Quaderni Cds #1 - Un’esplorazione geostorica nel territorio della Circoscizione 7

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Circoscrizione 7

Reggiane

Pratofontana Santa Croce

Centro Documentazione Storica di Villa Cougnet

2007

1 uaderno

nel territorio della

a cura del Laboratorio Geostorico Tempo Presente

Gavassa Mancasale

Massenzatico

un’esplorazione geostorica


Progetto culturale curato da Laboratorio Geostorico Tempo Presente Reggio Emilia, via del Guazzatoio 25/b Elaborazione dei testi Lorenzo Reggiani - loregio@libero.it Antonio Canovi - antonio.solaris@libero.it Impaginazione e stampa Centro Stampa Comune di Reggio Emilia

Il volume è promosso dalla Circoscrizione 7 in collaborazione con



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INDICE

Presentazione

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I luoghi descritti

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Santa Croce Tra città e campagna: fine di una cesura secolare Gettando lo sguardo oltre Porta Santa Croce Un territorio di frontiera “Nascita di una città”: con le “Reggiane” la campagna si fa periferia industriale Moderna, sempre in transizione... Insomma, è Santa Croce Villa Cougnet e l’Oratorio dello Zappello: due luoghi “adottati” nel paesaggio dell’oggi Beata Vergine della Neve, “madòna di calzètt” od Oratorio dello Zappello...? Villa Cougnet, l’ombelico di Santa Croce

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Le OMI “Reggiane”; un profilo storico (1901-1951) Dalle origini al “biennio rosso” (1919-1920) Dalla conquista fascista all’eccidio del 28 luglio 1943 Dai giorni del lutto alla riconversione mancata (1944-1951)

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Gavassa Dalla dominazione romana all’evo moderno Il periglioso cammino di una Villa di campagna

79 86

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Massenzatico Villa Crustunei Una Villa feudale Ancora sulla chiesa di San Donnino Massenzatico “rossa” Nel fuoco del Novecento

97 98 108 109 118

Pratofontana “Parto di Fontana in Crustulo Veteri” Note storiche Un episodio nella Resistenza La Scuola

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Mancasale “Magnum Casale” La parrocchiale di San Silvestro e l’Oratorio di San Michele in Bosco Mancasale: una periferia da esplorare

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PRESENTAZIONE

Con questo primo quaderno si dà il via al Centro di Documentazione Storica di Villa Cougnet. Dietro vi stanno diversi anni di lavoro didattico e culturale svolto nell’ambito del progetto “Educa il Luogo”, un’esperienza che ha costruito sul campo sinergie associative prima inesplorate. La metodologia di intervento mira ad intersecare saperi e discipline nell’ambito geostorico (alla lettera: utilizzando la geografia e la storia, insieme). In tal modo, riunendo sul medesimo piano buone prassi educative e percorsi scientifici di ricerca, si è proceduto mettendo a punto repertori documentalistici e didattici via via più affinati, se non proprio inediti. Si è lavorato in modo laboratoriale, tessendo reti. La mole dei materiali assemblati e un’attenzione crescente nei confronti della documentazione ha fatto ora decidere per la creazione di un “nodo” reticolare di cui erano ormai in diversi – tra collaboratori e amici di “Educa il Luogo” – a lamentare la mancanza. Il Centro di Documentazione Storica si propone d’altronde come luogo di riconoscimento oltre che di raccolta. Archivia per valorizzare, promuove per innovare. Queste, almeno, le intenzioni che hanno trovato l’accordo unanime del Consiglio della Circoscrizione. Guardando in giro, si trovano esempi stimolanti di organismi del genere. La Città di Torino, in modo particolare, sta dando forma ad un’articolata rete di Centri e iniziative denominata Progetto Ecomuseo Urbano diffuso. Vi abbiamo trovato un punto sostanziale di convergenza con quanto sinora sperimentato nella Circoscrizione 7: la scelta di fare della memoria un bene partecipato, che vive nel tempo presente e chiede perciò un percorso attivo di interpretazione. Crediamo che a Reggio, città che ha prodotto moltissimo sotto il profilo educativo come della ricerca storica, vi siano ora le condizioni materiali per 7


intraprendere un cammino ugualmente consapevole della transizione in corso. Con questo primo Quaderno si è inteso offrire un primo quadro geostorico di riferimento, non strettamente congiunturale. Verranno altre ricognizioni, da condursi con strumenti disciplinari ancora diversi, ove continuare nello scandaglio dei giorni presenti. Roberta Pavarini presidente Circoscrizione 7 Antonio Canovi coordinatore Laboratorio Geostorico Tempo Presente

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Estensione territoriale

della Circoscrizione 7

i luoghi descritti

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Le “Reggiane� al massimo della produzione.

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SANTA CROCE

TRA CITTÀ E CAMPAGNA: FINE DI UNA CESURA SECOLARE Nell’Italia comunale la distinzione tra spazio urbano e rurale ricalcava altrettanti ambiti paesistici e identitari. La città s’arrestava alle mura di cinta, un elemento architettonico ricorrente nel paesaggio urbano che – in molti casi – ha continuato a svolgere una funzione anche daziaria fino alla prima metà del XX sec. Sul lungo periodo, il segno fisico tra un “fuori” e un “dentro” ha corrisposto ad un contrassegno culturale. Il fenomeno si attaglia bene al caso storico di Reggio. Le antiche mura di cinta che ne richiudevano l’abitato medievale – fatte riedificare dal duca Ercole II dopo la “tagliata” imposta alla metà del XVI secolo per adattarle alle nuove necessità di difesa – continuarono a rappresentare una frontiera indissolubile fino alla metà del XIX secolo. Nel 1848, in corrispondenza con i grandi moti insurrezionali europei, si procedette all’abbattimento della cittadella gonzaghesca (situata dove oggi sorge il complesso dei Giardini pubblici); qualche decennio più tardi, ad unificazione avvenuta, la demolizione della cinta muraria assumerà il piglio della “modernizzazione” urbana. Come ha ben riassunto Simonetta Sgobbi: Fino all’inizio del XIX secolo Reggio Emilia ha mantenuto pressoché inalterato il suo impianto medievale. Le mura testimoniavano una forte cesura tra la città, caratterizzata da un tessuto edilizio denso e compatto, e il forese che giungeva fin sotto le mura. Questa contrapposizione derivava dal rapporto di subordinazione che legava il forese all’elemento urbano, il quale rappresentava il centro di comando della campagna da cui, al tempo stesso, dipendeva economicamente.

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Reggio Emilia è rimasta interamente una città contadina per tutto il XIX secolo, mantenendo una struttura insediativa immutata in tutto il comune. Al 1884 (anno del primo rilievo cartografico IGM), la città mostrava, invece, già delle significative novità infrastrutturali a partire dal doppio tracciato ferroviario, quello principale della linea Bologna-Milano e quello secondario per Scandiano-Sassuolo, che immettevano sul territorio nuovi rapporti e gerarchie fra le parti1.

Al progressivo dissolvimento delle mura fa da controcanto il segno forte della ferrovia nazionale (costruita nel 1856) a nord della città. La costruzione della stazione ferroviaria assume la valenza di una vera e propria polarità urbana. Qui, in uno spazio “fuori porta”, vengono a costituirsi i primi insediamenti produttivi industriali, cui si accompagnano aggregazioni operaie inedite per Reggio. Nel volgere di qualche decina di anni, con un’accelerazione nel primo decennio del XX secolo, muterà radicalmente l’orizzonte dello sviluppo locale. Tra l’altro, l’asimmetria tra un “nord” di segno industriale e proletario ed un “sud” a carattere residenziale ma anche più borghese – una polarizzazione oggi eclatante nella vita del capoluogo – comincia a manifestarsi in quegli anni. Bisogna anche dire che solo con gli anni quella trasformazione finirà per assumere la dimensione epocale che gli riconosciamo nel presente. Dal principio le mura sono abbattute per essere sostituite con terrapieni e cancellate; tutt’attorno vi scorrono i viali di circonvallazione. Su questo primo ring si affacciano villini borghesi di respiro liberty, sovente dotati di ariosi giardini. D’altronde, per costruirvi l’ippodromo, la città sceglie ancora un luogo “interno”: l’area della ex Cittadella; mentre la cancellata daziaria rimarrà in vigore sino al 1926. Tutto sommato, bisognerà attendere gli anni Trenta e il decollo occupazionale delle “Reggiane” perché la città si accorga intimamente di come il confine

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S. Sgobbi, Trasformazioni urbane, mutamento sociale e politiche di piano, tesi di laurea, Venezia, Istituto Universitario di Architettura di Venezia, a.c. 2002-2003, p. 32.


tra “cittadini” e “villani” si sia ormai spostato al di là dello storico impianto medioevale2.

Carta Topografica del Comune di Reggio Emilia dei primi del ’900 [Archivio dell’Ufficio Tecnico del Comune].

GETTANDO LO SGUARDO OLTRE PORTA SANTA CROCE Ogni analisi storica che abbia come oggetto il territorio della Circoscrizione 7 non può che partire dalla Porta di Santa Croce, passaggio obbligato per chi dalla zona nord del contado reggiano volesse giungere in città o viceversa. Collocata in corrispondenza dell’antico cardo romano, la Porta data al 1199, quando il libero Comune decise l’allargamento delle mura medioevali. Qui attorno, nei secoli a venire, prenderà vita un quartiere affollato e popolare, affatto distinto nell’identità urbana che ha difeso strenuamente sino al “risanamento” per ragioni di “igiene sociale” operato lungo il XX secolo:

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Nel 1937 il poeta dialettale Amerigo Ficarelli compone una poesia dal titolo Da Santa Crous (verrà pubblicata postuma in “Il Pescatore Reggiano”, 1938) dove collega in modo esplicito la radicale trasformazione urbana e sociale in corso a Reggio Emilia alla forza di attrazione esercitata dalle “Reggiane” nei confronti di manodopera ben al di fuori della provincia reggiana.

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ci troviamo nel cuore del pòpol gióst, il “popolo giusto”3. Unica tra le porte della cinta muraria, Santa Croce sopravvive nel XIX secolo agli abbattimenti “modernisti”. Viene anzi restaurata nel 1863, forse perché chiamata ad assolvere – guardando verso la ferrovia – alla funzione di soglia monumentale, sopravvivenza della “vecchia” città murata che guarda ad un mondo “nuovo” dove le antiche frontiere stavano rapidamente cadendo sotto l’avanzare dei treni a vapore. La Porta ha così finito per dare il proprio nome al nuovo quartiere operaio e industriale che inizierà a prendere corpo nei dintorni, tra viale Regina Margherita e viale Ramazzini: Santa Croce Esterna, per distinguerla dalla parte Interna.

Serve qui una digressione. Noi oggi identifichiamo Santa Croce con una storia che viene fatta corrispondere alla vita delle Officine Meccaniche “Reggiane”, la fabbrica di carpenteria metallica nata nel 1901 e che a un certo punto – in corrispondenza della seconda guerra mondiale – diventerà la più grande nella regione. Una storia, dunque, che sembra stare interamente dentro al XX secolo. In realtà, questo territorio presenta alcuni elementi ben identificabili che ne caratterizzano la geografia già prima della fondazione delle “Reggiane”. Primo tra questi, la presenza del canale di Secchia, il quale – lungo la direttrice che dalla Porta Santa Croce conduce verso Novellara – ha favorito storicamente la formazione di strutture protoindustriali. Vediamo così la persistenza di parecchi mulini per la macinazione di granaglie o la lavorazione di tessuti: il Mulino Novo e il Mulino del Panno, nelle vicinanze delle mura; il Mulino della Nave, posto all’incrocio tra la strada per Novellara e via del Chionso; il Follo (nome che ricorda la “follatura” della carta) in prossimità dell’incrocio tra via Adua, via Gramsci e viale Regina Margherita; ancora più a nord, di fronte alla chiesa di Mancasale, il mulino omonimo dove le granaglie venivano scaricate dalle chiatte che risalivano il Canalazzo4. Lungo la medesima direttrice prenderà vita, alla fine del XIX secolo, una

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Antonio Canovi, Il popolo è giusto. Un mito di città, suppl. al n. 32 (83) de “Il Cantastorie”, ottobredicembre, 1988.


tra le primissime fabbriche della città: la ditta di spazzole e fiammiferi Agazzani. Per il resto – se ci ponessimo nella prospettiva di un viaggiatore che vi arrivava ancora alle soglie del XX secolo – avremmo trovato campi coltivati, qualche edicola religiosa e case sparse. Poi, rapidamente, lungo l’asse di viale Ramazzini e via Veneri, sorgeranno le prime abitazioni urbane: casette per i ferrovieri e per gli operai delle “Reggiane”, qualche villino borghese; quindi, entro il recinto della fabbrica, le case operaie del “Cairo”. Bisognerà attendere il 1917 per vedere costituirsi, attorno al nuovo campanile di via Adua, in posizione piuttosto eccentrica, una nuova parrocchia (dedicata, ovviamente, alla Invenzione della Santa Croce). Mentre un cimitero in proprio, altro segno distintivo per ogni potestà frazionale e parrocchiale, non nascerà mai. Santa Croce Esterna, in tal senso, rappresenta a tutti gli effetti la prima periferia moderna del capoluogo: sta fuori le mura, non è più campagna, qui prende corpo il mondo “nuovo”.

Pianta della città anni Venti.

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Cfr. A nord della città. Una storia di acque nella Reggio che cambia, a cura di A. Canovi, Diabasis, 2007.

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UN TERRITORIO DI FRONTIERA Seguiamo la descrizione dei confini parrocchiali5: Da Porta Santa Croce è linea di confine la cinta della città verso Ponente, fino alla linea dei Canale di Secchia che esce dall’orto dei P.P. Cappuccini. Da questo punto il confine è lo stesso canale verso settentrione (non comprendendovi però la casa Terzi che parzialmente giace sul canale) fino allo sbocco in esso dell’altro canale verso Ponente. Prende per questo ramo fino alla stradicciola dei Paradiso, percorrendola verso settentrione fino al canale di Enza. Prosegue lungo questo canale da ponente a levante, attraversando con esso la strada di Mancasale davanti al Molino della Nave, continuando lungo il percorso del canale stesso, prima verso Nord-Est, poi verso Sud-Est fino alla strada provinciale di Gavassa e Correggio, proseguendo al di là di questa fino al Rodanello. Percorre detto Rodanello fino alla strada dello Zappello, seguendo detta strada Provinciale per Correggio, e per questo si riunisce col punto di partenza a porta Santa Croce.

Una prima osservazione: scorrendo i toponimi si vede chiaramente come la parrocchia sia descritta tramite i propri caratteri rurali, mentre manca un esplicito riferimento agli insediamenti abitativi e produttivi che pure già esistevano. Probabilmente, ciò indica una difficoltà nel nominare il “nuovo” in formazione. Certo, la geografia della parrocchia si estende in un territorio per una larga parte ancora contrassegnato dal reticolo rurale a maglia larga, attraversato soprattutto da strade vicinali. Si evidenzia, tra queste, la strada vicinale detta delle Ortolane, la quale ha costituito a lungo la via di accesso alla città per le campagne poste a nord della città (transitando su due varchi d’acqua: il Rodano e il canale del Chionso). Questa via venne anche soprannominata strada dello “Zappello” o “Zappellaccio”, dalle buche fangose che punteggiavano il piano stradale. Bisogna dire che la sovrapposizione – nelle carte come negli usi quotidiani – tra i vecchi e i nuovi toponimi continuerà a lungo nel corso del secolo: il viottolo del Lupo indicava una

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A. Canovi, M. Mietto, M.G. Ruggerini, Nascita di una città, Milano, Franco Angeli, 1990, p. 27.


parte dell’odierna via Bligny, mentre la stretta via Mogadiscio – oggi un passaggio ciclopedonale – era detta viasòl dal Busìn (il viottolo del Buchino). Sentiamo una testimonianza, raccolta una ventina di anni fa nell’occasione di una tra le prime pubblicazioni dedicate a Santa Croce6: C’era niente, in via Adua, c’era! lo mi ci ricordo molto bene, per dirla, ed lá dalla [oltre la] ferrovia non c’era niente, se non una due case dalla parte destra arrivare in fondo. Da questa parte di qua, c’erano altre tre o quattro con l’angolo di via dal viasòl dal Lòv [viottolo del Lupo], oggi via Bligny, che c’era una donna che conciava pelli; dalla parte di là c’era un contadino che si chiamava Lasagni, poi c’era la vecchia casa colonica, non colonica... era dopo quella di lotti, la via ed Mimìn. Al cosidèt casermòun ed Maiòun [il cosiddetto “casermone”], questa casa di gomma [ndr, cioè ‘elastica’ perché sovraffollata] che ci si trova poi in quei tempi in tutte le frazioni. Oggi c’é il negozio lì di alimentari, di fronte, al villaggio Pistelli proprio, l’era una vecia cá dove la ginta se sposèven, andéven séimper déinter e mai a n’in gnìva fora, sèimper nasìva di ragàs, eren ed cà casermoun tipo [era una vecchia casa dove la gente si sposava, andava sempre dentro e mai se ne andava via, nascevano sempre dei bambini. erano di quelle case tipo casermone]. Davanti a villa Cougnet c’era la casa agricola, che c’era scritto in alto Zappello, che era una casa di lotti, poi c’era la casa di... Me le ricordo tutte come se fosse, no, un film: al casèin [il “casino”, si intende rurale, ndr] ed lulém, anche quello lì era un grosso agglomerato di pietre vecchie che poi l’hanno abbattuto e dentro c’erano i cosiddetti casanti, i cambaránt [i cameranti]. Erano della gente che andava in affitto... egh deven al cambri... al cambarànt perché a gh’cra la cambra [gli davano delle camere... camerante perchè aveva la camera]. Un po’ più avanti di due o tre case e si andava al campovolo, da questa parte c’era villa Cougnet e c’era la chiesa di S.Croce”.

Cesare racconta di un paesaggio a maglie larghe, punteggiato di qualche vecchio edificio rurale. Con due presistenze importanti (le ritroveremo più avanti) che nell’ultimo lustro sono state oggetto di un vero e proprio processo di risignificazione: l’Oratorio detto “Madonna della Neve” e “Villa Cougnet”.

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Cesare, 1926, in Ibid., pp. 61-62.

