Fontana, Forte, Talice - La parola ai testi

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IL QUATTROCENTO


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Il Quattrocento

Gli EVENTI e le IDEE Il Quattrocento si apre, per l’Europa, su uno scenario ancora condizionato dalla profonda crisi del secolo precedente. L’Italia, tuttavia, è tra i primi Paesi a mostrare i segni di una decisa ripresa demografica ed economica, che si accompagna a una stabilizzazione del suo panorama politico. Queste circostanze contribuiscono a innescare una straordinaria rinascita culturale e artistica che ha proprio nella Penisola il centro propulsivo e nei successivi centocinquant’anni coinvolgerà anche altre regioni del continente.

1 Il contesto storico e sociale L’Europa in trasformazione

Dopo la grande crisi economica, demografica e politica del Trecento, tutti i Paesi europei si trovano ad affrontare scenari inediti. Fra le principali potenze del tempo alcune stentano a ripartire perché impegnate in conflitti estenuanti. Il più lungo è la guerra dei Cent’anni, combattuta da Inglesi e Francesi sul suolo francese tra il 1337 e il 1453. Cominciata come uno scontro feudale tra dinastie rivali per il trono di Francia, essa contribuisce a far emergere un inedito sentimento nazionale (basato su una comunanza linguistica, religiosa e culturale) che sul piano politico porterà alla nascita di Stati territoriali unitari e centralizzati attorno a monarchie forti. Il primo Paese ad avviarsi in questa direzione è la Francia, che sconfigge gli Inglesi privandoli dei loro domini sul continente e unifica il proprio territorio sotto la guida dei Valois. Fra il 1455 e il 1485 l’Inghilterra è lacerata dalla guerra delle Due rose, che vede sfidarsi le dinastie dei Lancaster e degli York e si conclude con la conquista del potere da parte dei Tudor. Anche i regni iberici si trasformano in Stati nazionali. In Spagna, in particolare, nel 1469 si fondono in un’unica realtà i regni di Castiglia e di Aragona, e sotto la guida dei loro sovrani, i cattolicissimi Ferdinando e Isabella, nel 1492 viene completata la Reconquista con la caduta dell’ultimo dominio musulmano della penisola, il regno di Granada. Il rafforzamento della Spagna spinge il Portogallo a rinunciare all’espansione territoriale nella penisola iberica e a sfruttare i vantaggi legati alla sua posizione geografica: i sovrani portoghesi sono i primi promotori delle spedizioni marittime di esplorazione.  I re cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona ritratti in preghiera accanto alla Madonna in un dipinto del XV secolo. Istanbul, Museo Topkapi.

 Bicci di Lorenzo, Papa Martino V consacra la chiesa di Sant’Egidio a Firenze, 1424. Firenze, Santa Maria Nuova.


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Il Quattrocento

 Paolo Uccello, La Battaglia di San Romano, 1438. Londra, National Gallery.

Il panorama italiano

 L’assedio di Costantinopoli in una miniatura di Philippe de Mazerolles del 1479. Parigi, Bibliothèque Nationale.

Nella prima metà del Quattrocento la competizione territoriale che si era già manifestata nel corso del secolo precedente non accenna a rallentare. Alcuni Stati mirano a espandere i propri domini; altri, come le signorie più piccole o le città che hanno ancora (soprattutto nell’Italia centro-settentrionale) un ordinamento comunale, cercano di difendere la propria autonomia. Ciò determina una situazione politica instabile, caratterizzata da numerosi conflitti e da frequenti rovesciamenti di alleanze. Fra le molte realtà istituzionali italiane finiscono per emergere cinque potenze regionali: il ducato di Milano, la Repubblica di Venezia, lo Stato territoriale di Firenze (che diventa una signoria di fatto, nonostante conservi le istituzioni repubblicane di epoca comunale), lo Stato della Chiesa e il regno di Napoli. Ognuna di esse è forte abbastanza da impedire l’espansione delle altre, ma non per imporsi a livello nazionale sulle concorrenti. Tale situazione viene riconosciuta con la firma della pace di Lodi nel 1454, che determina una situazione di equilibrio politico e militare destinato a durare per circa cinquant’anni.

IL XV SECOLO 1417 Fine dello scisma d’Occidente

1420 Inizia la costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze 1438-1439 Concilio di Ferrara-Firenze

1453 Caduta di Costantinopoli; fine della guerra dei Cent’anni 1454 Pace di Lodi 1455 Inizia la guerra delle Due Rose in Inghilterra

1400

1416 Poggio Bracciolini ritrova il codice dell’Institutio oratoria di Quintiliano

1450

1435 De pictura di Leon Battista Alberti

1469 Lorenzo de’ Medici eredita la signoria su Firenze 1480 Sbarco dei Turchi a Otranto

1492 Colombo “scopre” l’America; muore Lorenzo il Magnifico

1494 Discesa in Italia di Carlo VIII 1497 Vasco da Gama doppia il Capo di Buona Speranza

1500

1483 Pubblicazione dell’Orlando Innamorato di Boiardo 1475 Poliziano inizia a comporre le Stanze per la giostra


A tu per tu con l’epoca ■ 5  Lingua, libri, generi

A TU per TU con l’EPOCA

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Jacques Rossiaud, I cittadini e il denaro L’uomo medievale, Il cittadino e la vita di città

Il passo, incluso in un testo cardine della storiografia sul Medioevo, mette a fuoco la straordinaria molteplicità delle attività e delle classi sociali impegnate all’interno delle mura cittadine, la rapida affermazione del modello borghese e con esso della mobilità del denaro.

Sarebbe risibile e vano pretendere di descrivere in poche righe la straordinaria diversità delle attività e delle società cittadine. Tutti sappiamo bene che dietro le mura stavano gomito a gomito, secondo proporzioni sempre diverse, canonici e studenti, nobili e vignaioli, patrizi e proletari, mercanti all’ingrosso e rigattieri, artigiani altamente qualificati e manovali sballottati, secondo il destino individuale e le circostanze, tra il lavoro e la mendicità. Tutti sappiamo anche che i proletari erano più numerosi degl’imprenditori e che i patrizi si contavano sulle dita di una mano. Un solo esempio: verso il 1300 a Saint-Omer1 si censiscono da 5 a 10 cavalieri, 300 ricchi, 300 possidenti e 10.000 capifamiglia in tutto, di cui tra i 2.500 e i 3.000 poveri […]. Inoltre le differenze di statuti, di origini, di condizione, in breve di qualità, introducevano delle divisioni che si sovrapponevano a quelle della fortuna. Il che non impedisce che il modello sociale cittadino sia il borghese e il criterio di differenziazione essenziale il danaro. Ovunque l’uomo di città suddivide la massa umana che lo circonda in grandi e medi, grassi e magri, grossi e minuti; determina il posto dell’individuo nella gerarchia in funzione delle sue entrate, del suo prezzo. Gli esperti di fiscalità cittadina si pongono dei quesiti sul prodotto del capitale più che sulla sua natura. È quanto dire che, salvo eccezioni (ebrei o stranieri) la condizione finisce sempre per avere il sopravvento sullo statuto, la considerazione sul disprezzo e, nonostante delle temporanee frenate, il danaro permette di passare dall’impresa artigianale agli affari, di forzare l’ingresso a un’hansa2, a un mercato, a un circolo di ricchi, infine di aggregarsi al «patriziato». Le funzioni cittadine possono essere molteplici (si diversificano sempre di più); prende il sopravvento la mentalità mercantile che modella le sensibilità e i comportamenti. […] molti artigiani sono dei commercianti a part time; l’artigiano salariato vende la propria capacità, il possidente una camera o un terreno, il giurista la sua scienza del diritto, il professore la sua cultura, il manovale la sua forza fisica, il giocoliere la sua abilità, la prostituta il suo corpo. I loro ministeria3, i loro mestieri, sono ordinati in funzione di un sistema di reciproci scambi che gli uni (i teologi) chiamano il bene comune, e gli altri (i borghesi) il mercato, secondo un giusto prezzo fissato giorno per giorno in danaro sul mercato o sul posto di reclutamento. Perché il danaro è il sangue della città, il suo fluido vitale […] e il suo principio organizzatore. Quando il borghese compare in una chanson de geste, in un fabliau o in un detto, si tratta di un mercante rappresentante naturale di danaro sonante. I chierici, quando non l’accusano di usura, gli rimproverano il suo attaccamento al guadagno, la sua avaritia. Le fortune borghesi conservano in effetti quasi sempre una parte del loro carattere originario: la mobilità. Facilmente mascherate o ostentate, fatte di lingotti, di pezzi di vasellame prezioso, poi di strumenti di credito e di contratti – commesse, prestiti di guerra, depositi bancari – queste fortune sono dinamiche e vive. Anche trasformate dal successo restano relativamente flessibili: case, laboratori, banchi di vendita, terre vicine alla città sono facilmente negoziabili; quanto ai 1 Saint-Omer: città francese nella regione dell’Alta Francia.

2 hansa: lega. 3 ministeria: incarichi, compiti.

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Il Duecento

patrizi, detentori di signorie e di blasoni4, non divengono mai gente che vive di sola rendita, ma, ancora nel secolo XIV, sono spesso cambiavalute, appaltatori di pedaggi, di diritti d’ingresso e di tasse come quei cavalieri d’Arles, di Marsiglia o di Pisa che, nel secolo XII, costruivano la loro posizione di potere accaparrandosi i diritti che pesavano sul sale, sul grano o sulle stoffe. La storiografia liberale5, sedotta dall’abbondanza monetaria, dalla perfezione delle tecniche commerciali e dalle immense possibilità offerte all’iniziativa privata, vedeva volentieri in ciascun abitante di una metropoli italiana o fiamminga l’artefice fortunato di un successo commerciale; non lasciamoci trarre in inganno da questa leggenda dorata. Molti uomini non poterono e non vollero rischiare le loro magre economie e la salvezza dell’anima loro in imprese marittime o nell’usura. Tuttavia ogni cittadino era, volente o nolente, attento alla buona amministrazione del danaro, ai movimenti del capitale, agli avvenimenti che riguardavano i mercati di approvvigionamento o di vendita; Pisani e Genovesi perché dipendevano dal grano della Romania, della Sicilia o del Rodano, tessitori e gualchierai6 fiamminghi perché temevano la disoccupazione quando non arrivava più la lana inglese; operai parigini e lionesi verso il 1430 perché la pace con la Borgogna significava per loro una vita più facile… (L’uomo medievale, a cura di J. Le Goff, Bari, Laterza, 1993) 4 blasoni: stemmi. 5 liberale: seguace cioè del liberalismo economico.

6 gualchierai: operai del settore laniero.

CHE COSA CI DICE QUESTO TESTO SUL Duecento Il testo focalizza due aspetti peculiari della dimensione cittadina che caratterizza il Basso Medioevo, la stratificazione sociale e la mobilità del denaro. Dentro le mura convivono gomito a gomito (r. $$) persone di diversa estrazione, clerici e laici, nobili e plebei, artigiani, contadini, operai, questi ultimi ascrivibili al novero di quei proletari (r. $$) che detengono il primato solo nel numero. In un panorama così eterogeneo, in cui alle divisioni indotte dalla sorte si sommano quelle prodotte da fattori esogeni, si impone come modello sociale cittadino quello borghese, che individua nel danaro (r. $$) il fondamentale criterio di diversificazione. Esso, garante di una condizione che prevale su qualsiasi statuto (salvo rare eccezioni), diventa il coefficiente dell’unica forma di mobilità sociale possibile, che permette nei casi più fortunati l’ascesa fino al patriziato. La mentalità mercantile (r. $$) finisce così per imporsi e modellare sensibilità e comportamenti (r. $$) in una società in cui ognuno vende ciò di cui dispone in un circuito di scambi, appellato dai teologici bene comune (r. $$) e dai mercanti mercato (r. $$), in cui il denaro è a un tempo fluido vitale e principio organizzatore (r. $$). E non importa che sia moneta sonante: trasformato in lingotti o vasellame prezioso, poi in strumenti di credito con la progressiva “invenzione” delle banche che affonda le radici proprio nel Medioevo, o finanche in beni immobili, resta comunque un duttile strumento di negoziazione, intorno al quale gravitano sovente perfino gli stessi “patrizi”, che, pur nobili, non si limitano a vivere solo di rendita. Anche nel Medioevo, tuttavia, c’è chi preferisce non rischiare, per il timore di perdere i propri averi o per scrupoli religiosi, ma di fatto ormai l’amministrazione delle proprie sostanze si avvia a diventare la forma mentis di un’intera società.


BIBLIOTECA

Lezione su Dante Alighieri

5  DANTE ALIGHIERI

D

ante è l’autore più noto della letteratura di tutti i tempi, così noto da essere indicato con il solo nome di battesimo. Molti sono i motivi della sua fama indiscussa, e fra questi certamente la bellezza e la potenza dei Guardare all’uomo suoi versi, ma soprattutto in tutte le sue pieghe la sua capacità di guardare all’uomo in tutte le sue pieghe, di coglierne il meglio e il peggio con l’empatia che gli nasce dall’essere uomo fra gli uomini. Dante abbraccia davvero tutto: scandaglia ogni aspetto della vita nelle minime sfumature ed esplora il mistero dell’uomo e del suo destino con una profondissima umanità. Interprete autorevole del pensiero e della cultura del suo tempo, egli ne supera tuttavia costantemente le coordinate culturali suggerendo punti di vista nuovi, anticonvenzionali, spesso polemici, sempre capaci di indagare l’essenza profonda degli esseri umani, senza pregiudizi, generalizzazioni o servile ossequio al potere. Quando egli per esempio immagina il perdono di Dio per anime condannate dalla Chiesa del suo tempo alla dannazione, scartando nettamente rispetto al pensiero medievale, recupera il messaggio evangelico della misericordia divina nel senso più proprio e più bello: per lui Dio

è davvero il padre disposto a perdonare i suoi figli davanti al sincero pentimento, al di là dei giudizi degli altri uomini. In questo si può leggere anche un messaggio squisitamente umano: persino di fronte agli errori più gravi o nei momenti più bui dell’esistenza non viene mai meno per chi la cerca una possibilità di riscatto. Dante ricerca con tenacia la verità scavando dentro la vita e dentro la storia e ponendo continuamente interrogativi, assetato di risposte precise ma non consolatorie, appassionato sostenitore della conoscenza Sostenitore e della virtù, come valori della conoscenza che danno senso alla vita. e della virtù Non è un caso che il viaggio della Commedia si sviluppi anche come un percorso di conoscenza, conoscenza di sé, dell’essere umano e del mondo, che deve approdare alla conquista della salvezza. Egli infatti scrive per “salvare” l’umanità, dall’ipocrisia, dalla corruzione, dall’avidità che avvelenano senza rimedio le coscienze e mistificano i rapporti tra gli uomini. Non ci fossero altre ragioni valide, bisogna leggere Dante per misurare la forza di questa sua sfida. Nel poema essa si traduce in pagine di potente visionarietà. Senza dubbio uno dei motivi che spiegano il fascino suscitato dalla Commedia


anche presso i lettori più giovani è la straordinaria forza immaginativa di luoghi e situazioni restituiti con una concretezza e una precisione di Straordinaria forza dettagli tale che il lettore è immaginativa portato a credere davvero che il poeta sia stato nell’aldilà e abbia visto e sentito tutto quello che racconta. Ancora, Dante è l’autore che ha “inventato” la lingua della nostra letteratura, a cui le parole e la sintassi della Commedia hanno dato il primo L’autore che ha fondamentale impulso. “inventato” la lingua Quando essa viene scritta, della nostra letteratura il volgare ha già dato in Italia prove di altissimo valore letterario, ad esempio con i poeti dello Stilnovo, ma solo il poema dantesco, opera di vasto respiro e di significato universale, consente ad esso di affermarsi. Infine, non si dimentichi che Dante compone buona parte della propria opera in una situazione segnata da pesanti difficoltà e sofferenze a causa dell’esilio. Questo è un altro messaggio che indirettamente il poeta ci lascia: nessuna condizione, neppure la più negativa, deve distogliere l’uomo dall’esprimere i talenti che ha in sé.


A TU per TU con l’AUTORE

T

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Ne li occhi porta la mia donna Amore

ANALISI VISUALE

Vita nova, XXI

Il testo che segue è un sonetto tratto dal capitolo XXI della Vita nova, l’opera in cui Dante racconta la svolta prodotta nella sua vita e nella sua poesia dall’incontro con Beatrice. METRICA Sonetto con schema di rime ABBA ABBA CDE EDC.

N

Ne li occhi porta la mia donna Amore, per che1 si fa gentil ciò ch’ella mira; ov’ella passa, ogn’om ver lei si gira, 2 4 e cui saluta fa tremar lo core ,

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sì che, bassando il viso, tutto smore3, e d’ogni suo difetto allor sospira: fugge dinanzi a lei superbia ed ira. Aiutatemi, donne, farle onore.

Ogne dolcezza, ogne pensero umile nasce nel core a chi parlar la sente, 4 11 ond’è laudato chi prima la vide .

Quel ch’ella par5 quando un poco sorride, non si pò dicer né tenere a mente, 6 14 sì è novo miracolo e gentile .

(Dante, La vita nuova, a cura di M. Barbi, Firenze, Bemporad, 1932) 1 per che: per cui. 2 e cui... core: fa tremare il cuore a coloro ai quali rivolge il saluto. 3 tutto smore: impallidisce tanto da sembrare in punto di morte. 4 ond’è... sente: per cui raggiunge la beatitudine chi la vede per primo. 5 quel ch’ella par: come ella si mostra. 6 sì... gentile: a tal punto è un miracolo straordinario e nobile.

 Dame e cavalieri in un giardino fiorito, miniature tratte dal Tacuinum Sanitatis del XIV secolo. Parigi, Bibliothèque Nationale.


PER UN PRIMO INCONTRO CON DANTE 1. Quale rapporto suggerisce il poeta tra sé e la donna? Quale elemento del testo lo rivela? 2. Quali sono gli elementi più importanti della descrizione della donna? Sono presenti dettagli fisici? 3. Prevalgono gli aspetti descrittivi della donna o degli effetti che ella provoca su chi la osserva? 4. Quali gesti di lei ottengono gli effetti più significativi su chi la guarda? 5. A quale tradizione poetica si può ricollegare l’aggettivo gentil al verso 2? Quale significato può pertanto assumere? 6. Quali vizi vengono sconfitti dall’apparizione della donna? Quali virtù nascono nel cuore in quell’occasione? 7. L’apparizione della donna si colloca in un contesto definito? 8. Rifletti sull’ultima terzina: il poeta crede nel potere della parola di restituire l’eccezionale visione? 9. Quale sostantivo ti sembra più adatto per definire la donna ritratta nel sonetto? Motiva la tua scelta.

 Dame e cavalieri in un giardino fiorito, miniature tratte dal Tacuinum Sanitatis del XIV secolo. Parigi, Bibliothèque Nationale.

 Dame e cavalieri in un giardino fiorito, miniature tratte dal Tacuinum Sanitatis del XIV secolo. Parigi, Bibliothèque Nationale.


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Il Trecento

1 La VITA e le OPERE La famiglia e il matrimonio

Dante (abbreviazione di Durante) Alighieri nasce tra il 21 maggio e il 20 giugno del 1265 a Firenze, in una famiglia guelfa della piccola nobiltà cittadina. La madre, Bella, muore prima del 1275; il padre, Alighiero di Bellincione, svolge attività legate alle banche (su di lui grava anche il sospetto di usura), e possiede alcuni terreni e un piccolo patrimonio che consentono a Dante una giovinezza vivace e spensierata. La famiglia vanta un antenato illustre, anche se la discendenza è probabilmente leggendaria: Cacciaguida, cavaliere sotto l’imperatore Corrado III e morto durante la seconda crociata (1147-1149), a cui Dante avrebbe poi dedicato un celebre trittico di canti del Paradiso (Pd XV-XVI-XVII).  Cristofano dell’Altissimo, Secondo il costume dell’epoca, nel 1277 il padre stipula un con- Ritratto di Dante, XVI secolo. Firenze, Galleria degli Uffizi. tratto di matrimonio fra Dante e Gemma di Manetto Donati, che appartiene a una famiglia molto influente in quegli anni nella vita politica del Comune. Il matrimonio viene celebrato probabilmente nel 1285, quando, dopo la morte del padre, avvenuta tra il 1282 e il 1283, Dante è ormai l’unico proprietario e amministratore del patrimonio familiare; dall’unione con Gemma nascono almeno tre figli: Iacopo e Pietro, futuri letterati e commentatori della Commedia paterna, e Antonia, che si fa invece monaca con il nome di Beatrice. Di altri due eventuali figli, Giovanni e Gabriello, non si ha certezza storica.

L’incontro Nel 1274, secondo la cronologia che egli stesso ricostruisce nella Vita nova, Dante con Beatrice avrebbe incontrato per la prima volta Beatrice, che all’epoca ha appena nove anni; la

donna è identificabile con buona probabilità in una Bice di Folco Portinari, moglie del banchiere Simone dei Bardi, morta giovanissima nel 1290. Tale incontro è una tappa fondamentale nella vita del poeta: nonostante nella realtà i contatti con la donna siano stati molto rari, l’impegno a “dire” l’amore per Beatrice sarà al centro del percorso letterario e dell’impegno morale di Dante, dalla prima esperienza stilnovistica fino alla Commedia.

