi, sembravano più piccoli di quel che erano e sapevano un po’ di morte, pezzi di legno e metallo montati insieme senza un perché. Sentii allora salirmi un po’ di magone allo stomaco: avrei voluto spegnere quelle luci oscene sulla mia chitarra, ridarle il fascino dell’ombra, riportarla nella dimensione della notte. «Fatto!» Liuk spinse via da sé il tovagliolo con la scaletta e fece saltellare più volte la coda della penna sul tavolo, cacciando fuori e dentro la punta.


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Con le mani mezze impiastricciate, mi avvicinai il tovagliolo giallo e lessi la successione dei titoli: niente da obiettare, il gatto e la volpe avevano fatto anche stavolta un lavoro eccellente. «Bene, vado fuori a fumarmi una sigaretta.» Non fumavo granché, ma prima del concerto era un rito dovuto, un po’ scaramanzia, un po’ tecnica di rilassamento; nessuno degli altri mi seguì. Attraversai il corridoio del bar, il babbo era ancora seduto a bere; era arrivata un po’ di gente intanto e lui lì, in mezzo ai ragazzi, non sembrava di molto più vecchio di loro. Passando lo guardai e, sollevando in aria le dita che già stringevano la sigaretta, gli chiesi se veniva a fumare con me. Lui scosse la testa e alzò il boccale di birra, a dire che no, che rimaneva a finire di bere. Fuori la temperatura era calata di netto e contro la nebbia luminosa dei lampioni iniziava a scendere qualche goccia di pioggia. Senza giubbotto com’ero uscito, mi strinsi le braccia al petto e mi addossai al muro del locale, anche per approfittare della copertura del tetto. Appesa a fianco a me c’era la bacheca con gli eventi del locale, dietro il lucido del vetro guardai il nostro manifesto: Domenica 26 Gennaio ore 22 The New Music in concerto Il nome del gruppo l’aveva scelto Sandro, perché all’inizio facevano musica progressiva, ed era ancora così quando avevo iniziato a suonare con loro, tre anni prima. A quel tempo, oltre a noi quattro, nel gruppo c’era anche un tizio mezzo slavo, che buttava dentro un po’ di fiati, sax e flauto. Il nome non me lo ricordavo più, ma era un tipo simpatico, ed era talmente secco e


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alto che si era piegato tutto: aveva la schiena che riprendeva la curvatura del suo sassofono e quando lo suonava di profilo sembrava uno di quei ciondoli a cuore diviso a metĂ che gli innamorati riuniscono per il taglio a zig zag. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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