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“NASCITA DI UNA CITTÀ”: CON LE “REGGIANE” LA CAMPAGNA SI FA PERIFERIA INDUSTRIALE La nascita e lo sviluppo delle “Reggiane” – a Reggio chiamate non a caso la “Officina” – costituiscono il contrassegno distintivo assunto nel corso del XIX secolo da questo vasto territorio a nord della città che chiamiamo oggi Santa Croce. La fabbrica, quando si installa tra viale Ramazzini e la ferrovia nazionale, si fa indubbiamente portatrice di un progetto di modernizzazione economica che investe il capoluogo nel suo complesso. Ma i cicli della sua vita finiranno per investire e condizionare la vita medesima della città, sotto il profilo urbanistico non meno che da quello sociale. Agli albori del XX secolo Santa Croce esterna è un’espressione nominalistica che ritroviamo accanto al nuovo respiro delle OMI “Reggiane”. Nelle cronache locali vi si parla di “sobborghi industriali”, quando non di “suburbio”. Siamo ancora in una porzione di territorio che non ha una sua autonomia amministrativa e partecipa della vita delle Ville circostanti: Ospizio, sul lato sud-est a scavalco della via Emilia; Mancasale sul versante a nord-ovest, dove transita lo stradone per Novellara e vengono incrociati i canali di Reggio, d’Enza, del Chionso. Si trattava di un territorio ad uso prevalentemente agricolo, con poche abitazioni o pochi sobborghi rurali sparsi lungo assi viari di tipo tradizionale (viottoli, stradoni, carraie, canali), di cui la lunga via detta dello “Zappello” – traversante sull’asse nordsud – costituiva l’elemento baricentrico più caratteristico. Siamo, per utilizzare una chiave interpretativa ripresa da diversi studiosi, in un territorio policentrico. Tra i punti di aggregazione riconoscibili già agli albori di quella che diventerà Santa Croce Esterna, riconosciamo: l’agglomerato popolare del “Follo”, lungo lo stradone per Novellara; la Cooperativa per le Case operaie di Villa Mancasale in via Candelù; alcuni caseggiati e “castelli popolari” nella zona prospiciente il futuro Campo di Volo, con il castèl ed Miera (Castello di Miari, dal nome del proprietario) in testa.

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Il casermone del Follo, fine anni ’70.

Il Follo, demolito intorno al 1980, era situato sulla strada per Mancasale in prossimità del bivio per San Prospero (ora c’è una grande rotatoria). Si trattava di un nucleo molto vecchio, preesistente alla nascita di Santa Croce e per la quale ha rappresentato il confine ad ovest. Era stato edificato in un luogo molto favorevole per alcune attività preindustriali, posto com’era allo sbocco della città verso la bassa, in una zona ricca di acque e canali dove sorgevano diversi mulini (tra i quali, appunto, quello detto “del Follo”). Sentiamo Aldo7: Io sono nato a Santa Croce in quel casermone che hanno abbattuto lì, il Follo, che c’era in fondo all’incrocio dove hanno messo il semaforo adesso. Sono nato lì, dopo mi sono spostato, ho fatto tre traslochi ma sempre in questa zona perciò sono un santacrocino puro, diciamo. Sai, sessantun’anni! Mi ricordo fin da bambino i cambiamenti che sono stati fatti, anche, diciamo così come edilizia, mi ricordo ancora il canalazzo aperto, dal sottopassaggio fino lì alla Nave [...]. E’ quello che prosegue dalla Nave dopo andar giù a Mancasale fino alle Rotte di Bagnolo, quello era tutto un canale scoperto, l’han coperto che ero un bambino appunto. E poi mi ricordo quando

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Aldo, 1925, in Ibid. p. 49.

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hanno fatto il bacino della bonifica lì, ero piccolissimo però mi ricordo bene [...]. C’erano dal Follo, arrivare alla chiesa di Mancasale, c’erano quattro mulini, che andavano ancora [...]. Qua al Follo c’era il mulino Rossi, e poi qua dove c’è il magazzino dei formaggio ce n’era un altro lì che lo chiamavano al mulèin dal Macagnàn e era di Dallari [...]. E poi c’era lì alla Nave il mulino Giglioli e, lì di fronte alla chiesa di Mancasale, lì era il più grosso che era quello di Forti”.

Oltre ai molti mulini la zona ospitava – nella “bassa” argillosa che partecipava del territorio di San Prospero Strinati – un’altra manifattura di tipo tradizionale, dove molte erano le donne ivi impiegate: la fornace dei mattoni. Don Gaetano Incerti8: Sino al novecento e anche dopo, nella parte bassa di Reggio c’erano ben 4 fornaci. Reggio è ubicata lontano da centri estrattivi di marmo o sasso perciò l’architettura ha dovuto accontentarsi di “terre cotte”. Questa è l’ultima fornace abbattuta negli anni ’50 quando già si amavano le cose passate. Era situata nei pressi dell’attuale tribunale; per chi la ricorda l’interno era un capolavoro di meandri che ventilavano continuamente l’aria calda. […] Era un lavoro disagiato e da strozzini. Veniva infatti impiegato quasi solo personale femminile e di buona stazza e mal pagata, ecco come: L. 19 per 1000 mattoni; L. 30 per 1000 coppi e lambrecchie; L. 55 per 1000 laterizi vari il cui prezzo di vendita non fosse inferiore a L. 80. Eravamo nel 1907.

Abitazione eretta nel 1908 dalla Cooperativa per le Case Popolari a propietà indivisa di via Candelù.

Il laghetto a tutt’oggi visibile, nell’area a sud dell’ipermer8

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Don G. Incerti, Rivoluzione stradale. Piange… Santa Croce, Reggio Emilia, 2003, p. 21.


cato “Ariosto”, costituisce il frutto residuo delle attività “estrattive” della vicina fornace. Sempre nei pressi dello stradone per Novellara, sul lato opposto al “Follo” e in angolo con il canale del Chionso, nel 1908 sorgono le “Case operaie di Mancasale”. Siamo in via Candelù, a pochi passi dal vecchio mulino (abbattuto nell’agosto 2005) della “Nave”. Si tratta di un borgo operaio che si aggrega attorno ad una propria, distinta identità politica: sono operai socialisti che danno vita ad una cooperativa di abitazione a proprietà indivisa (tuttora attiva). Ne è stata offerta questa fotografia storica9: La scelta dell’autorganizzazione contò probabilmente nella stessa opzione dell’area: fuori le mura ma vicino alla città, sufficientemente lontana da altri grossi insediamenti e, particolare non irrilevante, da qualsiasi parrocchia. Candelù viene a configurarsi come un piccolo borgo, attivo e dotato di una serie di servizi in grado di attirare la popolazione sparsa circostante (la fontana, in una zona senza acqua potabile; lo spaccio alimentare cooperativo). Un grosso centro sociale era l’osteria-bocciodromo, frequentata dai socialisti non solo di Santa Croce. Una notevole capacità organizzativa, mantenuta sino ai giorni nostri e celebrata simbolicamente con la festa popolare. Prima la Sagra - quella di Mancasale - tenuta in loco con tutti i divertimenti tipici [il ballo prima di tutto] e in alternativa alla parrocchia; nel dopoguerra, la festa dell’Unità. Risulta chiaro il tentativo di consolidare il proprio centro nei confronti dell’esterno. Una preoccupazione di lungo periodo se ancora oggi “quelli di via Candelù” sono additati per la loro orgogliosa autonomia e il basso tenore degli scambi con altri centri di aggregazione sociale. L’unico termine di relazione realmente riconosciuto è la città. D’altronde – se non altro per fede ideologica – gli abitanti di queste case erano volti alla partecipazione ad una vita sociale ‘moderna’, propria del modello urbano.

Bisogna comunque ricordare che il contesto “urbano” sia delle case popolari di Mancasale che del Follo, come delle prime attività artigianali e protoindustriali presenti in zona, si inserivano ancora in un contesto prevalentemente agricolo, fatto di grandi

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A. Canovi, M. Mietto, M. G. Ruggerini, op cit., p. 47.

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spazi e orti dove i nuovi caseggiati costituiscono in effetti un elemento di rottura nel paesaggio. Qualcosa di ben identificabile agli occhi di chi vi abitava, come Vania, Elide, Tullio10: [Vania, 1915] Quando sono venuta qui c’era un bel posto, qui c’era campagna [...]. Non c’erano vie allora, c’era tutto aperto, era tutta campagna. C’erano poche case, diciamo non c’era quel palazzo lì davanti, non c’era questo, c’erano i prati, gli orti, i giardini quelli che lo volevano fare, cosi [...]. Case popolari di Villa Mancasale ecco, come adesso. Case popolari di Villa Mancasale, però adesso abbiamo via Candelù, via Selo, via Faiti che invece prima non c’erano le vie, c’era tutto cortile qui, orti, prati, c’era sì più spazio diciamo, meno case ma più spazio.

La ex Cooperativa di consumo, oggi ristorante, in via Gramsci. [Elide, 1916] Lì c’era un gruppo di socialisti allora, prampoliniani naturalmente che sono poi quelli... Una parte si sono resi promotori di costruire queste case. Le prime case sono sorte sotto la cooperativa a proprietà indivisa, ecco e questa è stata una iniziativa grossa tenuto conto al periodo. Sono sorte perché l’iniziativa è venuta nell’otto, queste case sono state fatte nell’otto e nel venti erano dieci anni che avevano iniziato. Non erano

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Ibid., p. 48.


neanche... erano parte finite sì e no [...]. E queste case si sono salvate dalla violenza del fascismo perché erano ipotecate dai debiti, dalle banche. [Tullio, 1923] Considerata la zona dove eravamo noi che era una zona al centro della quale c’era questa cooperativa case popolari, una vecchia cooperativa a proprietà indivisa, noi intorno a questa cooperativa avevamo tante piccole proprietà. Eravamo noi e tanti altri abitanti di questa zona, ma sì eravamo considerati un po’ un po’ la borghesia rispetto al nucleo delle case operaie [...], anche se dal punto di vista economico, l’andamento economico delle diverse famiglie era praticamente uguale a quello di questa gente.

Immagine della “Nave” prima della demolizione.

Abbiamo detto di un territorio policentrico. Il Follo e via Candelù risultano senz’altro eccentriche rispetto al nuovo baricentro industriale che ai primi del Novecento si va formando su viale Ramazzini e attorno alle “Reggiane”. Ma nel medesimo torno di tempo (tra il 1911 e il 1913) viene disegnata via Adua, un’asta lunga un km destinata a rivoluzionare – in un lungo processo storico tuttora in corso – le gerarchie urbane nell’intera area. Via Adua ha infatti la particolarità di scorrere sulla direttrice est-ovest, praticamente in parallelo alla via Emilia, mentre le vie

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di comunicazione presistenti, grandi e piccole, correvano a raggiera verso la città, dunque sulla direttrice nord-sud. Via Adua è un grande, “nuovo” (come si sottolinea nella memoria) stradone che porta a Correggio: sino alle soglie della seconda guerra mondiale rimarrà tutto sommato uno spazio piuttosto sgombro dove fare ad esempio le corse in motocicletta. Al tempo stesso, lentamente, comincia ad urbanizzarsi: ai suoi lati vengono edificati abitazioni residenziali e piccoli stabilimenti produttivi, poi – ma solo dopo la seconda guerra mondiale – sarà la volta dei primi negozi. È insomma grazie a via Adua che un territorio dal carattere frammentario assume le sembianze di quartiere policentrico.

Carta della città (zona nord) 1942.

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Al momento della sua formazione, su via Adua insistono giusto alcuni complessi rurali evidentemente presistenti. La memoria locale ricorda – oltre alla già menzionata villa Cougnet – il caseggiato popolare detto della cà d’Maioun (si trovava di fronte all’attuale villaggio “Pistelli”). Werther ne traccia un affresco complessivo, suggestivo nella descrizione infarcita di espressioni dialettali e pregnante per la capacità a situarsi entro quel contesto geostorico ormai radicalmente mutato11: Egh sun stè quarantasìnch, quarantùn àn e po’ dopa em sun spustè. Sèint metere adès stagh sèmper in via Adua listès, mo luntàn sèint méter [Ci ho abitato quarantacinque, quarantun anni e poi dopo mi sono spostato di cento metri e adesso sto sempre in via Adua lo Stesso lontano cento metri]. E’ stata una delle prime case quella lì ed Maiòun, che... cuntèr al cà che gh’era alòra in via Adua, e gh’era dó, cola ed... trei, quater quella di fronte alla chiesa, poi ce n’erano due vecchie qua, cola lè ed la Reggiana, sìnch, se, set cola lè ed Maiòun, cola ed Barbieri lè in tal spìgh ed... còs, òt cola ed... nòv, dès, òndes, a gh’era dòdes cà in via Adua alòra [che... contare le case che c’era allora in via Adua, ce n’erano una, due e quella dei... tre, quattro quella di fronte alla chiesa, poi ce n’erano due vecchie qua, quella della Reggiana [la squadra di calcio], cinque, sei sette quella lì di Maioni, otto, quella lì di Barbieri nello spigolo di... ‘coso’, otto quella di ... nove, dieci, undici, c’erano dodici case in via Adua allora]. Parlo dell’epoca dei venti ventuno ventidue, parlo di quell’epoca lì, micca... Sessant’anni, sessantun’anni fa anche. Via Adua la ciamèven al stradòun nòv alòra [la chiamavano lo stradone nuovo allora] perchè era appena stato fatto, non so se sia stato del dodici del tredici o del quattordici. Chiesa e stradone. E lo stradone, e l’an ciamè... préma ed ciamèrel via Adua al ciamèven sèimper tót stradòun nòv, dalla Tripolitania al ciamèven [E lo ‘stradone’, lo hanno chiamato ... prima di chiamarlo via Adua lo chiamavano sempre tutti stradone nuovo, dopo la guerra di Libia]. E poi c’erano le vie laterali, c’era la via... Qui la chiamavano via del Busìn, quella lì dove c’è la villetta della Reggiana, quella lì, era poi privata quella lì [...]. Anticamente era privata perchè tante volte ci mettevano la catena. Po’ dopa gh’era via Bligny che la ciamèven via dal Lòv, e via dal SapèI che l’era via Veneri, cl’etra, cl’etra andèr in là era via delle Ortolane [Poi dopo c’era 11

Werther, 1915, Ibid., p. 60.

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via Bligny che la chiamavano via del Lupo, e via dello Zappello che era via Veneri, quell’altra, quell’altra procedendo avanti era via delle Ortolane]. Dalla parte di là, altre strade... Sempre a quell’epoca lì. Dopo è nato, coi quartieri nuovi, è poi nato delle strade nuove”.

La Chiesa di Santa Croce, primi anni Venti.

E proprio lungo via Adua, ancora oltre la Ca’ d’Maiòun ma sul lato che guarda a sud, nel 1917 venne edificata in uno stile liberty piuttosto austero la chiesa di Santa Croce. La nascita di questa parrocchia va correlata strettamente con lo sviluppo impetuoso delle “Reggiane” registrato a ridosso e durante il conflitto. La presenza in fabbrica di oltre cinquemila operai (molte le operaie), nonché la presenza di forti nuclei operai sparsi sul territorio, dovettero porre alla Curia il serio problema di come provvedere alla “cura delle anime” di tanta popolazione “nuova”. Negli anni Trenta, a fianco della chiesa (dove ora ha sede l’Oratorio diocesano), sorgerà poi il primo asilo nella zona, affidato a personale religioso (il “Campi Soncini”, attualmente ubicato in via Veneri). La nascita della nuova parrocchia (di cui si sono prima mostrati i confini) costituisce una prima formalizzazione dell’esistenza di Santa Croce; nel 1921 diverrà finalmente distretto statistico a se stante.

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Villa Chilloni in via Veneri.

Altro edificio rimarchevole, databile alla seconda metà del XIX secolo, è la villa Chilloni, in stile di casa padronale, su via Veneri. Sulla medesima via, con caratteristiche di villino borghese “fuori porta” (dunque collocabile nell’epoca del liberty) si trova villa Luigia, contornata di un ampio giardino.

Il Castello di Miari prima dell’abbattimento.

Veniamo ora ai “castelli popolari”, veri e propri formicai umani per salariati agricoli e venditori ambulanti, miseri di condizione. Tra questi, il più rimemorato è indubbiamente il “castello” detto di “Miari”. Sentiamo Dimma, Rameres, Werther12: 12

Ibid., p. 50.

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[Dimma, 1912] Io sono nata lì all’Ospizio. Egh gìven al castello Miari [lo chiamavano il castello di Mari], tutte case vecchie vecchie... molti... si andava molto d’accordo lì, sembrava tutta una famiglia [...]. Eran lì al campovolo, beh allora non c’eran poi tante case ... però dove abitavamo c’eran tutti ì negozi, c’era la osteria, c’eran i giochi da bocce che gli uomini andavano a giocare lì, c’era una fornace dove abitavano... poi c’eran tutti i contadini. Ah, c’eran tutti i contadini, ‘na mùcia ed cuntadèin, insòma [un mucchio di contadini, insomma] Eravamo comodi [...]. Am ricòrd bèin al Castèl [Mi ricordo bene il Castello], sono ricordi che si ricordano, lo chiamavano castello Miari perché proprietari erano molti dei Miari, allora c’han sempre detto al castello di Miari, acsè [così]. [Rameres, 1918] Oh mo l’era un lavòr! [Oh, ma era un lavoro!] Al castèl de Miera, una borgata di case che era tremenda, qualche cosa di orrendo a vederle, o ancora del Cairo come abitazione civile [...]. Lì era la borgata dei comunisti, lì non abitava nemmeno un fascista [...]. Loro avevano o una vita a sé, era una seconda repubblica [...]. Al castèl de Miera c’ha più storia, più storia del Cairo. Quelli che hanno sentito dire me, al gh’à una storia cl’è memoràbil [ha una storia che è memorabile]. [Werther, 1915] Era una borgata abbastanza grossa. Quand es rivèva da la streda là in che es curvèva per andèr a cl’etra streda ed via Adua [Quando si a dalla strada là in fondo, che si curvava per andare in quella strada, via Adua], lì in mezzo c’era un viottolo che c’era una cl’era ciamèe al castèl de Miera [che era chiamata il castello di E al castèl de Miera l’era un popolo a sè, per dìr [così per dire], no per caratteristica, perché erano allora quasi tót di ròs, ma di ròs, d’la ginta! che... [tutti dei rossi, ma dei rossi, della gente!]

