La Talpa, il Turco e i Martiri, Luigi Lazzaro

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LUIGI LAZZARO

LA TALPA IL TURCO e I MARTIRI

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ LA TALPA IL TURCO E I MARTIRI Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-497-7 Copertina: immagine proposta dall’Autore Prima edizione Ottobre 2021


Politics no interest me. Dem devil business.... Dem a play with peoples minds. Never play with peoples minds. Bob Marley



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CAPITOLO I – LA TALPA

La talpa cattura i lombrichi, e dopo aver loro strappato la testa li deposita, ancora in vita, in una camera sotterranea; una dispensa dove i vermi ciechi e senza cervello diventano carne fresca sempre a disposizione. La Talpa chiuse il cellulare e si congratulò con se stesso, sfregandosi le mani. Aveva da poco consegnato l’ultimo carico di lombrichi, una ragazza di diciassette anni e un giovane di ventuno, pronti per l’ultimo passo della loro educazione religiosa, quello che li avrebbe portati tra le fila dei šuhadā, i martiri musulmani. Decise di premiarsi andando finalmente a svuotare la vescica. Alzò a fatica la sua esorbitante mole dalla poltroncina e uscì nel corridoio procedendo verso il bagno, a passi brevi e ciondolanti. Negli ultimi tempi aveva iniziato a indossare sempre il thobe1, cosa che lui motivava con il suo attaccamento alla tradizione islamica, ma la vera ragione era dovuta al fatto che la sua mole era cresciuta talmente da rendergli scomodo e difficile indossare dei pantaloni. Il suo ventre si era a tal punto foderato di grasso da non permettergli più di vedere, né tantomeno toccare il membro, per cui era ormai costretto a pisciare da seduto e il thobe gli permetteva appunto una manovra comoda e veloce. Rabbrividì al pensiero che qualcuno potesse vederlo seduto sulla tazza, come una femmina; sarebbe stato un disastro per la sua reputazione, proprio ora che i suoi committenti avevano iniziato ad apprezzarlo per ciò che lui veramente valeva. Mentre liberava a fatica la vescica, pensava che forse era il caso di dimagrire un po’. La notte precedente Karen, quella puttana, l’aveva umiliato dicendogli che fra le tante pieghe di grasso non riusciva più a localizzare l’uccello. Poi aveva rifiutato un rapporto orale perché lo 1

Indumento lungo fino alle caviglie, simile a una tunica, solitamente con maniche lunghe (N.d.E.).


6 sfogo cutaneo che aveva tra le cosce le faceva ribrezzo. In effetti, nonostante le innumerevoli profusioni di talco borato, pomate allo zinco e intrugli vari, lo sfregamento delle cosce gli procurava un fastidioso eritema che diventava sanguinolento per via del suo grattarsi. La sera precedente, al ristorante persiano, si era smodatamente abbuffato di ghameh, cosa che gli aveva fatto trascorrere una notte infernale, e ora l’interno delle sue cosce era un’unica piaga rosso scarlatta. Finito di urinare si alzò a fatica dalla tazza, e sentì il bruciore di un rivolo ritardatario colargli tra le gambe. Pensò, sospirando, che avrebbe dovuto farsi controllare la prostata. “Sì, domani… forse” si disse, ora doveva assolutamente trovare qualche altro lombrico da inviare alla fabbrica dei martiri. Non era facile in Danimarca, maledetto Paese di senzadio e puttane, dove tutto era permesso e accettato, trovare dei giovani musulmani che fossero pronti a ricevere l’insegnamento propedeutico all’invio alla madrasa2 di Manzareya, dove avrebbero ricevuto il magistero supremo: la fede nel martirio. Le donne erano invece addestrate sull’isola di Kharg dalla Umm al Muminin, la Madre dei Fedeli. Ormai era diventato impossibile reclutare giovani musulmani di seconda generazione e oltre; il marciume della società in cui essi crescevano inevitabilmente li contaminava. Era invece più facile far presa sulla mente dei nuovi immigrati, giovani animi esacerbati dall’odio, dalla rabbia di essere considerati gli ultimi nella scala sociale. Ragazzi che sentivano sibilare alle loro spalle “sporco bastardo” quando incrociavano quegli uomini biondi, alti, con gli occhi azzurri freddi come il ghiaccio. Ragazzi che nei negozi erano guardati con diffidenza e tenuti d’occhio. Quelli che le donne, quando li incrociavano in strade semideserte, cambiavano marciapiede. Ragazzi che quando giravano in gruppo, la gente li indicava. «Ecco quelli!» Cinquemila dollari, tale era il rimborso spese che la Talpa riceveva ogni volta che riusciva a inviare un aspirante martire nei campi di formazione. Era in questi campi che il lavoro iniziato dall’Imam, veniva di solito completato con successo. 2

Istituto o convitto musulmano, dove si impartiscono lezioni di religione, diritto e lingua araba (N.d.E.).


7 I giovani erano sottoposti a durissimi corsi ideologici durante i quali veniva loro strappata la testa, metaforicamente parlando. Un lavaggio del cervello che li rendeva ciechi e senza altri pensieri che non fossero il rancore e l’odio nei confronti dei persecutori e oppressori della fede dell’Islam. Non temere quello che avrai da soffrire. Sii fedele fino alla morte e io ti darò la corona della vita. Al termine del periodo d’indottrinamento, i giovani erano organizzati in squadre, ciascuna di esse specializzata in una tecnica d’intervento: dirottamenti aerei, assalti alle ambasciate, attentati a convogli militari, a mercati popolari, a posti di blocco e così via. La psiche degli aspiranti martiri veniva a tal punto manipolata che, grazie anche all’uso di farmaci e droghe, essi cadevano preda di un fortissimo senso di auto coinvolgimento. Erano gli eletti, coloro che avrebbero avuto il sommo privilegio di immolarsi. Non vi è arte che sia più bella, più divina, più eterna dell’arte del martirio. In una cerimonia, alla presenza di alte personalità del mondo islamico e di chi non aveva ancora guadagnato l’ambito status di martire, era loro consegnata la chiave del paradiso; chiave che essi avrebbero portato al collo fino al giorno in cui si sarebbero immolati. La Talpa si strofinò nuovamente le mani. Il suo conto presso la Faysal Bank di Ginevra cresceva a vista d’occhio. Negli ultimi tempi aveva ottenuto risultati eccellenti, tanto che lo stesso Abu Shuker al Shami, il leader spirituale di Jama’at al-Tawhid wal Jihad, la banda dei nerovestiti tagliatori di teste, gli aveva personalmente fatto i complimenti per l’ottimo lavoro eseguito. Ma il gioiello della sua corona era stato l’arruolamento di Fadi, un lavoro duro, il cui buon fine gli era valso un netto miglioramento d’immagine e reputazione nel mondo del terrorismo islamico. Fadi, infatti, era stato scelto per un’azione che, si diceva, avrebbe persino oscurato la gloria dell’11 settembre. La Talpa sapeva di essere uno dei più efficienti reclutatori dell’Europa Settentrionale, e sperava che presto gli fosse assegnata una zona più redditizia, con più materia prima e meno controlli dell’antiterrorismo… e poi, chissà, ampliando il suo campo d’azione, si sarebbe finalmente potuto liberare del Turco, quell’odioso ometto che faceva da tramite con la madrasa.


8 L’Imam della Moschea Idara Minhaj-ul-Qur’an si sfregò le mani e rientrò nel suo ufficio, chiuse la porta, sedette alla sua poltrona troppo stretta per il suo enorme ventre e si rimise al lavoro.


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CAPITOLO II – L’ÉLITE SQUAD

I tre giovani attraversarono il cortile polveroso, sotto un sole feroce, camminando a passo spedito sul consunto pavimento di mattoncini che il caldo e il tempo avevano reso di uno sbiadito colore rossastro. Le onde di calore che salivano dal suolo distorcevano i movimenti fluttuanti dei candidi kaftani, conferendo alle loro figure un aspetto irreale, come fossero spinte da un vento silenzioso e immoto. Il portamento dei ragazzi, fiero e dignitoso, sembrava dire “Noi siamo šuhadā, i martiri! Noi siamo il tuono di fuoco che dà la morte e per questo siamo immortali”. Gli studenti della scuola coranica che sostavano sotto l’ampio porticato in attesa della ripresa delle lezioni, a quella vista si scambiarono silenziosi cenni del capo; non capitava spesso di vedere riunita quella che all’interno della scuola veniva definita, con invidia e ammirazione The Élite Squad: la Squadra degli Eroi, gli šuhadā; i martiri destinati alle imprese più eroiche e clamorose, quelle che avrebbero riempito i giornali per settimane, diffondendo la paura nell’intero mondo occidentale. Quelle azioni cui sarebbero seguiti i vuoti proclami dei governi contro il terrorismo che non vincerà; i milioni di persone che avrebbero marciato in nome della pace per poi tornare alle loro case, angosciate, svegliandosi di soprassalto nel cuore della notte, chiedendosi quale sarebbe stato il futuro dei loro figli; la malcelata soddisfazione del mondo musulmano, momentaneamente appagato nei suoi sogni di rivalsa; i sotterranei contatti dei governi occidentali con i Paesi islamici… il tutto volto a creare un impercettibile ma importante trasferimento di potere dal mondo degli infedeli alla gloria dell’Islam. Giunti all’estremità nord del cortile, i tre giovani: Fadi il palestinese, Rashad l’afghano, e Nadir il pakistano, salirono la scalinata che portava all’ala degli uffici, zona interdetta agli studenti. Alla sommità della scalinata li attendeva il Sovrintendente della scuola, Omar Qureshi, un omino grassoccio dal ventre arrotondato, due gambette magre e ricurve, il testone ricoperto da radi capelli di riporto di un sospetto colore violaceo, le mani piccole e paffute perennemente


10 umide e fredde. Aveva due foltissime sopracciglia che contrastavano con la quasi totale assenza di barba, come se la natura avesse voluto concentrare in esse tutta la villosità del corpo. Scalpitando impaziente sulle esili gambe, Qureshi spronò con la sua vocina querula i tre šuhadā ad affrettarsi, e le scale furono divorate in poche falcate. Era il giorno in cui i tre giovani avrebbero incontrato Sua Eccellenza, il principale finanziatore della madrasa; capitava raramente che venisse personalmente in visita. In quelle rare occasioni occupava per qualche giorno l’ala della scuola destinata a lui e agli ospiti, che spesso lo accompagnavano fino a quando il suo elicottero lo portava via verso destinazioni sconosciute. Giunti sulla sommità, il Sovrintendente si addentrò sgambettando in un arioso corridoio dai muri lavorati in gesso che riportavano iscrizioni inneggianti alla grandezza di Allah. Lo seguiva Fadi. Il giovane era alto e prestante, la barba incorniciava un volto abbronzato dall’espressione forte e determinata. Cresciuto nei campi profughi, aveva istintivamente fatto proprie le più efficienti tecniche di combattimento da strada. Dietro di lui, Rashad l’afghano. Piccolo e snello, di colorito gialloverdastro, una testa ricciuta su viso butterato, naso puntuto e troppo grande. Gli occhi, mobili in modo febbrile, schizzavano fuoco come a bruciare tutto ciò che guardavano. Le labbra non abbandonavano mai un’espressione leggera e canzonatoria. Chiudeva la fila Nadir, il pakistano; magro e di altezza regolare; sotto uno sguardo profondo e riflessivo mostrava guance scavate e un naso sottile come una lama di coltello; più che una barba, una lanugine a chiazze gli copriva disordinatamente il volto. I tre erano l’élite della scuola e rappresentavano la migliore combinazione delle qualità necessarie a forgiare l’ideale kamikaze: determinazione, sangue freddo e intelligenza tattica. Vivevano rinchiusi nel proprio bozzolo, alienati, determinati e motivati a dare un esito alla propria vita nel modo più glorioso e letale possibile. Fadi aveva percepito il clima d’ingiusta e immotivata persecuzione nei confronti del proprio popolo, ed era caduto preda di un misticismo religioso e politico che aveva sublimato rabbia e frustrazione nel gesto estremo del martirio. Rashad aveva altre motivazioni: l’epatite C, contratta da bambino, e il virus HIV, unico regalo di una madre sconosciuta, non gli avrebbero permesso di vivere a lungo ma tutto ciò veniva da lui liquidato con uno sberleffo: «Il destino e io abbiamo in corso una scommessa su chi per