La formazione e lo Stilnovo

Dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima educazione di Dante abbiamo poche notizie concrete. La sua formazione scolastica si basa sicuramente sulla lettura diretta degli autori latini, previsti nei programmi dell’epoca (in particolare Virgilio, Ovidio, Orazio e Lucano); dalla Vita nova appare poi chiaro come Dante avesse acquisito familiarità con la Bibbia e, attraverso i commenti medievali, con i testi aristotelici e con i poeti stilnovisti a lui precedenti o coevi. Oltre al curriculum scolastico, dall’impostazione essenzialmente grammaticale e retorica, è la frequentazione con due tra le più insigni personalità della Firenze dell’epoca a segnare la formazione di Dante e la costruzione del suo carattere: Brunetto Latini (1220-1294 ca) e Guido Cavalcanti (1258 ca-1300) pag. 103 . Brunetto, notaio letterato e uomo politico fiorentino, fu al tempo stesso una figura paterna e un maestro per Dante, che lo ricorda commosso in uno dei più celebri canti della Commedia (If, XV T32, pag. 287 ). Probabilmente è proprio Brunetto a indirizzare il poeta verso letture fondamentali come il De consolatione philosophiae di Boezio e il De amicitia di Cicerone; in lui Dante vede un esempio di virtù, di coerenza intellettuale e di impegno politico che avrebbe seguito per tutta la vita.


5  Dante Alighieri ■ 1  La vita e le opere

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deale politico del poeta, che teorizza la pari autorità tra il potere del papa e quello dell’imperatore. Gli orizzonti del poeta sono più ampi: nell’equilibrio tra i due poteri Dante vede la soluzione dei problemi, della corruzione e dei conflitti che affliggono, non solo Firenze, ma l’intera penisola. Ma le speranze di Dante sono destinate a crollare: nell’agosto 1313 Arrigo VII muore improvvisamente, e con lui il suo progetto di restaurazione. Nello stesso 1313 dovrebbe collocarsi anche la stesura della seconda cantica, il Purgatorio. Gli ultimi anni e la morte

Tra il 1314 e il 1315 Dante spera nuovamente in un atto di clemenza politica da parte di Firenze. Quando però nel maggio 1315 viene concessa un’amnistia, subordinata al pagamento di un’ammenda e a una pubblica ammissione di colpa, il poeta, ferito nell’orgoglio, rifiuta sdegnosamente. Pochi mesi dopo, nell’ottobre 1315, non solo gli viene confermata la condanna a morte, ma viene estesa anche ai suoi figli, i quali devono raggiungerlo in esilio. Dante viene in seguito accolto a Verona alla corte di Cangrande della Scala, dove rimane probabilmente quattro anni, dal 1316 al 1320, e dove lavora alla stesura della terza cantica della Commedia, il Paradiso, dedicata appunto a Cangrande. Nello stesso periodo scrive due egloghe sul modello virgiliano inviate all’intellettuale bolognese Giovanni del Virgilio e, nel gennaio del 1320, tiene a Verona una lezione di argomento scientifico sul rapporto tra acqua e terre emerse, riprodotta poi nella Quaestio de aqua et terra (Discussione sull’acqua e sulla terra). Nello stesso 1320, il poeta si trasferisce alla corte di Ravenna, probabilmente invitato dallo stesso signore romagnolo, Guido Novello da Polenta. Qui Dante si dedica a terminare il Paradiso, sperando ancora, una volta concluso il poema, di poter rientrare a Firenze contando sull’appoggio del signore ravennate e di Cangrande, con il quale ha mantenuto un rapporto di amicizia. Ma soprattutto, con la stesura dell’ultima parte del poema, il poeta conclude il suo messaggio di salvezza per l’umanità che vive nella tentazione del peccato e, mostrando in quali circostanze

1310

1302 A Firenze, i guelfi Neri prendono il potere 1302 Viene condannato a morte e costretto all’esilio

1304 Nasce Francesco Petrarca 1304-1307 Lavora al Convivio e al De vulgari eloquentia, inizia la Commedia

1309 La sede papale viene trasferita ad Avignone

Lettera a un amico fiorentino, pag. 158

1320

1311-1313 1313 Scrive il De Muore monarchia Arrigo VII 1313 Nasce Giovanni Boccaccio

1310 L’imperatore Arrigo VII scende in Italia

T4

1319 Compone le Egloghe

1315 La sua condanna viene confermata ed estesa ai figli che lo raggiungono in esilio 1316-1320 Soggiorna a Verona, alla corte di Cangrande della Scala

1320 Scrive il trattato Quaestio de aqua et terra

1321 Conclude la Commedia 1321 Muore a Ravenna per una febbre malarica


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Il Trecento

2 La VICENDA umana attraverso i TESTI La difficoltà di essere un poeta a corte LE SATIRE va sed apta mihi (“piccola, ma adatta a me“), che sintetizza un ideale di vita modesto ma conforme alle proprie inclinazioni. I temi centrali delle Satire ariostesche sono la condizione subordinata dell’intellettuale cortigiano, il desiderio di una vita tranquilla, lontana dalle invidie e dagli intrighi della corte, l’interesse per lo studio, gli affetti familiari, il disagio per gli incarichi ricevuti, la follia degli uomini tesi a inseguire ambizioni vane come la fama e la ricchezza. La struttura delle satire, come ha ben sottolineato il critico Cesare Segre, si configura come un dialogo di Ariosto con i destinatari, con sé stesso, con interlocutori fittizi. Attraverso la forma dialogica il poeta affronta la materia in modo non sistematico, con uno sguardo capace di cogliere nel profondo le storture della società in cui vive e con un tono ironico, bonario, privo di vis polemica, sostanzialmente tollerante in nome della consapevolezza della follia degli uomini. L’andamento delle Satire si riverbera in uno stile altrettanto colloquiale, prosaico, che attinge anche ai modi della lingua parlata.

L’ opera

Fra il 1517 e il 1525 Ariosto compone sette satire in terzine dantesche indirizzate a parenti o amici, ma per suo volere mai andate in stampa: una prima edizione esce solo un anno dopo la sua morte. L’opera mostra un evidente debito con il modello dei Sermones (noti anche come Satirae) del poeta di età augustea Orazio, che a un genere tipicamente latino, quello della satira appunto, affida “conversazioni” dal tono ironicamente bonario che partono da spunti quotidiani per riflettere su aspetti della vita e della propria interiorità. Con i versi oraziani le Satire di Ariosto condividono in particolare l’assetto di una conversazione libera, una “chiacchierata” su argomenti diversi con schietti riferimenti autobiografici, riflessioni di ordine morale, motivi di vita quotidiana e apologhi, cioè favolette raccontate per spiegare un concetto o enunciare una morale. Da Orazio inoltre Ariosto riprende l’ideale di una vita tranquilla e appartata e il tono di ironico distacco con cui osserva gli uomini e il mondo che lo circonda. Non a caso dal poeta latino Ariosto ha ricavato anche l’epigrafe per la propria abitazione ferrarese, par-

Riassumiamo in questa tabella date, temi e destinatari delle sette satire ariostesche.

TEMI E DESTINATARI DELLE SATIRE Satira Anno

Destinatario

Argomento

I

1517

Al fratello Alessandro e all’amico Ludovico da Bagno

Ariosto spiega i motivi per cui ha rifiutato di seguire il cardinale Ippolito d’Este a Buda, in Ungheria: gli incarichi di corte sono incompatibili con l’attività di poeta.

II

1517

Al fratello Galasso

Ariosto chiede al fratello che gli procuri un alloggio in occasione di un suo viaggio diplomatico a Roma. Rappresentazione polemica della curia papale.

III

1518

Al cugino Annibale Malaguzzi Il poeta racconta del suo nuovo impiego al servizio del duca Alfonso e illustra il suo ideale di vita nella ricerca della serenità e della libertà interiore.

IV

1523

A Sigismondo Malaguzzi

V

forse 1519- Al cugino Annibale Malaguzzi In occasione delle nozze di un cugino il poeta illustra 1521 vantaggi e svantaggi della vita matrimoniale.

Ariosto racconta le difficoltà incontrate nell’incarico come governatore della Garfagnana.


6 Ludovico Ariosto ■ 2  Intorno all’uomo

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TEMI E DESTINATARI DELLE SATIRE Satira Anno

Destinatario

Argomento

VI

1524-1525 Al poeta e intellettuale Pietro Ariosto chiede a Bembo un maestro per il figlio Virginio, Bembo esprime il proprio rammarico per non aver approfondito lo studio del greco ed esalta la funzione civilizzatrice della poesia.

VII

1524

T

2

All’umanista e notaio ducale Bonaventura Pistofilo

Ariosto spiega le motivazioni del rifiuto di un viaggio a Roma come ambasciatore alla corte di Clemente VII: preferisce dedicarsi alla compagna e all’amore per i libri.

Il gran rifiuto Satire, I, vv. 34-60; 85-99; 106-147;157-165; 220-265

Nella prima satira Ariosto si rivolge al fratello Alessandro e all’amico Ludovico da Bagno, che nel 1517, a differenza di lui, hanno deciso di seguire il cardinale Ippolito d’Este in Ungheria dove ha ottenuto un vescovado. Il poeta spiega i motivi del suo rifiuto: oltre a ragioni contingenti, come la salute e il clima, emerge la volontà di esercitare la propria libertà di poeta. Il cardinale, infatti, tiene in scarsa considerazione la sua attività poetica: le mansioni a lui affidate sono pratiche e spesso inadatte alla sua età, mentre il suo lavoro d’ingegno è considerato un passatempo che, anzi, lo distrae dalle incombenze proprie della sua funzione. In un’articolata requisitoria, animata dall’intervento di Apollo e delle Muse e da ironiche apostrofi al poeta cortigiano Marone e a Ruggiero, personaggio del Furioso celebrato come capostipite della casata d’Este, Ariosto approda infine a un’amara constatazione: se si vuole raggiungere una condizione di agiatezza meglio mandare al diavolo l’arte e adattarsi a perdere per sempre la libertà di coltivarla. La sua scelta è però un’altra: meglio nutrire la mente che il corpo.

CHE COSA CI DICE QUESTO TESTO SU Ariosto Nella prima parte del testo Ariosto spiega i motivi per cui ritiene l’Ungheria un luogo a lui non congeniale con dettagli realistici e una nitidezza di particolari riferiti alla dimensione corporale che rivelano un uomo attento alla dieta e alle consuetudini della vita quotidiana, refrattario ad abitare spazi comuni e desideroso di salvaguardare la propria intimità. Al di là degli aspetti concreti, questi versi raccontano uno spirito libero e incorruttibile, e l’anelito a rivendicare la propria indipendenza da un signore che lo tiranneggia con il ricatto di uno stipendio, peraltro spesso messo in discussione: meglio la povertà della servitù cortigiana, secondo il precetto umanistico per cui la vera ricchezza è la libertà che si conquista attraverso il lavoro intellettuale. L’affermazione della dignità dello studio a fronte di altre dignità più appetibili per l’uomo comune è occasione per sfoggiare una molteplicità di registri stilistici, dalla tradizione classica, presente nell’apostrofe ad Apollo e alle Muse e nel riferimento a Nestore e al Lete, a espressioni proverbiali (fare in corte l’osteria, v. 87) e gergali (mandare al Culiseo, v. 96; tuoi versi getta / con la lira in un cesso, vv. 115-116): un plurilinguismo vivace per ribadire con forza il rifiuto di scendere a compromessi con chi non riconosce il valore dell’arte. Fedele al modello del poeta latino Orazio, Ariosto conclude la satira con un apologo che ne esemplifica bonariamente la scelta smorzando i toni.  Giovan Battista Moroni, Ritratto di un letterato, particolare, 1562. Edimburgo, National Galleries of Scotland.


228

L’età del Rinascimento METRICA Terzine dantesche con rima incatenata.

S

So mia natura come mal conviensi1 2 3 35 co’ freddi verni ; e costà sotto il polo gli avete voi più che in Italia intensi. E non mi nocerebbe il freddo solo; ma il caldo de le stuffe4, c’ho sì infesto5, che più che da la peste me gli involo6.

40

Né il verno altrove s’abita in cotesto paese7: vi si mangia, giuoca e bee8, e vi si dorme e vi si fa anco il resto9.

Che quindi vien10, come sorbir si dee

l’aria che tien sempre in travaglio il fiato11 12 45 de le montagne prossime Rifee ?

Dal vapor che, dal stomaco elevato13,

fa catarro alla testa e cala al petto, mi rimarei una notte soffocato.

E il vin fumoso, a me vie più interdetto

che ’l tòsco, costì a inviti si tracanna14, e sacrilegio è non ber molto e schietto15.

50

Tutti li cibi sono con pepe e canna

di amomo e d’altri aròmati16, che tutti come nocivi il medico mi danna. Qui mi potreste dir ch’io avrei ridutti17, dove sotto il camin sedria al foco, né piei, né ascelle odorerei18, né rutti;

55

e le vivande condiriemi19 il cuoco

come io volessi, et inacquarmi il vino potre’ a mia posta20, e nulla berne o poco.

60

1 conviensi: si adatta. 2 verni: inverni. 3 costà sotto il polo: là (in Ungheria) sotto il Polo Nord. 4 stuffe: camere riscaldate, talvolta destinate a bagni di vapore. 5 c’ho sì infesto: che mi è nocivo. 6 me gli involo: cerco di sfuggirlo. 7 Né… paese: l’inverno si trascorre in Ungheria solo nelle camere riscaldate. 8 bee: beve. 9 vi… resto: le altre funzioni corporali.

10 Che... vien: chi proviene da qui (cioè dalle stuffe). 11 fiato: vento. 12 le montagne… Rifee: i vicini (prossime) monti Rifei, nella Scizia, area euroasiatica prossima al mar Nero, in realtà non così vicina all’Ungheria, ma spesso utilizzata a indicare i monti del Nord Europa o un luogo freddo e lontano. 13 elevato: salito. 14 E il vin… si tracanna: e lì (costì, cioè in Ungheria) il vino forte (fumoso), a me proibito

più del veleno (tosco), si tracanna a gara (a inviti). 15 schietto: puro, non mischiato con acqua. 16 Tutti li cibi… aròmati: tutte le pietanze (cibi) sono aromatizzate con pepe, zenzero (canna di amomo) e altre spezie. 17 ridutti: posti appartati. 18 odorerei: sentirei l’odore. 19 condiriemi: mi condirebbe. 20 a mia posta: a mio piacimento.


6 Ludovico Ariosto ■ 2  Intorno all’uomo

233

Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro

Cardinal comperato avermi stima con li suoi doni, non mi è acerbo et acro67

265

renderli, e tòr la libertà mia prima68. (L. Ariosto, Opere minori, a cura di S. Debenedetti, C. Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954) 67 acerbo et acro: doloroso e amaro.

68 tòr… prima: riguadagnare la mia libertà di prima.

LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi

1. Il rapporto con il cardinale espone il poeta a fatiche, rischi e umiliazioni: illustra questi aspetti con riferimenti al testo. 2. Quale valore viene più volte affermato dal poeta? 3. Spiega il contenuto dell’apostrofe ad Apollo e alle Muse. 4. Si può affermare che Ariosto guardi al mondo classico con ironia? Motiva la tua risposta. 5. Rintraccia nel testo i passaggi più colloquiali (modi di dire quotidiani, apostrofi all’ascoltatore ecc.) e commentali. 6. Quali figure retoriche sono presenti ai versi 88-90?

Interpretazione e scrittura

7. Riscrivi in italiano corrente l’apologo dell’asino e del topolino e spiegane il significato.

CONFRONTIAMO I TESTI 8. Ti viene proposto di seguito l’attacco di una satira di Orazio dedicata al tema del viaggio, in cui il poeta ne racconta soprattutto i fastidi. In un testo di una pagina confronta il passo con i versi 34-60 della satira ariostesca per contenuto e tono complessivo.

Orazio, Satire, I, 5, vv. 1-23

5

10

15

Uscito dalla grande Roma, Ariccia1 m’accolse in un alloggio modesto; m’era compagno il retore Eliodoro2, di gran lunga il più dotto dei Greci; di lì a Forappio3, pieno zeppo di barcaioli e locandieri imbroglioni. Questo tratto, noi pigri, lo dividemmo in due tappe, ma quelli che si legano la tunica più alta di noi4 ne fanno una sola: la via Appia, però, è meno faticosa per chi se la prende comoda. Qui io, a causa dell’acqua, che era pessima, dichiaro guerra alla pancia5 e aspetto, col cuore non troppo in pace, i compagni che cenano. Ormai s’apprestava la notte a stendere sulle terre le ombre e in cielo a disseminare le stelle; ecco allora gli schiavi lanciare improperi ai barcaioli e i barcaioli agli schiavi: «Accosta qua!». «Ne vuoi imbarcare trecento? » «Ohé! Ora basta. » Fra riscuotere i soldi e legare la mula, un’ora se ne va tutta. Zanzare maligne e rane di palude il sonno se lo portano via. Un barcaiolo inzuppato ben bene di vinaccio e un viaggiatore cantano a gara la bella lontana; finalmente il viaggiatore, stanco, comincia a dormire e il barcaiolo lega pigramente ad un sasso le redini della mula, lasciata libera a pascolare, e prende a russare a pancia in su. E ormai il giorno era vicino, quando ci accorgiamo che la barca non va avanti di un metro, finché un tale, testa calda, salta su e con un bastone di salice spiana a mula e barcaiolo la testa e la schiena: ci va bene che sbarchiamo alle dieci passate. (Orazio, Satire, a cura di M. Labate, Milano, BUR, 1981)

1 Aricia: antica città alle falde dei colli Albani, sulla via Appia. 2 retore Eliodoro: evidentemente attivo a Roma all’epoca, ma non identificabile con certezza.

3 Forappio: fondato da Appio Claudio Cieco ai confini delle Paludi Pontine, a circa 40 km da Ariccia. 4 quelli… di noi: il riferimento è all’abitudine, per chi viaggia a piedi, di legare la

tunica intorno ai fianchi per procedere più agevolmente. 5 dichiaro… pancia: Orazio preferisce digiunare, vista la pessima qualità dell’acqua, effetto della vicinanza con le paludi.


388

Il Trecento

3 Il PENSIERO e la POETICA attraverso i TESTI Un Umanesimo militante

La politica è la prima, grande passione dello scrittore e di politica, infatti, parlano tutte le sue opere più famose, con l’eccezione della commedia Mandragola pag. $$$. Machiavelli lamenta a più riprese l’allontanamento dalla politica attiva: la condizione di ozio forzato dopo molti anni spesi a curare gli interessi della Repubblica di Firenze presso i sovrani più potenti dell’epoca è motivo di una profonda sofferenza che la scrittura può solo in parte lenire. Se l’arte di governo è l’interesse fondamentale di Machiavelli, in tutti i suoi scritti ricorrono temi e suggestioni che compongono una visione organica dell’uomo e della storia. Nelle pagine del segretario fiorentino è innanzitutto sempre presente la celebrazione degli antichi, individuati come i modelli cui ispirarsi per le scelte dell’oggi. L’Umanesimo di Machiavelli ha carattere militante: gli autori classici non ci hanno lasciato solo testi interessanti e piacevoli, ma devono essere conosciuti e meditati per essere imitati e perché il dialogo con loro possa generare nuove idee e ispirare azioni coraggiose, che consentano di intervenire con efficacia sulla realtà. La passione civile convive con una visione pessimistica degli uomini e dei tempi in cui Machiavelli vive: il frequente richiamo alla crisi italiana, aggravatasi in seguito alla calata di Carlo VIII, la denuncia dell’ignavia o della miopia dei suoi contemporanei, la constatazione che nel presente non è rimasta traccia dell’antiqua virtù, conferiscono spesso alle pagine di Machiavelli i toni di una lucida amarezza, come attestano sia il proemio dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio pag. $$$ sia quello de Dell’arte della guerra. Una visione pessimistica è alla base anche della produzione teatrale e comica di Machiavelli: le due commedie Mandragola e Clizia e la novella di Belfagor arcidiavolo, animate dallo stesso lucido e disincantato spirito di osservazione sulle relazione sociali. D’altra parte è forte in Machiavelli la convinzione della sostanziale immutabilità del genere umano: da sempre gli uomini sono mossi dalle stesse passioni e sono inclini a replicare gli stessi comportamenti. È proprio in virtù di questo che i classici “non invecchiano” e rappresentano una lezione viva e presente per conoscere l’uomo e la natura delle sue azioni.

La lucida consapevolezza

 Matteo Rosselli, Gli Umanisti, gli Storici, i Legisti e gli Oratori, affresco, 1637. Firenze, Casa Buonarroti.

Un ultimo elemento rilevante che caratterizza l’opera di Machiavelli è la consapevolezza: di sé, della propria esperienza, della propria visione della realtà. Come dice chiaramente nella dedica del Principe, Machiavelli sa che il bene più pre-

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Il proemio ai Discorsi, pag. $$$

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Gli antichi ordini militari, pag. $$$


7 Niccolò Machiavelli ■ 3  Il pensiero e la poetica attraverso i testi

zioso in suo possesso, degno di essere offerto in dono a un uomo di potere, è la sua esperienza: da segretario della seconda cancelleria di Firenze e da accorto e appassionato lettore degli antichi testi, Machiavelli ha conosciuto da vicino i meccanismi del potere e gli uomini chiamati a esercitarlo. La sua teoria politica è basata sull’osservazione sistematica della realtà, non su modelli astratti, e sulla convinzione che la gestione del potere debba essere autonoma rispetto ai princìpi della religione e della morale. Machiavelli è consapevole di aprire una strada nuova, a cui i suoi contemporanei non sono preparati. Nella storia del pensiero, oltre che in quella letteraria, l’opera di Machiavelli segna un punto di non ritorno, un riferimento fondamentale per qualsiasi scritto, ragionamento o discorso di carattere politico.

