Il Matematico che sfidò Roma. Il romanzo di Archimede

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25 «Molto bene, Dinostrato servo di Archimede. Detesto sporcare la mia spada col sangue di alleati. Mi fiderò della tua discrezione.» Osai tastarmi il collo. Era integro. Deglutii. «Grazie.» «Mi chiamo Malcone» asserì «e tu ora hai un debito con me. Te lo ram‐ menterò.» Il cartaginese lasciò la sala. Rimasi solo. Avvertii, violento, il bisogno di bere. Vuotai il cratere del vino, poi mi versai una brocca d’acqua sulla testa e respirai forte finché non smisi di tremare. Sedetti sullo scanno di Archimede. E presi a riflettere. Gli eventi si ad‐ densavano sul mio piccolo mondo come nubi in una tempesta. Non era semplice decidere come agire, ma ero discepolo del più grande sapiente del mondo; dovevo dimostrarmene degno. Alla fine pervenni a una risoluzione. Mi alzai, raggiunsi la pesante tenda che velava l’ingresso del gineceo, la scostai. Il viso di Ipsicle, che era ri‐ masto nascosto tutto il tempo, era color della cera. «Credo di essermela fatta sotto, fratello» si lamentò. «Minacciano di sgozzare me e sei tu a perderti d’animo?» lo rimbrottai. «Hermes protegge i ladri, non li rende coraggiosi» ribatté lui. «Guerra, assedio, messaggi segreti… è troppo per me, fratello. Voglio solo inta‐ scare le mie monete e tornarmene alle Latomie.» «Mi spiace, Ipsicle, non le hai ancora guadagnate. Ho un altro incarico per te.» «Zeus ti fulmini, Dinostrato. Chi ti ha nominato mio padrone?» Ignorai le sue proteste e gli spiegai precisamente cosa doveva fare. E mentre gli illustravo il mio piano, ascoltando le mie stesse parole mi sorpresi a chiedermi cosa ne avrebbe pensato Archimede. Non avevo dubbi; il mio padrone avrebbe detto che era un disegno troppo elegante, troppo bello perché potesse fallire. Ipsicle e i suoi compari fecero un buon lavoro; al giungere del tramonto la voce si era sparsa dagli anfratti delle Latomie ai vicoli della Neapoli, dalle pendici dell’Epipoli sino agli scogli del Trogilo, dalla bassa Acradi‐ na al santuario di Apollo sul colle Temenite. I romani arrivano, sussur‐ rava a sera l’intera città. I romani arrivano. Domandai perdono ad Artemide. Anche se, a rigor di termini, non avevo infranto il voto, giacché non avevo parlato di Gorgia. Semmai il delatore era stato Ipsicle, non io. La città reagì con l’inevitabile trepidazione di chi da più di cinquant’anni non conosce guerre e sa di aver molto da perdere. L’imbarco della flotta, poi, contribuì ad accrescere il senso di catastrofe. I templi si gremirono


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