11 primo sarà causa della mia morte» diceva sempre «e io ho tutta l’intenzione di vincerla, questa scommessa.» Disincantato e cinico, aveva scelto la strada del martirio musulmano per lasciare un segno del suo altrimenti anonimo passaggio in questo mondo. Nadir era uno studente di teologia devoto e osservante, dotato di quell’intelligenza sottile e raffinata che abita l’incerto confine fra mistica e delirio. Giunti davanti a una pesante porta istoriata, il Sovrintendente li passò velocemente in rassegna e bussò con discrezione. La porta si aprì e due uomini, vestiti all’occidentale con lo sguardo freddo e impersonale, fecero cenno di entrare. Quando il Sovrintendente si avvicinò per essere a sua volta ammesso, una mano lo spinse con decisione all’indietro, mentre la porta gli si richiudeva in faccia con un umiliante scatto della serratura. L’uomo si guardò intorno, si lisciò il riporto di capelli, rigido come una calotta, e sgambettò con esagerata dignità verso la scalinata che portava al piano terra. L’ambiente in cui si trovavano i tre ragazzi era arredato in modo semplice ma elegante, un tappeto Herekè ricopriva quasi tutto il pavimento. La temperatura era piacevole, grazie a un invisibile sistema di climatizzazione. Una delle due guardie bussò discretamente a una pesante porta istoriata, e senza attendere risposta entrò richiudendo il battente dietro di sé. Calò il silenzio. Nessun suono proveniva dalla stanza adiacente. L’altro uomo, rimasto con i tre studenti era fermo, impassibile, in piedi davanti alla porta. Fadi spostò il peso del corpo da una gamba all’altra, si schiarì la gola e chiese: «Cosa stiamo aspettando?» Nessuna reazione. Trascorse ancora qualche minuto di silenzio e finalmente la porta dello studio si aprì, e l’agente fece cenno di entrare. La stanza era arredata con pochi pezzi che trasudavano buon gusto e prezzi da capogiro. Addossato alla parete opposta alla porta vi era un tavolo di rovere scuro con piana in cuoio color testa di moro, su cui posavano una lampada da biblioteca in ottone con diffusore di cristallo verde, e un portadocumenti di pelle nera. Attorno al tavolo vi erano otto poltroncine di pelle, anch’esse color testa di moro. Il pavimento era quasi interamente coperto da un antico tappeto caucasico Kazak ad aquile; ai due lati della stanza un divano a due posti e tre poltrone. La


12 parete a destra della porta era decorata da un quadro di Jackson Pollock, e la grande finestra sulla parete opposta era protetta da un pregiato tendaggio. All’angolo della parete finestrata, era posta una grande cassaforte, alta quasi due metri, che dominava la stanza con la grazia di un pugno nell’occhio. L’uomo che li aveva ricevuti, noto nella scuola come Sua Eccellenza lo Sceicco, vestiva all’occidentale con un abito di seta beige coloniale. Sotto la giacca, indossava una polo color aragosta e ai piedi un paio di mocassini, anch’essi color testa di moro, senza calze. Nella stanza aleggiava un leggero e rassicurante odore di cuoio. I giovani si schierarono in piedi all’altro capo del tavolo, in attesa. Le mani curatissime dell’uomo sfiorarono appena il portadocumenti di pelle, che sembrò aprirsi come dotato di vita propria; all’interno si vedevano alcune schede di un pallido celeste. L’uomo prese la prima e, dopo averla sfiorata con lo sguardo, fissò i suoi occhi penetranti su Fadi che, con evidente disagio, continuava a spostare il peso del corpo da un piede all’altro. Gli occhi di Sua Eccellenza, neri e lucidi come due sassolini di lava bagnata, tornarono sulla scheda e vi si soffermarono per un paio di minuti. Lo sguardo passò poi su Nadir e sulla sua scheda; lo Sceicco annuì e passò oltre, a Rashad; il suo sguardo si fissò a lungo negli occhi del giovane, senza che questi desse il minimo segno di disagio o imbarazzo. «Eccellente, ragazzi… eccellente» disse Sua Eccellenza come parlando a se stesso in un inglese aristocratico, poi continuò in arabo invitando calorosamente i tre a sedere. Fadi e Nadir sedettero sul divano tra la porta e il tavolo, mentre Rashad si accomodò sulla poltrona, tra la finestra e la cassaforte. «Ragazzi, voi rappresentate il meglio che questa madrasa abbia prodotto negli ultimi anni, ed è appunto per questo motivo che siete stati scelti per un’azione che passerà alla storia almeno come quella delle due torri.» «Sheer luck… Un puro colpo di fortuna» intervenne Rashad. «Prego?» replicò interdetto Sua Eccellenza, mentre l’agente in piedi al suo fianco puntava gli occhi sull’afghano. «Un colpo di fortuna, o meglio: un’enorme botta di culo, come dicono a Oxford.» L’agente spostò lo sguardo su Sua Eccellenza per poi tornare a guardare con attenzione Rashad che, imperturbabile, proseguì:


13 «Intendo l’11 settembre 2001. Nessuno, ripeto, nessuno, neanche gli ingegneri che avevano progettato le Torri avrebbero mai potuto immaginare che il calore di un incendio ai piani superiori avrebbe fatto collassare la struttura metallica degli edifici. Un caso fortuito quindi, sheer luck» poi, guardando il suo interlocutore con espressione ironica, proseguì: «Naturalmente in questo caso la definizione di fortuna dipende dai punti di vista. Dubito che i tremila sfigati che hanno lasciato la pelle sotto le macerie definirebbero l’evento come una botta, appunto, di culo, Agha Sahib.» Mentre Fadi e Nadir guardavano Rashad, perplessi, un leggero quanto fugace sorriso increspò il viso dello Sceicco. «Rashad… è il tuo nome, esatto?» non attese risposta «quel giorno Allah o se vuoi, la fortuna, ha aiutato gli audaci e i nostri fratelli martiri hanno scritto i loro nomi nella leggenda e nel libro della storia.» «Con rispetto» intervenne Rashad. «Chi ha scritto il proprio nome nel libro della storia è stato Osama bin Muhammad bin Awad bin Laden, certamente non i piloti dei due aerei. Tu sai come si chiamavano?» chiese all’agente, puntando il dito nella sua direzione «e tu, Nadir, conosci i nomi dei piloti? A te, Fadi neanche lo chiedo…» Il palestinese fece per aprir bocca, poi rinunciò e scrollò le spalle. L’espressione di Sua Eccellenza si oscurò e con un imperioso cenno della mano tacitò Rashad. «Quei due fratelli musulmani, insieme agli altri martiri, sono e sempre saranno i figli preferiti di Allah.» «Allah Akbar» chiosò Fadi. «Allah è grande» confermò lo Sceicco che, ritenendo ormai conclusi i preliminari, fece un cenno all’agente il quale, dopo un leggero inchino della testa, lasciò la stanza. Dopo aver chiuso la cartella, Sua Eccellenza si alzò muovendosi con leggerezza verso la cassaforte. Camminava senza il minimo rumore, sembrava quasi non toccare il pavimento. Giunto davanti al forziere estrasse dalla tasca della giacca una lunga chiave che infilò in una delle due serrature, la girò e compose un codice meccanico di cinque rotazioni; si udì uno scatto sordo e l’uomo inserì nella serratura situata sul lato opposto una seconda chiave, più corta della precedente. Si udì un leggero sibilo e sulla scatola a lato della cassaforte si attivò un quadrante con dieci pulsanti, una luce lampeggiante di color rosso richiese l’inserimento di un codice. Sua Eccellenza operò con velocità sulla tastiera, sfiorando delicatamente cinque pulsanti. La luce rossa cessò di pulsare e la porta della cassaforte ebbe un impercettibile scatto


14 in avanti. Bastò una leggera torsione del pomo d’ottone zigrinato sul fronte dello sportello, e finalmente il forziere si aprì senza il minimo rumore. Dal loro punto di osservazione i giovani riuscivano a scorgere il comparto superiore della cassaforte; questo occupava quasi la metà della sua capacità totale, era diviso in tre ripiani, tutti gonfi di mazzette di banconote verdi ordinatamente stipate. Sua Eccellenza si chinò, prelevò dal comparto inferiore una grande busta a sacchetto di colore giallo, richiuse accuratamente la cassaforte e tornò a sedere al tavolo, aprì il sacchetto ed estrasse tre buste. Su ciascuna di esse era tracciato un nome. L’uomo trattenne le buste davanti a sé e iniziò a parlare, muovendo lentamente la testa di modo che il suo sguardo abbracciasse i suoi interlocutori. Parlava con voce calda, sul volto un’espressione quasi paterna. «Voi siete destinati a un’azione che, per audacia e temerarietà, non avrà eguali» sollevò una mano, come a fermare nuove osservazioni di Rashad, che invece sedeva immobile e concentrato. La voce di Sua Eccellenza prese il tono di una profezia: «Voi sarete coloro che trasformeranno l’ambasciata statunitense in Israele e quella israeliana negli Stati Uniti, in un cumulo di macerie non più grandi di un…» si bloccò di colpo, in cerca di una parola araba che non arrivava. Lo soccorse la parola inglese pebble. «Non più grandi di un sassolino.» Nadir si guardò intorno colpito dall’enormità della notizia, mentre Rashad e Fadi rimasero impassibili a guardare Sua Eccellenza. Questi, dopo aver studiato l’effetto che l’annuncio aveva avuto sul suo pubblico, continuò: «Grazie a voi e al vostro coraggio nessuno, dico nessuno, potrà più sentirsi al sicuro e al riparo dalla forza e dalla vendetta dell’Islam. Dopo la vostra azione gloriosa, il mondo non sarà più lo stesso. Voi avrete cambiato il corso della storia. Il rapporto di forza tra il mondo musulmano e il morente sistema occidentale, muterà definitivamente a favore dell’Islam.» Lo Sceicco guardò Rashad per qualche secondo, poi continuò: «Ora tornate nelle vostre stanze e aprite queste buste: contengono i vostri nuovi passaporti. Ora siete degli irreprensibili cittadini maltesi. I documenti sono originali e tutti i vostri dati sono regolarmente protocollati nei registri anagrafici di quel Paese: nascita, scuole, club sportivi e tutto il resto.» Le mani dell’uomo si sollevarono all’altezza del petto, palmi in basso, per poi distanziarsi in senso orizzontale, con un gesto secco. «Tutti i vostri precedenti documenti sono stati distrutti e le vostre identità,


15 cancellate. Ora avete nuovi documenti, nuove date di nascita e nuovi nomi. Memorizzate attentamente le istruzioni che troverete nelle buste e poi distruggetele. Si tratta d’istruzioni preliminari, di tipo essenzialmente logistico; dopodomani sarete trasportati in un campo di addestramento, in Iran, dove sarete sottoposti a un duro lavoro di preparazione di circa due settimane, dopodiché» s’interruppe rivolgendo loro uno sguardo d’intelligenza e riprese: «sarete trasferiti negli Stati Uniti e in Israele, portando i calorosi saluti dell’Islam agli imperialisti e ai sionisti.» L’idea dell’Islam che inviava i propri calorosi saluti a Israele e USA sembrò divertirlo, sorrise per qualche secondo poi si raddrizzò e si alzò dalla poltroncina guardandoli con aria solenne. «Ragazzi, voi segnerete la fine di sei secoli di predominio dell’occidente sionista sul mondo islamico.» Allargando le braccia in un gesto ecumenico, aggiunse: «Tutti i fratelli musulmani ve ne saranno riconoscenti, per i secoli a venire.» Si avvicinò alla scrivania e passò leggermente la mano sotto il ripiano di mogano; la porta si aprì, l’agente apparve sulla soglia e rimase fermo, in attesa di ordini. «Che Allah vi guidi e vi protegga. Io m’inchino al vostro eroismo e alla vostra grandezza. Allah Akbar.» Inchinò leggermente il capo verso i tre giovani che nel frattempo si erano alzati, e indicò loro la porta con un sorriso. I ragazzi si avviarono verso l’uscita e quando Fadi giunse sulla soglia, si voltò: «Lo sapevo» disse rivolto allo Sceicco. «Cosa?» chiese Sua Eccellenza. «I nomi dei piloti dell’11 settembre… li conosco: Muhammad’Ata asSayyid e Marwan Yousef al-Shehhi.» Senza aggiungere altro, si voltò e uscì sul corridoio sotto lo sguardo perplesso dell’uomo.