Il valore dello studio della storia e dell’imitazione degli antichi

T

4

Il proemio ai Discorsi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, Proemio

L’interesse fondamentale di Machiavelli è l’indagine sul funzionamento dello Stato. Nelle sue due opere politiche principali, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e Il Principe, prende in esame rispettivamente la repubblica e la monarchia, le due forme di governo alle quali ritiene ci si debba ispirare per la costruzione dello Stato. I Discorsi, iniziati nel 1513, sono dedicati a due figure di spicco degli Orti Oricellari: gli amici Cosimo Rucellai, animatore del circolo, e Zanobi Buondelmonti; quest’ultimo fu l’ideatore nel 1522 della congiura antimedicea nella quale Machiavelli non restò coinvolto, anche se un altro frequentatore degli Orti ha affermato che «de’ pensamenti e azioni di questi giovani anche Niccolò non fu senza imputazione» (Jacopo Nardi, Istorie della città di Firenze, II). Certamente la repubblica, ispirata al grande modello di Roma antica, fu la prima e mai spenta passione di Machiavelli: nel proemio dei Discorsi lo scrittore enuncia le proprie intenzioni e introduce uno dei temi che più gli stanno a cuore, la necessità che i politici moderni facciano propria la grande lezione degli antichi, emulando le loro azioni.

CHE COSA CI DICE QUESTO TESTO SU La poetica di Machiavelli Il proemio dei Discorsi presenta molti temi che aiutano a inquadrare la forma mentis machiavelliana. Lo scrittore fiorentino esprime innanzitutto la consapevolezza dell’originalità della propria riflessione politica, nonché dei fondamenti su cui essa poggia e degli scopi che si propone: egli ha deciso di percorrere una via mai calpestata (trita) da alcuno, con l’intenzione di recare comune benefizio a ciascuno. Questa nuova via consiste nel considerare con occhio nuovo le imprese di coloro che nell’antichità si sono per la loro patria affaticati: Machiavelli afferma che i suoi contemporanei si limitano ad ammirare le azioni degli antichi, ma non le imitano, col risultato che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno (rr. 19-20). Questo è appunto il cuore della sua proposta: la lezione degli antichi, così come è fonte di ispirazione per l’arte, la legge e la medicina, deve essere applicata dai moderni anche agli affari di governo, secondo quel principio dell’imitazione costitutivo della cultura umanistico-rinascimentale. Lo scrittore dunque, per “trarre” gli uomini da questo grave errore, si propone di commentare alcune parti di un testo fondamentale della storiografia antica, l’opera Ab urbe condita di Tito Livio, e profonde in questo compito tutta la propria passione civile. Compare poi in questo proemio un tema caro a Machiavelli: la natura umana non cambia, come il cielo, il sole e li elementi anche gli uomini seguono da sempre lo stesso moto. Per questo, nonostante la natura spesso invida dell’uomo, ricorrere all’esempio degli antichi è possibile, e dalle antiche storie si può trarre quell’utilità (r. 40)per l’azione che è il vero scopo della conoscenza.

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L’età del Rinascimento

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Ancora che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse cercare acque e terre incognite1, per essere quelli2 più pronti a biasimare che a laudare le azioni d’altri; nondimanco3, spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare4, sanza alcuno respetto5, quelle cose che io creda rechino comune benefizio a ciascuno, ho deliberato entrare6 per una via, la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita7, se la mi arrecherà fastidio e difficultà, mi potrebbe ancora arrecare premio, mediante quelli che umanamente8 di queste mie fatiche il fine considerassino9. E se lo ingegno povero, la poca esperienzia delle cose presenti e la debole notizia delle antique10 faranno questo mio conato difettivo11 e di non molta utilità; daranno almeno la via ad alcuno che, con più virtù, più discorso12 e iudizio13, potrà a questa mia intenzione satisfare14: il che, se non mi arrecherà laude, non mi doverebbe partorire biasimo. Considerando adunque quanto onore si attribuisca all’antiquità, e come molte volte, lasciando andare infiniti altri esempli, un frammento d’una antiqua statua sia suto comperato gran prezzo15, per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa e poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si dilettono16; e come quegli dipoi con ogni industria si sforzono in tutte le loro opere rappresentarlo17; e veggiendo18, da l’altro canto, le virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono, che sono state operate da regni e republiche antique, dai re, capitani, cittadini, latori di leggi19, ed altri che si sono per la loro patria affaticati, essere più presto20 ammirate che imitate; anzi, in tanto da ciascuno in ogni minima cosa fuggite, che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno; non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga21. E tanto più, quanto io veggo nelle diferenzie che intra cittadini civilmente nascano22, o nelle malattie nelle quali li uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli iudizii o a quelli remedii che dagli antichi sono stati iudicati o ordinati: perché le leggi civili non sono altro che sentenze date dagli antiqui iureconsulti, le quali, ridutte in ordine23, a’ presenti nostri iureconsulti iudicare insegnano. Né ancora la medicina è altro che esperienze fatte dagli antiqui medici, sopra le quali fondano e’ medici presenti e’ loro iudizii24. Nondimanco, nello ordinare25 le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra, nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio, non si truova principe né republica che agli esempli delli antiqui ricorra. Il che credo che nasca non tanto da la debolezza nella quale la presente religione ha condotto el mondo26, o da quel male che ha fatto a molte provincie e città cristiane uno ambizioso ozio27, quanto dal non avere vera cognizione delle storie, per non trarne, leggendole, quel

1 Ancora che… incognite: sebbene per la natura invidiosa (invida) degli uomini sia sempre stato (suto) pericoloso trovare strategie e ordinamenti politici nuovi non diversamente che ricercare mari e terre sconosciuti. L’immagine delle terre e dei mari sconosciuti è probabilmente ispirata a Machiavelli anche dai recenti viaggi di Colombo e Vespucci, che ebbero un peso centrale nel dibattito politico del tempo. 2 quelli: gli uomini. 3 nondimanco: ciononostante. 4 operare: fare. 5 respetto: cautela. 6 ho deliberato entrare: ho deciso di intraprendere. 7 trita: calpestata. Machiavelli è consapevole di intraprendere un nuovo percorso, come già lo era stato Dante (Paradiso, II, 7: «L’acqua ch’io prendo già mai non si corse»). 8 umanamente: benevolmente. 9 considerassino: considerassero. Si tratta

di una forma arcaica di congiuntivo imperfetto. 10 debole notizia delle antique: scarsa conoscenza della storia antica. Va intesa come attestazione di modestia, topica in sede proemiale. 11 faranno… difettivo: renderanno imperfetto (difettivo) questo mio tentativo (conato). 12 più discorso: migliore eloquenza. 13 iudizio: acutezza di giudizio. 14 satisfare: realizzare. 15 gran prezzo: a gran prezzo. 16 coloro… si dilettano: coloro che praticano la scultura. 17 e come… rappresentarlo: e considerando come quegli artisti poi si sforzano con ogni accorgimento (industria) di riprodurlo in tutte le loro opere. 18 veggiendo: vedendo. 19 latori di leggi: legislatori. Latinismo da lator, letteralmente “colui che propone,

che presenta”. 20 più presto: piuttosto. 21 non posso… dolga: non posso fare a meno di dolermene e meravigliarmene. 22 nelle diferenzie… nascano: nelle controversie civili che nascono tra i cittadini. 23 ridutte in ordine: raccolte e ordinate (dall’imperatore Giustiniano nel VI secolo d.C. nel Corpus iuris civilis). 24 e’ loro iudizii: le loro diagnosi. 25 ordinare: fornire di leggi. 26 la debolezza… el mondo: Machiavelli ritiene che la religione cristiana abbia indotto gli uomini a svalutare l’azione politica e dunque li abbia infiacchiti, mentre la religione degli antichi romani, esaltando valori come la forza e l’eroismo, educava gli uomini al culto dello Stato. 27 uno ambizioso ozio: una pace prolungata, uno stato di inerzia in cui sono cresciute le ambizioni personali di potere e di ricchezza.


6 Ludovico Ariosto

4  L’orlando furioso

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4 L’ORLANDO FURIOSO La genesi del poema e le sue tre redazioni L’Orlando furioso è un poema che si rifiuta di cominciare, e si rifiuta di finire. Si rifiuta di cominciare perché si presenta come la continuazione d’un altro poema, l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, lasciato incompiuto alla morte dell’autore. E si rifiuta di finire perché Ariosto non smette mai di lavorarci […] per tutta la sua vita, si può ben dire, perché per arrivare alla prima edizione del 1516, Ariosto aveva lavorato dodici anni e altri sedici anni fatica per licenziare l’edizione del 1532 e l’anno dopo muore. (I. Calvino, La struttura dell’«Orlando» [1974], in Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991)

 Il frontespizio di un’edizione dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto del 1542. Torino, Accademia delle Scienze.

Così scrive Italo Calvino in La struttura dell’«Orlando» a proposito di uno dei libri da lui più amati, sottolineando il lungo processo di elaborazione che contraddistingue il poema. La prima notizia relativa all’Orlando furioso risale al febbraio del 1507, quando la marchesa di Mantova Isabella d’Este scrive al fratello, cardinale Ippolito, per ringraziarlo di averle mandato da Ferrara Ludovico Ariosto, che le ha letto in anteprima alcune parti di un inedito poema cui sta lavorando. La nobildonna ha appena partorito il suo terzogenito, Ferrante, e il regalo del fratello, volto ad allietarne il puerperio, è particolarmente gradito. Solo due anni dopo, nel 1509, il duca Alfonso d’Este chiede al fratello Ippolito di inviargli l’opera, indicata come «gionta» (continuazione) fatta da «messer Ludovico Ariosto a lo Innamoramento de Orlando». Tre anni più tardi, quando il poema è ormai in avanzata fase di composizione, un carteggio tra Ludovico Ariosto e Francesco Gonzaga , marito di Isabella, impaziente di entrare in possesso di una copia dell’opera, dimostra quale attesa vi fosse negli ambienti di corte per l’uscita del lavoro ariostesco. L’Orlando furioso, la cui prima edizione in 40 canti, è dell’aprile del 1516, riscuote subito un ampio successo di pubblico, guadagnando in breve tempo il primato su altre opere cavalleresche, come il Morgante di Pulci e l’Orlando innamorato di Boiardo, fino a quel momento ineguagliate. Ariosto tuttavia non è pienamente soddisfatto della sua opera soprattutto per gli aspetti linguistici, ancora legati, soprattutto per la fonetica, a un regionalismo padano che appariva sempre più obsoleto in anni di acceso dibattito tra gli intellettuali intorno alla questione del volgare. Interviene quindi sul poema cercando di adeguarne il più possibile la lingua ai modelli dei grandi autori del Trecento, Petrarca e Boccaccio, basandosi sulle teorie di Pietro Bembo, diffuse nelle Prose della volgar lingua nel 1525 pag. $$$ ma già note ad Ariosto per i contatti avuti a Ferrara con l’intellettuale veneziano. Nella seconda edizione del poema, stampata a Milano nel febbraio del 1521, appaiono dunque consistenti modifiche linguistiche, mentre ridottissime sono quelle sui contenuti. La revisione dell’opera da parte del suo autore non è ancora terminata. Tra il 1524 e il 1531 sono note almeno diciassette ristampe del Furioso tra Milano, Venezia e Firenze, senza tuttavia che Ariosto riesca ad averne il controllo per le condizioni del mercato editoriale del tempo. Il poeta approfondisce il lavoro di adeguamento linguistico al volgare toscano, cui già aveva messo mano per l’edizione del ’21, ma nello stesso tempo interviene in modo significativo anche sui

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Un poema in divenire, pag. $$$


260

L’età del Rinascimento

contenuti, con l’aggiunta di molti episodi che germinano da altri già presenti nell’intreccio. Si arriva così all’edizione ferrarese dell’ottobre 1532, costituita non più di 40, ma di 46 canti. Il poeta muore nove mesi dopo, nel luglio del 1533: davvero, come dice Calvino, l’Orlando furioso è il poema di tutta una vita. LE EDIZIONI DELL’ORLANDO FURIOSO Data

Luogo

Canti

Lingua

1516

Ferrara

40

Lingua caratterizzata da regionalismi padani.

1521

Milano

40

Modifiche linguistiche in adesione alle teorie di Bembo; adeguamento alla lingua toscana di Petrarca e Boccaccio.

1532

Ferrara

46

Ulteriori modifiche linguistiche verso il toscano.

Le fonti Nel momento in cui un poeta, nella Ferrara dei primi anni del Cinquecento, si accinge a scrivere un poema cavalleresco, non può non tener conto della materia preesistente nel genere. Solo una decina di anni prima, l’Orlando innamorato di Boiardo era stato capace di rilanciare una ricchissima tradizione, orale e scritta, tenuta viva soprattutto dai “canterini” che recitavano nelle piazze, ma anche dai molti poeti minori che scrissero vari Innamoramenti a sua imitazione. La Ferrara in cui Ariosto ha mosso i suoi primi passi di poeta risuona quindi dei versi di Boiardo, grazie ai quali la città padana contende il primato letterario di quegli anni alla coltissima Firenze. L’Orlando innamorato era rimasto incompiuto e Ariosto ne raccoglie il testimone presentando il suo poema come la gionta, cioè la continuazione di quello. Oltre a questa dichiarata filiazione, e alla materia carolingia e bretone già sapientemente rielaborata da Boiardo, l’Orlando furioso attinge a innumerevoli altre fonti: la grande epica greca, Iliade e Odissea, per cui, per esempio, il personaggio di Alcina richiama la maga Circe dell’Odissea; l’Eneide di Virgilio, presente alla fantasia ariostesca sia per il motivo encomiastico verso la casa regnante sia per molti episodi, come quello celebre di Cloridano e Medoro ispirato a quello di Eurialo e Niso; le Metamorfosi e le Heroides di Ovidio per episodi come quello di Olimpia abbandonata; gli autori latini di età imperiale, in particolare Lucano e Seneca, il primo per il motivo del magico, il secondo per la tragedia Hercules furens (Ercole impazzito), riecheggiata anche nel titolo; ancora tutta la tradizione della poesia d’amore, con un debito più vistoso nei confronti dello stile di Petrarca, nel pieno rispetto delle indicazioni bembesche.

I filoni narrativi e la trama Pur essendo caratterizzato da una materia straordinariamente articolata, costituita da una miriade di vicende e di personaggi, l’Orlando furioso sviluppa tre principali filoni narrativi: quello “centripeto” della guerra tra cristiani e Saraceni, incentrato sul campo di battaglia; quello “centrifugo” dell’amore di Orlando per Angelica, che porta l’eroe lontano dal campo di battaglia; le varie avventure che tengono lontani Bradamante e Ruggiero, destinati a diventare i capostipiti della dinastia estense. La guerra tra Carlo Magno e gli eserciti saraceni di Africa e Spagna costituisce una sorta di cornice a tutte le vicende narrate, che di volta in volta hanno per protagonisti paladini cristiani o guerrieri musulmani o gli uni e gli altri insieme. La fuga di Angelica

La storia inizia a Parigi assediata dai Saraceni, che hanno in un primo momento la meglio sugli uomini di Carlo Magno, al punto che Angelica, affidata dall’imperatore alla tutela dell’anziano duca di Baviera per neutralizzare la rivalità tra Orlando e Ri-


6 Ludovico Ariosto ■ 4  L’ Orlando Furioso

naldo, entrambi innamorati di lei, approfitta dello sbandamento dell’esercito cristiano per darsi alla fuga e addentrarsi a cavallo in una foresta. Qui è vanamente inseguita dal cristiano Rinaldo e dai saraceni Ferraù e Sacripante, finché un vecchio eremita invaghitosi di lei la trasporta su un’isola deserta. Rinaldo, tornato a Parigi pensando di trovarvi Angelica, viene inviato da re Carlo in Inghilterra a cercare aiuti per la guerra; giunto in Scozia, salverà Ginevra, la figlia del re, dalla condanna a morte per un’accusa ingiusta.

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Nella selva: la fuga di Angelica, pag. $$$

Bradamante e Ruggiero

Anche la valorosa guerriera Bradamante, sorella di Rinaldo, cerca infaticabilmente colui che ama, il guerriero saraceno Ruggiero, e apprende dalla maga buona Melissa la profezia per cui dal loro matrimonio discenderà la famiglia degli Estensi. Ruggiero è tenuto prigioniero in un castello dal mago Atlante, suo tutore, che tenta in ogni modo di proteggerlo da un infausto destino: sa infatti che il giovane morirà prematuramente se tornerà in battaglia. L’incantesimo viene sciolto dall’intervento di Bradamante, ma prima che i due amanti si riavvicinino, Atlante allontana il suo pupillo a cavallo dell’ippogrifo, animale per metà cavallo e per metà grifone. Ruggiero, almeno nella prima parte del poema, non corrisponde alla figura dell’amante fedele: condotto in volo in un’isola oltre le colonne d’Ercole, viene sedotto dalla maga Alcina, che priva dell’aspetto umano i suoi amanti trasformandoli in piante e in animali; dalle sue malie incantatrici viene liberato per intervento della maga Melissa e riparte sull’ippogrifo alla ricerca di Bradamante. Giunto in Irlanda, il Saraceno è però affascinato dalla bellezza di Angelica e la salva da un’orca marina: la giovane nel frattempo era stata infatti rapita da alcuni pirati, che l’avevano offerta in sacrificio all’orca.

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L’isola di Alcina, pag. $$$

Angelica e Medoro

Angelica, in possesso di un anello magico che rende invisibili se tenuto in bocca e che dissolve gli incantesimi se portato al dito, sfugge a Ruggiero e si mette in viaggio alla volta del Paese d’origine in Oriente. Lungo la strada, dopo essere sfuggita nuovamente a Orlando, Ferraù e Sacripante, si imbatte in un giovane fante saraceno gravemente ferito, Medoro. Quest’ultimo, con l’amico Cloridano, è uscito nottetempo dal campo al termine di un’aspra battaglia per recuperare il corpo dell’amato re Dardinello; sorpresi da una pattuglia cristiana, i due vengono inseguititi, Cloridano ucciso e Medoro abbandonato quasi morente. Angelica, conquistata dalla sua bellezza, si prende cura di lui, se ne innamora e lo sposa.

T15

Cloridano e Medoro, pag. $$$

T14 palazzo di Nel frattempo Orlando, sempre alla ricerca di Angelica, incrocia le vicende di altre IlAtlante, donne vittime di diversi inganni e violenze: in Normandia aiuta Olimpia, contessa pag. $$$ d’Olanda, a salvare il suo promesso sposo Bireno dal re di Frisia Cimosco, che lo ha T15 pazzia di fatto prigioniero; in un secondo tempo, quando la donna è abbandonata dal crudele amante La Orlando, sull’isola di Ebuda, la salva dalla stessa orca marina che aveva minacciato Angelica. Giunto poi pag. $$$ in una selva, il paladino ha l’impressione di scorgere l’amata a cavallo insieme a un altro cavaliere, ma, nell’inseguirli, viene attirato all’interno di un palazzo incantato. Il palazzo è una nuova magia del mago Atlante, che vi tiene vanamente occupati i vari guerrieri strappati al conflitto, in modo che non costituiscano una minaccia per Ruggiero. In quel luogo compare e scompare, agli occhi di chi vi entra, tutto ciò che ciascuno insegue e mai raggiunge. Liberato dal palazzo per intervento del paladino Astolfo, Orlando continua la sua ricerca e si ritrova per caso negli stessi luoghi frequentati da Angelica e Medoro, che sugli alberi e sulle pietre di una fonte hanno lasciato scritte inneggianti al loro amore. Il profondo turbamento iniziale si trasforma nel paladino in delirante gelosia e sfocia in una furia devastatrice che distrugge animali e piante.

La pazzia di Orlando

 La follia di Orlando in un affresco di Julius Schnorr von Caroesfeld del 1827. Roma, Casino Massimo Lancellotti.