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Il “Cairo” prima e dopo i bombardamenti

Con l’urbanizzazione di Santa Croce si diffondono tipologie abitative moderne, prima inedite alla città. Il più noto è sicuramente il “Cairo”, il complesso di quattro condomini operai sorti tra il 1911 e il 1913 come case operaie per le maestranze “immigrate” delle “Reggiane”. Si tratta di operai provenienti da altri comuni nella pianura reggiana od anche – per via di una specializzazione professionale – da destinazioni più lontane. Vi sono ad esempio modenesi, marchigiani, lombardi. 29


Bisogna poi soffermarsi sul toponimo. Il nome “Cairo” nasce all’interno del medesimo gruppo di famiglie ivi residenti e sta probabilmente ad indicare proprio la varietà delle reciproche provenienze, in una convivenza affollata e promiscua. Ma al di là di tutto, per chi vi abita “Cairo” diventa sinonimo di una identità sociale distinta e orgogliosa. Diverso il punto di vista di chi, dall’esterno, osservando questo strano agglomerato. “Quelli del Cairo” hanno a lungo rappresentato una sorta di “corpo di fabbrica”, che nella realtà della fabbrica plasmava la propria vita e sostanzialmente refrattario a legarsi nella vita di quartiere. Il Cairo infatti, occupava, fino agli anni sessanta, la porzione di terreno delle “Reggiane” che oggi è occupata dai capannoni occupati dalla ditta di trasporti Executive. Si trattava di quattro lunghi “casermoni” edificati sulla proprietà delle “Reggiane”, in un contesto di ampi prati – siamo nel secondo decennio del secolo scorso – chiusi tutt’attorno da una recinzione (da quanto si ricorda, prima era una siepe e poi un alto muro). Il solo collegamento diretto era con la fabbrica (all’epoca tutta disposta lungo viale Ramazzini), tramite un viottolo non asfaltato lungo un centinaio di metri.13 Con lo sviluppo della fabbrica questi condomini ante litteram verranno raddoppiati in altrezza, arrivando ad ospitare ciascuno un centinaio di persone. Sentiamo l’impressione di Sonia, quando ragazza li vide per la prima volta: Per me era un posto, faceva parte delle “Reggiane”, quindi le Reggiane fino a quando non ci sono entrata le ho sempre vissute con un certo distacco [...]. Era chiuso dentro queste mura. Queste mura a me facevano un po’ effetto perché cioè mi sembrava che fosse un po’ una segregazione, un posto che la gente non dovesse uscire di lì [se non] con dei permessi [...]. Quindi vedere queste case cintate da queste mura, per me, per me era non una prigione ma quasi insomma, mi sembrava che le persone dovessero avere il permesso quindi le guardavo con un certo occhio. Così, un’impressione che mi sono fatta io.

13

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Sonia, 1921, Ibid., p. 46.


Il “Cairo”, nella percezione degli altri abitanti in Santa Croce, rimaneva pertanto parte del paesaggio di fabbrica, un mondo a se stante. Eppure, in quanto elemento di rottura con le tradizionali aggregazioni urbane e rurali della zona, ne diventa anche elemento di riconoscimento verso l’esterno. Cesare14: Ci andavano un po’ tutti, lì [alle “Reggiane”] noi del quartiere, il Cairo in particolare – perché Santa Croce Esterna la si individuava nel Cairo. [...] lì c’erano quattro lunghe case, credo che fossero novantanove le famiglie che abitavano lì dentro, era il nucleo più vecchio di Santa Croce. Perché parlèr ed Santa Cròs interna es perla ed Borgh Emilio, parlèr ed Santa Cròs esterna es perla dal Cairo [perché parlare di Santa Croce Interna si parla di Borgo Emilio, parlare di Santa Croce Esterna si parla del Cairo], come nucleo più importante”.

Le famiglie operaie vi stavano in piccoli appartamenti sovraffollati – normalmente oltre ai genitori c’erano anche quattro o cinque figli – senza comfort e, almeno fino agli anni trenta, senza acqua in casa. Ma era la condizione di tanti lavoratori, per l’epoca. Anzi, si trattava di abitazioni nuove per edificazione, più salubri di tante altre nel centro storico. Simone15: Eravamo novantasei famiglie in quattro case. Lì era tredicimila metri quadrati e cerano quattro case con un cortile… In un primo tempo c’era il primo piano e un piano rialzato un secondo piano in un secondo tempo. Per il periodo di allora erano anche delle case decenti: ci avevamo l’acqua in case perché in un primo tempo ce l’avevamo solo in cortile; c’era una lavanderia e poi ognuno aveva il gabinetto in casa… erano delle case abbastanza decenti per quel periodo. […] Avevamo il gabinetto col water, due camere da letto, una sala grande e uno sgabuzzino. Noi dormivamo in quattro in una camera… piuttosto stretti ma comunque ci stavamo. […] Il pavimento era a mattoni rossi, quelli alti di fornace. Era abbastanza decente tenendo conto che c’erano zone come quella di Borgo Emilio Francotetto e questi agglomerati qui erano molto peggio come case.

14

Cesare, 1926, Ibid., p. 46.

15

Intervista a Simone Brega, in A. Canovi, La storia e la memoria: uso delle fonti orali nella ricerca storica, tesi di laurea, Università degli Studi di Bologna, Bologna, 1984, pp. 363-365.

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Il “Cairo” resisterà, pur uscendone malconcio, al bombardamento del 1944. Ancora Simone16: […] Lì distrussero quattro metà. La prima metà siccome le case erano tutte parallele, così… la prima metà, la seconda metà, la terza metà e la quarta. Distrussero poi anche tutta l’Azienda e siccome noi eravamo in un angolo praticamente eravamo incastrati dentro la fabbrica come case ma non ci fu neanche un ferito perché una parte era nei sotterranei cioè erano delle buche a zig zag coperte con delle tavole e un po’ di terra sopra, e una arte era scappata dentro il ricovero delle Reggiane che quello era un ricovero vero, antiaereo, sotto la direzione. Lì c’era un grosso rifugio, andavano tutti lì sotto e… non ci fu neanche un ferito perché poi le bombe sfiorarono la fossa ma non la colpirono mai… tutti impolverati, ma non ci fu un ferito.

Il vecchio “Cantinone”, anni Novanta.

Dopo la guerra il “Cairo”, come buona parte delle abitazioni in possesso delle “Reggiane”, passa all’Istituto Case Popolari, il quale continuerà a gestirlo sin quasi alle soglie dell’abbattimento, nei primi anni settanta. Con la sua distruzione sparirà anche l’unico esempio di case operaie costruite direttamente da

16

32

Ibid. p. 365.


un’azienda industriale nel Comune di Reggio Emilia. Diventa allora importante, in sede storica, ricostruirne i tratti antropologici e culturali. Circa l’identità politica, Simone lo rivendica apertamente: “In generale erano tutti di sinistra”: ricordando come non vi fosse peraltro “una vera vita associativa”, la quale veniva svolta nelle “vecchie osterie”, queste sì poste al di fuori del “Cairo”.17

Dopolavoro “Reggiane”, via Agosti.

Il capitolo delle osterie sarebbe senz’altro lungo da ricostruire. Ve ne erano nei dintorni almeno due più memorabili di altre. Su viale Ramazzini funzionava il “Cantinone”; comodo, proprio di fronte a quella che era la portineria dello stabilimento, era considerato un ritrovo tenuto sott’occhio dalle squadre fasciste. Nell’ordine: Medeo, Gualtiero, Rameres18. [Medeo, 1915] Andando in via Ramazzini, voltando a destra, andando avanti un po’, c’è il Cantinone adesso. Non è più l’osteria, non c’è più. C’è una trattoria, c’è la privativa, lì c’erano i generi alimentari,c’era la privativa, c’era l’osteria, lì c’era il deposito da biciclette. [Gualtiero, 1906] Il Cantinone. Lì c’era un’osteria, il Cantinone, solo la parola Cantinone vuol dire che c’era una cantina, dove

17

Ibid., p. 370.

18

A. Canovi, M. Mietto, M. G. Ruggerini, op cit., p. 73.

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si va giù c’era il deposito, c’era una cantina piena di botti, ma una cantina lunghissima di quei bottoni tutti che han la spina. Allora facevano il vino loro, era un cantinone. Davanti dove c’è il caffè adesso c’era l’osteria. [Rameres, 1918] Beh, di fronte a Gallinari c’è il Cantinone [...]. Ecco lì dentro c’era il covo dei fascisti [...]. Dentro al Cantinone, adesso c’è un bar, una trattoria, e... lì c’era il covo dei fascisti delle Officine Reggiane [...]. Cantinone adesso e Cantinone allora [...]. Facevano i fascisti per mangiare, difatti facevano i suoi affari perchè l’osteria era sempre piena, piena. Ah, uno che non era micca fascista andava micca lì allora. Venivano, era l’osteria più nera che ci fosse stata in tutta la provincia di Reggio il Cantinone! Dove c’erano i più grandi picchiatori [...]. Venivano quelli della bassa plebe.

Per contro esistevano altre osterie dove gli avventori erano decisamente schierati su posizioni antifasciste. Nell’ordine: Aldo, Norma, Wallì19: [Aldo, 1925] Ce n’era una giù per via Mogadiscio là, la strada che va giù alla chiesa [...]. Sulla sinistra, l’unica casa che c’è lì [...], quella casa lì c’era un’osteria, al ciamèven da Ventura [...]. Era conosciuta,, molta gente che c’andava, perché c’erano quei due gelsi grossi e nove all’ombra lì fuori. Allora sentivo degli anziani, dicevano: ‘vagli da Ventura! E vagh a magnèr quèl e po’ e bóm du biciròt!’, vai? Vado da Ventura! Vado a mangiare qualcosa e i bevi bicchierotti!]. E allora sapevo che era lì. [Norma, 1907] A metà di questo viottolo una casa, no, che c’era un’ osteria, ch’egh given da Ventura [lo chiamavano Ventura], di soprannome. Si chiamava Montanari. Allora c’andava sempre quel Lugli... che abitava in via Roma, che c’aveva una figlia e un figlio suonavano il violino e po’ al mansèt [fisarmonica]. Andavano tirèven tót chi òmen un po’ anzianòt [e poi si trascinavano quegli uomini un po’ anzianotti]. Allora era una famiglia un po’ grossa, c’avevano l’allevamento dei maiali e c’era tante, tante tante ma allora avevano messo un altro soprannome, ‘andiamo a Mosca. Capisce? Dicevano così. [Wallì, 1915] Sì c’era l’osteria di Ventura, che infatti era in quel viottolo lì che ci ho detto, che io facevo andare a lavorare. Ventura era molto conosciuta e caratteristica proprio, e lì

19

34

Ibid., p. 72.


c’andavano gli operai a mezzogiorno, a mangiare, tanti operai andavano lì a mangiare.

Altra osteria nota era la “Fonte”, posta in viale Ramazzini nei pressi del passaggio a livello, dove attualmente si trova la pizzeria “La Tortuga”. Nel medesimo edificio, prima della costituzione del grande polo in via Agosti alla fine degli anni Trenta, venne ospitato il “Dopolavoro” delle Reggiane. La “colonizzazione” della “Reggiane” su quest’area si ritrova nella lunga teoria di capannoni ma anche in una serie di caseggiati dove trovarono posto operai ed impiegati. Accanto al sito dove sorgeva il “Cantinone”, c’è tuttora un ampio edificio soprannominato il “Vaticano”. Don Gaetano Incerti20: Oltre via Veneri esisteva un ampio riquadro, sul quale i dipendenti delle Reggiane giocavano su sei campi da bocce. Oggi vi sorge un condominio “ex Reggiane” dirimpetto al cosiddetto “Vaticano”, un enorme palazzone per dipendenti così battezzato non si sa il perché. C’è chi dice, per ironia, perché nessun inquilino metteva piede in chiesa. Si racconta infatti che un inquilino, piuttosto faceto, canzonasse quanti entravano in chiesa: “Andate a vedere i burattini” – “Vieni anche tu a fare la parte del Sandrone”, gli rispose il cappellano don Lindner.

Magazzini Locatelli, visione d’insieme

20

Don G. Incerti, op. cit., p. 6.

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Più ad est su viale Ramazzini, in angolo con via Flavio Gioia, si trovavano la stazione dei Carabinieri e il “Deposito Automezzi Reggiane”. Mentre la prima urbanizzazione su via Bligny (ma era chiamata vicolo del Lupo) è opera della ditta lombarda di formaggi “Locatelli”, che qui impiantò negli anni Venti i primi magazzini di stoccaggio del grana, con annessa una elegante palazzina liberty per i servizi impiegatizi e di custodia. Qui sorge ora il Centro Internazionale dell’Infanzia “Loris Malaguzzi”21. Ma torniamo ora allo stradello dello “Zappello”, che abbiamo visto essere la tradizionale via di collegamento tra Santa Croce e la campagna. Dopo la prima guerra mondiale, in relazione alla costruzione della stazione ferroviaria di Santa Croce (che verrà inaugurata il 30 ottobre 1926, in occasione della visita del Duce alla neonata ferrovia Reggio-Boretto) la strada – ormai dedicata ad Antonio Veneri, personalità insigne della Repubblica Cispadana – vede sorgere una fitta ed ordinata teoria di case destinate ad abitazione per i “ferrovieri”. Sono edifici che si differenziano, per tipologia ed anche per standard abitativo, dai circostanti. Sempre in quest’area, sul versante a fronte, sarà non a caso costruita anche la scuola elementare (oggi “Collodi”). E qui abitarono, tra gli altri, la futura presidente della Camera dei Deputati Nilde Jotti e l’artefice pedagogico delle scuole comunali dell’infanzia, Loris Malaguzzi. C’è un bel racconto di Sonia che restituisce la “misura” di questo insediamento sotto il profilo della relazione sociale22: Mio padre che lavorava sempre in ferrovia, allora lavorava nel deposito e Ferrovie reggiane lì al deposito che c’è in via Forzani. Lavorava lì e allora siamo venuti ad abitare a Reggio quando hanno fatto dei ferrovieri, la prima parte, cioè le case che c’erano davanti. erano su due schiere le case, le case che c’erano davanti erano costruite prima. Io non mi ricordo quando, mentre invece le altre siano andati a abitare noi, sono state

21

Sulla costituzione e organizzazione del Centro, cfr. “rechild” 2/2005, dicembre 2005.

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Sonia, 1921, in A. Canovi, M. Mietto, M.G. Ruggerini, op cit., p. 66.

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proprio finite di costruire nel ventisei, quando io sono venuta a abitare a Reggio. Mio padre ne aveva diritto in quanto ferroviere e in quanto abitava anche fuori zona. Insomma fuori territorio e credo che allora fosse l’obbligo di vivere nel comune dove si lavorava. (…) Era molto abitata, per il fatto che c’erano diciotto… mi pare che fossero diciannove, le case dei ferrovieri. Per ogni casa abitavano due famiglie, quindi erano trentasei famiglie, si può dire famiglie che i genitori avevano circa l’età dei miei e i figli erano tutti su per giù della nostra età, perciò ci trovavamo nei cortile, ma c’era un... fra le case, proprio nel mezzo direi della via dove erano ubicate le case, c’era una grossa fontana con una grossa vasca immensa. Io credo che adesso le misure... le cose viste da ragazzi e le cose viste dopo cambiano un pochino, quindi non vorrei dire. Però mi pare che fosse sui sei, otto metri per quattro ecco, perché era grande questa vasca.

Portandoci più a nord di via Adua si arriva al canale d’Enza, il quale funge su questo versante da confine “naturale” di Santa Croce Esterna: le sue rive erano costeggiate dal viottolo del Chionso, oggi trasformato in un raccordo importante tra la provinciale per Correggio e quella per Bagnolo. Ancora Sonia, un “occhio” molto attento a registrare il paesaggio della propria infanzia23: Via del Chionso era una via direi prettamente secondaria. Prima di tutto quando io sono venuta ad abitare lì non era neanche asfaltata. Il canale addirittura, che c’è il canale di bonifica che passa, era un grosso fosso più che altro, perché è stato bonificato un pochino nel trentaquattro; nel trentaquattro infatti han fatto il letto e le sponde in cemento. Però era rimasto aperto ed è rimasto aperto fino a due anni fa. Insomma era una strada di campagna, si può dire. Anche il traffico era convogliato su via Adua.

23

Sonia, 1921, Ibid., p. 67.

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Nilde Iotti inaugura la sezione PDS di Via Redipuglia il 23 maggio 1994.

Tribuna dell’ippodromo (poi Campo di Volo), anni Venti.

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Aeroporto.

Produzione velivoli “Reggiane”.

MODERNA, SEMPRE IN TRANSIZIONE... INSOMMA, È SANTA CROCE Riprendendo via Adua verso est, si arriva in vista dell’aeroporto cittadino “F. Bonazzi”. La sua costruzione tra il 1936 e il 1937 – realizzata d’urgenza come diretta conseguenza della nuova produzione aeronautica delle “Reggiane” – ha indubbiamente connotato, in modo a tutt’oggi indelebile, l’intero paesag39


gio “periurbano” di Santa Croce. A partire dalla vicenda del Campo di Volo, in quanto “patrimonio” acquisito alla città, si possono utilmente svolgere alcune considerazioni sui modi della trasformazione urbana a Santa Croce. Abbiamo visto come, a partire dal nucleo industriale delle “Reggiane”, vada intessendosi una maglia urbana affatto originale. Se ancora sino alla prima guerra mondiale si parla, per questa area, di “sobborghi industriali”, con gli anni Venti – in corrispondenza con i primi tentativi di pianificazione urbanistica – la città tutta comincia a volgere il proprio sguardo sulla “frontiera nord”. A quell’epoca data infatti un primo tentativo compiuto di riorganizzazione territoriale. Tra il 1924 e il 1927, sul terreno posto oltre lo sbocco di via Adua – all’incirca in corrispondenza dell’attuale intersecazione tra l’area aeroportuale e quella ludico-sportiva del parco “Chiarino Cimurri” – viene realizzato dal Comune un modernissimo campo polisportivo. Sull’evento – per la verità decisamente trascurato dalla storiografia urbanistica locale – riproponiamo una considerazione di massima svolta ormai due decenni fa24: Viene costruito il campo polisportivo in capo alla strada delle Officine e sul terreno di proprietà di queste. L’area – oltre 15 ettari – è interamente cintata da un muro costruito con blocchi di cemento e comprende: ippodromo – trottatoio con due grandi tribune in legno (per complessivi di duemilacinquecento posti a sedere), campo di foot-ball con tribuna per trecento persone, due campi per il tennis, terrapieno per corse auto, moto e cicli, vasca natatoria, servizi igienici e chalet con bar-ristoro. Per una serie di motivi il complesso viene venduto nel 1927 al Comune fascista, quando ancora non è completamente terminato dopo avere ospitato importanti manifestazioni sportive (tra le quali una tappa del Giro d’Italia vinto da Binda). L’assicurazione fornita dall’acquirente è di migliorare l’attività sportiva ed educativa.