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CAPITOLO III

Erano le sette del pomeriggio quando i giovani rientrarono nel dormitorio. Le tende delle due finestre ondeggiavano dolcemente alla leggera brezza, e da lontano giungeva il salmodiare del muezzin che chiamava i fedeli all’Adhan del tramonto. Ašhadu an lā ilāh illā Allāh… Ašhadu anna Muhammadan Rasul Allāh. Dalla finestra spalancata, tra le prime brume della sera, si scorgeva un misero paesaggio di rocce spaccate dal sole. Gli unici movimenti che si percepivano erano causati da nugoli di zanzare che davano il cambio alle mosche. La stanza era ampia e squadrata, le pareti disadorne e ricoperte di calce bianca, tre brande e tre cassettoni sgangherati componevano tutto l’arredamento. Dopo l’incontro con Sua Eccellenza erano tornati nell’ufficio del Sovrintendente Qureshi, che si stava occupando della loro partenza per l’Iran, poi una fugace visita in mensa e infine erano tornati al dormitorio. Erano allungati sulle brande, troppo tesi per potersi concentrare su qualcos’altro che non fosse il loro angusto futuro. Nadir leggeva il Corano con il cuscino ripiegato in tre sotto la testa, mentre Rashad camminava nella stanza come un animale in gabbia. «Si può sapere cos’hai? Smettila di girare a vuoto, mi stai facendo venire il mal di testa» disse Fadi, sdraiato con le mani incrociate dietro la testa. Rashad si fermò al centro della stanza e sollevò il dito indice. «Seguitemi con attenzione… immaginate di essere un esperto di computer e di elaborare un programma per cui, diciamo, alcune entità vengono programmate per obbedire oppure disobbedire a un certo algoritmo. Queste entità saranno anche programmate a esprimere vari gradi di affetto, rispetto, ammirazione oppure di denigrazione, di spregio o d’indifferenza nei confronti di chi redige il programma. Dopodiché, le entità saranno attivate e inizieranno a obbedire oppure disobbedire secondo gli ordini programmati: adoreranno oppure


17 ignoreranno colui che il programma l’ha scritto. Alla fine esse verranno premiate o punite sulla base del loro comportamento. Che ne pensate di un programma del genere?» «Ma che c’entra ora? Che ne pensiamo di che… in che senso?» osservò Fadi. «Cosa ne pensate di tutto questo meccanismo del programma e di chi l’ha realizzato» spiegò Rashad. «A me sembra tutto una stronzata» intervenne Fadi. «Se ho capito bene, io dovrei creare delle entità il cui unico fine è di adorarmi e rispettare le mie leggi, per poi punirle o premiarle in base al loro comportamento. Comportamento da me programmato… solo una mente squilibrata, dotata di un ego malato e ipertrofico, potrebbe concepire una cosa simile. Che gusto c’è a farmi adorare e rispettare da un’entità che io stesso ho creato e programmato? Sarebbe come esultare per aver risolto un indovinello, ma barando: e vai! Risolto, risolto! Sono un grande!» Così dicendo il palestinese esultò correndo in cerchio nella stanza, mimando i vari rituali dei calciatori quando marcano un goal decisivo. «Smettila di fare il babbeo e siediti» disse Rashad sogghignando, poi rivolto a Nadir aggiunse: «però a suo modo ha reso bene l’idea.» «Non capisco, dove vorresti arrivare?» «Ecco, il punto è che se voi sostituite alle entità del programma, gli esseri umani e, se al posto del programmatore ponete Allah, oppure il Dio cristiano o quello ebreo o qualsiasi altro Dio, che cosa avreste? Un Dio, pazzo sfrenato, che crea tutto questo casino di universo infinito per far cosa? Per sbattere su un pianeta infinitamente piccolo e insignificante un gruppo di scimmioni evoluti con il solo scopo di farsi adorare da essi: li controlla e li punisce se si masturbano o se desiderano la moglie di un altro. Un Dio che, al contempo, lascia morire, stuprare e ridurre in schiavitù bambini innocenti. Vi rendete conto dell’assurdità della cosa?» «Quale assurdità?» intervenne Nadir. «A Dio non si può applicare nessun discorso di logica umana, di nessun tipo in assoluto.» «Assurdità, Nadir» replicò Rashad «tu e i tuoi profondi studi teologici… non puoi cavartela dicendo che la mente umana è incapace di penetrare il mistero divino; è troppo facile, così si giustifica qualunque cosa. Comunque, ascolta: a me, dell’aspetto teologico non importa un fagiolo secco. Ognuno è libero di crearsi i miti che preferisce; quello che invece mi scandalizza è l’abuso che l’uomo ha sempre esercitato sui suoi simili in nome di una qualunque divinità»


18 continuò Rashad sempre più infervorato. «Guardati dentro! Ti hanno rubato l’anima in nome di Allah. Ti hanno persuaso a immolarti eroicamente per andare a sedere alla destra di Dio, puro spirito tra quelle stupide vergini che non scoperai mai!» Nadir scosse il capo. «Discutere con te è come svuotare un oceano con un cucchiaino» fece un gesto con la mano, come quando si scaccia una mosca noiosa, e si mise a leggere il Corano. Rashad sedette sulla sua branda, scosse il capo e trasse un profondo sospiro: «Veramente non vi ponete domande? Non avete neanche un piccolo dubbio?» Nadir sollevò gli occhi dalla sua lettura: «Ma si può sapere cos’hai… di che stai parlando?» Rashad gli puntò il dito contro: «Non ti è bastato conoscere Qureshi e lo Sceicco? Non vedi che sono due personaggi finti? Qureshi sembra un cartone animato e lo Sceicco un ologramma! Non ti basta perché in quella tua testa vuota sorga un minimo dubbio? Io da parte mia una cosa l’ho capita: questi signori sono dei manipolatori che addestrano poveracci come noi affinché vadano a immolarsi per conto dei vari politici, regnanti, petrolieri e banchieri.» Nadir rimase in silenzio, assorto, mentre Fadi si metteva a sedere sul bordo del lettino e con voce incerta diceva: «Fino a qualche giorno fa ero convinto di sacrificarmi in nome di un ideale eroico e religioso, ma poi ho visto chi guida questa scuola coranica e ho capito che noi siamo solo degli strumenti da usare in una lotta che di ideale ha solo il nome.» A quelle parole Rashad si animò, puntò il dito verso la porta e disse: «Quella è gente infame, cinica e spietata. Perché non ci vanno loro a farsi saltare in aria, entrando così per l’eternità nel fulgore del paradiso islamico? No! Loro lasciano a noi questo privilegio e intanto Sua Eccellenza si circonda di cose belle e costose, indossa vestiti di alta sartoria, gira in elicottero e ha i cassetti pieni di milioni di dollari. Avete visto? Quell’uomo è tanto perfetto e patinato che sembra finto! Insomma, io più li vedo quei due e più sono tormentato dal dubbio.» Tacque per qualche secondo poi, come folgorato da una rivelazione assoluta, disse: «E se ci stessero prendendo per il culo?» I tre restarono in silenzio per un po’, fino a quando Rashad con il solito sogghigno sardonico stampato sul volto continuò: «Avete visto cosa c’era in quella cassaforte?» «Dollari a paccate… pensa a quanti bambini si possono togliere dalla strada con quei soldi» disse Nadir mettendo da parte il Corano.


19 «Capirai… non risolveresti nulla, sarebbe come togliere una macchiolina da un barile d’olio. Piuttosto, io me li sputtanerei tutti in donne e champagne» disse Rashad. «Se Allah mi donasse tutti quei soldi, vorrebbe certamente che io li utilizzassi in opere meritorie, come assistere poveri e bambini» fu il commento di Nadir. «Anche farsi saltare in aria nel mezzo di cento pellegrini sunniti è un’opera meritoria a detta di chi guida questa scuola, quindi: se prima li assisti con i tuoi soldi e poi li fai a brandelli, avrai realizzato ben due opere meritorie, no?» sogghignò Rashad. Fadi intervenne con autorità: «Senti, non cominciare con le tue fantasie. Piuttosto, quanto pensi ci sia dentro quella cassaforte? Un paio di milioni di dollari?» Rashad scosse la testa: «Io dico più di tre… e tutti in biglietti da cinquanta.» «Beh, una bella sommetta, non c’è che dire» disse Fadi pensoso. «Eh sì… una bella somma e proprio per questo, non capisco perché tengano tutti quei soldi in quel cesso di cassaforte.» «Adesso sei anche un esperto di casseforti?» «Sono sempre state la mia vera passione.» «Tu appassionato di casseforti? Ma che cazzo dici?» «Certo, sono un profondo conoscitore di serrature in generale e di casseforti in particolare; quella dello Sceicco è una vecchia cassaforte cecoslovacca degli anni Cinquanta dello scorso secolo. Negli anni Ottanta è stata rimodernata aggiungendo la tastiera elettronica. Appartiene alla classe di sicurezza TL30 delle casseforti a combinazione meccanica, poiché l’aggiunta successiva dell’elettronica non venne, per principio e correttamente, a mio avviso, mai omologata dagli Underwriters Laboratories.» «Cosa vuol dire Sicurezza TL30?» «Vuol dire che la cassaforte può resistere per trenta minuti agli agenti esterni come fuoco, acqua, acidi, e agli attrezzi classici di scassinamento. Io, però, potrei aprirla in meno di dieci minuti.» Un pesante silenzio scese nella stanza; ogni tanto i tre ragazzi si studiavano guardandosi con la coda dell’occhio, finché Fadi trasse un profondo sospiro e disse: «Quindi, fammi capire bene, tu saresti un esperto di casseforti. Uno scassinatore, come quelli che si vedono al cinema?»


20 «Diciamo che ho la passione di manomettere serrature complesse e poi, io non sono uno scassinatore… vi è una forte dose di violenza nella parola scassinare, così come nella parola stuprare. Persuadere una cassaforte non è per niente un gesto di violenza, ma richiede la piena partecipazione dei tuoi sensi; è come sedurre una donna. Lavori sul suo corpo delicatamente con le dita, con gli occhi, con le orecchie, senti i suoi sospiri farsi sempre più profondi, le tue mani carezzano sapientemente le pieghe e gli anfratti più segreti, cerca di opporsi ma la sua resistenza si fa sempre più debole, fino a quando si arrende ed è lei stessa che ti prega di violarla, si apre, vogliosa e tu finalmente, la penetri.» Rashad tacque guardando con imbarazzo Fadi e Nadir che lo squadravano perplessi. «Beh, per me è così che funziona» borbottò Rashad allungandosi sulla branda e dando la schiena agli amici. «Al diavolo…» Fadi lo guardava sconcertato: «Tu devi essere pazzo… perdutamente, definitivamente folle» poi, puntando il dito indice al soffitto, aggiunse: «ma potresti anche essere un genio. Nel tuo modo sgangherato, senza dubbio, ma potresti esserlo. Senti…» aspettò che Rashad si voltasse verso di lui e continuò: «come faresti ad aprire quell’armadio blindato in dieci minuti?» «Quando Sua Eccellenza ha inserito i codici girando la manopola, ho registrato gli intervalli degli scatti.» «Beh, io non ho sentito alcuno scatto e poi come li avresti registrati? Avevi in tasca un registratore? Magari il cellulare?» «Ragazzo, gli scatti di una cassaforte li sente chi vuole ascoltarli; è come quando ti parla tua moglie…» «Perché, tu sei sposato?» «No, che c’entra, ma so che è così che funziona.» «Senti, lasciamo stare le mogli, questa storia è già abbastanza confusa così com’è… è meglio che tu continui.» «Quando si tratta di casseforti io il registratore l’ho in mente e ti posso assicurare che quel cesso nell’ufficio di Sua Eccellenza l’aprirei in meno di dieci minuti, e tra meno di tre settimane potremmo essere alle Mauritius a fare la vita dei nababbi.» Fadi si grattò energicamente la testa, alzandosi dalla brandina e camminando lungo il perimetro del salone. «Io non so proprio cosa pensare, comunque, una cosa è certa: una cazzata l’hai detta.» Rashad lo guardò curioso. «Sì, e quale?»