392

Il Trecento

4 Il CANZONIERE Titolo e struttura Il titolo originale del Canzoniere è Francisci Petrarche laureati poete Rerum vulgarium fragmenta, letteralmente Frammenti di cose in volgare di Francesco Petrarca, poeta laureato, che offre, rispetto alla formula sintetica in italiano, diverse suggestioni. Esso esplicita la lingua di compo Petrarca conversa sizione: Petrarca abbandona qui il latino per una poesia nel “volgare del con Laura in una miniatura sì”, secondo la dicitura dantesca. Ma l’aggettivo vulgarium sembra alludere del XV secolo. AKG. anche alla considerazione che l’autore attribuiva ai suoi scritti in volgare, ritenuti inferiori a quelli in latino, tanto che alle sue rime Petrarca si riferisce con il termine catulliano di nugae, “sciocchezze, bazzecole di poco conto”. Il sostantivo fragmenta rimanda invece alla loro iniziale natura di liriche sparse, cioè nate senza un progetto compositivo a priori, accolte solo successivamente nell’assetto unitario del Canzoniere, e riprende l’annuncio dato nella conclusione del Secretum, sparsa anime fragmenta recolligam (raccoglierò i frammenti sparsi della mia anima). Il progetto del Canzoniere si configura quindi come il tentativo di ricomporre in una narrazione organica componimenti scritti in un ampio arco di tempo, che nel loro insieme ripercorrono l’esperienza amorosa e biografica del poeta: si tratta, in questo senso, della prima raccolta di versi a carattere unitario della nostra letteratura. Ciò costituisce un importante elemento di novità: «Il Canzoniere segnala, con la sua fisicità, la fine di un vecchio assetto della poesia lirica», come afferma il critico Marco Santagata, uno dei maggiori studiosi contemporanei di Petrarca. La disposizione Il Canzoniere raccoglie 366 componimenti, disposti in modo da restituire il racconto e il numero che il poeta vuole lasciare della propria esperienza dell’amore per Laura: in esso, il podelle liriche

eta procede a una minuziosa analisi interiore della propria condizione di innamorato non corrisposto, e si sforza di ricostruire una vicenda esemplare di ravvedimento e redenzione, dall’amore terreno all’amore celeste. Petrarca struttura infatti la silloge in nome di una finzione letteraria che intende testimoniare al pubblico un percorso di ravvedimento morale: nella prima parte il poeta ricostruisce la “vicenda” dell’amore infelice per Laura e nei tre testi che la concludono, a partire dalla canzone I’ vo pensando, et nel pensier m’assale, annuncia l’inizio della redenzione, affidata alla seconda parte e chiusa dalla canzone alla Vergine, un’accorata richiesta di misericordia e salvezza che testimonia come il sentimento religioso, lungi dall’essere approdo definitivo, sia piuttosto una calda speranza. Alla luce di questo impianto concettuale, l’opera è stata divisa da Petrarca in due parti, che raggrupperebbero, sul modello della Vita nova dantesca pag. 183 , rispettivamente i 263 componimenti scritti “in vita” di Laura, amata dal poeta, a partire dal primo incontro avvenuto il 6 aprile 1327, e i 103 “in morte” della donna, scomparsa il 6 aprile 1348, secondo una nota a margine del codice Virgilio Ambrosiano Connessioni, pag. 401 . Tuttavia la suddivisione non appare rigorosa: il primo vero componimento sulla morte dell’amata è il sonetto 267, Ohimé il bel viso, mentre i tre precedenti annunciano la redenzione ma non fanno cenno alla scomparsa di Laura, e nella prima sezione compaiono testi composti dopo il 1348 e viceversa. A svolgere un ruolo determinante nella sistemazione interna alla silloge giocherebbe anche il valore simbolico dei numeri, in particolare l’insistente occorrenza del 6. Marco Santagata, nel


6  Francesco Petrarca ■ 4  Il Canzoniere

T

13

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Era ‘l giorno ch’al sol si scoloraro Canzoniere, III

In un risguardo del suo prezioso codice contenente le opere di Virgilio, il Virgilio Ambrosiano Connessioni, pag. 401 , Petrarca scrive la data della morte di Laura, 6 aprile 1348, e nella stessa annotazione ricorda di aver visto per la prima volta la donna amata il giorno 6 aprile 1327. Quest’ultima data è confermata in altri luoghi, sia del Canzoniere sia dei Trionfi, come data dell’innamoramento. In questo sonetto e in tutta la sua opera Petrarca ricorda poi come il giorno del primo incontro con Laura coincidesse proprio con il Venerdì Santo, passione di Cristo. Sappiamo che, storicamente, il Venerdì Santo dell’anno 1327 cadde il 10 di aprile, ma qui Petrarca si rifà probabilmente a una tradizione che colloca la morte di Cristo nella data esatta del 6 di aprile; in questo modo il poeta riesce a far coincidere la propria simbologia personale con la storia sacra. In questo componimento si racconta infatti di come, nel giorno della passione di Cristo, al poeta non fosse sembrato necessario difendersi da Amore, che così ebbe gioco facile a colpirlo, usando come mezzo i begli occhi della donna. METRICA Sonetto con schema di rime ABBA, ABBA, CDE, DCE.

E

Era ’l giorno1 ch’al sol si scoloraro per la pietà del suo Factore2 i rai, quando i’ fui preso, et non me ne guardai, 3 4 ché i be’ vostr’occhi, Donna, mi legaro.

Tempo4 non mi parea da far riparo contra colpi d’Amor; però n’andai secur, senza sospetto5: onde i mei guai6 7 8 nel comune dolor s’incominciaro.

Trovommi Amor del tutto disarmato, et aperta la via per gli occhi al core, 11 che di lagrime son fatti uscio et varco.

Però, al mio parer, non li fu honore ferir me de saetta in quello stato, 8 14 a voi armata non mostrar pur l’arco.

1 Era ‘l giorno: va inteso come la data del 6 aprile, la stessa cui una tradizione medioevale faceva risalire la crocifissione di Gesù, e non la data mobile del Venerdì Santo che nel 1327 cadde il 10 di aprile. 2 Factore: Creatore, cioè Dio. 3 ché: perché.

4 Tempo: inteso come tempo liturgico. Nel caso specifico, il tempo di penitenza legato alla ricorrenza della morte di Cristo. 5 senza sospetto: cfr. Dante, Inferno, V, 129 «soli eravamo e sanza alcun sospetto». In questo sonetto di Petrarca si assiste a un «altro celeberrimo innamoramento per

 Cupido tende il suo arco. Statua romana del II secolo d.C. San Pietroburgo, Hermitage Museum.

sorpresa» (Contini). 6 guai: lamenti. Cfr. ancora Dante, Inferno, V, 48 «così vid’io venir, traendo guai». 7 nel comune dolor: nel dolore di tutti i cristiani per la morte di Gesù. 8 non… pur: neppure.

parafrasi

vv. 1-4 Era il giorno in cui si oscurò la luce dei raggi del sole / per la compassione del Creatore, / quando fui catturato e non opposi difesa alcuna, / perché i vostri begli occhi, donna, mi rapirono. vv. 5-8 In tale mesta ricorrenza non mi sembrava fosse necessario opporre / una difesa contro gli attacchi di amore; perciò procedevo / sicuro, senza sospetto; per cui le mie sofferenze / ebbero inizio in un momento di comune dolore. vv. 9-11 Amore mi sorprese completamente disarmato, / e (trovò) libera la via verso il cuore attraverso gli occhi, / che sono diventati uscio e varco di lacrime. vv. 12-14 Perciò, a mio parere, non fu motivo di onore per lui / ferire me in quello stato con una freccia, / a voi armata (all’opposto) non mostrare neppure l’arco.


404

Il Trecento

GUIDA ALLA LETTURA Il ricordo del giorno dell’innamoramento

Il terzo sonetto del Canzoniere è il testo in cui Petrarca rievoca il momento dell’innamoramento, presentato con i caratteri di un evento fatale e nello stesso tempo rasente l’empietà. Il poeta infatti afferma di essere stato preso, cioè catturato da Amore, proprio nel giorno in cui Gesù Cristo fu crocifisso, evento rievocato nei primi due versi con il riferimento all’eclissi di sole, riferita dalle narrazioni dei Vangeli, che accompagnò le ultime ore di agonia di Gesù: «Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio» (Luca 23, 44). La passione di Petrarca per Laura ha dunque inizio nello stesso giorno in cui si piange la morte di Cristo: i lamenti d’amore del poeta si uniscono al pianto per la morte del Redentore. La commistione di questi due piani, amore profano e amore sacro, è fonte di lacerazione per Petrarca, e chiave attraverso la quale leggere tutta la tensione amorosa ed esistenziale del Canzoniere.

Una data simbolo

Il 6 aprile 1348, esattamente 21 anni dopo quel fatale giorno del 1327, è anche la data della morte di Laura. L’intento del poeta sembra dunque quello di collegare le vicende della sua storia privata con quelle della fede cristiana. La data del 6 aprile si carica poi di ulteriori significati: i Padri della Chiesa per esempio affermano che Adamo è stato creato da Dio il sesto giorno del primo mese del mondo, ovvero aprile. In questo, Petrarca si mostra uomo del Medioevo, profondamente permeato da una cultura che rilegge il mondo e la realtà in chiave simbolica e ultraterrena: i numeri sono simboli di una realtà ulteriore, nascosta rispetto a quella visibile e storica, ma proprio per questo più autentica in una dimensione escatologica, ovvero sul piano del disegno divino di salvezza.

Quando i’ fui preso…

L’amore sorprende il poeta in un giorno solenne e sacro, e tutto accade in modo inaspettato e fatale, senza che vi si possa opporre resistenza né difesa. Su questo piano il terzo verso (quando i’ fui preso, e non me ne guardai) dialoga con la ripresa del discorso poetico nella seconda parte del testo, cioè con l’inizio delle terzine (Trovommi Amor del tutto disarmato) e la pregnanza dell’azione “subita”, data dalla forma passiva del verbo, fui preso, è sottolineata dalla vir-

gola e dalla prima forte cesura del componimento. Amore cattura un uomo privo di armi, che andava secur, senza sospetto, non ritenendo fosse quello il tempo da far riparo / contra colpi d’Amor (vv. 5 e 6). Amore è un avversario sleale dunque, così come viene ribadito in chiusura del componimento: al mio parer, non li fu honore / ferir me de saetta in quello stato. Il tema costituisce la ripresa di un discorso avviato nel sonetto precedente a questo e a esso speculare, che propone l’immagine di Amore armato di arco e frecce, appostato da tempo in luogo nascosto ad attendere il momento migliore per colpire il poeta («celatamente Amor l’arco riprese, / come uom ch’a nocer luogo e tempo aspetta», Canzoniere, II, 3-4).

Un’elegante operazione di riscrittura

All’inizio del Canzoniere Petrarca mostra di porsi con un proprio originale passo nel solco della lirica d’amore in volgare, dalla poesia provenzale allo Stilnovo: questo sonetto, infatti, presenta immagini e scelte lessicali che richiamano quelle della più recente tradizione, per esempio la centralità degli occhi della donna (v. 4 e v. 10) come via attraverso la quale l’Amore giunge al cuore per “legare” l’uomo è motivo che dal De amore di Andrea Cappellano pag. 18 si estende fino all’incipit di un celebre sonetto cavalcantiano, Voi che per gli occhi mi passaste ‘l core  pag. 118 . Anche la figura di Amore personificato come arciere rimanda a un topos della lirica d’amore. Pregnante la presenza dantesca, in particolare del canto V dell’Inferno, culmine e insieme superamento di tutta la poetica stilnovista. Tuttavia in questo caso si crea un’asimmetria: a Laura, che è armata della propria bellezza, il dio neppur mostra l’arco, lasciandola del tutto indifferente nei confronti del poeta. Sempre relativamente alle soluzioni formali risulta efficace infine la scelta di rivolgersi direttamente alla donna amata nei due enunciati di apertura e di chiusura del sonetto, nel rispetto di una canonica struttura ad anello: il vocativo Donna, chiuso tra due virgole al verso 4, rende esplicita l’attribuzione dei be’ vostr’occhi che immediatamente lo precedono, conferendo un’intonazione di confidenza intima al discorso del poeta e, nella fattispecie, alla rievocazione del giorno fatale dell’innamoramento; simmetricamente il voi armata dell’ultimo verso suggella col riferimento diretto alla donna amata la consapevolezza della propria resa di fronte alla forza di un sentimento contro cui è vano lottare.

LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi

1. Quale significato assume per il poeta il fatto di essersi innamorato di Laura il 6 aprile? 2. Perché quel giorno Petrarca ricorda di essere stato sicuro e senza sospetto di fronte all’eventualità dei colpi d’Amore? 3. Come viene giudicato dal poeta il comportamento di Amore? 4. Quali retaggi della tradizione stilnovistica sono presenti in questo sonetto?


6  Francesco Petrarca ■ 4  Il Canzoniere 5. In corrispondenza di quale affermazione si trovano nel testo due enjambement? Perché a tuo giudizio proprio in quella posizione? 6. L’esperienza dell’innamoramento è assimilata a una guerra ingaggiata da e contro Amore. Indica dove compare la metafora bellica e spiegala individuando parole ed espressioni chiave. 7. Quale tratto dell’aspetto fisico di Laura viene evocato nel sonetto? Quale valore gli viene attribuito?

Interpretazione e scrittura

8. Nel secondo capitolo della Vita nova Dante ricorda il suo primo incontro con Beatrice all’età di nove anni. Quali sono le differenze più evidenti tra quel testo e la rievocazione petrarchesca del momento dell’innamoramento? Ci sono dei punti in comune? Quali?

SCRIVERE DI SÉ 9. Ti sembra che ci si possa “armare” nei confronti di Amore, cioè ci si possa in qualche modo preparare o addirittura difendere nel momento in cui l’amore entra nella nostra vita, o, all’opposto, ritieni che l’amore ci sorprenda sempre e ci visiti quando meno ce l’aspettiamo? Tratta la questione anche sulla base della tua esperienza in uno scritto di una pagina.

CONFRONTIAMO I TESTI 10. Il sonetto contiene due motivi ricorrenti nell’elegia latina di età augustea: l’innamoramento che “passa” attraverso gli occhi e la condizione dell’innamorato che combatte contro Amore. Ti si propongono in traduzione due passi di una celebre elegia del poeta latino Properzio (47 a.C.-15 a.C.): individua i motivi topici presenti anche nel sonetto di Petrarca e confronta l’immaginario poetico e ideale dei due testi.

Properzio, Elegie I, 1

Cinzia, per prima ha fatto prigioniero me, sventurato, coi suoi occhi, io che mai prima ero stato toccato dalla passione. Da allora Amore mi fece abbassare gli occhi ostinatamente alteri e mi calcò il capo, premendovi sopra i piedi finché m’insegnò, crudele (qual è), a detestare le fanciulle perbene e a condurre una vita senza senno. E già da un anno intero questa follia non m’abbandona, mentre sono costretto ad avere gli dèi avversi. … E voi, amici, che troppo tardi richiamate indietro chi è caduto, cercate dei rimedi per il mio cuore malato. Sopporterò con coraggio sia il bisturi sia le crudeli cauterizzazioni, purché io abbia la libertà di dire ciò che l’ira mi suggerisce. Portatemi fra genti e mari remoti, dove nessuna donna conosca il mio cammino: voi, a cui il dio annuì con orecchio benevolo, restate e siate sempre concordi in amore tranquillo. Quanto a me, la mia Venere agita le mie notti amare, e Amore non mi lascia neppure per un momento. Vi avverto, evitate questo male: ciascuno resti fedele alla propria amata né si allontani dal suo consueto amore. Ché se qualcuno troppo tardi presterà attenzione ai miei ammonimenti, con quanto dolore, ahimé, ricorderà le mie parole!

(Properzio, Elegie, trad. di F. Cerato)

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Il Duecento

RIEPILOGHIAMO La Commedia PER L’INTERROGAZIONE Rispondi alle domande

1. Spiega il significato del titolo Commedia sulla base dei testi da te letti, con opportuni riferimenti. 2. Quale idea del rapporto tra Dio e gli uomini emerge dalla Commedia? 3. Definisci il significato del termine “allegoria” e illustralo con opportuni riferimenti all’uso che ne fa Dante nella Commedia. 4. Il mondo terreno rievocato nella Commedia è spesso contrassegnato dalla violenza. Discuti l’affermazione con opportuni riferimenti ai testi. 5. Quale concezione della propria missione di poeta affiora dai testi della Commedia da te letti? 6. In quali episodi della Commedia hai sentito il pensiero e il giudizio di Dante più vicini alla tua sensibilità di lettore moderno e, all’opposto, in quali li hai avvertiti estranei? 7. Delinea un ritratto del Virgilio dantesco a partire dai passi da te letti e soffermati sulla funzione che assume di volta in volta la sua figura.

8. Hai potuto riscontrare nei passi da te letti il plurilinguismo dantesco? Fai degli esempi. 9. Dante in alcuni passaggi del poema alza la propria voce per denunciare con forza le contraddizioni e la corruzione dell’umanità del suo tempo. Quali forme d’arte secondo te, oggi, si fanno carico delle medesime istanze? 10. Nel 2019 è stato realizzato un graphic novel dall’Inferno dantesco (C. Zuccarini, E. Carbonetti, L’Inferno di Dante - graphic novel, Chieti, Il Viandante, 2019). Ritieni che l’operazione possa contribuire alla conoscenza del poema fra i tuoi coetanei? Perché?

Preparati a esporre

11. Prepara un intervento di circa cinque minuti su profezie individuali e collettive nella Commedia. 12. Prepara un intervento di cinque minuti sulla presenza di Dante agens nei passi letti. 13. Prepara un intervento di cinque minuti sul significato attribuito da Dante al suo viaggio nell’aldilà.

PER LA VERIFICA SCRITTA Indica se le seguenti affermazioni sulla Commedia sono vere o false 14. è composta da 99 canti 15. è in terzine 16. se ne conserva il manoscritto originale 17. viene scritta nel 1300 18. è in endecasillabi

V    F   V    F   V    F   V    F   V    F

Seleziona l’alternativa corretta

19. La vicenda raccontata nella Commedia inizia: a. il giorno di Natale b. il giorno del compleanno di Dante c. il venerdì santo d. il giorno della Pentecoste 20. Il cosmo dantesco è modellato sulla visione di: a. Tolomeo c. San Paolo b. Ovidio d. San Brandano 21. Le pene attribuite ai dannati nell’Inferno seguono la legge: a. del contrasto c. dell’opposizione b. dell’analogia d. del contrappasso

22. Il titolo della Commedia è spiegato da Dante: a. nella Commedia stessa b. nell'episola a Cangrande della Scala c. nel Convivio d. in un passo del De vulgari eloquentia

Rispondi alle seguenti domande

23. Qual è la struttura della Commedia e che significato simbolico ha? 24. Quanto tempo dura il viaggio di Dante? Riassumi brevemente la vicenda principale. 25. Quali caratteristiche ha il cosmo dantesco? 26. Che cosa intende il dantista Auerbach quando parla di “interpretazione figurale”? 27. In che modo la cultura medievale influenza la Commedia? Quali modelli agiscono sul testo? 28. Quale ruolo ha Beatrice nella Commedia? Come evolve la sua figura rispetto alla Vita nova? Rispondi argomentando con esempi tratti dai testi che hai letto.

SCRIVI UN TESTO 29. Nell’episodio di Pier delle Vigne T29 si manifesta un’empatia nei confronti del personaggio incontrato, che nulla toglie alla condanna religiosa del peccato compiuto. Discutine con opportuni riferimenti ad altri canti da te letti in un testo di almeno una pagina.

30. Al termine della lettura di questa proposta antologica di passi della Commedia affida a uno scritto di almeno due pagine le tue impressioni, soffermandoti sugli episodi che hanno suscitato in te maggior interesse e argomentando le tue osservazioni.


5  Dante Alighieri

A TU per TU con l’AUTORE E ORA RILEGGIAMO Negli occhi porta la mia donna Amore Alla luce dello studio di Dante e della lettura della sua opera rileggi il sonetto, proposto in apertura, Negli occhi porta la mia donna Amore pag. 138 , che è inserito nella Vita nova, quindi rispondi alle domande. 1. Quale tema della Vita nova viene sviluppato nella lirica? In quale parte dell’opera perciò la collocheresti? 2. Ti stupisce che il poeta si rivolga a delle donne per onorare l’amata? Motiva la risposta con opportuni riferimenti alla Vita nova. 3. Considerando anche altre liriche dell’opera, quali parole-chiave in essa ricorrenti sono presenti nel sonetto? Quale significato esprimono? 4. Da che cosa è rivelata la natura angelica di Beatrice? 5. Lo sfondo su cui si muove la donna ha le caratteristiche tipiche degli spazi della Vita nova? Motiva la risposta con riferimenti ad altri testi. 6. In relazione agli effetti dell’apparizione della donna a quali testi è affine Ne li occhi porta la mia donna Amore? Quali immagini sono ricorrenti? 7. Quale tema compare nell’ultima terzina? In quali altri testi Dante insiste su di esso? 8. La superbia fugge in presenza di Beatrice. Alla luce delle tue letture, Dante ritiene questo vizio particolarmente pericoloso per gli uomini? Motiva la risposta con riferimenti ai testi letti.

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Il Trecento

1 La TRATTATISTICA Il genere letterario della trattatistica, ispirato alla tradizione classica, incontra grande successo nella cultura umanistico-rinascimentale, anche per effetto dell’inclinazione tipica del Cinquecento, epoca spiccatamente “classicista”, a indicare regole e modelli di validità universale. A facilitare ulteriormente la diffusione e la fama dei trattati è lo sviluppo dell’industria tipografica: Il libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione (1528), per esempio, è un autentico successo editoriale destinato a grande celebrità anche all’estero. Tra le tipologie di trattato si afferma la struttura del dialogo di modello ciceroniano, attraverso il quale conoscenze e riflessioni non vengono comunicate in modo dogmatico, ma prendono vita nel corso di vivaci dibattiti tra personaggi illustri che parlano e ascoltano le opinioni altrui con educazione e pazienza, spesso sullo sfondo dell’ambiente di corte, scenario ideale per l’elaborazione della cultura rinascimentale. Gli argomenti riguardano la pratica del vivere: sottesa alle regole di comportamento corre tuttavia l’aspirazione a un ideale di uomo che domina gli istinti, modera le passioni e cerca di realizzare il principio ciceroniano del decorum, il rispetto di sé necessario per rispettare gli altri, che il Galateo di Giovanni Della Casa (1558) declina anche nelle azioni quotidiane.

BALDASSAR CASTIGLIONE Baldassar Castiglione nasce a Casatico, vicino a Mantova, nel 1478; il padre lavora per la famiglia Gonzaga. Dopo gli studi a Milano, dove frequenta la corte di Ludovico il Moro, Castiglione entra a sua volta a servizio di Francesco Gonzaga, che segue in guerra contro gli Spagnoli. Nel 1504 si trasferisce a Urbino, dove lavora prima per i Montefeltro e poi per i Della Rovere, per cui compie missioni diplomatiche e partecipa a campagne militari. Nel 1513 è a Roma come ambasciatore del duca alla corte papale di Leone X. Dopo la conquista del ducato da parte dei Medici si riavvicina ai Gonzaga, torna a Mantova e sposa Ippolita Torelli. Rimasto vedovo, prende i voti e nel 1524 viene inviato dal nuovo papa Clemente VII come nunzio apostolico in Spagna alla corte di Carlo V. Il sacco di Roma del 1527 lo segna profondamente: deve infatti difendersi dall’accusa, mossagli dal papa, di inefficienza per non aver saputo prevedere ed evitare il terribile evento. Amareggiato per l’accaduto, Castiglione muore due anni dopo a Toledo: Carlo V, che decreta per l’occasione esequie solenni, ne compiange le doti definendolo «uno dei migliori cavalieri del mondo».

 Tiziano, Ritratto di Baldassar Castiglione, 1529. Dublino, National Gallery of Ireland.


