Apollo nella democrazia

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Apollo, da Weimar ad Harvard di Marco Biraghi

Introduzione

«In arte il concetto della forza tecnica produttiva va feticizzato poco quanto altrove. Altrimenti l’arte diventa riflesso di quella tecnocrazia che socialmente è una forma di dominio camuffata sotto l’apparenza della razionalità».1 Pur con tutte le differenze che corrono tra la “dialettica negativa” che informa la Ästhetische Theorie di Theodor W. Adorno e la concezione più entusiasticamente (e ingenuamente) modernista che caratterizza il pensiero di Walter Gropius – e al di là della polemica adorniana contro lo “stile” funzionalista, che lo porta ad affermare che «vista da lontano, la differenza tra Wiener Werkstätte e Bauhaus non è poi così considerevole»2 – un unico fondamento accomuna le posizioni dei due: la critica della società esposta agli effetti di una massiccia industrializzazione. In Apollo in der Demokratie, il discorso pronunciato nel 1956 ad Amburgo, in occasione del conferimento dello Hansischer Goethe-Preis, Gropius mette in luce i pericoli derivanti dall’eccessiva “specializzazione”: generale dissoluzione delle relazioni culturali, smembramento e impoverimento della vita, perdita della totalità da parte dell’uomo civilizzato. Si tratta di sintomi soltanto parzialmente diversi della medesima patologia che dà luogo alla beschädigtes Leben, la “vita offesa” cui Adorno aveva dedicato le Reflexionen di Minima moralia. Non è certo un caso che quest’ultimo, pubblicato per la prima volta nel 1951 in Germania, sia stato scritto in realtà tra il 1944 e il 1947 a Los Angeles, negli Stati Uniti, dove Adorno, in fuga dal nazismo, era emigrato già dal 1938, dopo una sosta di quasi quattro anni in Inghilterra. È lo stesso percorso seguito da Gropius, il quale, tra il 1934 e il 1937, lavora a Londra con Maxwell Fry e con il gruppo Isokon fondato da Wells Coates e John Pritchard; nel 1937 si trasferisce a Cambridge, Massachusetts, dove insegna Architettura Introduzione

IX


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