21 «Poco fa, non hai detto tra meno di tre settimane potremmo essere alle Mauritius eccetera?» «Sì, ho detto così… e allora?» Fadi socchiuse gli occhi e appoggiò il dito indice sulla fronte. «Pensaci bene Rashad: dove saremo noi fra tre settimane?» Guardando l’amico fisso negli occhi, ripeté: «Dove saremo noi fra tre settimane? Non lo sai? Allora te lo dico io: quello che sarà rimasto dei nostri corpi sarà in qualche cella frigorifera in attesa che vengano in tutta segretezza bruciati e le ceneri versate nella fogna. Nel frattempo, Qureshi e Sua Eccellenza brinderanno al successo dell’operazione con calici di champagne di ottima marca. Ecco, questo è quello che sarà fra tre settimane… e anche meno.» Fu come se un’eclisse inaspettata avesse improvvisamente oscurato la stanza. Il silenzio era tale che persino l’aria era divenuta ferma e pesante. Fu Rashad che per primo si scosse. «È da circa mezz’ora che una domanda si aggira in questa stanza di suicidi e assassini; rimbalza da una parete all’altra, con fragore, ma sembra che non la vogliamo ascoltare e soprattutto, non abbiamo il coraggio di rispondere.» Si alzò, e in quel momento la sua piccola statura sembrò quella di un gigante. «Abbiamo ancora intenzione di offrirci al martirio?» lentamente, ma con implacabile fermezza, alzò la mano. «Io non più.» Fadi rimase seduto sulla sua branda, immobile, una statua di pietra; poi lentamente si mise in piedi spostando lo sguardo alternativamente sui due compagni e alzò la mano con un movimento insicuro; quando giunse all’altezza dell’orecchio, si grattò la testa e la abbassò, per poi rialzarla con decisione, in silenzio. «Che cosa significa?» chiese Rashad. Con la mano ancora alzata e scossa da un leggero tremito Fadi sussurrò: «Sì.» «Sì cosa?» lo incalzò il piccolo afghano. «Sì… non voglio più.» Improvvisamente Nadir si trovò addosso due paia di occhi che lo scrutavano. Restò immobile per qualche secondo, poi inspirò profondamente, lentamente: «E voi sareste l’Élite Squad… la crème de la crème, la squadra di eroi che tutti i ragazzi della madrasa invidiano? Ma guardatevi! Francamente a me sembrate due polletti spaventati!» la sua espressione si fece sprezzante. «Sapete una cosa? Voi due mi ricordate


22 l’Ammazzasette che si bea del trattamento da eroe che i concittadini gli riservano fino al momento in cui le porte della città si chiudono alle sue spalle, e lui si caca dalla paura di dover affrontare il gigante.» Fece una breve pausa, si alzò dalla branda e continuò: «Cosa pensate di fare? Andare a bussare alla porta del Sovrintendente Qureshi e dirgli che abbiamo cambiato idea?» continuò, imitando l’accento e le movenze di Rashad. «Scusi Sahib Qureshi, sa… a pensarci bene, noi non ce la sentiamo più di spargere al vento le nostre budella per distruggere le ambasciate statunitense e israeliana. In effetti, signore, chiediamo il permesso di tornarcene ciascuno a casa nostra.» Nadir aveva ormai la scena in pugno e continuò, imitando il Sovrintendente: «Ma certo ragazzi, nessun problema, anzi devo dirvi che sono veramente sollevato che non vi sacrifichiate. Dei ragazzi così simpatici… me lo diceva anche Sua Eccellenza poco fa Speriamo proprio che rinuncino, sono così amabili! Ah, a proposito, per quanto riguarda il fatto che siete informati del piano terroristico del secolo, non vi preoccupate! Sono certo che saprete tenere un segreto, no? Allora, vediamo, dove avete deciso di andare? Posso chiamarvi un taxi, ragazzi?» Nadir si ricompose e dopo una breve pausa, continuò: «Vuoi sapere, invece, cosa succederà davvero? Succederà che tra un paio di giorni un pastore di capre vedrà un piede spuntare dalla sabbia del deserto, e quando qualche sfigato poliziotto inizierà a scavare, il cadavere di Rashad si tirerà dietro quello di Fadi e poi quello di Nadir. Nessuno saprà mai a chi appartengono quei corpi con il viso mangiato dai cani, e la faccenda si chiuderà dopo pochi giorni, quando un annoiato procuratore che non ha digerito il vindaloo della sera precedente, tra una scoreggia putrida e un rutto, firmerà il decreto di archiviazione della pratica.» Silenzio, i tre giovani si studiavano immobili e Nadir riprese: «Detto questo, non sarò certo io a rompere l’unità di questa squadra di super eroi per cui, se si troverà il modo di lasciare questo mausoleo con le nostre gambe, sarò con voi fino alla fine!» Rashad soffocò un urlo e si slanciò verso Nadir, abbracciandolo subito imitato da Fadi. Restarono per un po’ stretti in una catena di braccia sulle spalle, finalmente affrancati dal peso che li aveva oppressi negli ultimi giorni. Il pavimento sotto i loro piedi si sollevò con un palpito, la cappa di solitudine che li aveva oppressi per una vita cadde e un’ondata liberatoria li sommerse, portandoli lontano dai loro pensieri di morte.


23 Finalmente si separarono e rimasero a guardarsi perplessi con mille domande negli occhi, fino a quando Fadi prese in mano la situazione e si affacciò cautamente alla porta per controllare se qualcuno li stesse sorvegliando. Il corridoio era buio e vuoto, l’ala in cui erano alloggiati era quella riservata ai morituri e, pertanto, isolata dal resto dell’edificio. Richiuse il battente e passò a controllare il soffitto e le pareti in cerca di eventuali apparecchi d’intercettazione ambientale. La stanza era arredata spartanamente per cui fu facile verificare che non vi erano microfoni o telecamere spia; d’altro canto, non era mai capitato che un martire cambiasse idea prima della missione. Il momento critico, invece, poteva essere quello dell’innesco della carica esplosiva; in quell’istante cruciale il coraggio e la determinazione potevano dissolversi come neve al sole. Poteva, inoltre, anche essere un intervento esterno a impedire l’esplosione della carica, per cui, quando possibile, il martire era seguito a distanza dal mentore, com’era definito nell’ambiente; costui, a fronte di un evento imprevisto che impedisse l’esplosione delle cariche, provvedeva all’occorrenza con l’invio di un apposito segnale radio. «Bene» disse Fadi abbassando il tono della voce «cerchiamo di analizzare la situazione: allora, da un momento all’altro potrebbero trasferirci in qualche posto da cui sarà impossibile squagliarcela, per cui se dobbiamo farlo dev’essere il prima possibile… stanotte stessa.» «Porca miseria… ma se non sappiamo neanche dove ci troviamo» disse Fadi, camminando in cerchio nella stanza. «Dovremmo essere in una zona al confine tra il Pakistan e l’Afghanistan, più di questo io non so… e voi?» Silenzio. Fadi continuò: «Anche se riuscissimo ad allontanarci da qui, dove potremmo andare? Isolati e, soprattutto, senza denaro; ci rintraccerebbero in meno di mezz’ora.» Rashad si agitò sulla branda, poi si schiarì la gola e mormorò: «Uscire da qui non è un problema» si guardò intorno «e neanche il denaro… Nell’ufficio di Sua Eccellenza ce n’è quanto ne vogliamo.» «Ecco, bravo, facilissimo!» commentò Nadir. «Usciamo sul corridoio, attraversiamo il cortile, entriamo nell’ala della foresteria – il tutto senza farci vedere – e ci introduciamo nell’anticamera di Sua Eccellenza. Passiamo nell’ufficio senza che le guardie ci fermino, scassiniamo la cassaforte, intaschiamo milioni di dollari e ce ne andiamo. Facile come rubare caramelle a un bambino.»


24 «No, no, no, aspetta» intervenne Rashad tormentandosi le dita. «Si può fare… questa notte stessa, tra qualche ora andremo a prelevare i soldi e poi ce la squaglieremo dal portoncino di servizio, quello nel cortile.» Fadi lo guardò perplesso: «Allora, come avresti pensato di fare?» Rashad deglutì a fatica: «Niente… tra qualche ora tu e io andremo a prendere i soldi…» «Alt! Fermo lì» lo interruppe Nadir, poi con pazienza chiese: «tu sei in grado di aprire tutte le porte che dobbiamo attraversare?» «Sì.» «Noi riusciremo a neutralizzare eventuali agenti di sorveglianza che dovessimo incontrare?» «Sì.» «Tu riuscirai ad aprire quella cassaforte?» «Sì.» Fadi, con un sorriso guardò Rashad. «Beh, allora… qual è il problema? Ammettiamo pure che riusciamo ad aprire tutte le porte e a neutralizzare le guardie, come diavolo farai ad aprire quel forziere a mani nude e in pochi minuti?» «Non la aprirò a mani nude» borbottò Rashad. «Ah sì? E con cosa l’aprirai, con uno stuzzicadenti?» Rashad infilò la mano nella sua sacca, ed estrasse un astuccio di legno nero lucido delle dimensioni di un libro tascabile, l’aprì e mostrò l’interno foderato di vellutino rosso. Questo era diviso in vari scomparti, all’interno dei quali vi erano dei sottili attrezzi di metallo. «Cos’è quella roba?» chiese Fadi. «Grimaldelli artigianali in acciaio al nickel cromo molibdeno, congegnati da Kalashnikov e forgiati da Mujella, unici al mondo.» «Kalashnikov? Mujella? Ma di che diavolo stai parlando?» Rashad guardò l’astuccio con occhi adoranti e proseguì: «Kalashnikov è stato il persuasore di serrature più grande che sia mai esistito. Il suo vero nome non l’ha mai conosciuto nessuno, neanche la polizia che l’ha inseguito invano per più di quarant’anni. In effetti si dice che neanche lui conoscesse il suo vero nome. Diceva: il cielo mi fece e la terra mi raccolse, sono un frutto del giardino di Dio. Di lui si sa solo che veniva dalla steppa kazaka. Niente amici, niente parenti. Si faceva chiamare Kalashnikov, in onore del povero ladro descritto da Cechov in uno dei suoi racconti. È stato un genio, insuperato nel suo campo. Non c’è al mondo una cassaforte, una serratura, per quanto complicata, che lui non sia riuscito ad aprire.»


25 Rashad continuò con espressione malinconica e commossa: «Non era un vero ladro, è morto in povertà. A lui non interessava rubare, ma solamente penetrare i più intimi segreti di una serratura. La maggior parte delle volte apriva il forziere e non rubava nulla. Ogni tanto, quando il bisogno lo tormentava, prendeva quanto riteneva gli bastasse per sopravvivere.» Offrì l’astuccio all’attenzione dei tre amici. «Questi attrezzi sono unici al mondo, Kalashnikov li ha disegnati e Mujella li ha realizzati.» Anticipando la domanda di Fadi, Rashad continuò: «Mujella era un forgiatore cecoslovacco, scappato in Kazakistan a seguito di una brutta storia di pedofilia» abbassò il tono della voce. «Si diceva avesse stuprato due gemellini di soli sei anni, figli del capo dei servizi segreti cecoslovacchi che aveva arrestato e fatto fucilare suo padre e rapito sua madre, di cui era morbosamente innamorato. A fronte del rifiuto della donna di concedersi, sembra che lui l’abbia stuprata e poi strangolata, facendone sparire per sempre il cadavere.» «E cos’è che faceva questo Mujella?» intervenne Fadi. «Era un fucinatore di notevole abilità. Ha realizzato questo set di grimaldelli di acciaio al molibdeno, secondo il progetto di Kalashnikov. Ciascun grimaldello ha una serie di microsnodi meccanici di varia natura: snodi a centro fisso, a doppio centro, a centro di rotazione saltata e a centro di rotazione variabile; dei veri gioielli di metallurgia meccanica, unici al mondo. Non vi è serratura che resista a un esperto dissuasore di chiavistelli che abbia questi attrezzi.» Le guance di Rashad si fecero rosse, gli occhi si velarono di tristezza: «Mujella lavorava in un enorme sotterraneo alla periferia di Kökšetau, in Kazakistan; il suo laboratorio era un antro fumoso e buio che evocava l’anticamera dell’inferno. Lì forgiava le tradizionali spade Khaybar per le popolazioni tribali del Turkistan. Non usciva mai dalla sua officina, mai. Una donna kirghisa, muta e devotissima, lo accudiva appagando i suoi bisogni primari: il letto e la cucina. Il giorno in cui Mujella consegnò questa scatola a Kalashnikov non volle alcun compenso, ringraziò per l’opportunità che gli era stata offerta di forgiare dei simili gioielli di meccanica e salutò: addio amico, questa sarà la notte della mia partenza. Alla domanda di dove andasse e quando sarebbe tornato, oppose un silenzio che Kalashnikov non volle interpretare. La mattina seguente la sua governante lo trovò morto, sotto il maglio. Era stato lui ad attivarlo, dopo avervi piazzato la testa sotto.»