La vasta area del campo polisportivo, in sintonia con l’evolversi in senso aggressivo della politica estera del Regime, verrà destinata a scopi meno ludici. Con due successivi decreti ministeriali (del 1930 e 1931) si sancisce l’istituzione a Reggio Emilia di un “campo di fortuna” che ricada sotto la giurisdizione 24

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Ibid., p. 22.


militare. L’area investita risulta peraltro ben più ampia di quella occupata in precedenza del campo sportivo. Santa Croce, la quale nel frattempo continua a crescere, si ritrova così al centro della trasformazione sia industriale che urbana. Il fascismo locale vi riserva attenzione ed energie, sino a farne la propria “vetrina”. Viene così messo a punto l’esproprio di una vasta area, la stessa sulla quale insistono vecchi insediamenti popolari; tra questi il Castello di Miari, il quale – essendo considerato un “covo di rossi” – verrà volentieri raso al suolo, e le sue 45 famiglie residenti alloggiate alla meno peggio in altri quartieri popolari della città. Tutta l’area di Santa Croce Esterna, con il nuovo campo di fortuna, viene ora ricompreso – siamo nel 1936, quando viene effettuato un censimento straordinario dopo la proclamazione dell’Impero – nel nuovo e più vasto centro urbano. In realtà – come mostrerà la pianificazione messa a punto dall’ingegnere novellarese, nonché esponente di primo piano del fascismo locale, Getulio Artoni – lo sguardo ordinativo del Regime si preoccupa dell’area di diretta pertinenza delle “Reggiane” per trascurare l’edificazione civile che pure le è connessa. Sono quelli anni di crescita tumultuosa della città (che varcherà la soglia dei 100 mila abitanti nel 1941), cui corrisponde un innalzamento drammatico del tasso di sovraffollamento. Ad ogni buon conto, con la prima stesura del Piano Regolatore territoriale (nel 1936), arriva anche un primo sistematico “riordino” toponomastico: per Santa Croce, in linea con i tempi, viene adottata una toponomastica di tipo coloniale (tuttora esistente) che le fa meritare l’appellativo di “quartiere etiopico”. Le strade, spesso costruite ex novo, vengono asfaltate con il cosiddetto “asfalto autarchico” o “macadam”. È in questo periodo che le “Reggiane” praticamente raddoppiano, con la costruzione del Reparto “Avio” sul nuovo e ampio viale alberato dedicato a Vasco Agosti (l’ufficiale, originario della frazione cittadina di San Prospero, decorato dal regime per la morte intercorsa nella campagna coloniale in Africa Orientale)25. 25

Vasco Agosti, secondo le notizie biografiche riportate all’epoca, muore in un’imboscata l’8 agosto del 1937; cfr. C. Iori, Reggio nella Memoria, Gianni Bizzocchi editorie, Reggio Emili, 2001, p. 227.

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Lapidi a martiri della Resistenza: Vittorio Bulgarelli – viale Ramazzini e Umberto Pistelli angolo via Cassala, via Gondar.

Tra il 1939 e il 1940, nell’area antistante al “Cairo”, viene costruito il “quartiere operaio a carattere semi-rurale” Filippo Corridoni – poi “Pistelli”, dopo la guerra – su terreno di proprietà delle Reggiane. Il “Corridoni” si inserisce nel progetto che vede l’edificazione di altri tre villaggi popolari ai quattro lati della città, tutti posti sotto la competenza dell’IFACP (Istituto Fascista Autonomo Case Popolari) e destinati ad ospitare esponenti delle classi più povere della città (anche a seguito degli sventramenti “igienici” voluti dalla stessa giunta fascista nell’area di Santa Croce Interna). C’è però una differenza tra questo e gli altri tre “Villaggi” – con i nomi attuali: lo “Stranieri”, il “Catellani” e il “Foscato”: qui si insedia una popolazione operaia anche di provenienza extra regionale (oltre ai lombardi, arrivano ora dei piemontesi) strettamente collegata alle “Reggiane”. E che si trattasse di un progetto speciale legato alla dimensione della nuova fabbrica modello del fascismo lo testimonia il fatto che – proprio accanto ai 228 alloggi che componevano l’insediamento viene costruito ex novo il nuovissimo “Dopolavoro” delle “Reggiane”, dotato di un teatro, di campi sportivi e di bocciodromi. Inoltre, a poca distanza, su via Adua veniva eretta la nuova casa del fascio –

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oggi occupata dalla caserma dei carabinieri – in sostituzione di quella collocata nel vecchio caseggiato del Follo. Con la costruzione del quartiere “Corridoni” si può dire compiuto il grande periodo di espansione del quartiere, sulla scorta dell’espansione della fabbrica. Le vicende successive – a partire dal bombardamento del 1944 per poi passare alla grave crisi del biennio 1950-1951 – segneranno il brusco arresto nello sviluppo di Santa Croce Esterna. Il decennio successivo vedrà anzi molti lavoratori decentrati fuori regione o all’estero, in Francia e ancor più in Svizzera. Mentre il patrimonio edilizio legato alle “Reggiane” passa in blocco allo IACP, a fronte dell’impennata demografica della nuova periferia residenziale a sud della città la popolazione di Santa Croce esterna aumenterà solo del 6 per cento (passando da 7.509 a 7.986 abitanti). Si verifica anche uno spostamento nel baricentro interno di Santa Croce. La zona “industriale” del quartiere che ruota attorno a viale Ramazzini, via Bligny e via Agosti perderà progressivamente la propria centralità a favore della zona di via Adua: questa, come tuttora si può osservare, diventa il nuovo asse d’espansione del quartiere. È a nord di questa direttrice che si concentra la nuova espansione urbanistica; la quale, certo, presenta ancora caratteri misti, tra edilizia civile e produttiva, spesso senza soluzione di continuità. Con gli anni Settanta si assiste poi all’esplosione dell’area prospiciente l’autostrada (il casello data al 1959), lungo l’asse Reggio-Bagnolo e in particolare a Mancasale, dove si concentrerà il più vasto tra i quartieri industriali nel capoluogo. Nel 1965 nasce così, su viale Regina Margherita, la nuova parrocchia di San Paolo. Santa Croce Esterna si suddivide in due parrocchie: al censimento del 1972, la diocesi ne attribuisce 3128 a San Paolo e qualcosa di meno, 3000, a Santa Croce. La costruzione, tra il 1980 e il 1981, del cavalcavia a nord– est di Santa Croce stabilisce un nuovo, importante collegamento al resto del territorio urbano; prima, ne esisteva uno solo – il sottopasso di via Makallè – costruito nell’ormai lontano 1932. Tale opera – realizzata a distanza di un cinquantennio dall’altra, nell’ambito della nuova rete tangenziale, va anche letta, corret43


tamente, come un sia pur tardivo sforzo per riportare la “frontiera nord” a pieno titolo entro il processo urbano della città.

L’ex Centro Islamico di via Adua (2002).

Ingresso Chiesa Pentecostale di viale Ramazzini.

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Questa rapida esplorazione geostorica dentro e attorno a Santa Croce Esterna ha inteso portare qualche chiave interpretativa alla decodifica di un territorio che è divenuto periferia urbana e, come tale, rappresenta una cerniera tra la città e la campagna ma anche una frontiera posta nel cuore delle trasformazioni socio-urbanistiche. Come abbiamo visto si tratta di una trasformazione tutt’altro che lineare e, in verità, ben poco pianificata: la sola eccezione è costituita dal tentativo assunto in epoca fascista, e con esso – di fatto – poi venuto a decadenza. Oggi non è semplice ricomprendere sotto il medesimo sguardo questa vasta area policentrica. Il viaggiatore che si trovi a passare per le strade del quartiere troverà accostati, praticamente senza soluzione di continuità, tipologie urbanistiche variegate: una grande ex area industriale che ha le caratteristiche per diventare il più importante esempio di archeologia industriale della provincia; aree di tipo residenziale popolare; aree di tipo residenziale borghese; aree artigianali più o meno razionali rispetto al sistema del trasporto pesante; aree verdi; residui di aree agricole; aree di tipo commerciale a rilevanza locale. Si potrebbe continuare. Santa Croce, per dirla con un’espressione in voga, ha l’aspetto di un mosaico. Ed è probabilmente sbagliato pretendere di riconoscervi alcunché di univoco. Va forse ricondotta ad una vocazione industriale, come la sua storia sembra dimostrare? È difficile crederlo, vista la vicinanza al centro storico ma anche l’incuranza che, di fatto, il distretto della PMI ha riservato alle produzioni di carpenteria svolte dalle “Nuove Reggiane” e poi dalla “Fantuzzi-Reggiane”. Si tratta di un area ormai guadagnata alla vocazione residenziale? Forse, ma in questo caso l’assetto della viabilità e della dotazione urbanistica – così come sono stati pensati in questi anni – dovranno subire ancora profonde modificazioni. Quello che è certo è che Santa Croce – come del resto tutta l’area nord della città – vuoi per la sua posizione geografica “al di là” della ferrovia, vuoi per la sua vocazione poliedrica ha sempre avuto la tendenza ad assumere un assetto autonomo rispetto al resto della città. In buona sostanza, pur costituendo 45


l’accesso a “nord” per il centro storico ne è anche un corpo separato, con pochi e selezionati “anelli” di compenetrazione nei confronti del territorio comunale posto a sud della via Emilia. Sentiamo le valutazioni offerte da Simonetta Sgobbi, nella sua bella tesi di laurea26: […] l’area di Santa Croce ricopre un importante ruolo relazionale all’interno dell’assetto territoriale reggiano. L’area costituisce la “porta” di Reggio Emilia verso la “Bassa”, cioè verso la parte settentrionale della provincia. Gli appezzamenti agricoli residuali, ancora presenti all’interno dell’area, testimoniano come tutt’ora Santa Croce rappresenti il punto di snodo tra la città e la campagna. Tuttavia, nel tempo si sono radicalmente trasformate le funzioni e le attività presenti nel quartiere. Nonostante conservi ancora una forte rilevanza per l’assetto infrastrutturale/relazionale (l’asse di collegamento con la direttrice Correggio-Carpi, oltre a quello già citato con il nord), l’area a cavallo della Porta Santa Croce ha visto scomparire alcune funzioni che in passato l’avevano contraddistinta quale “area di transito” (su tutte, le osterie). Contestualmente, nell’area si sono progressivamente insediate diverse attività, come i parcheggi e i distributori di carburante, generalmente presenti nei luoghi d’accesso di un’area urbana dinamica. Santa Croce, però, oltre a questi aspetti relazionali è da tempo caratterizzata da funzioni che le hanno conferito uno specifico “ruolo” all’interno dell’assetto urbano reggiano. Innanzitutto, il ruolo produttivo, strettamente legato alle fortune delle Officine Reggiane. Ancora oggi, nonostante il forte ridimensionamento dell’attività produttiva, quel che resta delle Reggiane trova sede all’interno di Santa Croce, anche se a fianco di nuove funzioni. Diverso è il ruolo dell’artigianato locale che, nato spesso dall’iniziativa di ex operai delle Reggiane, ha costruito negli anni un caratteristico mix con la residenza. Nel periodo più recente queste attività manifestano una tendenza al decentramento dovuta al loro progressivo passaggio dalla dimensione del laboratorio domestico a quella della piccola-media impresa artigianale. Un ulteriore ruolo che l’area di Santa Croce ha ricoperto in questi anni – e che pare rafforzarsi nei progetti di prossima realizzazione – è quello di polo ricreativo. Significativa è infatti la permanenza di circoli ricreativi, e la presenza di altre strutture per il tempo libero: il Centro Tricolore (bocciofila di rilevanza

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S. Sgobbi, op. cit., p. 84-85.


regionale, se non nazionale), i campi sportivi tra via Adua e via Agosti (tuttora sede degli allenamenti della squadra di calcio della Reggiana), il teatro ReGiò, il Campo Volo, la discoteca Maffia e lo Stadio Giglio (del quale è previsto il potenziamento). Questo ruolo è senza dubbio da porre in relazione al radicamento di alcune attività e alla tradizione di iniziative associativeaggregative tipiche del primo insediamento di Santa Croce. Non è quindi solo per una questione di disponibilità di spazio che il momento aggregativo più rilevante per l’area reggiana, la Festa de L’Unità di settembre, trova la sua sede nell’area di Santa Croce.

Qualcuno ha detto che “a Santa Croce c’è tutto”. Forse sì, ma se in alcuni casi c’è addirittura troppo, in altri troppo poco. Nel corso dell’ultimo decennio il quartiere ha rappresentato una vera e propria sfida per l’Amministrazione Comunale. Il Programma di Recupero urbano varato nel 1998, con i diversi progetti ad esso connessi, si era proposto lo scopo di attuare una profonda trasformazione urbanistica dell’area di Santa Croce. Tuttavia, nonostante la buona volontà progettuale ed alcune realizzazioni, permangono tre fuochi che accendono la sensibilità dei residenti: il carico eccessivo di traffico; il degrado urbano; l’integrazione non sempre facile tra culture diverse per provenienza. Probabilmente è anche vero che per produrre ricadute benefiche, ma anche solo per rendere intelligibili le scelte di lungo periodo, occorre tempo. Un caso eclatante, sopra gli altri: la forte contestazione operata da parte di alcuni comitati a seguito della chiusura di viale Ramazzini e della realizzazione del parcheggio scambiatore nell’area ex Gallinari. Si tratta di due progetti i cui benefici risultano, a tutt’oggi, poco chiari a gran parte dei residenti. Altro discorso è quello dell’integrazione. Dalla seconda metà degli anni ottanta in poi l’area di Santa Croce, confermando la propria vocazione di transito, è diventata punto d’arrivo e di permanenza di numerose comunità immigrate (sia dalle regioni del Mezzogiorno d’Italia, sia, più recentemente, da paesi extra UE). Tanto che, sin dal 1990, il Comune di Reggio ha messo a disposizione in via Adua i locali di una ex officina, al fine di ospitarvi il primo Centro Islamico. 47


L’Oratorio della Beata Vergine della Neve (foto Leonardi, 1985).

L’Oratorio della Beata Vergine della Neve, all’angolo tra via Veneri e viale Ramazzini (foto GMPR Group, 2007).

VILLA COUGNET E L’ORATORIO DELLO ZAPPELLO: DUE LUOGHI “ADOTTATI” NEL PAESAGGIO DELL’OGGI Per chiudere, e concludere con una nota in positivo, mettiamo l’accento su due luoghi che stanno ritrovando una propria funzione – di memoria storica e di vita presente – nel

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contesto geostorico di Santa Croce Esterna. Un quartiere che costituisce un vero e proprio “sito” patrimoniale di esperienze ed epoche storiche che attendono l’indagine stratigrafica propria dell’archeologo della memoria. E per chi non l’avesse ancora fatto, consigliamo l’esplorazione di Santa Croce a partire dal Parco “Chiarino Cimurri”: una posizione eccentrica – siamo nel territorio della Circoscrizione 6 – che ne consente una prima lettura in termini paesistici. Da questo angolo visuale – compreso com’è tra le piste di volo e la ferrovia nazionale, si possono tuttora scorrere “a volo d’uccello” i campanili e i tetti degli edifici più importanti della città storica, ed in modo più ravvicinato la stazione ferroviaria e gli stabilimenti residui delle “Reggiane”.

BEATA VERGINE DELLA NEVE, “MADÒNA DI CALZÈTT” OD ORATORIO DELLO ZAPPELLO...? Nel suo prezioso libro sulle tipologie architettoniche dell’insediamento storico del Comune di Reggio Emilia, l’architetto Walter Baricchi (pur inserendolo nel territorio di Mancasale) recita a proposito dal piccolo oratorio posto all’incrocio tra Viale Ramazzini e via Veneri: Lungo la via delle Officine Meccaniche si sono rinvenute delle tombe romane isolate ad inumazione. In angolo tra la via Veneri (antica strada vecchia di Reggiolo, nominata nel 1315, poi via delle Ortolane) con via Ramazzini sorge un oratorio che nelle carte degli inizi dell’ottocento è indicato della Beata Vergine della Neve. In un disegno del XVII secolo è riportato un piccolo edificio detto dello “Zaldino” che probabilmente coincide con l’oratorio in esame. Questo presenta una facciata tripartita con parte centrale riquadrata da lesene binate e conclusa da un frontespizio triangolare, il prospetto è rivolto a mezzogiorno27.

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Insediamento storico e beni culturali del Comune di Reggio Emilia, a cura di W. Baricchi, Ibc, dossier 22, Reggio Emilia, Amministrazione Comunale di Reggio Emilia e Istituto per i beni culturali dell’Emilia Romagna, 1985 (cit. p. 103).