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L’età del Rinascimento

GIOVANNI DELLA CASA Giovanni Della Casa nasce nel 1503 da una nobile famiglia forse nei possedimenti del Mugello. Dopo una prima formazione a Firenze, si reca a Bologna a studiare diritto, ma lo abbandona ben presto, attratto dalla letteratura a cui si dedica dal 1528 a Padova, approfondendo sia lo studio del latino, in particolare di Cicerone, sia del greco. Trasferitosi a Roma, comincia la carriera ecclesiastica sotto la protezione di Alessandro Farnese: pur prendendo gli ordini solo nel 1551, egli diventa nel 1544 prima arcivescovo di Benevento poi nunzio apostolico a Venezia, dove rimane fino alla morte di Paolo III, nel 1549, incaricandosi di introdurre in Veneto il Tribunale dell’Inquisizione e di condurre i primi processi contro i simpatizzanti della Riforma, come l’arcivescovo di Capo d’Istria, Pier Paolo Vergerio. Alla morte del papa, deluso per non essere stato nominato cardinale, si ritira nella Badia di Nervesa, vicino a Conegliano Veneto, dove si dedica alla composizione delle Rime e del Galateo. Tornato a Roma nel 1555 come segretario di Paolo IV, nutre ancora la speranza di ottenere la porpora cardinalizia, ma viene ancora una volta escluso dalle nomine. La morte lo coglie a Montepulciano nel 1556.

Il Galateo

 Pontormo, Ritratto di monsignor Giovanni Della Casa, 1540-1543. Washington, National Gallery.

Autore di pregevoli rime di modello petrarchesco, Della Casa è noto soprattutto per il Galateo, trattato in cui, fingendosi un anziano e illetterato maestro, rivolge a un giovane insegnamenti di buone maniere ispirati da una saggezza concreta che considera il senso della misura fondamento della vita associata: i modi piacevoli infatti attirano sempre la benevolenza altrui. Il rapporto precettore-allievo conferisce agli insegnamenti affabili toni colloquiali. Il titolo dell’opera, diventato poi il sostantivo con cui si individuano le regole della buona educazione, è modellato sul nome dell’amico Galeazzo (in latino Galatheus) Florimonte, vescovo di Sessa, che avrebbe insistito per la sua realizzazione. La pubblicazione avviene nel 1558, due anni dopo la morte dell’autore e trent’anni dopo la pubblicazione del Cortegiano di Castiglione: tra le due opere ci sono state le guerre d’Italia e la perdita di autonomia delle corti italiane, che si riflette nella sostanziale superficialità del Galateo, concentrato solo sui comportamenti esteriori del gentiluomo e lontanissimo dalle preoccupazioni etico-morali che animavano il quarto libro del Cortegiano. In ogni caso, il successo dell’opera come manuale di comportamento in società è garantito: trent’anni dopo la pubblicazione è già attestato l’uso di “galateo” nell’accezione di “elenco di buone maniere” che dura fino a oggi. I testi del Galateo sono tratti dall’edizione a cura di C. Milanini, Milano, BUR, 2011

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Dei comportamenti stomachevoli Galateo, III

Le buone maniere di cui Della Casa si fa maestro comprendono anche gesti legati a una quotidianità spicciola, talvolta automatismi, come il cantarellare pur essendo stonati, che l’etichetta, o meglio il decoro, censura. L’attenzione per aspetti semplici, bassi, del vivere, insieme ai toni coloriti della trattazione costituisce motivo di grande interesse e ne segna la distanza rispetto all’opera di Castiglione.


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L’età del Rinascimento

GUIDA ALLA LETTURA Regole davvero di base

Non bisogna attrarre l’attenzione dei compagni sulle schifezze per la strada, men che meno raccoglierle e fiutarle invitando gli altri a imitarci; allo stesso modo va evitato ogni rumore molesto, che possa offendere l’udito degli astanti, dal fischio al canto stonato e gracchiante, allo sfregare il ferro (come l’unghia sulla lavagna), al colpo di tosse non protetto, allo sbadiglio sguaiato: Della Casa descrive con l’efficacia del crudo realismo un mondo di sensi offesi, l’udito soprattutto, e di educazione ancora tutta da elaborare. Nella parte centrale del testo, poi, lo sbadiglio diventa qualcosa di più di un gesto scomposto ed esteticamente sconveniente: è anche lo spiacevole segno che la compagnia ci annoia e, ancor peggio, che siamo poco attenti a quanto ci circonda e, se continuiamo a mostrarci così, forse resteremo soli. Le buone maniere sono il passepartout per una socialità amabile, degna: ciò che è contrario all’estetica, nega anche l’etica. Della Casa, cultore dell’ideale ciceroniano del decorum, ha in mente un uomo consapevole dei limiti che il buon gusto di base impone ai comportamenti, impegnato a non valicarli. L’ultima parte del testo riprende la raffigurazione icastica di certe pessime abitudini, alcune delle quali

retaggio di consuetudini infantili, come l’osservare con interesse bramoso il moccio quasi che vi si possano trovare perle, altre tipiche della familiarità conviviale, come condividere il cibo già sbocconcellato.

I modelli e lo stile

Se la riflessione sul decorum del De officiis ciceroniano è a fondamento dell’ideale di comportamento individuale e collettivo auspicato dall’autore, nel passo si legge anche la citazione di un altro scrittore amato da Della Casa, Giovanni Boccaccio, modello per la stesura di alcune novelle esemplari che corredano i precetti del trattato. Qui lo scrittore trecentesco è citato per Il Corbaccio, opera misogina dell’età matura, utilizzata in questo caso per mostrare gli effetti di comportamenti ripugnanti: anche chi ci ama smetterà di farlo vedendoci sputazzare catarro. La trattazione procede per sequenze di negazioni, mentre raramente si esplicitano le conseguenze positive dell’ossequio alle buone maniere; la lingua è caratterizzata da vivace espressività, ottenuta anche dall’uso di vocaboli dialettali (moccichino, farfalloni) e dai toni colloquiali; la chiusa sentenziosa scarta rispetto ai contenuti del passo offrendo alla riflessione un monito di più ampio respiro.

LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi

1. Si può affermare che nel passo sono presenti due tipologie di comportamenti individuati in base al maggior danno recato ad altri? Motiva la tua risposta. 2. Quali figure retoriche vengono utilizzate per rendere il linguaggio fortemente espressivo? 3. Con quale aggettivo definiresti l’espressione come se perle o rubini ti dovessero esser discesi dal cièlabro: comica, ironica, satirica, sarcastica? Motiva la tua scelta. 4. In generale, nel passo, quale tra i toni precedentemente indicati ti sembra prevalere? Motiva la risposta con riferimenti al testo. 5. Commenta la sentenza conclusiva: quale significato ulteriore le si può attribuire? 6. Il linguaggio usato da Della Casa utilizza diversi registri non uniformandosi al modello letterario di Bembo. Per quale motivo, secondo te?

Interpretazione e scrittura

7. L’accenno al cantante stonato che, convinto delle proprie doti, strazia le orecchie altrui e riesce fastidioso e ridicolo, richiama alla mente il comportamento di molti partecipanti ai talent show dei nostri tempi o altre forme di esibizione di sé che i media diffondono e che si contrappongono all’ideale di “decoro” coltivato da Della Casa. Quali sono, a parer tuo, le cause di questi costumi? Quale emozione suscita in te il “cattivo gusto”? Rifletti sul tema in uno scritto di una pagina.

EDUCAZIONE CIVICA 8. La recente diffusione della pandemia da Covid-19 ha reso necessari nuovi comportamenti che da semplici norme di buona educazione sono diventati presidi di sicurezza individuale. Riprendi le situazioni del testo che più richiamano norme di igiene personale e pubblica e trasformale in un testo regolativo a cui ispirare la tua condotta e quella dei tuoi coetanei.

AGENDA

2030


3 La cultura cinquecentesca e le sue voci ■ 2  La questione della lingua

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L’ITALIANO, UNA LINGUA IN DIVENIRE

el saggio in cui celebra la bellezza della nostra lingua, nata ben prima che l’Italia esistesse come Stato, e constata il preoccupante impoverimento delle condizioni d’uso, Claudio Marazzini (Torino, 1949), presidente

dell’Accademia della Crusca, riflette sulle origini del nostro idioma, sulla sua radice letteraria e, per questo, sulla sua natura di lingua colta.

Dare regole alla lingua

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Italiano lingua troppo colta L’italiano è una lingua colta, molto colta, forse anche troppo, che contiene molto latino e che con il latino ha dovuto sempre fare i conti. Da una parte si può dire che l’italiano si sia affermato sottraendo spazio al latino, e in questo senso si potrebbe pensare a una sorta di conflitto permanente tra la vecchia lingua e la nuova lingua. Di questo conflitto parla anche Dante nel Convivio, quando dice che l’italiano è il sole nuovo che deve sorgere là dove il vecchio sole, il latino, deve tramontare; ma sarebbe riduttivo vedere in questo scontro tra vecchio e nuovo il senso più profondo dei rapporti tra italiano e latino, perché l’italiano ha tratto dal latino molta forza, ne ha ricevuto una formidabile lezione per la crescita. Il latino ha fatto sì che l’italiano-bambino fosse già quasi adulto in un tempo molto breve. Infatti chi usava il volgare vi portava lessico latino, ne riproduceva strutture sintattiche complesse e ricche. Era un travaso quasi inevitabile, perché le persone che utilizzavano l’italiano, benché fossero abituate a comunicare quotidianamente nel loro dialetto locale, avevano in comune soprattutto una cosa (oltre all’interesse per Dante, Petrarca e Boccaccio): condividevano la conoscenza del latino, la lingua che usavano quotidianamente per scrivere. Costoro non usavano il latino solo in quanto letterati: potevano essere notai, giuristi, funzionari, diplomatici, cancellieri di corte. Si consideri ora un altro elemento decisivo: tutti coloro che, dal tempo di Dante fino alla fine del Quattrocento, tentavano di usare l’italiano, non avevano comunque a disposizione strumenti normativi a cui far riferimento. Ciò significa che gli utenti della lingua italiana dovevano scrivere arrangiandosi da soli, senza disporre di mezzi di controllo, che invece per noi uomini moderni sono sempre a portata di mano: la grammatica e il dizionario, ora persino in Rete e usando il telefonino. Allora le grammatiche e i dizionari non esistevano ancora. Esistevano grammatiche del latino, esistevano vocabolari di latino, ma non c’erano le grammatiche dell’italiano e i vocabolari dell’italiano. Questi strumenti normativi furono creati nel Cinquecento, e soltanto a partire da allora si diffusero. La prima grammatica italiana fu stampata nel 15161, e la seconda, quella di Bembo (il Grande Regolatore della nostra lingua) fu pubblicata nel 15252. Un’arte difficile: arrangiarsi senza strumenti normativi Non dobbiamo sottovalutare, noi uomini del XXI secolo, le condizioni difficili in cui si trovava uno scrivente italiano del Quattrocento e dell’inizio del Cinquecento, un qualunque nostro antenato del XV o XVI secolo: oggi per noi è facile controllare il significato di una parola, la sua grafia corretta, la forma di un verbo irregolare. Non ci occorre nemmeno aprire un libro, come avremmo dovuto fare ancora una decina di anni fa: ora ci basta digitare la parola dubbia sullo smartphone, sul tablet, sul pc, e i suggerimenti fioccano abbondanti (forse non tutti perfettamente corretti: ma in genere la sostanza si riesce a raggiungere). Quei nostri antenati, invece, dovevano arrangiarsi senza mezzi. [...] Finalmente, all’inizio del Cinquecento, qualcuno seppe dotare il volgare italiano di una grammatica, cioè di uno strumento normativo consultabile, da cui si potessero ricavare le regole

1 La prima… 1516: il riferimento è alle Regole grammaticali della volgar lingua pubblicate dal giurista Gian Francesco Fortunio

ad Ancona nel 1516. 2 la seconda… 1525: il riferimento riguarda i contenuti del terzo libro delle Prose della

volgar lingua, che contiene una trattazione delle principali regole grammaticali per il volgare.


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Il Quattrocento

DAL PASSATO AL PRESENTE  L’uomo artefice della propria sorte

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a cultura umanistica esalta l’idea dell’uomo faber fortunae suae, artefice della propria sorte, capace di reagire alle difficoltà, visionario ma anche capace di esprimere in atti concreti la creatività propria dell’essere umano. Il testo di Leon Battista Alberti (T4) affronta il tema del rapporto tra virtù e fortuna attraverso la lente di ingrandimento dei classici e sbilancia il rapporto a tutto vantaggio del libero arbitrio umano: gli uomini prudenti, saggi, capaci di gestire con equilibrio le proprie sostanze, sono in grado di opporsi, o almeno contenere, le bizzarrie della fortuna. Spetta dunque ad Alberti il merito di aver impostato un tema cruciale dell’Umanesimo e del Rinascimento, quello del rapporto fra casualità della fortuna e “virtù” del libero arbitrio, su cui si incentrerà la riflessione dei maggiori autori del Cinquecento, come Ariosto, Machiavelli e Guicciardini. Il modello dell’uomo “che si fa da sé” ispira, a secoli di distanza, anche il discorso che Steve Jobs, fondatore di Apple, Next e Pixar, marchi tra i più conosciuti

DAL PASSATO AL PRESENTE

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e profittevoli del mondo, ha pronunciato all’Università di Stanford (L1). Jobs condivide con i laureandi tre episodi che hanno segnato il suo percorso biografico e lavorativo, dai quali emerge una straordinaria resilienza di fronte

agli ostacoli della vita, l’importanza della fiducia in sé stessi e nelle possibilità del futuro, e il contributo fondamentale della passione come punto fermo del proprio essere, in cui trovare conforto e motivazione per andare avanti.

 Filippino Lippi, Ritratto di ragazzo, 1485. Washington, National Gallery.  Hans Holbein, Ritratto del mercante Georg Giese, 1532. Berlino, Gemaldegalerie.

Leon Battista Alberti, Virtù e fortuna Della famiglia, Prologo

> Trattato

Nel prologo del trattato Della Famiglia l’autore riflette sulla portata di virtù e fortuna nei fatti umani sottolineando l’importanza della prima per arginare gli effetti negativi della seconda: muovendo dalla constatazione della crisi di tante famiglie un tempo onorevoli e famose, Alberti ragiona sulle motivazioni del declino ricorrendo per la trattazione alle figure e agli eventi dell’antichità.

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Repetendo a memoria quanto per le antique istorie e per ricordanza de’ nostri vecchi insieme, e quanto potemmo a’ nostri giorni come altrove così in Italia vedere non poche famiglie solere felicissime essere e gloriosissime, le quali ora sono mancate e spente1, solea spesso fra me maravigliarmi e dolermi se tanto valesse contro agli uomini la fortuna essere iniqua e maligna2, e se così a lei fosse con volubilità e temerità sua licito3 famiglie ben copiose d’uomini virtuosissimi, abun-

1 mancate e spente: venute meno. 2 se tanto valesse… maligna: se la fortuna avesse tanta capacità di essere ingiusta e malvagia.

3 e se così… licito: e se così le fosse lecito per mezzo della sua volubilità e della sua audacia.


1 La cultura quattrocentesca e le sue voci ■ 1  L’uomo al centro: l’Umanesimo

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AGENDA

2030

DAL PASSATO AL PRESENTE

 Immagini che ritraggono Steve Jobs in una pubblicità della Apple degli anni Ottanta, con un computer Mac nel 1984 e sulla copertina del «Time» nel 2010. Dhaval Katrodiya; Norman Seeff; Time Magazine.  Lorenzo Lotto, Ritratto maschile, 1534. Cleveland, Museum of Art.

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dante4 delle preziose e care cose e desiderate da’ mortali, ornate di molta dignità, fama, laude, autoritate e grazia, dismetterle5 d’ogni felicità, porle in povertà, solitudine e miseria, e da molto numero de’ padri ridurle a pochissimi nepoti, e da ismisurate ricchezze in summa necessità6, e da chiarissimo splendore di gloria somergerle in tanta calamità, averle abiette7, gittate in tenebre e tempestose avversità. Ah! quante si veggono oggi famiglie cadute e ruinate! Né sarebbe da annumerare o racontare quali e quante siano simili a’ Fabii, Decii, Drusii, Gracchi e Marcelli8, e agli altri nobilissimi apo gli antichi9, così nella nostra terra assai state per lo ben publico a mantener la libertà, a conservare l’autorità e dignità della patria in pace e in guerra, modestissime, prudentissime, fortissime famiglie, e tali che dagl’inimici erano temute, e dagli amici sentiano sé essere amate e reverite. Delle quali tutte famiglie non solo la magnificenza e amplitudine, ma gli uomini, né solo gli uomini sono scemati e disminuiti10, ma piú el nome stesso, la memoria di loro, ogni ricordo quasi in tutto si truova casso e anullato11 .

4 abundante: ricche, riferito alle famiglie. 5 dismetterle: privarle. 6 in summa necessità: in condizioni di estrema miseria. 7 averle abiette: averle private di ogni gloria. 8 a’ Fabii… Marcelli: nobili e celebrate famiglie dell’antica Roma.

9 apo gli antichi: presso gli antichi (dal latino apud, “presso”). 10 sono scemati e disminuiti: si sono ridotti in numero e hanno perso fama di virtù. 11 casso e anullato: distrutto e annullato.


Il Quattrocento

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“Siate affamati. Siate folli”, il discorso di Jobs alla Stanford University Steve Jobs, «Il foglio», 6 ottobre 2011

> Discorso Il 12 giugno 2005 Steve Jobs (San Francisco, 1955 - Palo Alto, 2011), genio informatico, cofondatore della Apple Computer, creatore dell’Ipod e dell’Iphone, tiene un discorso ai laureandi dell’Università californiana di Stanford, una delle più prestigiose degli Stati Uniti, proponendo loro alcune riflessioni sulla vita come fonte di ispirazione per il futuro. Egli non può sapere che quelle parole sono destinate a diventare il suo testamento spirituale e che la chiusa, Be hungry, be foolish, assumerà la forza di un imperativo ricco di suggestione per i giovani di ogni Paese della terra.

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Sono onorato di essere qui con voi oggi, nel giorno della vostra laurea presso una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. A dir la verità, questa è l’occasione in cui mi sono di più avvicinato a un conferimento di titolo accademico. Oggi voglio raccontarvi tre episodi della mia vita. Tutto qui, nulla di speciale. Solo tre storie.

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La prima storia parla di “unire i puntini”. Ho abbandonato gli studi al Reed College1 dopo sei mesi, ma vi sono rimasto come imbucato per altri diciotto mesi, prima di lasciarlo definitivamente. Allora perché ho smesso? Tutto è cominciato prima che io nascessi. La mia madre biologica era laureanda ma ragazza-madre, decise perciò di darmi in adozione. Desiderava ardentemente che io fossi adottato da laureati, così tutto fu approntato affinché ciò avvenisse alla mia nascita da parte di un avvocato e di sua moglie. All’ultimo minuto, appena nato, questi ultimi decisero che avrebbero preferito una femminuccia. Così quelli che poi sarebbero diventati i miei “veri” genitori, che allora si trovavano in una lista d’attesa per l’adozione, furono chiamati nel bel mezzo della notte e venne chiesto loro: “Abbiamo un bimbo, un maschietto, ‘non previsto’; volete adottarlo?”. Risposero: “Certamente”. La mia madre biologica venne a sapere successivamente che mia mamma non aveva mai ottenuto la laurea e che mio padre non si era mai diplomato: per questo si rifiutò di firmare i documenti definitivi per l’adozione. Tornò sulla sua decisione solo qualche mese dopo, quando i miei genitori adottivi le promisero che un giorno sarei andato all’università. Infine, diciassette anni dopo ci andai. Ingenuamente scelsi un’università che era costosa quanto Stanford, così tutti i risparmi dei miei genitori sarebbero stati spesi per la mia istruzione accademica. Dopo sei mesi, non riuscivo a comprenderne il valore: non avevo idea di cosa avrei fatto nella mia vita e non avevo idea di come l’università mi avrebbe aiutato a scoprirlo. Inoltre, come ho detto, stavo spendendo i soldi che i miei genitori avevano risparmiato per tutta la vita, così decisi di abbandonare, avendo fiducia che tutto sarebbe andato bene lo stesso. Ok, ero piuttosto terrorizzato all’epoca, ma guardandomi indietro credo sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Nell’istante in cui abbandonai potei smettere di assistere alle lezioni obbligatorie e cominciai a seguire quelle che mi sembravano interessanti. Non era tutto così romantico al tempo. Non avevo una stanza nel dormitorio, perciò dormivo sul pavimento delle camere dei miei amici; portavo indietro i vuoti delle bottiglie di coca-cola per raccogliere quei cinque cent di deposito che mi avrebbero permesso di comprarmi da mangiare; ogni domenica camminavo per sette miglia attraverso la città per avere l’unico pasto decente nella settimana presso il tempio Hare Krishna2. Ma mi piaceva. Gran parte delle cose che trovai sulla mia strada per caso o grazie all’intuizione in quel periodo si sono rivelate inestimabili più 1 Reed College: istituto universitario in Oregon.

2 Hare Krishna: movimento religioso che trae origine dall’Induismo.


1 La cultura quattrocentesca e le sue voci ■ 1  L’uomo al centro: l’Umanesimo 115

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Siate affamati. Siate folli. (S. Jobs, “Siate affamati. Siate folli”, il discorso di Jobs alla Stanford University, «Il foglio», 6 ottobre 2011) 9 “The whole Earth catalog”: il “Catalogo dell’intero pianeta” fu una pubblicazione ideata nel 1968 da Stewart Brand per fornire informazioni su strumenti di lavoro e

libri utili per svariate attività, acquistabili poi per posta. Jobs lo definisce una specie di Google formato volume.