26 «Come mai l’astuccio è in tuo possesso, ora?» Rashad inspirò profondamente, si passò le mani sul viso e riprese: «Quando mio padre sparì ero poco più di un ragazzo, lasciai casa e me ne andai a Kazan, dove trovai lavoro in una taverna. Una sera Kalashnikov, che conoscevo appena, ebbe una lite con un circasso ubriaco che gli avrebbe tagliato la gola se io non fossi intervenuto. Da quel giorno mi prese con sé e nei tre anni seguenti vissi con lui come se fossi stato suo figlio. M’insegnò tutta la sua arte e la sera prima di morire di polmonite, mi consegnò quest’astuccio. Le sue ultime parole furono: Rashad, me ne vado contento di aver trasmesso la mia arte a qualcuno che, sono certo, la nobiliterà più di quanto non abbia fatto io. Ti lascio quei pochi soldi che troverai nella scatola dei biscotti, e soprattutto ti consegno la mia eredità più preziosa: l’astuccio dei grimaldelli; sono certo che ne farai buon uso e non li degraderai al servizio dell’avidità. Ti auguro una buona vita, ragazzo mio.» Rashad tacque e si strinse l’astuccio al petto. Fadi, che aveva seguito con attenzione il racconto, gli si avvicinò. «Ascoltami bene: ammesso che riusciamo ad arrivare alla cassaforte, tu ne conosci la combinazione grazie al tuo udito bionico, apri la serratura con i grimaldelli di… come si chiamano, Kalakov e Margella…» «Kalashnikov e Mujella» lo corresse Fadi. «Sì, va bene, quelli. Poi come farai a neutralizzare la serratura elettronica?» «Come ho già detto, quella è una vecchia cassaforte cui, negli anni Ottanta, è stato aggiunto un sistema elettronico di sicurezza. Un semplice sistema a combinazione che vale poco, tant’è vero che gli Underwriters Laboratories non ne riconoscono la validità.» «Sarà anche così» commentò Nadir «ma in questo caso non vi sono stati i click della combinazione meccanica. Come farai a inserire il codice elettronico?» «Infatti non lo inserirò, perché non lo conosco.» «E allora?» Gli occhi di Rashad s’illuminarono: «L’aggiunta di quella tastiera elettronica è stata eseguita dalla Electronic Safety di Birmingham, società fallita nel giro di un anno dalla sua costituzione. Tutte le tastiere montate, avevano un codice default di resettaggio della memoria formato da sei cifre identiche e cioè 666666. Per ottenere un codice personalizzato, il cliente doveva prendere contatto con la Electronic Safety, che avrebbe elaborato le istruzioni per la modifica del codice


27 stesso inviandole al cliente il quale avrebbe poi provveduto alla variazione.» Man mano che parlava, Rashad si vivacizzava e acquistava sicurezza: «La società chiuse per bancarotta e non fece in tempo a elaborare i codici personalizzati, per cui sarà sufficiente bloccare la tastiera e poi resettarla con il codice di default: 666666. «E come si fa a bloccare la tastiera?» «Basta pisciarci sopra e va in blocco.» «Ma, quando va in blocco, l’allarme non scatta?» «Non se ci pisci sopra.» «Bel prodotto di cacca!» «Eh sì… Infatti, la società è fallita.» «Quindi, se ho ben capito, la tastiera va in blocco, poi viene resettata con il codice di default, quindi si memorizza un nuovo codice. Basta introdurlo e il gioco è fatto!» «Esatto! Proprio così!» «Ma tu come fai a sapere tutto questo?» «Nel mondo dei persuasori di serrature, quelli veri, cioè quelli che non rubano per avidità ma per altri motivi quali soddisfazione personale, ideali politici, religiosi e, perché no… per amore o per altruismo… per quelli, dicevo, il villaggio globale non è un concetto nato con internet. Fin dai tempi più antichi esiste un’associazione segretissima, altro che i templari: la “Gilda dei Persuasori”, un network segreto di trasmissione delle informazioni sensibili. Perfino i segreti delle piramidi, i meglio celati di sempre, furono divulgati attraverso questa rete.» «Bah… A me queste sembrano enormi cazzate» disse Fadi «ma non credo che abbiamo molta scelta, l’unica chance di farcela è uscire da qui con un pozzo di denaro… quello sì che apre tutte le porte.» Il sorriso sardonico di Rashad chiosò: «Beh, male che vada domattina saremo insieme nel deserto in una fossa comune, ma in fondo morire… non era quello che più desideravamo, fino a qualche ora fa?»


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CAPITOLO IV

Nel chiarore perlaceo della notte, tre ombre attraversarono silenziose il cortile della madrasa. Raffiche disordinate di vento caldo trasportavano una polvere gessosa che s’infilava nelle narici e bruciava i polmoni. In bocca, sapore di piombo. Fadi, Nadir e Rashad si muovevano sotto il porticato, passando veloci da una colonna all’altra; si erano tolti la tunica bianca, indossavano scarpe di gomma, pantaloni e magliette scure, in mano avevano zaini e borsoni. L’edificio era immerso nel buio; nella notte impallidita dalla luna, il cortile deserto era inondato da una luce livida e inquietante. I tre giovani erano a circa dieci metri dall’ingresso della foresteria quando scorsero un uomo accoccolato proprio di fronte alla porta. Indossava una tunica marrone, ai piedi un paio di sandali con stringhe intrecciate, il capo era scoperto e reclinato sopra le braccia appoggiate sulle ginocchia. Sembrava assopito. Fadi e Rashad fecero cenno a Nadir di restare di guardia sotto il porticato e si avvicinarono fino a circa due metri dall’uomo, sempre immobile con la schiena appoggiata al battente. Fadi sollevò la mano destra con l’indice puntato prima verso Rashad e poi verso la figura addormentata; l’afgano annuì e si portò con la schiena a ridosso del muro poi, con due falcate laterali, fu addosso all’uomo. Con la mano sinistra gli afferrò i capelli, sollevandogli la testa, e con la destra sferrò un pugno che colpì l’uomo tra l’orecchio e la tempia. Si udì un rumore sordo seguito da un profondo sospiro. Fadi si avvicinò veloce e accostò le labbra all’orecchio dell’amico. «È morto?» sussurrò. «Non credo» mormorò Rashad dopo essersi chinato sull’uomo, poi estrasse dalla tasca alcune strisce di lenzuolo e, con gesti abili, gli legò i polsi e le caviglie, infine gli infilò un tampone della stessa stoffa in bocca e lo imbavagliò sistemandolo come se stesse dormendo. Poi si sollevò, estrasse un grimaldello dalla tasca dei pantaloni e con estrema naturalezza aprì la porta, come se avesse utilizzato la chiave.


29 I due giovani entrarono nell’androne illuminato da una fioca luce di servizio e iniziarono la salita delle rampe, Fadi accostato alla parete seguito da Rashad che invece procedeva appoggiato alla balaustra, guardando verso l’alto nella tromba delle scale. Arrivati alla penultima rampa prima del piano di accesso alla foresteria, Fadi distese il braccio sinistro facendo cenno all’amico di fermarsi. La testa del palestinese era all’altezza del pianerottolo e da quella posizione scorgeva un paio di scarpe nere che sostavano davanti alla porta della foresteria; dalle scarpe si alzavano pantaloni scuri con la piega accuratamente stirata. “Questo non è un arabo sfigato” pensò, “questo è un professionista”. Fece cenno a Rashad di avvicinarsi con cautela. L’afgano guardò con attenzione la scena, poi fece cenno a Fadi di seguirlo. Salirono la rampa lentamente, consci che sarebbe bastato lo scatto di un tendine o il crocchiare di un ossicino del piede per allarmare l’uomo a guardia della porta. Giunti al termine della scala si fermarono addossati al muro; l’uomo era dietro l’angolo, a meno di due metri di distanza, e in quel momento dava le spalle alle scale. Fadi si accosciò e sporse appena la testa per mettere a fuoco la situazione, poi si sollevò e fece cenno al compagno di attendere, sistemò un piede sul pianerottolo mantenendo l’altro sull’ultimo gradino, inspirò profondamente e scattò; in un attimo fu addosso all’uomo bloccandolo con una presa di strangolamento, la mano del braccio che serrava la gola faceva da bavaglio sulla bocca, mentre l’altra serrata a pugno colpiva la tempia. L’uomo si afflosciò tra le braccia del palestinese che lo adagiò a terra, estrasse la pistola dalla fondina ascellare e se l’infilò nella cintura. Intanto Rashad s’era dedicato alla serratura della porta dietro di lui: pochi secondi e questa scattò con un suono tondo e lubrificato. L’afgano spinse il battente con la massima cautela; si trovavano nell’anticamera, la luce lattiginosa della luna entrava dalla finestra e illuminava la stanza deserta. Fadi sollevò l’uomo privo di sensi, lo distese sul tappeto e gli legò caviglie, ginocchia e polsi. Intanto Rashad aveva violato anche la porta che dava nello studio di Sua Eccellenza. La stanza era completamente al buio, le persiane e le tende erano chiuse e intorno aleggiava un leggero profumo di bergamotto. Fadi sollevò nuovamente l’uomo svenuto e lo trasportò nello studio, chiudendosi con attenzione la porta alle spalle, senza poter fare a meno di pensare che se qualcuno li avesse scoperti, si sarebbero trovati in trappola come


30 due topi. Non appena chiusa la porta i due capirono che c’era un altro problema da risolvere, qualcosa a cui proprio non avevano pensato: la stanza era totalmente immersa nel buio e non avevano nulla che potesse far luce, neanche un misero fiammifero. Solo la presenza di un led verde indicava dove fosse la cassaforte. La voce soffocata di Fadi ruppe il pesante silenzio: «Cosa facciamo, apriamo tende, finestra e persiane oppure accendiamo la luce? Non è che… così, per caso tu, magari, hai la vista bionica e riesci a vedere anche al buio?» «Vaffanculo.» «Ho capito… Non riesci.» «La luce della luna non mi basta per aprire la cassaforte; d’altronde schiudere finestre e persiane farebbe troppo rumore e potrebbe essere notato dall’esterno.» «Beh, allora non ci resta che accendere la luce.» «C’è una lampada sul tavolo, se la sistemiamo vicino al forziere, penso sarà sufficiente.» Fadi individuò a tentoni la lampada, e dopo qualche difficoltà trovò l’interruttore e l’accese. La luce verdastra si diffuse nella stanza, facendo sussultare i due giovani che immediatamente controllarono la chiusura delle tende e accecarono con il corpo dell’uomo privo di sensi, la fessura tra il pavimento e la base della porta. «Senti, Rashad, forse dovevamo ammazzarlo quello sfigato di guardia nel cortile, potrebbe rianimarsi da un momento all’altro e allora…» Mentre armeggiava intorno alla cassaforte, Rashad mormorò quasi a se stesso: «Ah sì? E cosa vorresti fare? Scendere, spezzargli il collo e poi tornare su a pisciare sul sistema di allarme?» «Ascolta, Superman, è facile fare il grande, il magnanimo, fottendosene delle conseguenze. Qui abbiamo un problema da risolvere e qualcuno dovrà farsene carico e sporcarsi le mani.» «No, ascoltami tu, palestinese: io ho da fare con la cassaforte, tu scendi al piano terra, assesti un altro pugno allo sfigato, così che dorma ancora una mezzoretta, e torni su a orinare sul sistema d’allarme, va bene?» «Scusa, ma perché devo essere proprio io a pisciare su quella specie di allarme, non puoi farlo tu?» chiese. «In fondo questo è il tuo fottuto lavoro, no?» Rashad tralasciò di armeggiare intorno alla serratura e si voltò a guardare Fadi con aria divertita. «Tu… tu ti vergogni di orinare davanti a me?»


31 «Stronzo, io piscio in bocca a te e tutti i tuoi fottuti antenati.» «A me basta solo che pisci sulla scatola dell’allarme» disse il piccolo afgano, tornando con calma al suo lavoro. «Senti Rashad, mentre tu vai a farti fottere, io scendo a vedere com’è la situazione nel cortile.» Fadi si avvicinò alla porta, spostò lateralmente il corpo della guardia e fece per uscire. «Non ucciderlo.» «Fottiti» sibilò Fadi, chiudendosi la porta alle spalle. Rimasto solo, Rashad tornò a concentrarsi sulla serratura, sorridendo al pensiero di come Kalashnikov avrebbe commentato la validità dei meccanismi di chiusura: Roba che si apre anche con un panetto di burro, ragazzo. Dilettanti. Questa trappola è stata malamente congegnata da gente senza orgoglio e dignità della propria professione. Estrasse dalla tasca posteriore dei calzoni un’asticella snodabile e la infilò con un gesto veloce e sicuro nella prima serratura, poi passò al meccanismo per l’inserimento dei cinque codici. Guardò verso l’alto e dopo pochi secondi di concentrazione nelle sue orecchie risuonarono i tenui scatti prodotti dalla mano di Sua Eccellenza che girava la ruota zigrinata. Kalashnikov raccontava che con gli anni, un violatore di serrature che si rispetti, oltre che con l’orecchio, riesce a sentire anche con la mano il momento in cui la ruota arriva sulla posizione programmata: Ricorda, ragazzo, inserire i codici con una ruota meccanica è come guidare un’auto con il cambio non sincronizzato, un orecchio allenato e una mano sensibile fanno sì che le marce siano innestate e disinnestate con una facilità e una soddisfazione straordinarie. Intanto Fadi scendeva con cautela le scale buie e si fermava davanti alla porta che dava sul cortile. Appoggiò l’orecchio sul battente della porta e cercò d’interpretare i rumori che provenivano dall’esterno. Il vento stava aumentando di forza e il battente vibrava sotto l’energia delle raffiche. Il giovane palestinese socchiuse l’uscio e fu assalito da una zaffata d’aria calda e polverosa che in un attimo gli seccò labbra e narici; cercò con lo sguardo la figura accovacciata contro il muro, e una morsa gli strinse lo stomaco. L’uomo non c’era più. “Fadi, sei uno stronzo”, pensò “avresti dovuto spezzargli il collo… un uomo con il collo torto non se ne va in giro a creare guai”.