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A far data almeno dal XVII secolo – per quel poco che si è ritrovato nei riferimenti documentari – l’Oratorio rappresenta un punto di riferimento nel paesaggio dell’area forese circostante Porta Santa Croce. Il nucleo primigenio, come ha mostrato un accurato e recentissimo lavoro di restauro realizzato sull’edificio, va però retrodatato al XVI secolo28. Si trattava di un oratorio per dimensioni più piccolo, a navata unica; la pianta “a tre navate” data per l’appunto al XVIII secolo, mentre le decorazioni interne vanno fatte risalire alla fine del XIX secolo (il restauro ha infatti messo in luce iscrizioni relative a due encicliche papali redatte da Leone XIII e al vescovo reggiano Vincenzo Manicardi). Va anche detto che sono tuttora in corso valutazioni rivolte ad un più antico ciclo decorativo, di cui vi sono tracce visibili nel catino e nell’abside. Nel pur scarno contesto documentario, vi sono comunque due utili riferimenti rintracciati dall’architetto Monica Zanfi, nel corso delle ricerche svolte a sostegno dei lavori di restauro. Da un documento di matrimonio del 1784 si ha la prova dell’esistenza e del funzionamento di questo oratorio; parte di un fondo che rientra nella parrocchia di Mancasale, risulta essere di proprietà della famiglia Vallisneri. Nel 1937 si ha invece notizia della sua cessione ai fini di abbattimento. La data è significativa: le “Reggiane” cominciano a produrre aeroplani da guerra e Santa Croce è un quartiere in via di urbanizzazione intensiva, dove si fanno le strade in macadam e il viale Ramazzini è attraversato da mezzi pesanti di trasporto. Probabilmente fa comodo allargare l’imbocco con la già stretta via Veneri. L’operazione viene bloccata da un editto podestarile: all’Oratorio viene riconosciuto valore storico-artistico. Ma la destinazione d’uso è ormai un’altra. Il centro urbano ha inglobato nella propria vita tumultuosa anche Santa Croce Esterna, spostando così più all’esterno l’antica soglia che distin-

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Il restauro conservativo è stato realizzato tra il 2005 e il 2007 – per conto dell’immobiliare GMPR Group – sotto la responsabilità degli architetti M. Zanfi, A. Bergianti, F. Bombardi, i quali hanno steso alcune, puntuali Note sui lavori di restauro.


gueva la città dalla campagna. Bisogna infatti ricordare come la “Madonnina dello Zappello” (l’appellativo popolare) avesse ricoperto nei secoli la funzione di snodo geostorico tra gli usi dei cittadini e quelli dei “villani”. Posto nelle vicinanze della porta, questo piccolo oratorio veniva usato dai contadini come punto di sosta per pulirsi o infilarsi calzature pulite prima di entrare in città. Così si spiega il toponimo – la madòna di calzètt – invalso nella parlata dialettale e che si ritrova nelle memorie soprattutto contadine. Ricorda don Gaetano Incerti: Le ragazze provenienti dalla campagna facevano sosta sul muretto del piccolo Oratorio cinquecentesco per mettersi le calze e scarpe sotto lo sguardo della Madonna che da quel gesto prende il nome di “Madonna dei calzétt”. […] Sul lato sinistro (angolo via Veneri), la più vecchia espressione architettonica di Santa Croce: il cosiddetto “Chiesolino” dedicato come sopra si è detto alla “Madonna dei calzètt”. È bisognoso di restauro a cui il Municipio dovrebbe provvedere29.

Pur sopravvivendo, nel dopoguerra il “chiesolino” è stato a lungo utilizzato per fini commerciali: sono in molti a ricordarne, tra gli anni Ottanta e Novanta, l’adattamento a piccolo magazzino di ortofrutta. Più recentemente, con il riordino della viabilità connesso alle opere dell’Alta Velocità, insieme al sottopasso ciclopedonale è stato ristretto l’areale di ingresso all’oratorio: e così se ne sono partite, inopinatamente, con un atto di imperdonabile trascuratezza burocratica, anche le storiche “pietre” sulle quali generazioni di contadini avevano provveduto a cambiarsi di calzare. Che fungevano da luogo di sosta e “spogliatoio” (dei piedi!) per i contadini. Il restauro conservativo intrapreso negli ultimi anni dalla famiglia Gualerzi (titolare di GMPR Group) costituisce, dopo tanta incuria, uno sintomo significativo di riorientamento nelle pratiche urbanistiche: ci dice che – dopo tanti abbattimenti “facili” – anche nella periferia nord si può, finalmente, riqualificare.

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Don G. Incerti, op. cit., 2003, p. 3.

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Villa Cougnet e parco del Tasso

VILLA COUGNET: L’OMBELICO DI SANTA CROCE Quest’edificio rappresenta un interessante esempio di villa signorile di campagna la cui costruzione può essere datata nella seconda metà del Settecento. Anche qui, ci permettiamo una piccola digressione. Nei dintorni di Reggio Emilia sin dal XV secolo vengono fatte erigere – sulla moda rinascimentale – le prime ville di campagna destinate allo svago. Il prototipo ne è il “Mauriziano”, casino di campagna dei conti Malaguzzi che diventerà poi luogo memorabile per aver ospitato l’infanzia di Lodovico Ariosto. Nel corso del Seicento, l’affermarsi del gusto barocco su quello più tipicamente rinascimentale porterà ad una evoluzione delle caratteristiche architettoniche, mentre quelle correlate alla scelta del luogo – secondo l’Alberti la villa non deve essere troppo lontana dalla città e deve inserirsi in un bel contesto paesistico – rimangono pressoché inalterate. Abbiamo così che le ville sei-settecentesche, pur mantenendo spesso la pianta quadrangolare, presentano elementi che tendono a smussarne le rigidità geometriche; le murature si innalzano, quindi si fa

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ampio uso della torretta a colombaia posta alla sommità del tetto, sicuro indice della vocazione di questi edifici a focalizzarsi nel contesto di campagna (esempi di questa evoluzione sono la Villa d’Este a Rivaltella, la Villa Grasselli alla Pappagnocca e Villa Rocca a la Rosta). Villa Cougnet, tuttavia si discosta ancora da questo modello, presentando caratteristiche tipiche del gusto barocco del XVIII secolo30. Il modello di riferimento cui si sono richiamati gli studiosi è il Palazzo Estense di Rivalta: il prospetto di facciata disteso in lunghezza da est ad ovest, l’infittirsi di decorazioni plastiche e, tra queste, la presenza alla sommità del corpo centrale di un elegante orologio. Vida Borciani ne ha tracciato una sapiente descrizione31: La villa si presenta con una elegante architettura settecentesca. Perpendicolarmente al corpo longitudinale si articola un’ala centrale sopraelevata, in aggetto sul prospetto settentrionale. Essa è conclusa superiormente da una loggetta a trifore balconata su entrambi i fronti. La struttura del complesso rimanda alla tipologia della residenza signorile di villeggiatura con caratterizzazioni stilistiche rapportabili prevalentemente al XVIII secolo, sebbene alcuni elementi denuncino un’origine più antica (ad esempio lo sprono più marcato dei muri esterni) mentre altri, come le soffittature, rimandino a ristrutturazioni di età successive. Al gusto tardo barocco è da riferire la facciata, vivacizzata dalla distribuzione delle aperture regolare e simmetrica; esse sono incorniciate da decorazioni a mascheroni e conchiglie in rilievo, dalla presenza della balconata nella facciata principale e, sulla stessa facciata, dall’orologio nel corpo centrale. É da segnalare che fino agli inizi di questo secolo il cornicione del prospetto era arricchito dall’innesto, sullo spiovente del tetto, di una balaustra ornata di statue. Il salone principale al piano nobile è arricchito da otto tempere su muro inserite entro cornici di stucco, raffiguranti paesaggi e rovine da assegnarsi al tardo settecento, scuola locale.

Per quanto riguarda le informazioni di carattere storico, il più antico referto che attesti la presenza di Villa Cougnet, nel 30

Per queste notizie, cfr. V. Borciani, Villa Cougnet, Parma, Università degli Studi di Parma, 1999.

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Ibid., p. 10.

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luogo detto “Zappello”, risale al 1786 e riguarda il censimento generale voluto dal duca Ercole III, in cui è registrata come proprietà del conte Giambattista Capiluppi. Nel 1877 dai Capiluppi l’edificio passa in eredità ai Vezzani-Protonieri. Nel 1878 diviene proprietà Vergnani e nel 1880 viene venduta a Carlo Cougnet – commerciante nizzardo trasferitosi a Reggio, noto alle cronache sportive come il creatore del primo “giro d’Italia” in bicicletta – alla cui famiglia la villa rimarrà fino al 1908, quando viene acquistata dalle “Officine Reggiane”. Dopo essere passata in possesso della S.I.A. (Società Immobiliare Anonima), viene nuovamente acquistata dalle “Reggiane” e poi, nel 1961, da queste ceduta allo IACP che la tenne fino al 1971, anno nel quale fu ceduta alla Curia vescovile. Nel 1983 la villa passa all’Amministrazione comunale di Reggio Emilia che vi ospita per oltre un decennio il teatro di figura di Otello Sarzi. Dopo il 1996 – anche a causa del violento terremoto del 15 ottobre che ne causa la parziale inagibilità –, Sarzi si trasferisce a Bagnolo in Piano e la villa viene sottoposta a lavori di restauro che permetteranno il trasferimento, nel 2003, della sede della Circoscrizione 7 e l’inaugurazione della nuova Biblioteca decentrata di Santa Croce. Come si evince da questa breve scheda storica, la villa nel corso degli oltre duecento anni della sua esistenza ha subito diverse destinazioni d’uso che l’hanno portata ad intergire in modo differente con un territorio in costante e profonda trasformazione urbanistica e sociale. In modo particolare, a seguito del primo acquisto da parte delle “Reggiane” lo stabile vedrà mutare ripetutamente la propria vocazione abitativa. Sonia32: Quando si va verso la chiesa appunto c’era questo… Allora c’era pochissimo. C’era Villa Cougnet che era la villa degli impiegati delle Reggiane, dietro a Villa Cougnet c’era un ambulatorio e poi dopo da quelle parti lì anche via Adua era abbastanza deserta insomma. C’erano quelle ville che ci sono ancora adesso sulla strada. Là dietro era tutta campagna, invece che adesso vediamo che dietro è tutto costruito.

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Sonia, 1921, in A. Canovi, M. Mietto, M. G. Ruggerini, op. cit., p. 62.


La costruzione conferma, in un primo tempo, le proprie caratteristiche di pregio. La prossimità con le “Reggiane” muta la destinazione d’uso della struttura che – da villa signorile , con qualche espediente razionale si trasforma in alloggio borghese per i nuovi “colletti bianchi”. Con gli anni, le mutate esigenze abitative comporteranno una “proletarizzazione” della villa; e sono di fatto le persone a dover trovare un adattamento a questi spazi inusuali. Sentiamo di nuovo Cesare, all’epoca minore di una famiglia di contadini di Mandrio di Correggio trasferitisi a Santa Croce per diventare operai33: Siamo venuti in villa Cougnet, questa villa patrizia che adesso ha acquistato il Comune. Noi abitavamo su al secondo piano dove c’è il grosso terrazzo che guarda dietro al bocciodromo, che guarda verso alle “Reggiane”, in un grosso appartamento, mi ricordo, con dei casermoni enormi senza riscaldamento, quindi freddo cane d’inverno. Qui era circondato da un parco enorme, una villa bellissima, mi ricordo delle grosse piante che noi ragazzi salivamo d’estate... Delle stanze enormi c’erano in questa villa, non delle camerette delle dimensioni delle nostre oggi, quattro per quattro, tanto che noi vivevamo in una camera. Erano tutte camere passanti, con due letti, noi ragazzi, due letti matrimoniali, erano grandi stanze, nella villa patrizia dì quel genere Molto alti di volte con tutti i dipinti.

Alla “Officina”, come venivano popolarmente chiamate le “Reggiane”, il giovane Cesare entra nel 1939; abitare a Villa Cougnet, nel raggio di poche centinaia di metri, è una bella comodità. La locazione popolare, d’altronde, comporterà trascuratezza verso la struttura e il suo progressivo decadimento. Sono anche anni nei quali Reggio denuncia una carenza drammatica di alloggi. Proprio a cavallo della guerra imminente verrà edificato nei pressi, secondo la definizione originaria, un “villaggio operaio a carattere semi-rurale” con 228 alloggi; intitolato a Filippo Corridoni, dopo la Resistenza diventerà per tutti il “Pistelli” (dal cognome di un giovane partigiano ivi residente).

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Cesare, 1926, Ibid., p. 53.

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La situazione incontrerà poi un aggravamento ulteriore in corrispondenza del disastroso bombardamento del 7-8 gennaio 1944: Villa Cougnet, come altri edifici sopravvissuti, dovrà affrontare per un certo numero di anni l’emergenza del sovraffollamento. Una volta passata sotto la proprietà dello IACP, questo stato di cose non si modifica. Anzi. I bassi servizi – posti a pochi metri ad est della villa – saranno negli anni Sessanta abbattuti a causa dello stato di degrado al quale erano pervenuti. L’intero immobile verrà così ceduto (nel 1971) alla Curia di Reggio per la cifra di 17 milioni di lire34. Dodici anni più tardi, in condizioni statiche non certo ottimali, arriva la cessione al Comune di Reggio Emilia. Passato anche il terremoto, l’Amministrazione Comunale ha poi impresso una svolta decisiva, con il recupero della struttura ai fini di uso pubblico. Certo – come molti non sanno – rovesciando di fatto l’orientamento dell’edificio: se all’origine vi si accedeva da sud, tramite uno splendido viale delimitato da lunghi filari di pioppi cipressini – ed infatti la facciata principale, con l’elegante orologio, guarda alla città – ora è da via Adua, a nord, che vi si entra. Sotto ogni profilo, nei criteri architettonici e per la collocazione urbanistica, questa villa “fuori porta” testimonia al meglio la complessità, ricca e contraddittoria, della Circoscrizione che è stata oggi chiamata a rappresentare.

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Cfr. Rogito redatto dal notaio Nello Bigi registrato l’11 novembre 1971, Archivio ACER di Reggio Emilia.


Parco della Resistenza.

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LE OMI “REGGIANE”: UN PROFILO STORICO (1901-1951)

Le OMI Reggiane in costruzione agli inzi del Novecento.

Uscita operai “Reggiane”, primi anni del XX secolo.

DALLE ORIGINI AL “BIENNIO ROSSO” (1919-1920) Alla fine del XIX secolo Reggio Emilia presenta un tasso di industrializzazione quasi trascurabile. Le poche attività sono per lo più collegate all’agricoltura o comunque alle risorse della 59


terra: la filatura della seta, la lavorazione delle carni, il lattierocaseario, la concia delle pelli, la fabbricazione del gesso e dei mattoni. Il richiamo alle ragioni di uno sviluppo “modernamente” industriale la si ritrova nelle ripetute perorazioni di parte socialista, un discorso che era poi parte del giubilo rivolto ai “borghesi”, ritenuti inetti a soddisfare nella popolazione operaia il bisogno primario al lavoro. In tal senso, la Reggio post-unitaria è una città di primati in negativo: si raggiungono cifre come le 12 mila persone sostenute, a vario titolo, dalla beneficenza o come l’opzione crescente dell’emigrazione (nell’anno 1900 sono oltre 5 mila emigranti). In un simile contesto, la Cassa di Risparmio locale promuove alcune iniziative industriali, stanziando investimenti a fondo perduto. E se le migliori aspettative riguardavano, ancora, il settore tessile – per via del collegamento con l’allevamento dei bachi da seta –, di fatto sarà dalla metallurgia che verrà fuori la più grande sorpresa. Già il 7 ottobre del 1900 era uscito un appello sul foglio della «L’Italia Centrale», che recitava in questo modo: «Non potrebbe la Cassa di Risparmio offrire un premio di qualche decina di mille lire a quel privato, non importa se reggiano o forestiero, o a quella società seria e solvibile che impiantasse in Reggio uno stabilimento industriale di importanza? Non potrebbe anche il municipio concorrere con l’offrire l’area occorrente all’impianto di tale industria? Allettati da questi premi ed agevolezze, non credete che qualche intraprendente capitalista o qualche società non preferirebbe l’impianto di una industria qui da noi piuttosto che altrove?». La perorazione sarà presto accolta. Lo stanziamento iniziale di 50 mila lire per la creazione di un’officina meccanica che occupasse “almeno 50 operai” data al gennaio 1901; ne usufruisce l’ingegner Romano Righi, originario di Modena, il quale dà vita ad una fonderia con annessa officina meccanica. 62 sono gli operai; 25 i reggiani, ma ben presto si arriverà a 200. Specializzatasi nella costruzione di carri ferroviari, l’officina si troverà ben presto nella necessità di ingrandirsi e, nel contempo, aumentare il capitale investito. Qui entra in campo il

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massimo esponente del capitalismo finanziario a Reggio Emilia: il cav. Menada, originario di Alessandria, collegato alla Banca Commerciale Italiana ed esponente politico di primo piano del moderatismo liberale. È il salto di qualità atteso. Il primo dicembre 1904 si costituiscono le «Officine Meccaniche Reggiane»: il complesso si disloca su di un’area di mq. 4000, dei quali 1250 coperti, e dispone di una forza motrice di 50 HP. Se le dimensioni sono ancora modeste, la preminenza nella produzione delle commesse ferroviarie – sostanzialmente pubbliche – ne fa già, in nuce, una industria a tutti gli effetti “nazionale”.