PER COMPRENDERE IL TESTO 1. Si può affermare che Steve Jobs offra un esempio di uomo di successo che si è “costruito da solo”? Motiva la tua risposta. 2. Quali sono gli argomenti fondamentali delle tre storie che scandiscono il discorso? 3. Perché Jobs frequenta un corso di calligrafia? Quale conseguenza avrà questa scelta sulle sue attività future? 4. Per quale ragione egli viene estromesso da Apple? 5. Quali aspetti del carattere sostengono Jobs nell’affrontare le difficoltà? 6. Quale rapporto con la morte emerge dal discorso? 7. Da dove deriva la massima Siate affamati. Siate folli? A quale tipo di fame e di follia allude Jobs?

DAL PASSATO AL PRESENTE  Riflettiamo sul percorso  EDUCAZIONE CIVICA Quali suggestioni rispetto al futuro hai ricavato dalla lettura di questi testi? Su quali aspetti del tuo carattere pensi di dover lavorare di più per costruire e realizzare i tuoi progetti?

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Questa è stata la volta in cui mi sono trovato più vicino alla morte, e spero lo sia per molti decenni ancora. Essendoci passato, posso dirvi ora qualcosa con maggiore certezza rispetto a quando la morte per me era solo un puro concetto intellettuale. Nessuno vuole morire. Anche le persone che desiderano andare in paradiso non voglion morire per andarci. E nonostante tutto la morte rappresenta l’unica destinazione che noi tutti condividiamo, nessuno è mai sfuggito ad essa. Questo perché è come dovrebbe essere: la morte è la migliore invenzione della vita. È l’agente di cambio della vita: fa piazza pulita del vecchio per aprire la strada al nuovo. Ora come ora “il nuovo” siete voi, ma un giorno non troppo lontano da oggi, gradualmente diventerete “il vecchio” e sarete messi da parte. Mi dispiace essere così drammatico, ma è pressappoco la verità. Il vostro tempo è limitato, perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra voce interiore. E, ancora più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione: loro vi guideranno in qualche modo nel conoscere cosa veramente vorrete diventare. Tutto il resto è secondario. Quando ero giovane, c’era una pubblicazione splendida che si chiamava “The whole Earth catalog”9, che è stata una delle bibbie della mia generazione. Fu creata da Steward Brand, non molto distante da qui, a Menlo Park, e costui apportò ad essa il suo senso poetico della vita. Era la fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer, ed era fatto tutto con le macchine da scrivere, le forbici e le fotocamere polaroid: era una specie di Google formato volume, trentacinque anni prima che Google venisse fuori. Era idealista, e pieno di concetti chiari e nozioni speciali. Steward e il suo team pubblicarono diversi numeri di “The whole Earth catalog”, e quando concluse il suo tempo, fecero uscire il numero finale. Era la metà degli anni Settanta e io avevo pressappoco la vostra età. Nella quarta di copertina del numero finale c’era una fotografia di una strada di campagna nel primo mattino, del tipo che potete trovare facendo autostop se siete dei tipi così avventurosi. Sotto, le seguenti parole: “Siate affamati. Siate folli”. Era il loro addio, e ho sperato sempre questo per me. Ora, nel giorno della vostra laurea, pronti nel cominciare una nuova avventura, auguro questo a voi.

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L’età del Rinascimento

ATMOSFERE MAGICHE ALLA CORTE DEGLI ESTENSI  Dosso Dossi, Melissa, 1518. Roma, Galleria Borghese.

 Un molosso in un particolare dell’opera.  Quattro fantocci in un particolare dell’opera.  Una cittadella in un particolare dell’opera.

Lo SGUARDO dell’ARTE

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ei primi anni Dieci del Cinquecento, nel ricco e vivace ambiente della corte di Ferrara operavano, oltre ad Ariosto, molti altri letterati e artisti; tra questi ultimi, già dal 1513 è documentata la presenza di Giovanni Francesco di Niccolò Luteri, noto come Dosso Dossi, pittore di origine mantovana (San Giovanni del Dosso, 1486 ca.), che lega tuttavia il proprio nome e una consistente attività personale alla città estense, dove morirà nel 1542, nove anni dopo Ariosto. Amico del poeta e certamente, in quanto cortigiano di Alfonso I, tra i primi lettori del Furioso, Dossi ha lasciato il primo dipinto dell’arte italiana di soggetto ariostesco che si conosca, una Melissa, che si trova ora alla Galleria Borghese di Roma, perché venduta all’inizio del Seicento dagli eredi degli Estensi al cardinale Scipione Borghese per la sua collezione privata. Il quadro, di controversa datazione, sembra risalire con buona approssimazione al 1518, cioè all’epoca immediatamente successiva alla prima edizione del Furioso, ed esprime efficacemente l’atmosfera di un ambiente molto colto e raffinato, amante del lusso, delle arti, di una letteratura che suscitava piacere, incline a una visione laica ed edonistica del vivere; il dipinto, senza dubbio visto anche da Ario-

sto, attesterebbe inoltre il successo di cui godette il poema all’indomani della sua prima pubblicazione. Seduta in una sorta di piccola radura di un bosco, al centro di un paesaggio rigoglioso, ricco di dettagli e scorci, il dipinto mostra una donna giovane e bella, vestita con abiti di foggia orientale: un turbante dorato sul capo, una veste di seta blu impreziosita da una mantella rossa, un sontuoso tappeto riccamente decorato appoggiato sulle gambe. La donna si trova al centro di un cerchio disegnato sul terreno, istoriato con caratteri della cabala, cioè l’arte della divinazione ebraica; con la mano sinistra accende una torcia da un braciere a terra, mentre con la destra regge una tavola con formule o, forse, ancora caratteri cabalistici, tutti elementi che rimandano alla cultura esoterica. Intorno alla figura femminile e alle sue spalle si distende una natura varia, con alberi, fiori, piante di specie diverse, che va ad aprirsi sul fondo dove, rischiarata da una luce spezzata, sotto un cielo in parte sereno in parte nuvoloso, si scorge una cittadella turrita. In primo piano a sinistra della donna alcuni particolari inconsueti destano curiosità: un molosso dallo sguardo denso di umanità rivolto verso l’osservatore, due uccelli, un’armatura lucente e, appesi a un albero, quattro fantocci dall’a-


6 Ludovico Ariosto ■ 4  L’ Orlando Furioso

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Lo SGUARDO dell’ARTE

spetto di uomini. Tutti questi dettagli inducono a ritenere la donna un’esperta di magia, ma se in un primo momento si è provato a identificarla con la Circe dell’Odissea, la maga che trasformava gli uomini in maiali, già dall’inizio del Novecento ci si è orientati sul personaggio di Melissa, benefica incantatrice del Furioso. È Melissa che rivela a Bradamante il suo futuro di progenitrice della dinastia estense, mostra a Ruggiero sedotto da Alcina il volto malevolo e infido della maga, e fa in modo che il guerriero torni alla fedeltà nei confronti di Bradamante; è lei infine che scioglie l’incantesimo con cui Alcina ha trasformato paladini cristiani e guerrieri saraceni in alberi e animali. Proprio a tale vicenda si riferirebbero dunque i volatili, il cane dallo sguardo umano e i pupazzi appesi all’albero, presenti nel dipinto, e forse anche i tre giovani nobili sullo sfondo, come personaggi che, liberati dall’incantesimo, hanno appena ripreso la forma umana. L’identificazione con Melissa appare plausibile inoltre per il fatto che la maga buona incrocia la linea specificamente ferrarese del poema attraverso la storia del capostipite della dinastia estense di cui favorisce il ravvedimento, e tutto fa pensare che per questo motivo Alfonso I sia stato il committente del dipinto. Il personaggio di Melissa era già noto nel mondo classico come ninfa che nutrì Giove bambino con il miele (il suo nome significa infatti “ape” in greco) e come sacerdotessa dei misteri di Cerere. Ariosto, riprendendone il tratto benefico, nel terzo canto del poema istituzionalizza il ruolo centrale della maga in rapporto al tema encomiastico, nel momento in cui Melissa preannuncia a Bradamante una lunga e gloriosa discendenza: «L’antiquo sangue che venne da Troia, / per li duo miglior rivi in te commisto, / produrrà l’ornamento, il fior, la gioia / d’ogni lignaggio ch’abbi il sol mai visto / tra l’Indo e ’l Tago e ’l Nilo e la Danoia, / tra quanto è ’n mezzo Antartico e Calisto. / Ne la progenie tua con sommi onori saran marchesi, duci e imperatori» (III, 17).  Giorgione, Concerto campestre, 1510. Parigi, Musee du Louvre.

Una radiografia del quadro effettuata una ventina d’anni or sono, ha evidenziato un pentimento del pittore che in un primo momento aveva posto accanto alla donna un guerriero dal volto femmineo, probabile allusione a Bradamante. Dossi in questo dipinto non ha voluto illustrare una singola vicenda del Furioso, ma ha operato una sorta di sintesi degli episodi del poema in cui la maga Melissa è coinvolta, costruendone un’immagine fortemente allusiva: nel quadro si sommano infatti una serie di elementi fantastici in un contesto suggestivo e sereno, in cui anche il particolare dei tre uomini che si intrattengono in conversazione sul prato alle spalle della maga, citazione colta del Concerto di Giorgione, pittore veneziano molto importante per la formazione di Dossi, conferisce un supplemento di amabile mistero al contesto. I colori caldi, il paesaggio mosso, la ricca vegetazione, dati molto frequenti nei quadri dell’artista, restituiscono un’atmosfera magica e richiamano le parole con cui il critico statunitense Bernard Berenson qualificava l’arte di questo pittore: «Le sue figure vivono di passione e di mistero. Non bisogna tornar troppo a lungo o troppo spesso a queste pitture; ma per un istante, guardandole, si respira l’aria del paese delle fate».


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Il Duecento

UNO SGUARDO AL NOVECENTO ... e OLTRE La dizione leggera e piana degli stilnovisti, e in particolare di Cavalcanti nella ballata Perch’i’ no spero di tornar giammai, ha ispirato nel Novecento un poeta come Giorgio Caproni, che in netto contrasto con la tendenza all’oscurità di tanta poesia contemporanea ha sempre prediletto una forma chiara e ariosa.

UNO SGUARDO AL NOVECENTO ... e OLTRE

Giorgio Caproni, Preghiera LA VITA E LE OPERE  Giorgio Caproni nasce a Livorno il 7 gennaio 1912. Nel 1922 si trasferisce a Genova dove il padre, ragioniere, è stato assunto in un’industria conserviera. A Genova Caproni si iscrive alla scuola magistrale e studia violino e composizione musicale, poi frequenta a Torino l’Istituto Magistrale. Nel 1933 pubblica le prime poesie su due riviste letterarie, mentre nel 1936 esce, presso un editore genovese, la sua prima breve raccolta poetica Come un’allegoria, ispirata alla morte della fidanzata Olga Franzoni. Intanto, nel 1935 ha iniziato a lavorare come maestro elementare a Loco di Rovegno, in una valle dell’entroterra genovese, dove si trasferisce. Il 1938 è per il poeta fitto di avvenimenti: esce la seconda raccolta, Ballo a Fontanigorda, sposa Rosa (Rina) Rettagliata e si trasferisce a Roma. Durante la Seconda guerra mondiale viene richiamato alle armi, tuttavia pubblica due raccolte, Finzioni (1941) e Cronistoria (1943). L’8 settembre del 1943, giorno dell’armistizio, Caproni è in congedo a Loco di Rovegno e si unisce alle milizie partigiane. Nel 1945 ritorna a Roma, dove affianca all’insegnamento il lavoro di traduttore, la collaborazione con riviste e periodici e l’attività poetica. Nel 1956 esce la raccolta Il passaggio di Enea, titolo ispirato a una statua collocata in una piazza genovese, in cui il riferimento all’eroe virgiliano è assunto a simbolo della transizione fra un passato tragico (il secondo conflitto mondiale, rappresentato dal vecchio padre Anchise) e un futuro dai contorni incerti, incarnato dal figlio Ascanio. Tre anni dopo Caproni pubblica Il seme del piangere, che nasce dal bisogno di elaborare il lutto per la morte della madre, cui seguono diverse altre raccolte. Nel 1986 viene pubblicata la prima silloge integrale dei versi caproniani. Il poeta muore a Roma nel gennaio 1990 e viene sepolto nel cimitero di Loco di Rovegno. LA POETICA  La poesia di Giorgio Caproni è caratterizzata da un profondo e inquieto scavo interiore e da un’intensa materia autobiografica, restituiti con uno stile semplice e scelte lessicali per lo più vicine alla lingua del quotidiano, in nome di una concretezza che prende le distanze dalla linea dominante nella poesia del Novecento, distinta invece da ardue ricerche lessicali o ardite sperimentazioni. Fra i temi centrali della sua produzione si riconoscono l’amore per la città natale, Livorno, e per quella d’adozione, Genova, la figura materna e il viaggio inteso come allegoria dell’esistenza umana. IL TESTO  Preghiera apre la raccolta Il seme del piangere, che deve il titolo a un verso del Purgatorio dantesco (XXXI, 46) in cui Beatrice, figura salvifica, invita il poeta a deporre appunto il seme del piangere, cioè a dimenticare la causa del dolore che ha spinto Dante al pianto. Nel componimento qui proposto, il poeta si rivolge alla propria anima perché vada alla disperata ricerca della madre, ricordata giovinetta nella città natale.

 Giorgio Caproni.


3  Il dolce Stilnovo ■ I caratteri di una nuova poesia

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METRICA Tre strofe in prevalenza di settenari con rime baciate e assonanze.

Anima mia leggera1, 5

va a Livorno, ti prego. E con la tua candela timida, di nottetempo2 fa’ un giro; e, se n’hai il tempo, perlustra e scruta, e scrivi se per caso Anna Picchi3 è ancor viva tra i vivi.

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Proprio quest’oggi torno, deluso, da Livorno. Ma tu4 tanto più netta5 di me, la camicetta ricorderai, e il rubino di sangue sul serpentino6 d’oro che lei portava sul petto, dove s’appannava 7.

Anima mia, sii brava e va’ in cerca di lei. Tu sai cosa darei se la incontrassi per strada. (G. Caproni, L’opera in versi, Milano, Mondadori, 1998)

1 leggera: equivale a “con leggerezza”. 2 di nottetempo: di notte. 3 Anna Picchi: la madre viene citata con il cognome da ragazza. 4 tu: è rivolto all’anima del poeta.

5 netta: chiara. 6 il rubino... serpentino: un gioiello a forma di serpente, con un rubino color rosso sangue. 7 s’appannava: per il calore del petto.

GUIDA ALLA LETTURA In Preghiera Caproni rievoca la figura materna, la cui assenza genera malinconia e rimpianto. Come in altre poesie a lei dedicate, anche qui la madre scomparsa è ricordata negli anni della giovinezza, con il nome e il cognome da nubile e, per il resto, con poche pennellate che ne mettono a fuoco solo due particolari: la camicetta e un gioiello con un rubino rosso sangue a forma di serpente che la donna portava sul petto e conferisce l’unico tono di colore vivace a un componimento intriso di nostalgia. Il poeta, che è appena tornato (Proprio quest’oggi, v. 9) da un viaggio nella città natale, non si rassegna alla mancanza della madre e prega la propria anima di andare a Livorno e di perlustrare la città in ogni suo angolo (perlustra e scruta, v. 6; in cerca di lei, v. 17). Il lacerante desiderio di rivederla ancora una volta è affidato al distico finale: solo l’anima del poeta sa cosa egli darebbe per poter incontrare la madre viva tra i vivi (v. 8), per strada (v. 19), in una situazione

di quotidianità tanto desiderata quanto irrimediabilmente preclusa. La lirica di Caproni si innesta sotto diversi aspetti sul modello della ballata di Cavalcanti Perch’i’ no spero di tornar giammai. Con il componimento del poeta duecentesco Preghiera condivide innanzitutto il motivo dell’apostrofe all’anima perché si rechi lontano, in cerca di una persona cara: Cavalcanti affida prima alla ballatetta, poi alla propria anima, un messaggio per la donna amata, allo stesso modo Caproni invita l’anima a cercare nella città natale la madre, che non è più di questo mondo. Il modello cavalcantiano è poi ben presente nelle scelte lessicali (Anima, leggera, va’, Tu) e nella metrica: Caproni ricorre infatti a frequenti settenari, come settenari sono i versi della seconda parte di ogni stanza della ballata di Cavalcanti. Infine, ad accomunare le due poesie è il tono malinconico che pervade i versi.

UNO SGUARDO AL NOVECENTO ... e OLTRE


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Il Duecento

LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi

1. Con quale tono il poeta si rivolge alla propria anima? 2. Perché il poeta ritorna da Livorno deluso? 3. Quale carattere della madre sottolinea Caproni? 4. Da quale passaggio del testo si deduce che il poeta descrive la madre da giovane? 5. Quale figura retorica compare al verso 8? 6. Quali figure retoriche compaiono ai versi 12-13? 7. Considera il lessico: quale registro prevale? Rispondi con opportuni riferimenti al testo. 8. Quale tipo di versi prevale nella lirica? a. ■ Senari. c. ■ Ottonari. b. ■ Settenari. d. ■ Novenari. 9. Quale tipo di rime prevale nel componimento? a. ■  Alternate e incatenate. c. ■  Baciate e incrociate. b. ■  Baciate e incatenate. d. ■  Alternate e baciate.

CONFRONTIAMO I TESTI 10. Ti viene proposto un altro componimento di Caproni dedicato alla madre. Leggilo, rispondi alle domande e poi confrontalo con Preghiera in un testo di circa quindici righe.

UNO SGUARDO AL NOVECENTO ... e OLTRE

Giorgio Caproni, La gente se l’additava

5 10

Non c’era in tutta Livorno un’altra di lei più brava in bianco, o in orlo a giorno. La gente se l’additava vedendola, e se si voltava anche lei a salutare, il petto le si gonfiava timido, e le si riabbassava, quieto nel suo tumultuare come il sospiro del mare.

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Era una personcina schietta e un poco fiera (un poco magra), ma dolce e viva nei suoi slanci; e priva com’era di vanagloria ma non di puntiglio, andava per la maggiore a Livorno come vorrei che intorno andassi tu, canzonetta:

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che sembri scritta per gioco e lo sei piangendo: e con fuoco. (G. Caproni, L’opera in versi, Milano, Mondadori, 1998)

a. Quale attività svolge la madre del poeta? b. Quali tratti fisici della donna vengono sottolineati? c. Quali aspetti del carattere vengono messi a fuoco? d. A chi si rivolge il poeta? e. Con quale stato d’animo l’autore ha composto la poesia? 11. Cerca in rete il testo di Ultima preghiera, altra poesia de Il seme del piangere, e confrontala con Preghiera realizzando un prodotto digitale a tua scelta (una presentazione multimediale, un audio, un video...), mettendone in evidenza affinità contenutistiche e stilistico-formali.


Il Trecento 362

L

CONNESSIONI  Le Confessioni di Agostino come archetipo dell’indagine di sé

a guida spirituale di Francesco Petrarca è l’uomo dal “cuore inquieto”, che arriva alla fede dopo un itinerario di irrequieta sofferenza e di progressive conquiste spirituali, e in Dio trova finalmente la pace. Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te («Il nostro cuore non trova pace fino a quando non riposa in te»): con queste parole si aprono le Confessioni, diario dei fatti di una vita e insieme degli eventi e dell’evoluzione di uno spirito. La vita di Agostino Agostino, nato a Tagaste nel 354 in Numidia, l’attuale Algeria, allora provincia romana, vive una giovinezza di eccessi, da cui si stacca a poco a poco anche sulla scorta di letture illuminanti come quella dell’Hortensius di Cicerone, un dialogo che esorta alla pratica della filosofia, per noi perduto. Divenuto maestro di retorica, si trasferisce a Roma, dove entra in contatto con gli intellettuali pagani grazie ai quali ottiene la possibilità di insegnare a Milano. Qui viene affascinato dalla figura del vescovo Ambrogio, che lo conduce ad abbandonare la vita mondana per servire il Dio dei cristiani: da lui nel 387 riceve il battesimo. Tornato in Numidia, vende le proprietà di famiglia e si ritira nello studio e nell’ascesi; nel 391, tuttavia, accetta di lavorare per la comunità dei fedeli e viene ordinato sacerdote a Ippona, città di cui diventa vescovo cinque anni più tardi. Mentre l’Impero frana sotto le pressioni delle popolazioni barbariche (è del 410 il sacco di Roma a opera dei Visigoti), Agostino concepisce la grandiosa visione, oggetto del De civitate Dei, della città di Dio, fondata sul sommo bene, contrapposta alla città degli uomini, che persegue l’ideale della ricchezza e del potere sulla terra. Nel 429 l’Africa del Nord viene invasa dai Vandali, che l’anno dopo arrivano a Ippona. Agostino muore nel 430 durante l’assedio della città. La prima autobiografia moderna Le Confessioni risalgono al 397, poco tempo dopo l’elezione a vescovo, quando egli sente più forte l’esigenza di ricostruire, per sé e per gli altri, le tappe e le difficoltà del suo percorso di conversione. Per la loro caratteristica di diario di un’anima, in cui gli eventi del passato vengono selezionati in base ai loro riflessi sul piano dell’interiorità, le Confessioni rappresentano una svolta nel genere dell’autobiografia. Prima di Agostino, infatti, il genere autobiografico era volto

 Andrea della Robbia, Sant’Agostino, 1490. Madrid, Museo ThyssenBornemisza.

a celebrare o giustificare le gesta di grandi personaggi. La svolta intimistica data all’opera fa delle Confessioni la prima autobiografia “moderna”. Il titolo allude sia alla confessione del penitente cristiano davanti alla comunità dei fedeli sia alla confessio fidei, la professione delle certezze di fede, sia alla confessio laudis, la lode della misericordia e della grandezza divina. L’opera, quindi, sovrappone il piano della memoria dei fatti e delle colpe antiche alla preghiera e alla lode, in un costante colloquio con Dio, quel Tu a cui Agostino consegna le chiavi della propria vita e del proprio cuore. Altro aspetto di novità nelle Confessioni è la visione del tempo come realtà interiore, che il metro dell’anima scandisce “distendendosi” dal presente ad accogliere il passato o ad anticipare nell’attesa il futuro. A operare il recupero del passato per farlo fluire nel presente è la memoria, facoltà «grandiosa», che ospita i ricordi in «caverne incalcolabili, incalcolabilmente popolate da specie incalcolabili di cose» (X, 17, 26, trad. it. di C. Carena). Del passato Agostino non trascura nulla e per la prima volta include nella narrazione autobiografica anche gli eventi dell’infanzia, in cui legge in embrione la manifestazione dei vizi dell’età adulta: celebre il racconto del “furto di pere”, in cui Agostino ricorda di come, bambino, andasse a rubare quei frutti di notte da un albero di un vicino insieme ad altri amici, non certo per fame o per bisogno ma «per la soddisfazione di commettere un furto e di peccare» (II, 9). Un modello esemplare Se le Confessioni trovano posto nella bisaccia di Petrarca che si inerpica sul Ventoso e, una volta giunto in vetta, apre a caso il libro e vi legge un passo che invita a riportare lo sguardo sulle straordinarie bellezze presenti dentro l’uomo, esse forniscono l’archetipo, cioè il modello esemplare, alle grandi autobiografie della letteratura occidentale, come le Confessioni dello scrittore e filosofo francese Jean Jacques Rousseau (1712-1778), che riprende il titolo dell’opera agostiniana e, pur orientando la sua narrazione verso altri fini, ne accoglie alcune suggestioni.