32 Si guardò intorno e notò un monticello di sabbia addossato alla parete, a fianco alla porta. Uscì sul cortile e con il piede saggiò quel cumulo di polvere che, a quanto ricordava, non doveva essere lì. Al tocco del piede, la collinetta prese vita e si mosse con uno scatto improvviso, seguito da un leggero tremore. Fadi fece un salto all’indietro come se fosse stato aggredito da un cobra, poi si guardò intorno e nuovamente, con il piede, saggiò quell’informe cumulo di polvere. Dalla sabbia affiorò il kaftano marrone dell’uomo di guardia, evidentemente ribaltato sul fianco dal vento o da qualche contrazione muscolare. Fadi esaminò il cortile con circospezione e notò con soddisfazione, che le raffiche di vento stavano acquistando forza e sollevavano vorticosi mulinelli di sabbia che rendevano l’aria caliginosa e poco respirabile. La guardia giaceva sul fianco destro, e un leggero tremore gli squassava il corpo. Fadi lo ripulì alla meglio della polvere che lo ricopriva e lo raddrizzò nella posizione accoccolata in cui era stato sorpreso. L’uomo dava segni d’imminente risveglio per cui era necessario neutralizzarlo. Con la mano destra gli afferrò il mento, ricoperto di una bava polverosa, e con la sinistra la sommità del cranio. “Una torsione secca e il collo si spezza… problema risolto” pensò. Rimase per qualche secondo a guardare quella testa inerte poi si bloccò: tra i mulinelli di polvere una figura si avvicinava. Appariva e spariva tra i nugoli che il vento avvitava sul cortile. Un barracano chiaro schiaffeggiava l’aria come un serpente furioso. Fadi lasciò l’uomo in posizione raggomitolata contro il muro alla destra della porta. Si mosse rapidamente sul lato opposto, allungandosi a terra prono, a ridosso del muro mentre usava le mani per sollevare sabbia e polvere a coprire il proprio corpo. La persona che avanzava tra le raffiche di vento era arrivata a pochi metri di distanza; nel vedere la figura della guardia accoccolata a terra rallentò la marcia e urlò nel vento: «All’erta!» si fermò un attimo a guardare poi, avvolgendo il barracano a coprire naso e bocca, commentò: «Sì… all’erta un cazzo… buonanotte!» Girò verso sinistra e la sua risata si disperse nel vento. Fadi rimase immobile per circa un minuto, poi si sollevò da terra, estrasse con rapidità la pistola dalla cintola e con il calcio colpì nuovamente la guardia tra l’orecchio e la mascella. Dopo aver verificato che nel cortile non vi fossero altri movimenti, rientrò nell’edificio e raggiunse a grandi falcate lo studio di Sua Eccellenza.


33 «Per quanto ne hai ancora? Dobbiamo affrettarci, qui c’è gente che gira.» «Quasi finito, arrivi giusto in tempo perché ti liberi la vescica.» «Ti ho già detto che non ho nessuna intenzione di salire su una sedia per pisciare su quella stupida scatola» puntualizzò deciso. «Fallo tu, in fondo sei proprio tu che devi aprire questa trappola, no?» Diede un calcio al forziere e continuò: «Ma poi, non va bene l’acqua? Proprio il piscio ci vuole?» «Che palestinese fesso mi è capitato, incapace persino di pisciare!» Mentre borbottava, Rashad avvicinò una poltroncina al lato della cassaforte. «NH3» disse. «Che?» «NH3… Ammoniaca. Nell’urina ce n’è una discreta concentrazione.» «E allora?» «Allora, Fadi» disse Rashad, mentre si apriva i pantaloni, tirandoli giù alle ginocchia «l’ammoniaca dell’urina corrode il litio che è nella scatola, mandando in corto il sistema di allarme. Noi resettiamo il programma con il codice di default che non è mai stato variato, dopodiché introduciamo un nuovo codice e… voilà monsieur, il gioco è fatto.» Si piegò leggermente sulle ginocchia e iniziò a orinare con un’espressione di beatitudine dipinta sul volto. «Ah… era dal pomeriggio che me la tenevo, e sai perché?» «Ma chi se ne fotte» rispose Fadi con aria schifata. «Perché sapevo che tu ti saresti vergognato di tirarlo fuori davanti a me.» «Senti afgano, invece di sparare cazzate pensa ad aprire questa fottuta cassa, qui si sta facendo giorno!» Proprio in quel momento il led della scatola iniziò a lampeggiare in modo disordinato e, dopo pochi secondi, sul display comparvero cinque trattini rossi e la scritta lampeggiante RESET. «E vai!» sbottò Fadi. «Allora non erano cazzate! Rashad tu sarai un rompipalle, ma sei pure un geniaccio.» Abbracciò alle ginocchia l’amico, che era ancora in piedi sulla poltroncina, lo sollevò e lo depose a terra, incurante dell’uccello che gli svolazzava davanti agli occhi. Dopo essersi tirato su i calzoni, Rashad schiacciò con un gesto sicuro il tasto CONFIRM. La scritta RESET lampeggiò due volte, sparì e fu


34 sostituita da INSERT CODE, un nuovo passaggio veloce sul tastierino e il display cambiò in REPEAT INPUT. Rashad inserì nuovamente il codice e la scritta sul display sparì. «Ora viene il bello» mormorò Rashad. Inserì cinque numeri sul tastierino e attese; Fadi guardava affascinato il display, sbirciando da dietro la spalla dell’amico. Per qualche secondo non successe nulla, il vento batteva contro le imposte e la cassaforte era lì, immota e immemore. Poi un leggero ronzio si congiunse alle urla del vento e lo sportello si mosse in avanti di qualche millimetro, mentre sul display si materializzava una scritta verde CLEARED. Fadi, con espressione incredula, tirò lentamente a sé lo sportello con il dito indice piantato dietro il pomo zigrinato: «Facile. Come rubare caramelle a un bambino» commentò mentre spostava la lampada a illuminare l’interno del forziere. Le banconote erano ancora al loro posto, stipate nei primi tre ripiani, mentre sulle due mensole più in basso vi erano due cartelle di documenti, una scatola di madreperla che conteneva una pistola con il manico decorato con lo stesso materiale, e la custodia di un DVD. Un improvviso rumore alle loro spalle li fece sussultare, e nella penombra videro l’agente che scalciava energicamente a gambe unite sulla porta dello studio. Con due veloci falcate Fadi gli fu addosso e senza sforzo apparente, come se stesse dando un calcio a un pallone, colpì l’uomo sotto il mento; la testa fece uno scatto all’indietro per poi tornare in avanti in modo così repentino che Rashad, con un’espressione empatica di dolore dipinta sul volto, si massaggiò il retro del collo. «Ahia! Un colpo di frusta mondiale.» «Presto» incitò Fadi. «Finiamo il lavoro e togliamoci dalle palle prima possibile.» Iniziarono lo svuotamento del forziere con le cartelle portadocumenti e la scatola di madreperla; passarono poi ad afferrare le mazzette di banconote a piene manate, scaraventandole nei borsoni. Quando questi furono pieni, vi era ancora una parte da svuotare e i due si guardarono intorno alla ricerca di un contenitore, poi Rashad indicò a Fadi i pantaloni e sussurrò: «Togliti i calzoni.» «Cosa?» Rashad iniziò a sfilarsi i suoi e incoraggiò nuovamente Fadi: «Dai, presto, ci serviranno da contenitori.»


35 Il palestinese, contrariato, si tolse i calzoni e rimase completamente nudo. Mentre Rashad faceva un nodo alla base di ciascuna gamba dei pantaloni e le riempiva di banconote, guardò l’amico: «Certo che neanche le mutande vi hanno lasciato, gli israeliani!» «Rashad smettila e vai a farti fottere. In modo definitivo, capito?» «Che brutto carattere… piuttosto, abbiamo finito?» La cassaforte era completamente vuota, i due amici accostarono lo sportello, si caricarono sulle spalle i due fagotti, presero i borsoni e, dopo aver dato un ultimo sguardo all’agente ancora privo di sensi, lasciarono la foresteria. Discesero le scale e si fermarono davanti alla porta che dava sul cortile. Il vento soffiava ancora rabbioso e scuoteva la porta che Rashad stava aprendo con cautela: uno sbuffo di polvere s’inserì prepotentemente dallo spiraglio. Il bianco perlaceo della luna si era trasformato in una luce torbida e giallastra, il vento ululava nella notte invasa dalla sabbia. Il guardiano era ancora accovacciato al suo posto, una statua di arenaria. La visibilità era nulla e i due amici si avventurarono nel cortile, sferzati dalla sabbia e senza alcuna protezione sul viso. In un attimo gli occhi e il naso si riempirono di sabbia, i fagotti erano sballottati dalle raffiche, sbilanciando i due, impegnati in una dura lotta contro un vento maligno che li aggrediva da ogni parte; ciechi, in una nuvola di polvere che bruciava i polmoni. La sabbia sferzava la loro pelle nuda con impeto doloroso e bastarono pochi secondi perché perdessero completamente l’orientamento. Fadi continuava a brancolare nel vento alla ricerca di un riparo che gli permettesse di respirare e liberarsi da quella sabbia che gli riempiva il naso, la bocca e le orecchie. A un tratto una figura biancastra balzò fuori dal porticato, un’ombra galleggiante nel mare di vento dell’ampio cortile. Si avvicinò a Fadi, seduto a terra, bianco di polvere e con il volto nascosto tra le mani, si chinò su di lui urlando nel vento: «Fadi alzati, seguimi!» il palestinese sollevò il viso dalle mani e riconobbe gli occhi vivi e inquieti di Nadir. Si alzò a fatica, aggrappandosi al braccio del pakistano e lo seguì fin sotto il porticato, dove la violenza della tempesta arrivava molto attenuata. Fadi si appoggiò esausto alla parete dell’edificio, mentre con violenti colpi di tosse cercava di liberare le vie respiratorie, intasate da sabbia e polvere.


36 Nel frattempo Nadir si era lanciato nuovamente nell’inferno del cortile dove, a fatica, recuperò Rashad e i borsoni. I tre procedettero con cautela verso la loro stanza, i corridoi erano bui e deserti, la bufera di sabbia scoraggiava chiunque dall’avventurarsi nella notte. Appena rientrati in camera, Fadi aprì il rubinetto del lavabo e v’infilò dentro la testa, emettendo spaventosi rantoli e fragorosi colpi di tosse. Quando riemerse dal lavandino e si raddrizzò nella sua imponenza, il suo aspetto era talmente terrificante che i due amici restarono a guardarlo senza parole: i capelli, bagnati e saturi di sabbia formavano intorno al viso stravolto una raggiera scura che evocava l’aureola nera dei demoni. Il viso, lavato dalla polvere, aveva ripreso il suo colore olivastro mentre il corpo, ancora imbiancato, si rivestiva di striature scure provocate dall’acqua che gli colava dalla testa a larghi rivoli; una creatura infernale, il grande drago dell’apocalisse, il serpente antico precipitato sulla terra. «Beh, che c’è?» chiese Fadi, guardando gli amici ammutoliti. «Perché mi guardate così? Sto sanguinando?» Rashad, ancora ansimante, seduto sulla branda, lo squadrò con aria divertita. «No, è solo che sei così brutto da fare impressione, e inoltre non sei stato neanche capace di pisciare sulla scatola dell’allarme!» «Senti» disse Fadi «quando saremo lontani da qui, tranquilli e al sicuro, ci faremo grandi risate sulle mie mancate pisciate, ora però dobbiamo andarcene al più presto, veloci e invisibili; acqua in bocca e fuoco sotto i piedi.» «Hai ragione, per una volta… dai, riempiamo tutte le borse e gli zaini con quella roba e andiamocene» indicò i fagotti al centro della stanza e le cartelline portadocumenti. «Dove, non so, ma andiamocene. Lasciamo qui tutto il resto. In fondo, per chi fino a qualche ora fa aveva scelto la morte, tutto, ma proprio tutto, è da considerarsi superfluo.» Trascinarono i due fagotti e li aprirono, disfacendo i nodi che li tenevano insieme: pacchi di banconote franavano sul pavimento dall’apice del cumulo, lasciando i tre giovani senza respiro. Come attraverso la lente di un potente zoom in movimento, la piramide di banconote si faceva gigantesca, annullando qualunque altra cosa intorno, riempiendoli di meraviglia e sgomento. Dentro di loro si risvegliò il bambino angosciato che si domanda: Com’è potuto succedere? Questa volta l’ho proprio fatta grossa! Rashad fu il primo a scuotersi e nuovamente incitò gli amici ad affrettarsi, mentre si lavava alla meglio. Fadi aprì la scatola di


37 madreperla: conteneva una pistola Sig Sauer SP 2022 e due caricatori, uno da dodici pallottole 357 SIG e l’altro da quindici pallottole calibro nove. Il palestinese armò la pistola con le munizioni calibro nove e se la legò alla vita con uno spago, poi gettò nello zaino la pistola presa alla guardia abbandonando sulla branda la scatola di madreperla. Come ultima cosa, si coprirono il volto con fazzoletti bagnati, spensero la luce e uscirono nel corridoio buio e deserto.