Produzione ferroviaria “Reggiane”

Spinte dalla politica di rinnovamento e ammodernamento del materiale ferroviario nazionale intrapresa ad inizio secolo dalle FF.SS., le piccole “Officine Righi”, poi “Officine Meccaniche Reggiane”, si troveranno a vivere una fortissima fase di espansione. In soli due anni, dal 1904 al 1906, il personale impiegato nella fabbrica passa dalle 200 alle 800 maestranze. Nel contempo nasce anche, collegata alla Camera del Lavoro, la prima lega dei metallurgici; una concentrazione operaia che, per la variegata provenienza geografica e per il radicalismo proletario,

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esprimerà in più occasioni indirizzi ideologici difformi rispetto alla presa esercitata dal riformismo prampoliniano. Pur tra alti e bassi, semmai a fianco di altre produzioni civili (molini, ecc.), il comparto ferroviario rimarrà una costante nella vita delle “Reggiane”. L’altra grande filiera è quella connessa alla produzione militare. Lo scoppio del primo conflitto mondiale – ed è un fenomeno che investe l’industria siderurgica nel suo complesso – riorienta le “Reggiane” verso le commesse belliche. Ciò comporta una riconversione nei metodi di lavoro. E poi entrano in fabbrica le donne: saranno impiegate massicciamente nella produzione dei proiettili, cui vengono destinati nuovi grandi reparti. Vengono anche costruiti i primi aeroplani modello “Caproni 600 Hp”. Il numero degli operai sale nel 1917 a cinquemila unità, cifra che non verrà più eguagliata fino al 1939, quando alle porte vi sarà un nuova guerra mondiale. È nel vivo dell’“immane conflitto”, come ebbe modo di annotare R. Bachi1, che si forgia l’industria metallurgica e meccanica italiana: tra il 1913 e il 1918 questa filiera produttiva vede passare le società anonime (equivalenti alle attuali società per azioni) da 13 ad 801. Ovviamente, come ci si può immaginare, una volta terminata la guerra vi sarà da gestire una nuova riconversione, resa tanto più difficoltosa nel contesto di una pace che sembra scontentare quasi tutti: combattenti e antimilitaristi, reduci e operai, giovani e padri di famiglia. Il sentimento diffuso di frustrazione trova colorazioni radicali: la rivoluzione d’ottobre pare a molti l’annuncio di un mondo nuovo, ma già rullano i neri tamburi della controrivoluzione di classe… In città le “Reggiane” costituiscono l’epicentro del conflitto sindacale. Nel gennaio del 1919 la parte operaia avanza una serie di rivendicazioni: riconoscimento delle commissioni interne, sabato inglese, aumenti salariali, riduzione dell’orario in caso di deficienza di lavoro, allontanamento dei carabinieri regi dallo

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R. Bachi, L’Italia economica nel 1918, Città di castello, 1919, p. 47. Nella stessa Reggio Emilia sorse un altro stabilimento per costruzioni meccaniche la Società ing. Glauco Greco e C., sorta nel gennaio 1918.


stabilimento. La direzione, in buona sostanza, accoglie. Nell’agosto vi sono nuove agitazioni in solidarietà con i lavoratori liguri e lombardi, contro agli industriali che negavano loro un minimo aumento di paga. Dopo 52 giorni di lotta la proprietà capitola ai dimostranti: i lavoratori eleggono la Commissione Interna e si sfila per la città cantando al suono della Fanfara Rossa. Nazionalizzazione delle industrie e appropriazione dei mezzi di produzione appaiono all’ordine del giorno. Nell’agosto dell’anno seguente si arriva al confronto frontale; a settembre le fabbriche più importanti del Paese – “Reggiane” comprese – vengono occupate dalle maestranze. Ogni accesso allo stabilimento è presidiato dalle “guardie rosse”. Nei primi tempi basta la solidarietà popolare, con il sostegno del mondo cooperativo; poi la situazione prende a complicarsi, si avverte scarsità di materie prime, le linee di credito sono bloccate, la gestione tecnica difetta di ingegneri. Il 19 settembre, grazie ad una mediazione del Governo Giolitti, si raggiunge un accordo economico che trova 1225 voti favorevoli e 496 contrari2. Ma è solo un armistizio. Arturo Bellelli, segretario della Camera del Lavoro di Reggio Emilia, interviene di persona per proporre al senatore Pini, presidente della società OMI, di cedere la fabbrica agli operai riuniti in cooperativa. Sembra il coniglio cavato dal cappello. Il 17 ottobre 1920 la direzione riformista della Camera del lavoro riunisce in assemblea i lavoratori e fa dare a Bellelli il mandato per portare avanti le trattative. Ma al momento di votare, il 27 gennaio 1921, l’opzione cooperativa viene clamorosamente bocciata dagli operai – riuniti per l’occasione al Politeama Ariosto – per una ventina di voti. A causare l’incredibile bocciatura del piano riformista fu la frattura avvenuta con l’ala massimalista in seno al gruppo dirigente socialista a Reggio. Decisivo nel far pendere il piatto

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Cfr. in argomento il contributo di C. Reggiani, Conflittualità e rappresentanza nell’industria metallurgica alle Officine Meccaniche Italiane Reggiane, a Reggio Emilia e a Modena nel biennio 19191920, in Un territorio e la grande storia del ‘900. Il conflitto, il sindacato e Reggio Emilia, vol. I, Dalle origini del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici all’avvento e consolidamento del fascismo, Ediesse, Roma, 2002.

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della bilancia risulta l’intervento apertamente critico di un esponente di prima fila del gruppo “ordinovista” torinese: il “rivoluzionario di professione” Umberto Terracini.

DALLA CONQUISTA FASCISTA ALL’ECCIDIO DEL 28 LUGLIO 1943 Il 1921 è un anno di crisi verticale: rimangono inutilizzati gli impianti di guerra, per primi gli hangars in muratura per i velivoli; il macchinario deperisce; lo stato reclama la tassazione sui profitti di guerra. Assieme al lavoro che manca, il portafoglio titoli si deprezza e ne fanno le spese le maestranze: molti sono i licenziamenti e le sospensioni dal lavoro, cui si succedono improvvise reimmissioni a termine a fronte di specifiche commesse, soprattutto nel comparto ferroviario. Il numero degli addetti – che era di 1887 (1763 operai e 124 impiegati) nel 1922 – scende a 1242 (1164 operai e 78 impiegati) nel 1923 ed ancora a 1086 (1008 operai e 78 impiegati) nel 1924, per risalire a 1647 (1458 operai e 189 impiegati) nel 19253. Va anche precisato che – nonostante la situazione economica fortemente depressiva e il controllo politico esercitato dal fascismo – gli operai delle “Reggiane” saranno gli ultimi ad essere vinti sul terreno sindacale (esprimendo la propria preferenza per la FIOM). Molti saranno i quadri militanti costretti a fuggire in esilio, sotto le bastonate e la somministrazione dell’olio di ricino. Altri ancora continueranno a subire angherie di ogni genere. C’è un episodio destinato a divenire aneddotico nella memoria collettiva operaia: il funerale dell’operaio Pietro Lorenzani. Nativo di Cavriago, lavora come calderaio alle “Reggiane” e va ad abitare nelle case operaie del “Cairo”. Nel 1929 i compagni in emigrazione gli fanno pervenire, dalla Francia, dei volantini affinché possa distribuirli dentro la fabbrica. Il gesto gli costa l’arresto e tante botte da ridurlo in pochi mesi alla morte. I compagni di lavoro e di fede antifascista gli organizzano un

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Per questi e altri dati successivi, cfr. la biografia aziendale composta da S. Spreafico, Un’industria, una città. Cinquant’anni alle officine “Reggiane”, Il Mulino, Bologna, 1968.


funerale laico proprio al “Cairo”, dove spuntano garofani rossi. Seguono nuovi arresti ma la vicenda passa di bocca in bocca e Lorenzani diventa “corpo” simbolico della resistenza operaia al fascismo4.

Pietro Lorenzani, martire antifascista del “Cairo”.

Bollettino della “Fratellanza Reggiana” in Parigi. Tra i sostenitori l’ex operaio “Reggiane” Biagio Iemmi.

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Per la vicenda di Lorenzani, cfr. A, Canovi, Cavriago ad Argenteuil. Migrazioni, Comunità, Memorie, Comune di Cavriago, Istoreco, Reggio Emilia, 1999.

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La situazione occupazionale vedrà qualche incremento negli anni seguenti, ma è solo una boccata d’aria. Nell’ottobre 1929 il crollo della Borsa a Wall Street apre un lungo ciclo di crisi internazionale. Basti un raffronto: se nel gennaio 1930 il titolo OMI Reggiane vale quota 96, nel 1934 lo ritroviamo sino ad un minimo di 13,5. Lo stato interviene con nuovi strumenti diretti di intervento finanziario ma anche gestionale: prima l’IMI, Istituto Mobiliare Italiano, con l’IRI, Istituto per la Ricostruzione Italiana. Segnali più certi di ripresa cominciano ad arrivare nel 1935: le “Reggiane” aderiscono al consorzio nazionale fra i costruttori e riparatori di materiale ferroviario (UCRIMM), contemporaneamente si dà l’inserimento nel Gruppo Caproni.

Il Dopolavoro “Reggiane”. 66


La “M” della palazzina direzionale in una pubblicazione del 1940 e in una foto del 2007.

Le “Reggiane” rientrano in questo modo tra le ditte beneficiarie dei nuovi investimenti bellici voluti dal Duce per fare il fascismo “imperiale”. Prende il via la filiera produttiva aeronautica, destinata a riposizionare strategicamente le “Reggiane” nel contesto nazionale. I primi aerei vengono realizzati a partire dal 1936, su progetti di altre aziende (tra le quali Piaggio, Fiat ed ovviamente Caproni). Negli anni seguenti verrà edificata a questo scopo, da imprese lombarde, una vasta area urbana, sempre compresa nel quartiere di Santa Croce Esterna: è il cosiddetto «Reparto Avio». La direzione medesima delle “Reggiane” viene spostata 67


su via Vasco Agosti. Toponimo e disegno architettonico sono rivelatori dell’epoca storica: la palazzina dirigenziale ha la forma di «M», in onore di Benito Mussolini; quanto ad Agosti, si tratta della figura di un tenente dell’esercito italiano, nativo della frazione cittadina di San Prospero e caduto nel 1937 a Moggia, in Africa Orientale Italiana. Il Duce nel 1940 avrà così modo di compiere uno dei suoi atterraggi a “sorpresa” (le virgolette d’obbligo!) proprio nel nuovo Campo di Volo, cui far seguire la visita ai nuovi reparti produttivi e una scorribanda in via Roma per visionare di persona il “risanamento” edilizio deciso nel quartiere del “popolo giusto”. Sono anche anni di fortissima immigrazione: parecchi i tecnici e gli operai specializzati provenienti dalle aree industriali di Milano e Torino, moltissimi anche gli operai generici e i giovani apprendisti che dalle campagne o dall’Appennino cercano attraverso la grande “Officina” un destino lontano dall’agricoltura. Viene decisa all’uopo l’istituzione di corsi di formazione professionale che confluirono poi in una efficiente «Scuola Apprendisti Reggiane». Vede così la luce, sotto la direzione dell’ingegner Roberto Longhi, il primo aeroplano interamente progettato e costruito dalle “Reggiane”. È il RE 2000, un apparecchio intercettore e da caccia che incontra subito l’interessamento della Regia Aeronautica. In quel brodo di coltura trova nuovo alimento l’orgoglio di essere un “operaio Reggiane”: è una fabbrica impostata su di un’organizzazione del lavoro prefordista, dove si impara il mestiere secondo i canoni tradizionali dell’apprendistato. Celato tra le pieghe di quella trasmissione, nonostante la militarizzazione della fabbrica, passano anche i valori dell’antifascismo: lo mostrano le cicliche retate della polizia politica, come le notizie preoccupate di sospetti atti di sabotaggio sui nuovi velivoli. Al RE2000 si affiancano il RE2001 Falco II, di cui l’Aeronautica italiana chiederà ben 200 esemplari; poi sarà la volta di 198 RE2002, 200 RE2003, ben 400 tra RE2005 e «Sagittario» (un velivolo ritenuto eccezionale dagli esperti). Nel monte della produzione complessiva, la quota bellica diventa preponderante e spinge ancor più su il numero degli occupati. Nel 1941 – anno di massima espansione produttiva 68


della fabbrica di via Agosti – il fatturato raggiunge i 567 milioni di lire; al settembre 1942 le maestranze schizzano a 13.452 unità produttive. Le OMI “Reggiane” diventano la prima azienda metallurgica in Emilia Romagna.

“Scuola Apprendisti Reggiane”, fine anni Trenta.

Produzione aeronautica “Reggiane”. RE2000 catapultabile.

Il 1943, anno XXI dell’Era Fascista, sarà anche quello che sancisce la caduta del regime. Il 25 luglio Benito Mussolini viene destituito dalla maggioranza dei componenti il Gran Consiglio 69


del Fascismo. Quella che a Roma sembra risolversi come una congiura di palazzo assume ben altra consistenza, e tragedia, a Reggio Emilia come a Bari. Il 28 luglio si affollano davanti al reparto “Avio” migliaia di lavoratori gridando slogan inneggianti al “pane” e alla “pace”; alcuni portano cartelloni con il ritratto del re Vittorio Emanuele III. Ma non si può uscire. Un reparto dei bersaglieri ha l’ordine di bloccare il cancello; l’ufficiale fa sparare ad alzo zero ed è una carneficina. Cadono morti otto uomini e una donna gravida. Molti altri, feriti, eviteranno di rivolgersi agli ospedali per tema di rappresaglie. Un furioso acquazzone disperde ogni tentativo di ulteriori sortite. La censura cade sull’episodio. Le autorità badogliane mettono Reggio Emilia, con un deciso anticipo sui mesi dell’occupazione nazi-fascista, sotto il regime del coprifuoco serale. Ma non c’è colpo di spugna che possa cancellare un tale misfatto: lo sanno entrambe le parti che poi, all’8 di settembre, si ritroveranno a farsi la guerra sui due fronti opposti. Il 28 luglio può essere a pieno titolo considerato come l’inizio, a Reggio Emilia, della Resistenza.

DAI GIORNI DEL LUTTO ALLA RICONVERSIONE MANCATA (1944-1951) Già al momento dell’occupazione, i nazisti reputano la posizione geografica delle “Reggiane” troppo esposta agli attacchi aerei. Ha osservato al proposito Sandro Spreafico5: La presa di posizione tedesca [...] costrinse i dirigenti, già del resto propensi a sbloccare una situazione che si era fatta critica per i mancati rifornimenti di materiali e per difficoltà finanziarie, a decidere, nella seduta dell’1 ottobre 1943, il nuovo destino dello stabilimento. Fu avviato, d’accordo con le autorità germaniche, il trasferimento della maggior parte possibile del macchinario e degli impianti per le lavorazioni aeronautiche in alcune zone del nord Italia (ex stabilimento Cantoni di Besozzo, stabilimenti Snia di Cocquio

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Ibid., p. 236.


e Filanda di Gavirate). In queste zone decentrate dovevano essere organizzate le lavorazioni di particolare interesse per i tedeschi, e cioè del RE. 2002 e (secondo quanto lasciava sperare un rapporto del 23 settembre 1943 del generale Lucht) anche dei motori P. XI bis e P. VII, la cui produzione era stata sospesa nello stabilimento di Reggio Emilia. Nelle officine di Reggio sarebbero continuate le lavorazioni nei settori ex-SAML e ferroviario, mentre, consentendolo le circostanze belliche, grosse quantità di materiali greggi e prodotti finiti e il macchinario adibito alle lavorazioni aeronautiche cessate dovevano essere decentrati in alcune zone circostanti la città.

Iscrizioni di propaganda fascista negli stabilimenti “Reggiane”.

Bombardamenti sulle “Reggiane”.

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Bombardamenti sulle “Reggiane”.

Il colpo di grazia allo stabilimento arriverà con il doppio bombardamento alleato del 7 e 8 gennaio 1944: con l’80 per cento degli impianti fissi colpiti e il 30 per cento del macchinario distrutto non sarà più possibile riprendere in loco la produzione. Vari reparti saranno così trasferiti in provincia di Varese, a Cocquio, Gemonio e Besozzo; produzioni più limitate e siti di immagazzinaggio verranno invece sparpagliate tra le province di Reggio e Modena. Fu un colpo sentito da tutta città, non fosse altro che per le 266 vittime civili ed il numero ancor più alto di feriti (in gran parte dislocati proprio a Santa Croce). Quindi, a partire dalle amputazioni subite, si aprì sulla stampa quotidiana – per quanto possa apparire paradossale, vista la continuazione dello stato di occupazione e di guerra – un appassionato dibattito tra tecnici del settore circa le linee-guida su cui avrebbe dovuto impostarsi la ricostruzione del centro urbano6. Nel frattempo una parte consistente di lavoratori rimane inoccupata. Su di essi pende il rischio di trasferimento forzato in Germania; come in effetti accade ad alcune decine di operai

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A. Canovi, Il mattone della concordia. Dopoguerra a Reggio Emilia. Le case e la città, l’amministrazione e la politica, Tecnograf, Reggio Emilia, 1990.


che si ritrovano – a loro insaputa, e tragicamente – inseriti dentro le liste stese dalla direzione delle “Reggiane” ad uso degli occupanti nazisti. Un numero importante di lavoratori, all’indomani dell’8 settembre, prende poi parte alle fila della Resistenza; ciò che si ritroverà all’indomani della Liberazione, quando le maestranze delle “Reggiane” si proporranno come un vero e proprio presidio antifascista, in grado di mobilitare all’istante migliaia di persone. La congiuntura della Ricostruzione vede così due grandi questioni sul tappeto. In primo luogo, c’è da rimettere insieme i pezzi di uno stabilimento che aveva subito danni ingenti agli impianti e la dispersione di molti macchinari. Sarà questa un’opera straordinaria di collaborazione tra le parti: lo sforzo generoso dei lavoratori – ora riuniti di concerto in seno ad una nuova figura sindacale: il Comitato di Gestione – troverà come contraccambio il “blocco dei licenziamenti”, negoziato a livello nazionale con la Confindustria dalla Cgil. Quel determinato clima di collaborazione sociale ricalcava in buona sostanza il quadro politico di concertazione instaurato tra i grandi partiti sotto il marchio unitario antifascista del Comitato di Liberazione Nazionale. Ma non erano tutte rose. Prima ancora che si andasse a sancire la fine politica della “concordia nazionale” – con la fuoruscita delle sinistre dal governo a guida DC nel 1947 – si impone all’attenzione delle parti sociali e politiche la questione della riconversione bellica delle grandi imprese siderurgiche e meccaniche. Non si poteva continuare a produrre armi, e certo non in quella misura. Le “Reggiane” erano d’altronde una azienda “tuttofare”, con un sapere tecnico e operaio di altissimo livello ma anche con una consapevolezza morale del proprio ruolo di “avanguardia” rispetto ad una provincia ancora fortemente agricola e rurale come quella reggiana ed emiliana più in generale. Così si fa strada a Reggio, la questione del “trattore”: diverrà il simbolo operaio e contadino di un modo di sviluppo finalmente popolare, alternativo alle guerre e vicino al sentire dei lavoratori. Per costruirlo servono però investimenti: e i finanziamenti del Piano Marshall, nell’ambito della divisione internazionale del lavoro ora imposta dagli Stati Uniti, prevedono altre produzioni. 73


Il Trattore R60

Non solo. Alle “Reggiane” – come per la verità in molte altre grandi aziende del nord – vi sono troppi comunisti e partigiani perché possano essere considerate politicamente “affidabili”. E poi vi è un ulteriore elemento “ambientale” che è sfavorevole: l’essere inseriti in una regione “rossa”. Così all’Emilia-Romagna arriverà lo 0,60 per cento dei fondi per la ricostruzione destinati all’Italia...7 Con queste premesse, la vicenda delle OMI “Reggiane” arriverà ad essere caricata – al di là del merito, già spinoso – di attese medianiche e frustrazioni insolvibili. Ciò che accade al suo interno assume valenze generali. E questo complica di molto le cose.

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Cfr. in argomento, P. P. D’Attorre, Novecento padano. L’universo rurale e la grande trasformazione, Roma, Donzelli, 1998.


Lo si vede sin nell’estate 1945, con l’omicidio non rivendicato del direttore Vischi; un omicidio che, quando non sia direttamente collegabile a odi maturati nel corso della guerra, viene inscritto al perdurare nella provincia emiliana di uno “stato di guerra”. Il delitto intorbidì indubbiamente la discussione allora in atto attorno ai destini produttivi delle “Reggiane” e al cosiddetto “piano Alessio” ideato sin dal 1944 come piano ricostruttivo dell’azienda8. Tra il 1947 e il 1949, quando oltre al quadro politico va in frantumi l’unità della Cgil, saranno numerosissime le vertenze aziendali, per non parlare di tutta la lotta bracciantile inaugurata con gli “scioperi a rovescio”. Ma il segnale generale d’allerta arriva dalle “Reggiane”. Di fronte all’annuncio di licenziamenti da parte della direzione, come ha scritto Nicola Brugnoli9: La desistenza sindacale chiude definitivamente un ciclo ed inaugura, con la vertenze delle OMI, una nuova fase di lotta.