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L’età del Rinascimento

SUGGESTIONI DI LETTURA La lettura proposta richiama un tema caro ad Ariosto: la necessità di preservare sé stessi, anche quando questo vuol dire opporsi a circostanze contingenti e a forze che sono ben più violente, o semplicemente autorevoli, delle nostre. La caparbietà di Trina, protagonista e voce narrante della storia di Resto qui, sembra richiamare la resistenza di Ariosto, entrambi protagonisti di una storia dove la lingua e la parola sono un bene fondamentale per affermare quello che si è.

Marco Balzano, Resto qui

SUGGESTIONI DI LETTURA

L’AUTORE  Marco Balzano (Milano, 1978), insegnante, ha esordito nel 2010 con il romanzo Il figlio del figlio. Nel 2015 si è aggiudicato il Premio Campiello con L’ultimo arrivato, pubblicato l’anno precedente. Resto qui è uscito nel 2018, si è classificato secondo al Premio Strega, ha avuto numerosi riconoscimenti ed è diventato un successo internazionale. Nel 2019 Balzano ha pubblicato Le parole sono importanti, saggio a carattere divulgativo sull’etimologia e la storia del lessico. L’OPERA Da Curon, paese di confine in Sudtirolo, divenuto italiano a seguito dei trattati di pace della Prima guerra mondiale, gli abitanti fuggono, prima per il fascismo che ha messo al bando il tedesco e fatto perfino cambiare i nomi sulle lapidi, poi per la guerra, infine per l’inondazione successiva alla costruzione di una diga gigantesca, che sommerge il borgo antico con un lago che ne lascerà svettare solo il campanile, perenne simbolo di condanna dell’opera devastante dell’uomo. Non Trina, giovane maestra di lingua tedesca e perciò allontanata dalla professione per le disposizioni del regime, la ragazza non teme di insegnare nelle scuole clandestine che sfidano le leggi fasciste, né, più tardi, sposata e già madre, di seguire in montagna il marito Erich, disertore durante gli anni del conflitto, infine, nel secondo dopoguerra, di combattere al suo fianco contro lo scellerato progetto della diga. La storia di Trina è affidata nella finzione narrativa a una lunga lettera all’amata primogenita Marica, sottrattale dai cognati, fuggiti di nascosto una notte per tornare in Germania, da cui non ha mai più avuto notizie. La sua atroce sofferenza di madre si incrocia con il dolore collettivo di un paese lacerato fra due culture e vittima di una corsa al progresso che non risparmia niente e nessuno. A nulla vale la resistenza degli abitanti, se non a ottenere lo spostamento del cimitero nella Nuova Curon, dove al posto dei vecchi masi, vengono assegnati ai pochi che, come Trina, hanno deciso di restare, anonimi bilocali. IL TESTO  Resto qui è una storia civile di condanna contro un progresso che calpesta radici e sentimenti, di resilienza e difesa della propria identità, di “restanza” quando tutti scappano, perché, come scrive Trina alla figlia, se un posto ha un significato per chi lo abita, non si deve aver timore di rimanere. Ed è una storia sull’importanza delle parole, l’unico baluardo pacifista possibile contro la barbarie. Il passo proposto racconta lo sgomento di Erich e Trina alla scoperta, a nemmeno un anno dalla fine della guerra, della ripresa dell’attività nel cantiere di costruzione della diga. Perfino la giovane donna è tentata di rinunciare a resistere, ma Erich non si arrende.

U 5

Un giorno di gennaio del ’46. Una nebbia gelida galleggiava nell’aria. Per le strade le donne tornavano dal mercato camminando rasenti ai muri, con le sciarpe sul naso. I contadini nei campi lasciavano la zappa per alitarsi nelle mani chiuse a coppa e contavano le ore per rientrare e mettersi davanti alla stufa. Portò la notizia un venditore di frutta che prima di andarsene si beveva un paio di bicchieri all’osteria di Karl.


6 Ludovico Ariosto ■ 2  Intorno all’uomo

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(M. Balzano, Resto qui, Torino, Einaudi, 2018)

1 vallo: fossa. 2 faldoni: raccoglitori da ufficio. 3 sardonico: sarcastico, ironicamente beffardo.

4 padre Alfred: il sacerdote di Curon che guiderà la resistenza contro la diga. 5 Montecatini: azienda chimica italiana particolarmente attiva nella ricostruzione

del secondo dopoguerra. 6 in tralice: storto.

SUGGESTIONI DI LETTURA

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Infilammo gli scarponi e corremmo a vedere. Erich camminava trafelato, io guardavo la neve. Avevano ripreso a scavare. Erano arrivate decine di trattori, le gru scucchiaiavano terra sui camion carichi fino all’orlo per andarla a depositare su un vallo1 che si innalzava a vista d’occhio. Davanti a noi si apriva una buca immensa. Il fossato più grande e profondo che avessi mai visto. I livellatori delineavano il letto del canale. Più in là altre centinaia di manovali sbucati in un baleno da chissà dove montavano i capannoni che sarebbero diventati magazzini e officina, mense e ricoveri, uffici e laboratori. Dappertutto scuoteva l’aria un rumore di ferri e rombi di marmitte. Erich mi chiese di domandare a quegli italiani chi li aveva mandati, da quanto tempo avevano ricominciato i lavori. Io, appena uno di loro si avvicinava, glielo chiedevo ma quelli alzavano un momento la testa e riprendevano a sgobbare senza rispondermi. A lato del cantiere c’era una capanna con la porta aperta. Si vedeva un tavolo e sopra il tavolo faldoni2 e pile di fogli. – Non potete entrare, – disse in tedesco un uomo col cappello sugli occhi, i denti che mordevano il sigaro. – Sono ripresi i lavori? – Pare proprio di sì, – rispose sardonico3. La porta sbatté. Due carabinieri ci ordinarono di stare alla larga e non oltrepassare la linea di sbarramento. Tornando verso casa tenevo gli occhi ancora più bassi Se il governo italiano aveva di nuovo mandato i manovali a costruire la diga allora un giorno sarebbe tornato anche il duce e la guerra e Hitler e la vita da disertori con la neve alle calcagna e insomma era vano illudersi che il passato prima o poi rimanesse alle spalle. Era destino che restasse una piaga che non si rimargina. Erich andò subito a fare il giro dei masi. Raccontava concitato quello che aveva visto. La fossa immensa, le centinaia di manovali, i carabinieri davanti alla capanna, le colonne di cemento che si alzavano. Gli uomini gli dissero di piantarla, era più di trent’anni che non se n’era fatto niente. Che gli abruzzesi sgobbassero a togliere e mettere tubi, che i veneti e i calabresi continuassero a issare e sradicare recinti, se questa era la loro passione. I vecchi gli risposero che erano vecchi, che erano stanchi, che toccava ai giovani rimboccarsi le maniche. Ma i giovani, quei pochi che c’erano, lo liquidarono dicendo «una ragione in più per andarsene di qui». Allora Erich cercò le donne. Ma anche le donne scrollarono il capo, ripetendo che Dio non lo avrebbe permesso, che padre Alfred4 ci avrebbe protetto, che Curon era sede del vescovo. Uno solo, un reduce che in piazza non si vedeva mai, gli diede retta. Se andranno avanti a costruire la diga tireremo fuori le pistole che ci siamo portati dal fronte, metteremo le bombe che abbiamo imparato a fabbricare, disse. Stiano attenti, i signori della Montecatini5. Il paese adesso è pieno di armi. A cena Erich mangiò senza parlare. Mentre buttava giù una tazza di brodo gli chiesi un’altra volta di andarcene via da questo posto maledetto dove si susseguivano solo dittature e anche senza la guerra non si trovava più pace. Lui mi guardò in tralice6, con un’alzata di mento mi indicò fuori dalla finestra, quasi a me, dopo tutti questi anni, continuassero a sfuggire le ragioni che lo tenevano qui, aggrappato come l’edera. Si gettò sul letto esausto, con le mani dietro la nuca, e si mise a fumare buttando fumo verso il soffitto. Restai a guardarlo appoggiata al muro. – Insegnami l’italiano, Trina. Non conosco le parole per farmi ascoltare, – mi disse.

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423 Il Canzoniere

IL RACCONTO DI UNA PAROLA

Vago

Vago errante

che manca di definizione

fascino dell’indeterminato

vagante, vagabondo, per es. clerici vagantes

poco chiaro, per es. un discorso

bellezza sfuggente e non disponibile, da qui “vagheggIare”

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al latino vagus, “errante”, ma anche “in stile e indefinito”, l’aggettivo, che condivide la radice del verbo vagare, errare, qualifica in primis una condizione di mobilità senza sede stabile, la situazione, per esempio, dei medievali clerici vagantes o vagi, ecclesiastici privi di sede stabile e quindi in movimento da una diocesi all’altra. Con la stessa espressione clerici vagantes si individuano anche i chierici che, coltivando interessi culturali, si spostano nel XII-XIII secolo da una sede universitaria all’altra a seguito di grandi maestri, talvolta mostrando insofferenza alla disciplina e desiderio di trasgressione. L’originaria polisemia del termine apre tuttavia a una molteplicità di esiti semantici che sottolineano ora l’erranza ora la mancanza di definizione ora il fascino che nasce dall’indeterminato. Il primo significato ritorna per esempio nello stesso “vagante”, come la mina “vagante”, intesa non come arma esplosiva, ma metaforicamente come una questione irrisolta e che può “scoppiare” da un momento all’altro, o in “vagabondo”, in cui il suffisso “-bondo” precisa e intensifica il significato: il vagabondo è infatti colui che ha fatto del “vagare” uno stile di vita.

Può essere “vago” inoltre un discorso, che sfugge alla precisione e, perciò, risulta poco chiaro e poco utile, o un ricordo, condizionato dall’instabilità della memoria: in entrambi i casi a prevalere è la mancanza di definizione. Come arriva allora Petrarca a scrivere del vago lume, cioè dei begli occhi, di Laura al verso 3 del sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, o del vago errore, cioè l’elegante muoversi in aria dei fiori al verso 51 della canzone Chiare, fresche et dolci acque? Siamo davanti a una traslazione, a un trasferimento di significato dell’aggettivo, proprio del linguaggio poetico, che inaugura anche una nuova visione della bellezza femminile e naturale, una bellezza non vistosa, sfuggente, non definibile, talvolta perché colta nel ricordo che ne sfuma i contorni, talvolta per la suggestione delle particolari situazioni in cui si manifesta. Nel primo Ottocento Giacomo Leopardi immortala un dolcissimo ricordo dell’infanzia felice nell’attacco della lirica Le Ricordanze rivolgendosi alle Vaghe stelle dell’Orsa, la costellazione che contemplava rapito splendere sul giardino di casa, luminosa, bella ed errante come tutti gli astri. Nell’area semantica della bellezza e del desiderio che essa suscita si colloca anche il verbo “vagheggiare”, guardare con desiderio, quanto abita nei nostri pensieri, sia esso l’idea di un amore o di un futuro diverso e più appagante. Con un ulteriore slittamento di significato infine chi gode gli effetti dell’innamoramento, può definirsi nel linguaggio letterario “vago”, sostantivo che connota un amante felicemente corrisposto.

 Donato Creti, Osservazioni Astronomiche, 1711. Città del Vaticano, Musei Vaticani.


4  I poeti comico-realistici

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VERSO L’ESAME Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Cecco Angiolieri, Tre cose solamente m’enno in grado

Cecco enuncia i tre piaceri della vita cui ambisce e si scaglia poi contro il padre che gli lesina il denaro impedendogli di soddisfarli; perciò, in maniera irriverente, lancia contro di lui la consueta maledizione. METRICA Sonetto con schema delle rime ABAB, ABAB, CDC, DCD.

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Tre cose solamente m’enno in grado1, le quali posso non ben ben fornire2, cioè la donna, la taverna e ’l dado: queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.

8

Ma sì·mme le convene usar di rado3, ché la mie borsa mi mett’ al mentire4; e quando mi sovvien, tutto mi sbrado, ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire5.

E dico: «Dato li sia d’una lancia!6», ciò a mi’ padre, che·mmi tien sì magro, 7 11 che tornare’ senza logro di Francia .

Ché fora a tôrli un dinar[o] più agro, la man di Pasqua che·ssi dà la mancia, 8 14 che far pigliar la gru ad un bozzagro .

(G. Contini, La letteratura italiana, Storia e testi, Poeti del Duecento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960) 1 m’enno in grado: mi piacciono. 2 le quali... fornire: che non posso procurarmi (posso fornire) completamente (ben ben). 3 Ma... rado: ma sono costretto (sì·mme le convene) a permettermele (usar) raramente. 4 ché... mentire: poiché le mie scarse risorse (la mie borsa) mi costringono a negarmele (mi mett’ al mentire). 5 e quando... disire: e quando ci penso (mi sovvien), impreco (mi sbrado), poiché sono costretto a rinunciare (perdo), per mancanza di denaro (per moneta), a ciò che deside-

ro (’l mie disire). Il mi, dativo etico, sottolinea la partecipazione emotiva dell’io lirico. 6 Dato... lancia!: sia colpito (Dato li sia) con una lancia! L’imprecazione, come chiarisce il verso successivo, è rivolta contro il padre. 7 che... Francia: che mi tiene in ristrettezze tali (che·mmi tien sì magro) che tornerei dalla Francia senza dimagrire (senza logro). Il poeta dice di essere così magro (logro, logoro) che pur facendo un lungo viaggio a piedi (la Francia sta a indicare un luogo lontano) non potrebbe dimagrire di più.

Altri intendono per logro un arnese per il richiamo del falcone: il testo significherebbe che il poeta, affamato come il falcone in addestramento, non avrebbe bisogno di alcun richiamo per tornare a casa. 8 Ché fora... bozzagro: tirargli fuori un soldo dalle mani sarebbe più difficile (agro), persino nella mattina (man) di festa (Pasqua) quando si dà la mancia, che far acchiappare una gru da una poiana (bozzagro). Tra i rapaci, la poiana è inadatta a cacciare animali veloci come, appunto, le gru.

COMPRENSIONE E ANALISI 1. Quali sono i temi fondamentali del sonetto? 2. A quale modello letterario esso si ispira, seppur in scala ridotta? 3. Quale figura retorica compare al verso 2? Individuala e spiegala. 4. Nella seconda quartina compaiono due metonimie. Individuale e spiegale.

INTERPRETAZIONE 5. Quali sono i temi della poesia comico-realistica ripresi nel sonetto?

VERSO L’ESAME

T

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Il Duecento

LA VOCE DELLA CRITICA Analisi e produzione di un testo argomentativo Italo Calvino, Cavalcanti e la leggerezza Nel 1985 lo scrittore Italo Calvino (1923-1985) prepara sei lezioni per l’Università di Harvard che non riuscirà a tenere per la morte sopraggiunta nel settembre dello stesso anno. Calvino prende in considerazione sei aspetti fondamentali del testo letterario, tra cui la leggerezza, esemplificata anche attraverso la poesia di Guido Cavalcanti.

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LA VOCE DELLA CRITICA

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Da quanto ho detto fin qui mi pare che il concetto di leggerezza cominci a precisarsi; spero innanzitutto d’aver dimostrato che esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca. Non potrei illustrare meglio questa idea che con una novella del Decameron (VI, 9) dove appare il poeta fiorentino Guido Cavalcanti. Boccaccio ci presenta Cavalcanti come un austero filosofo che passeggia meditando tra i sepolcri di marmo davanti a una chiesa. La jeunesse dorée1 fiorentina cavalcava per la città in brigate2 che passavano da una festa all’altra, sempre cercando occasioni d’ampliare il loro giro di scambievoli inviti. Cavalcanti non era popolare tra loro, perché, benché fosse ricco ed elegante, non accettava mai di far baldoria con loro e perché la sua misteriosa filosofia era sospettata d’empietà. Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d’Orto San Michele e venutosene per lo Corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, e egli essendo tralle colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, vedendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: “Andiamo a dargli briga”; e spronati i cavalli, a guisa d’uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra e cominciarongli a dire: “Guido, tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto?”. A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: “Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace”; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fusi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò3. [...] Ciò che qui ci interessa non è tanto la battuta attribuita a Cavalcanti, (che si può interpretare considerando che il preteso “epicureismo4” del poeta era in realtà averroismo5, per cui l’anima individuale fa parte dell’intelletto universale: le tombe sono casa vostra e non mia in quanto la morte corporea è vinta da chi s’innalza alla contemplazione universale attraverso la speculazione dell’intelletto). Ciò che ci colpisce è l’immagine visuale che Boccaccio evoca: Cavalcanti che si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come

1 jeunesse dorée: la gioventù borghese ricca e gaudente. 2 brigate: compagnie. 3 Ora... andò: Calvino riporta qui parte della

novella di Boccaccio che ha per protagonista Cavalcanti. 4 epicureismo: propriamente, la filosofia materialistica del greco Epicuro (341-270

a.C.) e dei suoi seguaci. 5 averroismo: scuola filosofica medievale basata sull’interpretazione di Aristotele da parte del musulmano Averroè (XII secolo).


3  Il dolce Stilnovo ■ I caratteri di una nuova poesia

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(I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 1988) 6 dramatis personae: espressione latina che equivale a “maschere del dramma”.

7 Va tu... donna mia: si tratta di un verso della ballata Perch’i’ no spero di tornar giammai.

COMPRENSIONE E ANALISI 1. Quali tipi di leggerezza distingue l’autore? 2. Perché Calvino cita la novella di Boccaccio che ha per protagonista Cavalcanti? 3. Quali aspetti di leggerezza Calvino individua nella poetica di Cavalcanti? 4. Di che cosa Dante e Cavalcanti sono individuati come capostipiti? 5. Individua i passaggi fondamentali dell’argomentazione.

PRODUZIONE 6. Sulla base dei testi da te letti e commentati scrivi un testo argomentativo in cui sostieni la tesi della “leggerezza” di Cavalcanti enunciata da Italo Calvino.

LA VOCE DELLA CRITICA

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un cimitero d’automobili arrugginite. [...] Vorrei che conservaste quest’immagine nella mente, ora che vi parlerò di Cavalcanti poeta della leggerezza. Nelle sue poesie le “dramatis personae6” più che personaggi umani sono sospiri, raggi luminosi, immagini ottiche, e soprattutto quegli impulsi o messaggi immateriali che egli chiama “spiriti”. Un tema niente affatto leggero come la sofferenza d’amore, viene dissolto da Cavalcanti in entità impalpabili che si spostano tra anima sensitiva e anima intellettiva, tra cuore e mente, tra occhi e voce. Insomma, si tratta sempre di qualcosa che è contraddistinto da tre caratteristiche: 1) è leggerissimo; 2) è in movimento; 3) è un vettore d’informazione. In alcune poesie questo messaggio-messaggero è lo stesso testo poetico: nella più famosa di tutte, il poeta esiliato si rivolge alla ballata che sta scrivendo e dice: “Va tu, leggera e piana dritt’a la donna mia”7. In un’altra sono gli strumenti della scrittura – penne e arnesi per far la punta alle penne – che prendono la parola: “Noi siàn le triste penne isbigottite, le cesoiuzze e’l coltellin dolente...”. In un sonetto la parola “spirito” o “spiritello” compare in ogni verso: in un’evidente autoparodia, Cavalcanti porta alle ultime conseguenze la sua predilezione per quella parola-chiave, concentrando nei 14 versi un complicato racconto astratto in cui intervengono 14 “spiriti” ognuno con una diversa funzione. In un altro sonetto, il corpo viene smembrato dalla sofferenza amorosa, ma continua a camminare come un automa “fatto di rame o di pietra o di legno”. Già in un sonetto di Guinizelli la pena amorosa trasformava il poeta in una statua d’ottone: un’immagine molto concreta, che ha la forza proprio nel senso di peso che comunica. In Cavalcanti, il peso della materia si dissolve per il fatto che i materiali del simulacro umano possono essere tanti, intercambiabili; la metafora non impone un oggetto solido, e neanche la parola “pietra” arriva ad appesantire il verso. […] dobbiamo ricordarci che l’idea del mondo come costituito d’atomi senza peso ci colpisce perché abbiamo esperienza del peso delle cose; così come non potremmo ammirare la leggerezza del linguaggio se non sapessimo ammirare anche il linguaggio dotato di peso. [...] Possiamo dire che due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni. Alle origini della letteratura italiana – e europea – queste due vie sono aperte da Cavalcanti e da Dante. [...] Forzando un po’ la contrapposizione potrei dire che Dante dà solidità corporea anche alla più astratta speculazione intellettuale, mentre Cavalcanti dissolve la concretezza dell’esperienza tangibile in versi dal ritmo scandito, sillabato, come se il pensiero si staccasse dall’oscurità in rapide scariche elettriche.