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CAPITOLO V

Quando arrivarono nel cortile, la tempesta di sabbia stava lentamente perdendo d’impeto, anche se il frastuono era ancora assordante e la visibilità, in sostanza, nulla. Seguendo le colonne del porticato, arrivarono al portoncino di servizio che conduceva all’esterno della scuola. Ciascuno di loro trasportava uno zaino e un borsone. Rashad aveva con sé la cartella portadocumenti. Il portoncino si arrese senza protestare alle veloci mani del piccolo afgano, e in pochi secondi si trovarono all’esterno. Già a pochi metri dal muro di recinzione il buio era totale, l’aria era invasa da una polvere sottilissima che seccava gli occhi e bruciava le mucose di naso e bocca. Si fermarono, smarriti e sconcertati, cercandosi tentoni. Dopo un paio di minuti i loro occhi iniziarono ad abituarsi all’oscurità e gli sguardi furono attratti da un vago bagliore lattiginoso, che si allargava dietro l’angolo della recinzione, sulla loro sinistra. Addossati al muro di cinta, si avvicinarono con cautela all’angolo da cui proveniva la luminosità. Quando Fadi sporse la testa vide una sorta di animale preistorico che si stagliava in uno spiazzo debolmente illuminato da due lampioni. I mulinelli di sabbia sollevati dal vento rivelavano e nascondevano i contorni di quella strana figura: una testa enorme, senza collo, da cui partiva un corpo gibboso dotato di una cresta lamellare poi una lunga coda che terminava con una specie di pinna rialzata. Le nuvole di polvere trasportate dalle raffiche di vento ne coprivano e scoprivano i contorni, dando vita e movimento a quel mastodonte primordiale che sembrava contorcersi e ululare sotto l’impeto del vento. La voce soffocata di Nadir scosse Fadi dal suo sconcerto. «Beh? Cosa c’è?» Fadi si voltò verso il pakistano, invitandolo con un gesto della mano a prendere la sua posizione. «Non so, guarda tu…» Nadir si affacciò con cautela e spiò da dietro l’angolo. «Ma che…» poi si voltò verso Rashad. «Guarda, che te ne pare?»


39 Rashad sporse la testa e subito disse: «Aspettate qui, vado a vedere» si distese a terra e con un impeccabile passo del giaguaro si portò in pochi secondi a meno di dieci metri da quella strana forma. Si spostò un paio di volte su ambo i lati e infine si portò proprio a ridosso di quella che sembrava essere la testa del mastodonte. Continuò la sua ispezione scomparendo per un po’ dalla visuale poi, d’improvviso, si materializzò alle spalle di Fadi. Era completamente bianco di polvere, anche i capelli, solo gli occhi neri e mobilissimi affogati nel giallo della sclerotica lo distinguevano da una statua di marmo. «Un elicottero. Sorvegliato da una guardia a bordo di una Jeep» le parole uscirono a fatica dalla bocca disidratata. «L’elicottero di Sua Eccellenza» disse Fadi. «Probabilmente lo stesso che tra poche ore dovrebbe portarci in Iran o chissà dove.» «Hai detto che c’è una sola guardia sulla Jeep?» «Sì, seduta al posto di guida.» «Ne sei certo?» «Senti, palestinese, io ho visto una sola persona ma forse mi sbaglio e allora, perché non scavi un tunnel fin là e ci vai tu a controllare?» il suo sorriso sarcastico riaffiorò. «In fondo, a strisciare nelle gallerie come dei vermi siete abbastanza bravi voi palestinesi.» «Che persona squallida sei, non hai rispetto per niente e per nessuno, sei solo un grumo di pus uscito da un ascesso infetto.» Gli occhi di Fadi erano furenti. Rashad era ancora seduto a terra, cercando di ripulirsi, smise di spazzolarsi i capelli con le dita e sollevò il viso verso Fadi. «Ringrazia il tuo Dio che sei mio amico, altrimenti saresti già morto» poi si sollevò in ginocchio e offrì a Fadi la mano tesa. Dopo qualche secondo di riflessione, Fadi prese la mano e la strinse con forza. «Fottiti, stronzo, e attento a te.» «Uh, che paura!» «Smettetela, imbecilli» li interruppe Nadir. «Dobbiamo andare via di qui il prima possibile. Perché non prendiamo la Jeep?» «Sì, facile a dirsi…» «La guardia fuma come un dannato» disse Rashad. «A terra, sotto la portiera, ci sono decine di mozziconi e il finestrino è aperto per circa due dita.» «Troppo poco per inserirvi la pistola» constatò Nadir pensoso. «Se i vetri sono antiproiettile, sarà impossibile… a meno che…» «A meno che, cosa?» chiese Rashad. «Dammi la pistola» disse Nadir.


40 «No, prendi quella di Fadi.» «No, voglio quella che hai tu. Chi l’ha detto che quella dannata pistola è tua?» «Lo dico io e basta, la pistola ce l’ho io e quindi è mia. Argomento chiuso.» «Quindi se io ti prendo a calci e te la porto via, la pistola sarà mia?» «Sì.» «Dammi la pistola, Rashad.» «No.» «Dammi quella cazzo di pistola, subito!» «No.» «Tieni, prendi questa» intervenne Fadi porgendo la sua arma a Nadir. «Lascia perdere quel pazzoide.» Non appena Nadir impugnò la pistola di Fadi, Rashad aprì le labbra in un sorriso perfido: «Ecco, ora puoi averla, prendila» disse porgendogli l’arma. «Tu sei solo un povero psicopatico. Fottiti» fu la concisa risposta del pakistano che si sollevò il fazzoletto sul volto e si avviò verso la Jeep, impugnando la pistola con il braccio accostato al fianco. Camminava con fare sicuro, senza cercare di nascondersi; arrivato all’altezza del fuoristrada avvicinò la bocca alla sottile apertura del finestrino e disse qualcosa all’uomo seduto al posto di guida. Dal loro nascondiglio dietro il muro, Rashad e Fadi seguivano tesi la scena, pronti a intervenire. Non erano passati dieci secondi da quando Nadir si era avvicinato alla Jeep, che la portiera si aprì e un uomo vestito all’occidentale ne uscì in atteggiamento di deferenza. Fadi sollevò il braccio e piazzò l’arma tra gli occhi della guardia, facendo un cenno agli amici. I due si avvicinarono e con il calcio della pistola Rashad colpì con forza l’uomo alla nuca. Fadi ispezionò l’interno della Jeep, aprì il portabagagli e vi infilò zaini e borse, mentre gli altri due legavano i polsi e le caviglie dell’autista ancora svenuto dopo averlo deposto dietro uno sperone di roccia. La cabina dell’elicottero era vuota e buia, sembrava proprio che l’unica guardia presente fosse quella messa fuori combattimento. «Via, via… in macchina e andiamocene!» I tre giovani si affrettarono a salire sulla Jeep e le porte si richiusero sul vento che continuava a imperversare.


41 Fadi, che era salito dal lato passeggero, vide che il posto di guida era deserto; sbottò in un’imprecazione e si voltò verso i sedili posteriori. «Chi è che manca?» Quando vide gli altri due schierati sul divano posteriore che si guardavano a vicenda come a contarsi, un dubbio angoscioso gli attraversò il cervello. «Beh? Chi di voi ha mai messo il culo sul sedile di guida di una macchina?» La domanda galleggiò nell’abitacolo per qualche secondo, senza risposta, fino a quando Fadi la ripresentò in modo più esplicito: «Qualcuno di voi è in grado di guidare quest’auto?» Nessuno reagì, ma il modo in cui i tre si guardarono, ognuno sperando che l’altro alzasse la mano, fu una risposta ben più esplicita di tre: «No.» Nadir ruppe l’imbarazzato silenzio: «Qualcuno ha almeno un’idea di come si fa a guidare un’auto?» «Beh, io… un paio di volte, ho guidato un carrello elevatore» disse Fadi timidamente. Un’espressione di profondo sollievo apparve sul volto dei due che sedevano sul divano posteriore. «Allora che aspetti? Sbrigati, metti in moto e andiamocene.» Con aria rassegnata il palestinese aprì lo sportello, uscì dall’auto e vi rientrò dal lato guida, mentre Rashad passava a sedere al suo fianco. Fadi si sistemò sul sedile di guida e subito trovò la chiave di accensione inserita nel quadro. «Ecco, questa è la chiave» disse con enfasi. «Bravo!» fu il commento sarcastico di Rashad. «Forse, se la giri, riusciremo finalmente ad andarcene da questo postaccio.» «Sì, sì, un attimo» Fadi si chinò leggermente sul volante, prese tra il pollice e l’indice della mano destra la chiave, e con aria solenne annunciò: «Andiamo! Here we go.» Girò la chiave e il fuoristrada fece un possente salto all’indietro, andando a fracassare una delle ruote anteriori dell’elicottero che s’inclinò pericolosamente e, quel che fu peggio, improvvisamente prese vita: varie luci iniziarono a lampeggiare e il suono lacerante di una sirena d’allarme battagliò con il rumore del vento per il predominio dei decibel. La confusione all’interno della Jeep era totale. Ognuno cercava di dare buoni consigli al guidatore il quale, con aria di profondo sconcerto, cercava di capire come mai le leggi della fisica non gli avessero obbedito. Poi gli venne in mente che le auto potevano anche muoversi all’indietro e che, di norma, tale direzione era agevolata da una leva,


42 quella del cambio. Leva che, però, era manovrata con l’ausilio della frizione, uno dei pedali al fondo del pianale. Angosciato dal suono della sirena e confuso dagli inutili consigli dei suoi amici, Fadi finalmente s’impose la calma, lanciò un urlo poderoso invitando i due passeggeri a calmarsi, premette a fondo prima un pedale e poi l’altro, e finalmente sentì la leva del cambio muoversi fluida sotto l’azione della sua mano. Allora sollevò il braccio sinistro, imponendo nuovamente il silenzio ai suoi amici e attivò nuovamente l’accensione. Un leggero ronzio, poi una scossa improvvisa, seguita da una leggera vibrazione, indicò che la Jeep era finalmente in moto, pronta a partire. «Pedale frizione» disse Fadi pigiando a fondo uno dei due pedali. «Inserimento marcia» continuò, studiando il pittogramma inciso sul pomello del cambio. «Rilascio graduale della frizione e contemporanea pressione sull’acceleratore.» La Jeep si mosse in avanti, singhiozzando, poi docilmente iniziò la marcia, addentrandosi a fari spenti nell’urlo del vento notturno. Avevano percorso poche decine di metri, quando il muro di cinta della madrasa si animò. L’urlo di un’altra sirena d’allarme si aggiunse a quella dell’elicottero, e potenti fasci di luce posti ai quattro angoli della recinzione iniziarono a frugare nel nero polveroso della notte. Fadi continuava la sua corsa nel buio più totale, sempre in prima marcia, aggrappato al volante come se quello fosse l’ultimo sostegno prima di precipitare nelle profondità dell’inferno. La tempesta si stava calmando e man mano che la polvere si posava a terra, la visibilità migliorava scoprendo davanti all’auto una distesa di sabbia scura e compatta come una lastra di piombo. Fadi procedeva alla cieca, a fari spenti, senza alcun punto di riferimento. Nessuna strada o mezzeria, nulla, solamente un’autonomia visiva di pochi metri e la probabilità di star girando in circolo a poche centinaia di metri dalla madrasa. Poi, d’improvviso una parvenza di strada fiancheggiata da una serie di paracarri apparve davanti al muso della Jeep. La visibilità si era allungata a qualche decina di metri e Fadi si fece coraggio, spinse il pedale della frizione e inserì la seconda. L’auto allungò l’andatura con evidente sollievo e proseguì senza scosse lungo la pista perfettamente livellata dalla tempesta di sabbia. «Che ore sono?» «Sono quasi le cinque, tra poco schiarirà.»