La vertenza delle “Reggiane” diede insomma il “la” ad una stagione di grave crisi economica e sociale per l’intera provincia, punteggiata di scontri sindacali e dove furono all’ordine del giorno i licenziamenti per motivi politici. Alle “Reggiane” si vide che, nonostante gli accordi stipulati in precedenza tra il Comitato di fabbrica e la direzione, la logica politica dello scontro era in ultima analisi più forte di ogni altra trama negoziale. Tra scioperi a intermittenza, lettere unilaterali di licenziamento, nuovi scioperi generali di risposta si arriverà alla richiesta da parte della direzione (il 12 ottobre 1950) di organizzare un presidio armato attorno alla fabbrica. Ciò che equivaleva a porre in stato di assedio un intero quartiere operaio che vi stava addirittura dentro (come il caseggiato del “Cairo”) o dirimpetto (il villaggio “Pistelli”).

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A. Alessio, Luci ed ombre della rinascita, Reggio Emilia, 1945.

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N. Brugnoli, Le OMI Reggiane. Crocevia di modernizzazione e la società contemporanea, in, Un territorio e la grande storia del ‘900. Il conflitto, il sindacato e Reggio Emilia, vol. II, Dal secondo dopoguerra ai primi anni ’70, a cura di Luca Baldissara, Myriam Bergamaschi, Antonio Canovi, Alberto De Bernardi, Adolfo Pepe, Reggio Emilia, Ediesse, 2002, pp. 75.

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La risposta sarà appunto la più lunga occupazione – oltre un anno la sua durata – tra le pur numerose che l’Italia conobbe in quel torno di tempo. La vicenda è stata studiata ampiamente. Basti sottolineare, in questa sede, la valenza infracomunitaria che la lotta sindacale assunse per tutta la provincia: la “salvezza” delle “Reggiane” diventerà l’equivalente della lotta per il “lavoro”, per la “pace”, per il “progresso”. Una lotta per la vita, dunque, il cui epicentro ricadrà nel quartiere operaio cittadino per antonomasia: Santa Croce. L’esito della vertenza – un esito annunciato, viste le premesse – assumerà così il valore di uno schiaffo dato alla città, alla sua storia e al suo sapere: la chiusura delle OMI “Reggiane” il licenziamento in tronco di migliaia di lavoratori. La riapertura di alcuni reparti e la riassunzione di qualche centinaio di lavoratori, sotto la pena di una pesante discriminazione politica – qualche mese più tardi, sotto l’egida di “Nuove Reggiane” – non farà altro che gettare nuovo sale sulla ferita. Nella memoria collettiva, a Reggio Emilia, la chiusura della storica “Officina” ha fatto da spartiacque. Da parte della Cgil venne definita una “sconfitta sindacale ma una vittoria politica”, nel senso che l’unità dei lavoratori a sinistra non verrà meno. Da parte di chi di sinistra non era, il fiorire successivo del distretto industirale sarà impugnato, altrimenti, come prova testimoniale a favore di quella chiusura. La “vulgata” che si è instaurata a Reggio Emilia – con il senno di poi di un benessere economico diffuso – è quella di una città che, di fronte alla crisi e nel bisogno, ha saputo rimboccarsi le maniche e costruirsi ugualmente la propria “fortuna”. Da questo punto di vista, Reggio ha saputo fare aggio sulla crisi storica delle “Reggiane” per accrescere enormemente la propria reputazione in quanto “sistema locale” affluente. Ciò che è un valore ma chiede anche un contesto storico di riferimento. La chiusura delle “Reggiane” coincide, per un discreto numero di lavoratori, con l’espulsione dal mercato del lavoro locale; da cui storie di emigrazione od anche, più drammaticamente, di crisi soggettive e familiari. Negli anni Sessanta, il cambio di fase e la formazione di una periferia residenziale a

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sud della via Emilia comportano di fatto (e sono conseguenze che all’epoca non vennero prese in considerazione), l’emarginazione fisica dalla vita cittadina della ormai “decaduta” Santa Croce Esterna.

Manifestazione di solidarietà con gli opersai in lotta. Parla il segretsrio della CGIL Di Vittorio

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GAVASSA

La Chiesa di Gavassa, 2005.

DALLA DOMINAZIONE ROMANA ALL’ EVO MODERNO Ci lasciamo alle spalle le “Reggiane” – la fabbrica, il quartiere, l’aeroporto – per dirigerci in direzione nord-est, sulla strada per Correggio, sino a Gavassa. Qui, passati gli svincoli della tangenziale, oltre il confine naturale costituito dal canale d’Enza e dal torrente Rodano, si presenta ai nostri occhi un paesaggio tuttora contrassegnato dall’agricoltura; al punto che Gavassa è divenuto, nell’immaginario dei reggiani “di città”, sinonimo della “campagna”. 79


In realtà Gavassa cresce nei numeri demografici e si modifica in senso urbano-industriale non molto diversamente da quanto accade alle altre frazioni nel Comune. La percezione rurale deriva dall’attaccamento che, da queste parti, gli abitanti mostrano per la conservazione di un certo impianto abitativo: strade a carreggiata ridotta, case sparse, vaste coltivazioni a vite e cereali. Non a caso la Villa è sede di un’affollatissima festa agricola detta della “Batdùra” (la mietitura delle messi, nel mese di luglio). La floridezza “ubertosa” di questi terreni testimonia altresì del grande sforzo profuso dai suoi abitanti per strappare questa terra ai pantani acquitrinosi che, fin dal periodo preistorico, caratterizzavano il paesaggio padano. Come ha avuto modo di sottolineare Mario Iotti nel recente saggio sulla storia della frazione1: Il territorio di Gavassa, durante il periodo della protostoria, non era altro che una zona attraversata da diversi corsi d’acqua non regolamentati che, saltuariamente si trasformava in vaste paludi. Gli studiosi di etimologia ritengono che il toponimo di Gavassa derivi, appunto, dalle caratteristiche del suo territorio. All’origine del toponimo sta molto probabilmente il Gava o Gaba delle parlate mediterranee preindoeuropee, che serviva per indicare un corso d’acqua, o meglio una bassura.

Le prime informazioni di sicuro contenuto storico che riguardano gli insediamenti umani nell’area di Gavassa, riguardano il gruppo celtico dei Cenomani, provenienti dall’area padana tra Verona e Brescia. Pur non avendo testimonianze dirette di tipo storico o archeologico è lecito ipotizzare contatti tra questo gruppo celtico e le popolazioni etrusche che storicamente si spinsero in territorio emiliano. La successiva conquista e colonizzazione romana (190-170 d.C.) fece delle aree circostanti la via Emilia, ed in particolar modo dei principali centri posti lungo

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M. Iotti, Gavassa nei secoli, Reggio Emilia, Soc. Daino-Gavassa, 1992, pp. 1-2. Lo Iotti riporta informazioni ricavate dal dattiloscritto di Riccardo Bertani, Antichi Toponimi Reggiani, Reggio Emilia, 1992.


il suo tragitto, uno fra i territori privilegiati di assegnazione dei terreni agli ex-legionari (distribuzione viritaria). A quella congiuntura, infatti, vanno ascritte le prime opere di bonifica della pianura. Per la verità nell’area di Gavassa rimane poco di quella presenza: un solo reperto vi fa capolino nella monumentale opera di catalogazione del Mommsen. Durante il periodo della dominazione Longobarda (VII-VIII sec. d.C.) Gavassa fece parte delle terre arimanne, poste lungo l’asse Reggio-Correggio. Secondo Iotti era quello un tempo in cui la proprietà terriera risultava molto frazionata. Bisognerà attendere la comparsa di Sigifredo, feudatario imperiale della famiglia degli Attoni – la medesima da cui discende Matilde di Canossa –, affinché il nuovo signore si appropri di parte dei territori a nord di Reggio e ridimensioni la proprietà fondiaria2. Il periodo “arimanno” della storia di Gavassa, coincidente con la fase di conversione al cristianesimo del dominatore longobardo, segna anche la nascita del tempio locale dedicato a San Floriano. Ancora Iotti3: San Floriano era un santo caro ai Longobardi perché nato e morto nella loro terra d’origine, soldato di stanza nel Norico Ripense (territorio compreso fra l’Austria e la Stiria) era uno dei tanti “barbari” che militavano nelle legioni romane al tempo dell’Imperatore Diocleziano (284-305). Morì martire della fede durante una delle ultime persecuzioni contro i cristiani. Quando i longobardi e i Bizantini nel 600-700 si fronteggiarono lungo i confini orientali della nostra provincia, tutte le chiese a loro soggette erano dedicate rispettivamente a Santi Longobardi o ortodossi.

Il primo documento in cui si cita la chiesa di San Floriano di Gavassa è dell’estate del 1073, quando Gandolfo, vescovo di Reggio conferma la possessione di certi beni al monastero

2

Ibid., p. 3. Lo Iotti, per questa sua prima analisi della struttura fondiaria mediava le si serve del lavoro di L. Bonilauri, la diffusione dell’azienda curtense nel territorio reggiano nei secoli VIII-IX, in «Bollettino Storico Reggiano» n. 36, Reggio Emilia, 1977.

3

M. Iotti, op. cit., p. 26.

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di San Prospero (fra questi un manso) a Floriano. L’esistenza della Villa viene documentata già prima, tra il IX e il X secolo. Nel suo Dizionario topografico degli Stati Estensi, lo storico Tiraboschi annota alla voce «Gavassa»4: Villa e parrocchia nel Reggiano poco distante dalla Città verso Modena, è nominata fin dall’anno 857, in un diploma di Lodovico II, e in un altro di Carlo il Grosso dell’anno 883 in favore della Chiesa di Reggio e poscia in più altri documenti in cui si annoverano i beni della chiesa medesima e del Monastero di S.Prospero. La Corte di Gavassa era uno de’ beni, che componevano il patrimonio della Contessa Matilde e perciò Guelfo VI, Duca di Spoleto e Marchese di Toscana di lei nipote ed investito del patrimonio medesimo l’anno 1166, diede l’investitura della Corte di Gavassa a Gherardo Rangone in premio de’ molti servigi ad esso prestati, e de’ fedeli consigli co’ quali l’avea sempre assistito. Egli poscia cedette l’anno 1176 alla Chiesa di Reggio alcuni de’ beni che avea in Gavassa, cioè quatto iugeri di terra colla metà di quella Corte, come ci mostra il documento, che ne abbiam pubblicato, e come anche raccogliesi da una bolla di Alessandro III del 1178. Anzi da una controversia che la suddetta Chiesa ebbe a sostenere verso il 1195 per difendere la proprietà de’ terreni che aveva in Gavassa, sembra raccogliersi che egli si fosse spogliato di ogni diritto, che la suddetta investitura gli aveva recato. Nulla più d’interessante ci offre questa Villa. Solo nell’Archivio Segreto Estense conservasi un decreto del duca Ercole I del 28 di luglio del 1486 con cui accorda alcune esenzioni a’ terreni nella Villa di Gavassa acquisiti da Niccolò Ariosto, padre dell’immortale Lodovico. La Chiesa di San Floriano di Gavassa in una carta del 1302 è annoverata tra quelle del Capitolo di Reggio. E con questo nome esiste tutt’ora nel Vicariato di Massenzatico.

La proprietà della Corte di Gavassa oscilla dunque, nel periodo pre-comunale, tra la Chiesa di Reggio e la famiglia degli Attoni. Se infatti il padre di Beatrice – con l’uso disinvolto del sistema delle «permute» – aveva incamerato notevoli quantità di terre ecclesiastiche, la Contessa sua figlia attuerà dopo la 4

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G. Tiraboschi, Dizionario topografico storico degli stati estensi, rist. anast. eseguita sulla edizione del 1821-1825, Bologna, Arnaldo Forni, 1963, pp. 335-336.


morte del padre (1052) una politica di segno decisamente opposto, concedendo numerose donazioni ad enti ecclesiastici e hospitali su tutto il territorio di sua potestà. Alcuni di questi benefici riguardano terreni situati nell’area di Gavassa; tra i beneficiari, v’è appunto il famoso monastero di San Prospero5 che – circa duecento anni prima – era già stato investito di terre locali da parte dell’Imperatore Carlo il Grosso. In tal modo gli enti religiosi divennero ben presto i principali proprietari terrieri della zona. Mario Iotti6: Alla fine del 1100 buona parte del territorio di Gavassa apparteneva ad Enti religiosi, fra cui il Duomo di Reggio con i suoi canonici e i monasteri di S.Prospero e di S.Tommaso. I rapporti fra canonici e monaci, ma spesso fra gli stessi monaci, non furono sempre buoni. La riforma di Papa Gregorio VII, volta a normalizzare il clero secolare e regolare, non diede subito risultati apprezzabili. I religiosi, sempre più ricchi di terreni, erano portati ad interessarsi più dei beni materiali che delle opere spirituali. Fra i terreni che spesso erano causa di contese, c’erano anche quelli di Gavassa. La zona di Gavassa, dal Medio Evo in poi, è sempre stata di interesse rilevante. La fertilità del terreno e la vicinanza di un mercato importante come quello di Reggio le conferiva un alto valore economico e ai suoi proprietari un ragguardevole prestigio. Tutta la Reggio che contava, religiosa o laica, si era sempre distinta per le possessioni poste nei sobborghi della città.

La presenza della città a pochi chilometri dalla villa e la concentrazione di tanta terra nelle mani di enti ecclesiastici varranno a Gavassa, per l’appunto, una condizione di storica subalternità. Nel periodo che corre approssimativamente tra il XII e il XIII secolo – quello più classico di espansione del “libero” comune – a Gavassa risulta esservi un «consul» chiamato

5

Cfr. O. Rambaldi, Il monastero di San prospero di Reggio Emilia, Modena 1982, regesto n. 110, p. 205.

6

M. Iotti, op. cit., p. 4. Si veda anche Brunetto Carboni, Anno 1196: dal «lodo» dell’Abate Prospero emerge la testimonianza della realtà socio-ambientale del territorio dell’immediato suburbio settentrionale di Reggio, in Bollettino Storico Reggiano n. 77, Reggio 1992.

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Jacopinus; con ogni probabilità, svolgeva il ruolo di rappresentante della comunità agli occhi del Comune di Reggio. Altra figura di spicco nella comunità, oltre a quella del parroco ovviamente, era quella del mugnaio, “Bonifacius de Palmeris”, esponente della famiglia che dalla prima metà del duecento gestiva il mulino locale per conto dei Canonici del Duomo7. Il periodo comunale è un periodo espansivo, sotto i diversi profili politico, economico e sociale. D’altra parte, ripetuti furono i fatti d’arme tra Reggio e i Comuni vicini come,e all’interno del medesimo Comune, fra le varie fazioni (Nobili e Popolani, Guelfi e Ghibellini). In queste vicende, con il loro contorno di ruberie e violenze da parte dei mercenari impiegati nei vari conflitti, rimasero impigliate le Ville del contado. Gavassa, per la sua collocazione, si trovò in modo particolare coinvolta a più riprese nelle scontro con i Da Correggio. Le “croniche” locali ricordano, tra i più gravi, il saccheggio subito dal contado reggiano nel 1371, quando – nel corso della guerra che vedeva opposti i Visconti ad una lega tra i potentati della Pianura Padana (Verona, Mantova, Carrara, Modena e Venezia) – le truppe di Lucio di Lando, capitano di ventura al soldo degli Estensi, misero tutto a ferro e fuoco per ben per venti giorni (dal 2 al 22 di maggio). Vi sono poi le alluvioni. Memorabile quella del Crostolo e del Rodano del 1276. Fulvio Azzarri ne trasse una descrizione apocalittica8: Dal marzo del 1276 fino a S. Giovanni (24 giugno) piovve in continuazione; il Crostolo ruppe, allagando la zona nord do Reggio; il Rodano sommerse per diversi mesi le campagne di S. Maurizio, Gavassa e Penizzo. I danni furono enormi per l’impossibilità di seminare e per la morte di numerose bestie.

7

Cfr. F. S. Gatta, Liber grossus Antiquus Comunis Regii, Reggio 1944, Vol. III alla data 22 marzo 1238.

8

F. Azzarri, Cronache della città di Reggio, ripreso in Mario Iotti, op. cit , (p. 42); per una più completa informazione sul corso antico del Crostolo si veda anche Rino Rio, Vestigia Crustunei, Reggio, 1931.

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Il ponte delle assi.

Sbarramento del Rodano presso la Chiusa di Villa Curta

L’azione incessante di questi torrenti – a cui va aggiunto il Tresinaro che scorreva molto più a ovest del corso attuale – per secoli contribuirà a plasmare, assieme ed a volte in concorrenza all’incessante lavorio dell’uomo, l’assetto dell’intero territorio a nord della città. Del resto, la presenza nel territorio di due importanti corsi d’acqua come il Rodano e il Crostolo – il cui letto, o meglio, i cui letti in passato interessavano anche i territori di Pratofontana e Massenzatico – ha fatto sì che le

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terre a nord del capoluogo presentassero nei secoli una elevatissima fertilità, tale da spingere per generazioni i contadini del luogo a un’estenuante lotta al fine di bonificare queste terre. Lotta che, iniziata proprio in periodo comunale, troverà conclusione all’inizio del secolo scorso. Un passaggio decisivo si ha con la costruzione del canale d’Enza o canale Ducale, il quale attraversa il territorio provinciale da Ciano a Correggio e la cui asta passava anche per la Villa di Gavassa. Gli accordi che ne regolamentano gli usi delle acque datano al luglio 1462 e prendono il nome di Capitolazione Borsiana (dal nome di Borso d’Este, terzo signore estense di Reggio e primo ad essere insignito del titolo di Duca di Modena e Reggio).

Tipologie rurali

IL PERIGLIOSO CAMMINO DI UNA VILLA DI CAMPAGNA L’entrata nel XVI secolo vede l’Italia presa nella guerra continentale combattuta tra Francia e Spagna. Le “croniche” locali, sempre attente ai fatti d’arme, narrano di una città che, mentre vede svilupparsi l’arte della seta, si ritrova a più riprese, inusitatamente, vittima civile di questa o quell’altra disputa.