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Il Duecento

PREPARIAMOCI ALL’INVALSI Chiara Frugoni, Francesco rinuncia ai beni paterni Nel suo saggio Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Chiara Frugoni racconta la vita del santo di Assisi mettendone in luce la grandezza umana, il coraggio e l’intelligenza. Il passo che riportiamo prende le mosse dal momento in cui Francesco si è isolato in eremitaggio e ha lasciato da giorni la casa paterna.

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Fu un tempo durissimo: il futuro santo esitava a rompere definitivamente con i suoi, abbandonare tutto, anche gli affetti più cari, per seguire una via verso cui si sentiva irresistibilmente attratto ma che insieme gli si presentava incerta. E se si fosse sbagliato, e trovato poi pentito, se avesse scoperto di essere solo un fallito? Piangeva, pregava, digiunava, alternando momenti di angoscia ad altri di grande speranza. Finché un giorno si sentì abbastanza coraggioso da uscire ed affrontare il padre. Lungo la strada che lo portava a casa la gente che incontrava lo guardava sbalordita, quasi stentava a riconoscerlo tanto era cambiato: magro e pallido per i digiuni, sporco: credettero fosse impazzito e cominciarono, specialmente i bambini, a tirargli sassi e manciate di fango, proprio come fosse un poveraccio. Per le piazze e le vie di Assisi corse voce che Francesco era tornato; lo sentì anche il padre. Quando capì che era suo figlio lo zimbello del momento, corse fuori, colto da una rabbia cieca, da un dolore sordo e disperato; doveva terminare quell’umiliazione, gli sembrava d’essere preso anche lui a manciate di fango; spinse in casa Francesco continuando a riempirlo di botte, poi lo chiuse in un bugigattolo buio per giorni e giorni, ben deciso a farla finita con quei capricci. Durante una sua assenza, la moglie non rispettò le consegne; impietosita, dopo avere cercato in ogni modo di convincere Francesco, aprì la porta e lasciò fuggire il figlio tanto amato. Al ritorno del marito dovette affrontare la sua ira; l’uomo si sentiva beffato e tradito. Se davvero era una ribellione definitiva, che almeno Francesco restituisse il maltolto: Pietro sfogava così il suo dolore di padre esacerbato nella rabbia del mercante ingiustamente privato del suo. Decise di citare il figlio davanti ai consoli; corse al palazzo del comune, espose le sue ragioni. I consoli spedirono un araldo da Francesco con il mandato di comparizione, ma lui rispose con una mossa molto abile – si era già consigliato con il vescovo? – giocando d’anticipo il padre: viveva da penitente, dunque non era più sottoposto alla giurisdizione comunale, ma della Chiesa. E i consoli, per non avere grane, presero per buona quella risposta. Il padre non si diede per vinto e corse dal vescovo che fece chiamare Francesco: questa volta il ribelle ubbidì. Avuti di fronte a sé padre e figlio il vescovo si rivolse al suo protetto – che intanto aveva pensato bene di portare tutto il denaro che gli rimaneva – esortandolo alla restituzione: «La Chiesa non vuole che tu spenda per lei denari non tuoi, denari di tuo padre, forse ricchezza male acquistata». Francesco si disse d’accordo: avrebbe restituito tutto. Entrato in una camera vicina si spogliò completamente e così nudo, con gli abiti in mano sopra i quali aveva posato il denaro, tornò dal padre e dagli astanti – immaginiamo come la folla di amici e vicini seguisse la scena con il fiato sospeso –: «Ascoltate tutti e capitemi bene. Fino ad ora ho chiamato padre mio Pietro di Bernardone, ma dato che mi sono proposto di servire soltanto Dio rendo a Pietro di Bernardone il denaro per cui era tanto turbato e anche i vestiti che mi aveva dato; d’ora in avanti dirò sempre e soltanto: “Padre nostro che sei nei cieli e non più: padre mio, Pietro di Bernardone”». Il padre deluso e furente di fronte alle parole definitive del figlio, afferrati vestiti e denaro scappò a rinchiudersi in casa. Il vescovo aprì allora le braccia e coprì quell’uomo nudo con il suo man-


2  Le origini della letteratura italiana ■ 1  La letteratura religiosa

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tello. Il gesto fu immortalato da Giotto (termine riassuntivo per indicare il pittore di Assisi) ed è presente in ogni ciclo pittorico che narri la vita del santo; aveva un significato più profondo del semplice soccorso, e così fu letto dagli spettatori di allora, dai lettori di sempre: segnava il distacco senza ritorno da parte di Francesco che abbandonava la famiglia naturale per passare a quella spirituale della Chiesa. Una rottura brusca e dolorosa, non solo per il padre. Anche Francesco patì molto: traccia di una sofferenza profonda è il suo bellissimo commento al Padre Nostro. In tutti gli scritti Francesco privilegiò sempre il volto paterno di Dio e il suo amore vigile e costante per l’uomo, attraverso il sacrificio del Figlio diletto, fino alla salvezza finale che il tempo deve ancora dipanare. Da una parte, nella visione teologica di Francesco il sacrificio di Cristo non aveva coinciso con la morte perché già tutto consumato sul Monte degli Ulivi, ubbidendo al Padre celeste, dall’altra, per l’uomo peccatore, il riscatto poteva avvenire solo seguendo l’orma lasciata dal Fratello: rimettersi, prendendo Cristo per esempio, alla volontà del Padre. In tale rapporto, così originale, immediato e diretto traspare uno struggimento per un legame con il padre, infranto per sempre ma non dimenticato. (C. Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Torino, Einaudi, 1995)

1. Di fronte ai gesti dei concittadini, il padre di Francesco soffre a. per l’umiliazione del figlio. b. per la propria umiliazione e quella del figlio. c. per la sfrontatezza del figlio. d. per l’indifferenza del figlio. 2. Dal testo si evince che a. Francesco compie la sua scelta di vita definitiva con determinazione. b. Francesco esita più volte nel compiere la scelta di vita definitiva. c. Francesco cambia idee più volte a proposito della sua scelta di vita. d. Francesco in principio esita, ma poi si avvia determinato verso la sua nuova vita. 3. Perché i consoli non assecondano la richiesta di intervento del padre di Francesco? a. Perché la condizione di penitente è sotto la giurisdizione della Chiesa. b. Per evitare uno scontro con il vescovo. c. Perché si tratta di una questione familiare. d. Perché attendono un confronto con il vescovo. 4. Per riportare i pensieri di Francesco l’autrice ricorre talvolta al a. discorso diretto libero. b. discorso diretto legato. c. discorso indiretto libero. d. discorso indiretto legato. 5. Pietro di Bernardone vive la scelta del figlio a. come un capriccio. b. come una ribellione nei suoi confronti. c. come un gesto dettato dalla giovinezza. d. come effetto di manipolazione altrui.

6. La rottura con il padre a. avviene senza ripensamenti da parte di Francesco. b. lascia in Francesco un sentimento di profonda malinconia per il padre mai dimenticato. c. lascia in Francesco una grande amarezza per la durezza del padre. d. avviene con ripensamenti da parte di entrambi. 7. Il gesto del vescovo di coprire Francesco con il proprio mantello a. nasce dalla volontà di celarne il corpo nudo. b. indica la protezione offerta dal vescovo. c. sancisce l’autorità della Chiesa su quella dei consoli. d. sancisce il distacco di Francesco dalla famiglia d’origine. 8. Indica un sinonimo o un’espressione sinonimica del termine astanti alla riga 30. ..................................................................................................

9. Nell’espressione e così nudo alla riga 23 quale funzione ha l’aggettivo nudo? ..................................................................................................

10. La proposizione proprio come fosse un poveraccio alle righe 8-9 è a. una subordinata modale. b. una subordinata ipotetica. c. una subordinata comparativa ipotetica. d. una subordinata comparativa.

PREPARIAMOCI ALL’INVALSI

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Il Trecento

RIPASSO FINALE

ascolta Francesco Petrarca in breve La vita e le opere

FRANCESCO PETRARCA (1304-1374) LA VITA

LA POETICA

Nasce nel 1304 ad Arezzo in una famiglia costretta all’esilio per motivi politici. ■ Nel 1312 si trasferisce con la famiglia in Provenza, dove trascorre l’infanzia. ■ Pur coltivando fin dall’infanzia la passione per le lettere, compie studi giuridici a Montpellier e Bologna. ■ Nel 1330, prende gli ordini minori ed entra al servizio della famiglia Colonna, incarico che gli permette di compiere numerosi viaggi in Europa e visitare alcune famose biblioteche, scoprendo importanti manoscritti. ■ Nel 1337 si trasferisce a Valchiusa, dove soggiorna per un lungo periodo alternando momenti di riposo a viaggi in Italia e in Europa. ■ Nel 1341 riceve l’incoronazione poetica. ■ Tra il 1353 e il 1361 soggiorna a Milano. ■ Nel 1361 si trasferisce a Venezia e poi ad Arquà, vicino a Padova, dove trascorre gli ultimi anni in tranquillità, circondato da amicizie e affetti. Figura di transizione tra Medioevo e Umanesimo. Intellettuale di profilo europeo, che esce dalla dimensione comunale. ■ Interesse per il mondo classico e gusto per la ricerca filologica. ■ Tema del dissidio interiore e interesse per il genere del racconto di sé. ■

LE OPERE

Poesia latina Africa ■ Bucolicum carmen ■

Poesia volgare ■

Rerum vulgarium fragmenta, letteralmente “frammenti sparsi scritti in lingua volgare”. ■ Raccolta di 366 componimenti organizzati in due sezioni. ■

Prosa latina Epistole Scritti storici ■ Scritti morali ■ Scritti polemici ■ ■

Titolo e struttura

Triumphi

CANZONIERE

I grandi temi Il dissidio interiore tra desideri terreni e aspirazioni spirituali. ■ L’amore per Laura. ■ La gloria e l’ambizione letteraria. ■ Lo scorrere del tempo. ■

Metrica e stile Ampliamento delle strutture metriche tradizionali. ■ Codificazione dei generi della canzone e del sonetto. ■ Lessico selezionato e polisemico. ■ Uso di numerose figure retoriche di posizione. ■ Sintassi paratattica. ■


6  Francesco Petrarca

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VERIFICA FINALE Mettiti alla prova con gli esercizi interattivi

LA VITA Seleziona l’alternativa corretta 1. Petrarca nasce a: a. Arezzo b. Avignone c. Firenze d. Carpentras

8. Il soggetto del Secretum è una conversazione tra Petrarca e a. Dio c. Laura b. la Verità d. Sant’Agostino 9. L’Africa è scritta a. in prosa b. in ottave

c. d.

2. L’incontro con Laura avviene a. il giorno della Pentecoste b. la notte di Natale c. il Venerdì Santo d. il giorno di Pasqua

10. Petrarca ha scritto in volgare a. Il Canzoniere b. Il Canzoniere e i Trionfi c. L’Africa e il Canzoniere d. I Trionfi e L’Africa

3. Nel 1330, dopo essere ritornato ad Avignone, Petrarca a. prende gli ordini minori b. inizia a esercitare la professione di giurista c. intraprende la carriera diplomatica d. entra in monastero

LA POETICA

4. Nella Biblioteca Capitolare di Verona Petrarca trova il manoscritto a. delle lettere di Cicerone ad Attico, al fratello Quinto e a Bruto b. della Pro Archia c. di Virgilio d. delle Confessioni di Sant’Agostino 5. Nel 1347 Petrarca sostiene il colpo di stato di a. Giovanni Colonna b. Orso dell’Anguillara c. Cola di Rienzo d. Roberto d’Angiò

LE OPERE Seleziona l’alternativa corretta 6. Il latino di Petrarca è a. modellato su quello dei classici b. un latino medievale ormai artificioso c. ispirato al latino di Boccaccio d. influenzato dal latino ecclesiastico 7. Le lettere di Petrarca si ispirano alla produzione di a. Virgilio b. Sant’Agostino c. Cicerone d. Cicerone e Seneca

in esametri in terzine

Seleziona l’alternativa corretta 11. Petrarca può vivere come un intellettuale autonomo a. grazie al patrimonio familiare b. grazie alle rendite dei benefici ecclesiastici c. grazie alle donazioni di amici potenti d. attraverso le rendite che gli derivano dal suo lavoro di scrittore 12. Petrarca studia il greco a. sotto la guida del monaco Barlaam Calabro b. da autodidatta c. insieme all’amico Boccaccio d. insieme a Giannozzo Manetti

Domande a risposta aperta 13. In che senso Petrarca rappresenta un intellettuale nuovo per la nostra letteratura? 14. Qual è il rapporto di Petrarca con la lingua latina? 15. Che cosa intende il critico Gianfranco Contini quando parla di “unilinguismo” petrarchesco?


Il Duecento

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NUCLEI FONDANTI attraverso i testi Nell’antologia di Dante ci sono nuclei ricorrenti, che sono emersi via via nei testi. Li riassumiamo qui. Svolgi poi l’esercizio al termine della tabella. NUCLEI FONDANTI

TESTI IN ANTOLOGIA

IL MONDO DI DANTE ■ Le

lotte politiche nell’Italia dei Comuni e delle corti

■ L’esilio

e l’impegno per la giustizia

T28 Farinata degli Uberti (Inferno, X) T29 Pier delle Vigne (Inferno, XIII) T31 La tragedia del Conte Ugolino (Inferno, XXXII) T35 L’apostrofe all’Italia (Purgatorio, VI) T3 Un legno sanza vela e sanza governo (Convivio, 1, 3) T4 Lettera a un amico fiorentino (Epistole, XII, 1-4) T34 Gli Ignavi (Inferno, III)

■ Le

T12 Le funzioni di Impero e Papato (De monarchia, III, 15) T14 I due soli (Purgatorio, XVI, 106-114)

■ Il

T7 Il banchetto del sapere (Convivio, 1, 1) T24 Una gentile donna giovane e bella molto (Vita nova, XXXV)

istituzioni universali: il disegno di Dio nella storia

sapere: strumento di riscatto, di giustizia, di salvezza

TRA AMORE E AMICIZIA ■ L'adesione

T5 Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (Rime) T16 Il secondo incontro con Beatrice: A ciascun’alma presa (Vita nova, III) T19 Amore e ‘l cor gentil sono una cosa (Vita nova, XX) T27 Paolo e Francesca (Inferno, V)

■ La

T1 Ne li occhi porta la mia donna amore (Vita nova, XXI) T15 Il primo incontro con Beatrice (Vita nova, II) T17 La poetica della lode (Vita nova, cap. XVIII) T18 Donne ch’avete intelletto d’amore (Vita nova, XIX) T25 Vede perfettamente onne salute (Vita nova, XXVI)

allo Stilnovo e il suo ripensamento

svolta di Beatrice da donna angelicata a creatura divina nella Vita nova

IN VIAGGIO VERSO DIO ■ Memoria,

T24 Oltre la spera che più larga gira (Vita nova, XLI-XLII) T14 Il libro della memoria (Vita nova, I) T32 La profezia del maestro (Inferno, XV) T33 La missione del poeta (Paradiso, XVII) T36 Dante di fronte a Dio (Paradiso, XXXIII)

■ Simboli,

T8 I quattro sensi delle scritture (Convivio II, 1) T26 Un canto proemiale, (Inferno, I) T21 La morte di Beatrice (Vita nova, XXVIII) T22 Una premonizione (Vita nova, XXIII)

visione, profezia: passato, presente e futuro in un nuovo orizzonte

numeri, allegorie: leggere il libro del mondo

NASCITA DI UN CLASSICO ■ Sperimentalismo

T2 La tenzone con Forese (Rime) T6 Così nel mio parlar voglio esser aspro (Rime) T20 Tanto gentile e tanto onesta pare (Vita nova, XXVI)

■ Il

T9 Epistola a Cangrande della Scala (Epistole, XIII) T10 Un volgare «illustre, cardinale, regale, curiale» (De vulgari eloquentia, Trattato I, XVII-XVIII) T11 De vulgari eloquentia, I, 18

e modelli: ai confini del linguaggio volgare e la Commedia: l’inizio di una nuova era poetica

■ Dante

dopo Dante: la forza di un immaginario T30 Il viaggio di Ulisse (Inferno, XXVI)

Rimescoliamo le carte! I nuclei fondanti si presentano intrecciati e connessi all’interno dell’opera dell’autore. Prova a ripensare lo schema proposto: a ogni nucleo associa uno o più testi in antologia alternativi, motivando le tue proposte.


5  Dante Alighieri

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VERSO L’ESAME Per il colloquio interdisciplinare DANTE POLITICO: PAPA E IMPERATORE A Partiamo da un testo

Leggi il passo proposto, tratto dal Convivio pag. 156 ; puntualizza i collegamenti suggeriti e articolali in un’esposizione orale organica.

Dal Convivio, IV, 4 Lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo lo vero, è la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice; a la quale nullo per sé è sufficiente a venire sanza l’aiutorio1 d’alcuno, con ciò sia cosa che2 l’uomo abbisogna di molte cose, a le quali uno solo satisfare non può. E però dice lo Filosofo3 che l’uomo naturalmente è compagnevole animale. E sì come un uomo a sua sufficienza richiede compagnia dimestica di famiglia, così una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza4: altrimenti molti difetti sosterrebbe5 che sarebbero impedimento di felicitade. E però che una vicinanza [a] sé non può in tutto satisfare6, conviene7 a satisfacimento di quella essere la cittade. Ancora la cittade richiede a le sue arti e a le sue difensioni vicenda8 avere e fratellanza con le circavicine cittadi; e però9 fu fatto lo regno. Onde, con ciò sia cosa che10 l’animo umano in terminata11 possessione di terra non si queti, ma sempre desideri gloria d’acquistare, sì come per esperienza vedemo, discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali sono tribulazioni de le cittadi, e per le cittadi de le vicinanze, e per le vicinanze de le case, [e per le case] de l’uomo; e così s’impedisce la felicitade. Il perchè12, a queste guerre e le loro cagioni torre via13, conviene di necessitade tutta la terra, e quanto a l’umana generazione a possedere è dato14, essere Monarchia, cioè uno solo principato, e uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tegna contenti15 ne li termini de li regni, sì che pace intra loro sia, ne la quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s’amino, in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso16, l’uomo viva felicemente; che è quello per che17 esso è nato. (D. Alighieri, Convivio, ridotto a miglior lezione e commentato da G. Busnelli e G. Vandelli, Firenze, Le Monnier, 1964)

1 sanza l’aiutorio: senza l’aiuto. 2 con ciò sia cosa che: perché. 3 lo Filosofo: si intende Aristotele. 4 una vicinanza: dei vicini. 5 molti difetti sosterrebbe: subirebbe molti danni. 6 però... satisfare: poiché l’insieme dei vicini

non può essere del tutto autosufficiente. 7 conviene: è necessario. 8 vicenda: rapporto reciproco. 9 però: perciò. 10 con ciò sia cosa che: poiché. 11 terminata: dotata di confini. 12 Il perché: e per questo.

B Collegamenti interdisciplinari

13 a... via: per togliere di mezzo queste guerre e le loro cause. 14 e quanto... dato: e tutto ciò che è dato di possedere al genere umano. 15 tegna contenti: faccia rimanere. 16 lo qual preso: soddisfatto il quale. 17 per che: per cui.

Il tema della “forma migliore” di governo è un tema a lungo dibattuto, a partire dalla classicità. Per Platone il governo ideale è quello dei filosofi, mentre per Aristotele tra le possibili forme di governo la migliore è la politeia, il governo nell’interesse dei più. In entrambi i casi, ma soprattutto per Aristotele, la scelta della forma di governo è connessa a una riflessione sulla felicità e sulla virtù; Dante riprende questa riflessione in un’epoca come il Medioevo in cui i rapporti tra Impero e Papato sono segnati da frequenti contrasti.


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Il Duecento

Letteratura italiana Dante, Convivio

Storia dell’arte I mosaici di san Vitale

Storia Scontro impero-papato

Filosofia

Letteratura latina

Aristotele, Politica

Cicerone, De republica

Letteratura Italiana ❚ Richiamare le coordinate fondamentali della riflessione politica di Dante, in particolare nel De Monarchia, facendo riferimento ai contenuti del passo proposto. Storia ❚ La riflessione politica di Dante gravita intorno al rapporto tra Impero e Papato, segnata tra XIII e XIV secolo da fasi diverse. Ripercorrine i momenti principali. Filosofia ❚ Una delle autorità su cui si costruisce il pensiero medievale è il filosofo greco Aristotele, (IV secolo a.C.). Rifletti sulle teorie espresse nella sua Politica con opportuni collegamenti a quanto espresso nel passo dantesco. Letteratura latina ❚ Cicerone, nel primo libro del De republica, in una felice sintesi tra la filosofia platonica e quella di Aristotele, individua nella repubblica romana del I secolo a.C., la forma migliore di governo grazie alla teoria della “costituzione mista”. Storia dell’Arte ❚ A partire dai mosaici della Basilica di San Vitale a Ravenna, rifletti sulle peculiarità della rappresentazione della figura imperiale in età medievale.

 Giustiniano e il suo seguito in un mosaico con sfondo dorato del 546-548. Ravenna, Basilica di San Vitale.  Dida da inserire


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