43 Rashad si voltò verso Nadir. «Ma come diavolo hai fatto a far scendere la guardia dall’auto?» La voce di Sua Eccellenza risuonò imperiosa nell’abitacolo: «Guardia, c’è un’emergenza, vieni immediatamente!» La risata di Rashad esplose assordante. «Hai un futuro assicurato nello show biz, tu» allargò le braccia a disegnare un cartellone pubblicitario. «Nadir il Grande: Petomania e Imitazioni.» «Che cazzo c’entra la Petomania?» «Così, tanto per rendere lo show più interessante… se ti eserciti a sufficienza, potrai imparare a flatulare a comando, sai che sballo!» «Tu sei irrimediabilmente pazzo…» Per qualche minuto l’atmosfera nella macchina fu di tre amici in gita, poi improvvisamente l’espressione di Rashad si rabbuiò. «La tempesta si sta calmando… ti rendi conto che da un momento all’altro un fottuto razzo sparato da un elicottero o da qualche semovente potrebbe ridurci in cenere?» «No, non penso proprio» intervenne Fadi. «Non credo che vogliano mandare in fumo la montagna di soldi che gli abbiamo fregato.» «Ah, beh… allora possiamo stare tranquilli» mormorò Rashad, sardonico. «Che vuoi dire?» «Voglio dire che sei il solito ingenuo: ma tu pensi veramente che ci lasceranno in pace, dopo quello che abbiamo combinato?» «Beh, no, ma…» «Comunque, da quello che so la madrasa è in Pakistan, in una zona al confine con l’Afghanistan, per cui in questo momento potremmo essere sia in un Paese che nell’altro. Se fossimo ancora in Pakistan, potremmo essere ricercati dalla polizia locale, sempre che quelli della madrasa abbiano denunciato il furto… ma dubito fortemente che Sua Eccellenza voglia che la polizia metta il naso nella scuola.» Rashad tacque, assorto. «E allora?» sollecitò Fadi, sempre intento a tenere la vettura al centro della strada invasa dalla sabbia. «E allora» proseguì Rashad «al momento saranno solo gli uomini di Sua Eccellenza a inseguirci, ma una cosa è certa: da domani una bella fatwa non ce la toglie nessuno, per cui la parte osservante dell’Islam c’inseguirà per recuperare alla causa i fondi sottratti e poi lapidarci, mentre l’altra parte, quella cinica e cialtrona, non vedrà l’ora di metterci le mani addosso per fottersi i soldi e tagliarci la gola.»


44 «Non c’è male come prospettiva, per chi aveva deciso di infilarsi un candelotto di tritolo nel culo e farlo esplodere» sogghignò Fadi. Per un po’ rimasero in silenzio. Erano in viaggio da diverse ore, il sole era sorto alle loro spalle e il paesaggio si faceva sempre più accidentato. La strada s’inerpicava tra colline sassose e prive di vegetazione, mentre la temperatura esterna scendeva rapidamente. A perdita d’occhio c’era solo una desolata distesa di rocce e qualche raro ciuffo di rovi. In lontananza, un sentiero tortuoso che sembrava disegnato da un bambino capriccioso, graffiava lo scarno panorama. Fadi si guardò intorno con aria desolata. «Conosci quel videogioco che si chiama Mars Mission? Quello dove due esploratori spaziali perlustrano Marte su un veicolo simile a un fuoristrada; il paesaggio è proprio identico a questo.» «E come va a finire?» chiese Rashad. «Come nella vita: se conosci il gioco e sei abile, sopravvivi, altrimenti sei mangiato, digerito e cagato dal tremendo Mortalur, un mostro dalle tre teste, sei braccia, quattro gambe e due code arpionate che abita gli abissi del pianeta.» Mentre la Jeep continuava ad arrampicarsi lungo la strada polverosa, Rashad, dapprima con cautela poi con sempre maggiore sicurezza, iniziò ad armeggiare con aria assorta intorno al computer di bordo. Fadi lo guardò preoccupato. «Rashad che stai facendo, non combinare casini» poi, voltando leggermente la testa all’indietro «ma ti rendi conto che non sappiamo neanche in quale Paese siamo? Che brutto posto! L’inferno, se esiste, dev’essere proprio così.» Mentre l’auto continuava ad arrampicarsi in quel paesaggio lunare, Fadi chiese: «Cosa pensate di fare se riusciamo a cavarcela?» Rashad fece una smorfia e rispose con tono di noncuranza: «Dato che non mi spetta una lunga vita, sarà mia cura sputtanarmi i soldi dello Sceicco nel modo più divertente e debosciato possibile.» «Ecco, appunto, debosciato» intervenne Nadir. «Sei una persona senza principi morali… avere una prospettiva di vita precaria non intitola né tantomeno giustifica l’essere un depravato.» «Allora che faresti?» chiese Fadi. Nadir fece un gesto vago con la mano. «Beneficenza. Toglierei qualche bambino dalla strada… gli procurerei un’istruzione.» «Ecco bravo, fa il missionario tu… da parte mia, io tutto a puttane e champagne!» Nadir cosse la tesa sconsolato e chiese a Fadi: «E tu, cosa faresti?»


45 «Non so… in verità non ho avuto né tempo né modo di pensarci ma credo che vorrò vivere una vita tranquilla, sistemare mio fratello, una bella moglie, qualche viaggio, una bella macchina… niente di più.» «Hai un fratello?» «Beh, veramente siamo fratelli da parte di madre, si chiama Kurt e vive in Danimarca, a Copenhagen, frequenta anche lui la moschea. Suo padre era danese ed è morto diversi anni fa.» «Vostra madre è danese?» «Era… è morta anche lei. Quando sposò mio padre si convertì all’islam, poi lui se ne andò e dopo qualche tempo lei ebbe una relazione con un danese, così nacque Kurt, il mio piccolo fratellastro» concluse Fadi con un sorriso. Rashad controllò l’indicatore della benzina. «C’è ancora mezzo serbatoio, speriamo di arrivare alla civiltà prima di rimanere a secco.» Trascorse qualche minuto e Rashad chiese: «Hai detto che il tuo fratellino frequenta anche lui la moschea?» «Sì.» «E non ti è venuto in mente che il tuo caro Imam sia sul punto di spedirlo a qualche Eccellenza o Sovrintendente così come ha fatto con te?» Fadi scosse il capo: «No, figurati…» Per un po’ restarono in silenzio, poi Fadi si voltò verso Rashad: «Tu dici?» «Cosa?» «Che l’Imam, Kurt…» «Beh, io l’Imam non lo conosco ma direi che di sicuro ci proverà» tacque per qualche secondo «se non l’ha già fatto: impacchettato e spedito.» Lo sguardo di Fadi si fece duro come una pietra. «Se solo… se solo quel maiale… io l’ammazzo, giuro che l’ammazzo!»


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CAPITOLO VI

La Talpa sedeva da un paio d’ore nel suo ufficio alla moschea, davanti a un fascio di documenti sui quali non riusciva a concentrarsi; c’erano lettere da firmare, fatture da pagare, comunicazioni di vario genere, richieste di diverse organizzazioni islamiche; c’era da preparare il nuovo piano delle riunioni religiose per l’ormai prossimo autunno. Tutti quei numeri e quelle lettere gli rimbalzavano sugli occhi e non riuscivano ad attraversare la soglia della sua inquietudine. Erano ormai passati diversi giorni dalla conversione al martirio di Fadi, ma la ricompensa non era ancora stata pagata, né era arrivata la solita telefonata per richiedere nuove forniture di lombrichi. Si sentiva addosso un’inquietudine che non riusciva a definire, e mentre per la decima volta cercava di metter mano alla pila di carte che severamente lo richiamavano al dovere, il cicalino del telefono interno lo strappò dai suoi pensieri e la voce di Sulheima gli annunciò una chiamata da parte del Sovrintendente Abbud Qureshi. Prima ancora di sentire la sua voce, l’Imam capì che c’erano guai in vista; era, infatti, la prima volta che Qureshi si rivolgeva a lui telefonicamente. Di norma i loro contatti avvenivano tramite la banda del Turco. «Abbud Qureshi! Che piacere sentirti.» «Piacere alla tua dannazione, figlio di una cagna rognosa!» «Ma…» «Io mi trovo in un casino che neanche immagini… e per colpa tua!» «Ma di che…» «Ascoltami bene, vescica di lardo rancido.» Anche Qureshi lo chiamava vescica di lardo, come il Turco! La cosa gli provocò un brivido e d’improvviso la giornata gli sembrò ancora più deprimente di quanto già non fosse. «Il cammello che mi hai procurato non era stato domato a dovere; ora è scappato dalla stalla con altri due cammelli, portandosi dietro i finimenti e soprattutto il carico. Se non lo ritroviamo al più presto, avremo addosso tanti di quei guai da farci desiderare di non essere mai


47 nati. Tu per primo: qualcuno ti strapperà quei testicoli rinsecchiti che ti pendono inutilmente tra le gambe e li masticherà come due baccelli di carrubo, capito?» «Sì, sì, ma io che posso fare?» La voce del Sovrintendente si fece stridula: «Non chiedere a me che cosa devi fare! Sei stato tu a mettermi in questo casino e ora smuovi quel sedere grasso e ritrova quei fottutissimi cammelli! Cercali, trovali e avvisami immediatamente, capito? Tro-va-li!» Il Sovrintendente chiuse la comunicazione ma l’Imam rimase con il telefono incollato all’orecchio, immobile sulla sedia, mentre due gocce di sudore si disperdevano tra le pieghe della fronte aggrottata. La situazione stava precipitando: Fadi era fuggito dalla madrasa con qualcun altro, portandosi dietro qualcosa d’importante. Il Sovrintendente aveva accennato a finimenti e carico, probabilmente si riferiva ad attentati già programmati. L’Imam ripose lentamente il telefono e, come faceva sempre quando era molto concentrato, iniziò a scaccolarsi portando il dito mignolo alternativamente dalla narice alla bocca. Se i documenti che Fadi – che Allah lo confonda e lo perda –aveva prelevato fossero finiti nelle mani della polizia, della CIA o del Mossad, sarebbe scoppiato uno di quei casini di cui non riusciva neanche a immaginare la portata. Davanti ai suoi occhi ballavano i titoli dei tabloid che in queste cose amavano sguazzare: la sua foto in prima pagina e il titolo a caratteri cubitali Den fede mulvarp, la talpa cicciona. La destra politica avrebbe chiesto a gran voce la chiusura delle moschee, interpellanze in Parlamento, note diplomatiche di protesta… la sua carriera di Imam sarebbe finita nel disonore, oltre che essere espulso dal Paese. Tutto questo nel migliore dei casi, perché non era improbabile che nella variegata costellazione delle organizzazioni islamiche, qualcuno in cerca di medaglie da appuntarsi sul petto, gli avrebbe tagliato la gola. Senza parlare poi del Turco e la sua banda: un branco di criminali psicotici; non ci voleva un grande volo di fantasia per immaginare le misure che avrebbero messo in atto per svuotare quella vescica di lardo dell’Imam, come andavano dicendo in giro da tempo. Quello che più lo preoccupava era la definizione che si ripeteva, sinistra: vescica di lardo. Ambedue, il Sovrintendente e il Turco, avevano utilizzato la stessa espressione e quindi si erano già parlati; la conseguenza era che al momento la sua vita valeva quanto la caccola che stava succhiando da


48 sotto l’unghia del mignolo. Doveva sparire dalla circolazione oppure… oppure assicurarsi una valida protezione. La polizia danese? I servizi israeliani? Scosse il capo, prima doveva affrontare il Turco, non gli piaceva, ma prima di tagliare definitivamente i ponti… )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

Capitolo I – La Talpa ...................................................................... 5 Capitolo II – L’Élite Squad ............................................................. 9 Capitolo III .................................................................................... 16 Capitolo IV ................................................................................... 28 Capitolo V ..................................................................................... 38 Capitolo VI ................................................................................... 46 Capitolo VII .................................................................................. 49 Capitolo VIII ................................................................................. 54 Capitolo IX ................................................................................... 63 Capitolo X ..................................................................................... 67 Capitolo XI ................................................................................... 74 Capitolo XII .................................................................................. 84 Capitolo XIII ................................................................................. 93 Capitolo XIV............................................................................... 103 Capitolo XV ................................................................................ 106 Capitolo XVI............................................................................... 109 Capitolo XVII ............................................................................. 116 Capitolo XVIII ............................................................................ 120 Capitolo XIX............................................................................... 126 Capitolo XX ................................................................................ 134 Capitolo XXI............................................................................... 136 Capitolo XXII ............................................................................. 142


Capitolo XXIII ............................................................................ 147 Capitolo XXIV ............................................................................ 151 Capitolo XXV ............................................................................. 161 Capitolo XXVI ............................................................................ 180 Capitolo XXVII .......................................................................... 184 Capitolo XXVIII ......................................................................... 190 Capitolo XXIX ............................................................................ 193 Capitolo XXX ............................................................................. 197 Capitolo XXXI ............................................................................ 202 Capitolo XXXII .......................................................................... 206 Capitolo XXXIII ......................................................................... 214 Capitolo XXXIV ......................................................................... 220 Epilogo ........................................................................................ 227


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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