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Particolarmente disastrosi per il contado reggiano furono i saccheggi intrapresi dalle truppe pontificie (bisogna ricordare che gli Estensi erano alleati dei Francesi). Terminato nel 1523 il controllo pontificio su Regio, nel 1527 sarà la volta del passaggio dei Lanzichenecchi guidati dal generale imperiale Frondsberg (tra l’altro apportatori del morbo della peste). La forte instabilità del momento sembra trovare conferma nella rapida successione di quattro parroci in trentadue anni (dal 1529 al 1561); e siamo in anni dove, più che delle anime, ci si occupa dei benefici parrocchiali. Altre notizie, sempre luttuose, le ritroviamo nel secolo successivo: in corrispondenza della peste del 1630-1631 (quella di “manzoniana” memoria) e del breve assedio spagnolo nel marzo 1655. Tuttavia, quale risposta alla corruzione diffusa nel mondo ecclesiastico, sono quelli gli anni nei quali prendono piede anche nuove forme di aggregazione religiosa. Inoltre il rinnovato fervore religioso fece sorgere ovunque le confraternite religiose, contribuendo a sviluppare un nuovo spirito di solidarietà tra la gente. Mario Iotti ha descritto in particolare il fenomeno delle Confraternite9: Tra il ‘500 e il ‘600, sorsero in tutte le parrocchie le Confraternite dette pure Compagnie o Consorzi. Esse avevano per fondamento una grande forza: la solidarietà e l’aiuto vicendevole. Nei loro statuti troviamo sempre associati culto e carità. Gli scopi che si proponevano, oltre alle pratiche religiose, erano quelli dell’assistenza agli infermi, ai poveri “vergognosi”, i suffragi per i defunti, le donazioni a ragazze povere […]. I soci delle confraternite erano gli uomini e le donne della parrocchia, ma solo i primi avevano il diritto di voto per eleggere i reggitori della compagnia o per deliberare su fatti importanti. Le elezioni per la nomina dei due Massari e del Tesoriere (cassiere), si tenevano ogni due o tre anni, con l’imbossolamento delle fave bianche (approvazione) e delle fave nere (disapprovazione). La carica di priore spettava di diritto ad un prete che, nel caso di Gavassa, era sempre il parroco pro tempore.

9

M. Iotti, op. cit., pp. 53-54.

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Tra le confraternite nate a Gavassa se ne ricordano diverse: la prima e più importante – del Santissimo Rosario – viene fondata verso la fine del XVI secolo; una seconda, detta del Santissimo Sacramento, nasce dopo la grande peste del 1630. Si ha poi notizia di una ulteriore confraternita fondata il primo gennaio 1894 dal vescovo Vincenzo Manicardi nella chiesa di San Floriano, dedicata a Maria Vergine Addolorata. Sempre a Gavassa, prenderà ad operare il Terzo Ordine Francescano. L’importanza d queste congregazioni per la vita sociale di Gavassa è facilmente intuibile e si pensa che esse agirono in periodi in cui pochi erano gli strumenti a disposizione della comunità della Villa per assicurare le “opere di bene”. Altri spunti in argomento provengono dalle note di cronaca stese da don Antonio Baldasserini, rettore della parrocchia di San Floriano dal 1694 al 1741. Così viene ad esempio descritta l’occupazione francese della città10: [I francesi che occupavano Reggio] impongono contribuzioni di ogni genere, aggravate sempre più da nostri stessi concittadini, e da scorrerie fatte tutti i dì da francesi… e in una delle quali mi fu involato tutto il mio fieno del Beneficio colla sola moneta del gratis (et anco contentarsi) e ciò il 11 luglio 1703… Cresceva vi è più la nostra miseria perché le scorrerie de’ francesi, e tedeschi ci facevan desiderare più tosto la morte, che goder questa si infestata vita… si fuggiva da una parte, or da un’altra con l’abbandono delle cose e di quanto vi era».

Non meno tragica della permanenza francese fu quella imposta dall’esercito tedesco nell’ottobre del 1706, quando dovendo procacciarsi foraggio per i propri animali trasformarono il «foraggio in un aspro saccheggiato», portandosi via proprio di tutto11. Al di là delle calamità contingenti, di ordine bellico o derivanti dall’azione degli agenti atmosferici, pesavano le “gabelle” imposte dal governo estense. A distanza di oltre due secoli vi è ancora chi, come Mario Iotti, vuole indignarsi contro il trattamento a suo tempo imposto ai “villani”:

10

Mss. don Antonio Baldasserini, Memorie, anno 1703, Archivio Parrocchiale d Gavassa.

11

Ibid.

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I duchi estensi, Rinaldo I (1694-1737) e Francesco III (17371780), durante il loro lungo governo rinunciarono alla riscossione diretta delle imposte e tasse, preferendo incassarle attraverso gabellieri privati. Questi appartenesti a piccole famiglie borghesi (Marchetti, Cugini, Re, Paradisi e Borrini), in breve tempo, con la loro fiscalità esosa e rapace, accumularono ingenti beni mobiliari. I duchi di Modena sanzionarono il loro operato nominandoli tutti conti!12

Siamo ormai a ridosso del periodo napoleonico: ed è qui interessante sottolineare come – in una congiuntura critica per i poteri costituiti e di mobilizzazione delle libertà locali – la parte nord del forese si renda protagonista di un percorso di autonomia territoriale. Nel 1804, assieme a Massenzatico e al Penizzo, Gavassa viene accorpata al neonato Comune di Budrio (una frazione di Correggio). Mario della Palude, che faceva parte di una terna proposta dal Prefetto del Dipartimento ne risulta sindaco; Filippo Casali e Ippolito Malaguzzi, fra i ricchi possidenti del comune, sono nominati Consiglieri Anziani. Il Comune di Budrio durerà poco più di un anno. Con Regio decreto 6 giugno 1805 viene definito l’assetto dei comuni nel Dipartimento del Crostolo e Gavassa farà così ritorno al proprio “ovile” di sempre: il Comune di Reggio. Le novità profonde importate dalla Francia furono altre, destinate a toccare Reggio e Gavassa come tutto il Regno di Italia: l’adozione (nel maggio 1805) del Codice Napoleonico, con il quale vennero aboliti tutti i diritti feudali e i benefici ecclesiastici, misura che comporterà una generale requisizione da parte dello stato dei beni fino ad allora appartenuti alla Chiesa. Ne consegue, come conseguenza non secondaria, una forte accelerazione nei processi di capitalizzazione fondiaria. Famiglie di coloni che da generazioni lavoravano i fondi ecclesiastici, in mezzadria od anche in terzeria, di punto in bianco si ritrovarono escomiate13. Prende corpo in quegli anni la costituzione di quel

12

M. Iotti, op. cit., (p. 14).

13

Cfr. F. Spaggiari, La distribuzione delle proprietà fondiarie nella pianura reggiana (1791-180-1814), in «Reggio e i territori estensi dall’antico regime all’Età napoleonica», Parma 1979, Vol. I, pag. 210.

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ceto bracciantile – casanti, cameranti e più genericamente salariati stagionali “senza terra” – destinato a diventare un soggetto sociale decisivo nello scontro di classe lungo i due secoli successivi. A fianco di questo – e non meno sconvolgente per la popolazione contadina, allocata in una posizione periferica rispetto ai centri urbani del potere – si registra l’introduzione della leva militare obbligatoria. Sono dunque, quelli, ancora anni nei quali mentre la guerra si porta via uomini e risorse accadono altre calamità. All’alluvione del 1815 fa seguito una grave epidemia di tifo petecchiale; seguono stagioni di raccolti scarsi e inconsistenti, la morte miete più che mai tra i bambini. Mario Iotti ha reperito alcune dati14: A Gavassa, nel 1832, su 37 nati, 14 morirono prima di aver compiuto l’anno, con una mortalità infantile pari al 37,83%. Questa percentuale si mantenne anche quando le nascite si riducono fortemente nelle annate che seguono carestie ed epidemie. È noto che nelle campagne i contadini rimandavano le nozze nelle annate di crisi. L’anno nero della mortalità infantile fu il 1822: su 18 defunti ben 15 erano bambini. Ancora nel 1831, su 30 nati muoiono 7 bambini, cioè il 23,33%.

La popolazione della Villa continuerà comunque a crescere, passando dagli 800 abitanti del 1814 ai 1200 del 1860. Tra questi, sempre più numerosi, la categoria dei contadini poveri o, come vengono classificati ufficialmente a partire dal censimento del 1860, dei “casanti” e “cameranti”: in quell’anno sono 388, pari al 31 per cento della popolazione di Gavassa15. La commistione tra proletarizzazione della condizione contadina e tendenze reazionarie del locale governo “austroestense” non contribuirà evidentemente a formulare gli interventi attesi di perequazione sociale; sola misura intrapresa per fron-

14

M. Iotti, op. cit. (p. 18).

15

L’origine del nome va ricercata nella condizione abitativa: famiglie numerose – anche se più ridotte dei mezzadri, strutturati stabilmente su più generazioni – ristrette in povere abitazioni costituite da pochi vani angusti, facenti parte di complessi più grandi, spesso denominati “castelli popolari”.

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teggiare la piaga sociale della povertà, di stampo paternalistico, sarà l’istituzione dei Monti Frumentari per contenere le speculazioni sul mercato dei cereali durante le annate di carestia. Da parte dei ceti sociali più miseri arriverà una risposta che contrasta con la vulgata corrente di un Risorgimento tutto borghese. Sono ben sei i patrioti gavassesi partecipanti alla seconda guerra d’Indipendenza: Giacomo Anceschi, Giovanni Bertani, Giovanni Camellini, Luigi Costi, Luigi Gandini e Prospero Rurabbi16. La mobilitazione delle campagne troverà poi un punto di sfida aperta attorno alla tassa sul macinato imposta (nel 1866) dal nuovo governo regio dei Savoia. Per dare la misura dell’entità dell’ammontare del balzello: si trattava di 2 lire per quintale, quando un operaio guadagnava 50-60 centesimi al giorno! Gavassa, come numerose altri nuclei contadini, vedrà manifestazioni di strada e alcuni cittadini condannati durante la repressione che ne seguì. Un buon osservatorio per capire che cosa stesse succedendo nelle campagne reggiane viene fornito dai dati contenuti nell’inchiesta agraria promossa nei primi anni Ottanta del XIX secolo da Stefano Jacini. I relatori per Reggio Emilia furono Andrea Balletti e Guido Gatti. Per quanto attiene Gavassa, ritorna ulteriormente rafforzato il peso specifico acquisito dai casanti; una classe sociale vista peraltro come il fumo negli occhi dai proprietari terrieri, in quanto ritenuta causa principale del diffondersi dei “furti campestri”17. Uno studioso come Mario Iotti ha preferito porre l’accento sugli anni successivi, nei quali – sulla scorta del gran lavoro di innovazione impostato da Antonio Zanelli presso la Regia Scuola che prenderà poi il suo nome – la produttività agricola conoscerà un incremento senza precedenti18:

16

Cfr. U. Dallari, Il 1859 nei ducati dell’Emilia, Reggio Emilia, 1911.

17

Cfr. Atti della giunta per la Inchiesta Agraria e sulle condizioni della classe agricola, relazione del Commissario, marchese Luigi Tanari, senatore del Regno, sulla sesta circoscrizione, vol. II, t. 1, Roma 1881.

18

M. Iotti, op. cit., p. 22

91


Agli albori di questo secolo, Gavassa si inserisce sempre più nel processo tecnico-agricolo. Un piccolo podere del Prof. Antonio Zanelli, l’insegnante Direttore della Regia Scuola di Zootecnica e Caseificio di Reggio, situato nel territorio di Gavassa, diventa un punto di riferimento per tutti gli agricoltori della zona. La produzione agro-zootecnica è in costante sviluppo; nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, a Gavassa si contano cinque caseifici per la produzione del formaggio grana. La produzione dell’uva, secondo prodotto in ordine di importanza, sull’esempio della vicina Villa di Massenzatico, veniva orientata sulla Lancellotta, varietà che per le sue indiscusse qualità era richiesta su tutti i mercati. Dopo le tensioni sindacali dei primi anni del ‘900, i rapporti fra gli imprenditori agricoli ed i coloni si erano fatti più tranquilli. Quella «seria speranza» auspicata dal Balletti [nell’inchiesta Jacini, ndr] sembrava vicina, quando si abbatté anche sulla comunità di Gavassa la guerra mondiale del 1915-1918.

Il richiamo dello studioso alla “scure” della Grande guerra trova riscontro nei numeri impressionanti, in termini di vite umane usate e buttate, prodotti da quell’evento: 140 furono gli uomini richiamati al fronte (le classi dal 1878 al 1899); in numero di 42, pari ad uno su tre, non fecero ritorno. Si aggiunga la diffusione del morbo dell’epidemia cosiddetta della” spagnola”: nel 1918, l’anno di maggiore virulenza, il numero dei decessi raddoppia sulla media degli anni immediatamente precedenti e seguenti. Sono altri 40 i gavassesi che se ne vanno.

Monumento ai caduti 92


Un punto di distinzione importante, nel panorama politicosociale reggiano dominato dall’influenza del “socialismo evangelico” professato da Camillo Prampolini, è il peso specifico assunto in Gavassa dal movimento cattolico. A livello locale, persino anticipando lo spirito sociale dell’enciclica “Rerum Novarum” (1891), sorgono i primi comitati parrocchiali19. Nel 1899 vedrà qui la luce la prima cooperativa di consumo di ispirazione cattolica nella provincia, poi trasformata (nel 1902) in Unione Agricola Cooperativa Cattolica di Consumo di Gavassa. Sono infatti alcuni contadini proprietari (Andrea Borghi, Alberto Cocchi, Giuseppe Davolio Marani, Primo Varini, Zefirino Motti, Luigi Ruozi, Luigi Spaggiari, Diego Poli, Davide Radighieri) ad ispirarne le linee guida, almeno sino all’avvento del fascismo con l’imposizione di un unico ente agricolo provinciale (il Consorzio Agrario Provinciale). Che a Gavassa l’associazionismo cattolico fosse forte e attivo lo mostra bene il fatto che, nel 1903, la “Società di Contadini” di ispirazione socialista chiese senza successo di unirsi alla Cooperativa Cattolica. Il motivo del rifiuto è spiegato nel verbale del Consiglio di amministrazione della Cooperativa Cattolica20: […] dopo varie discussioni… delibera di non unirsi perché la Società di Contadini è di carattere opposto alla nostra, e dichiara di accettare i membri come soci purché ottemperino in tutto e incondizionatamente al nostro statuto.

19

S. Spreafico ha voluto ricordare i nomi di alcuni tra i protagonisti di quel movimento: Ferdinando Bortolotti, Federico Attolini, Fortunato Rovacchi, Giulio Simonazzi e Agostino Borghi ; cfr. La chiesa italiana fra antichi e nuovi regimi, Bologna, Cappelli, p. 338.

20

Archivio Famiglia Borghi. Verbali del Consiglio di amministrazione della coop. cattolica di Consumo costituita con rogito del dr. Emilio Del Rio del 7 giungo 1902, in Ibid.

93


94


Palestra U.S. Daino, Cantina Sociale, alloggi Acer, Pista ciclopedonale dal centro verso il Campovolo.

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Gavassa oggi: Scuola primaria, Scuola materna.

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MASSENZATICO

Massenzatico. Antico arazzo.

VILLA CRUSTUNEI Proseguendo nel nostro cammino all’interno della Circoscrizione 7, si disegna un leggero arco verso nord-ovest per arrivare a Villa Massenzatico, più elevato rispetto al territorio circostante, L’ingegner Rino Rio, nel suo pregevole “Vestigia Crustunei” del 1931, ha messo in luce la relazione tra la nascita di Massenzatico e le migrazioni dell’alveo del Crostolo. Qui scorreva infatti il suo corso principale, detto “Crostolo Magnus” e 97


la borgata che sorse alle rive prese per l’appunto il nome di “Villa Crustunei”.1 Il primo nucleo abitato, in particolare, sorse in forma di corte o castello su di un dosso – in posizione sopraelevata rispetto ai terreni circostanti – formato dai precedenti detriti del Rodano. La dipendenza delle acque – con il costante rischio di alluvioni: le cronache locali ne ricordano una spaventosa nel 1276 – sarà una costante nella vita di Massenzatico, almeno sino alle grandi bonifiche promosse tra il XVI e il XVII secolo.

UNA VILLA FEUDALE Così recitava – siamo alla fine del XVIII secolo – la Corografia del Ricci2. MASSENZATICO, Villa del distretto di Reggio sotto quell’Archivio. Ha per confine a lev.[ante] Lemizzone e Prato, mez.[zogiorno] Gavassa e Mancasale, pon.[ente] Prato Fontana, set.[tentrione] Budrio e Fosdondo. È soggetta alla Comunità di Reggio ed ha una parrocchiale plebana col titolare San Donnino Martire di sette Figliali. È posta nel paino ed è distante da Reggio 4 miglia, da Modena 15. Ha un estensione di 5384 biolche e una popolazione di 1051 abitanti. Fu già un feudo più specialmente degli altri addetto al Vescovo di Reggio, il quale vi conservava un proficuo diritto sulle successioni ed era prevenuto al Vescovato nelle permute fatte col Marchese Bonifazio, padre della Contessa Matilde.

La sua vocazione rurale – è Villa vitivinicola per eccellenza – sarebbe anche alla base del suo nome. Massenzatico deriverebbe, secondo una parte della storiografia, da “masseria”, ovvero corte agricola. C’è però chi, in maniera un po’ romantica, farebbe risalire il toponimo Massenzatico addirittura all’imperatore Massenzio, rivale del più noto Costantino e da lui sconfitto nella famosa battaglia di Ponte Milvio nel 313 d.C.

1

R. Rio, Vestigia Crustunei, Reggio Emilia, 1931.

2

L. Ricci, Corografia dei territori di Modena, Reggio e degli altri stati appartenenti alla casa d’Este, Aedes Muratoria, ristampa anagrafica, 1988, Modena.

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La leggenda affonda, probabilmente, in una certa fierezza di questa frazione che – come vedremo – ha inteso difendere nel corso dei secoli un certo livello di autonomia. Alcuni ritrovamenti romani hanno fatto il resto. Il sacerdote reggiano Francesco Giuseppe Franchi, nelle sue Memorie di Reggio di Lombardia, riportando lo schizzo di una lapide romana scrive in un’annotazione3: Questo sasso di pietra macigna fu ritrovato nell’escavamento di un cantina nel Palazzo del Vescovo feudo suo di Massenzatico sotto terra Braccia 3. L’anno 1702, sotto al capo di un morto in cassa di mattoni murati, con questa iscrizione, come si vede, mandatami da don Antonio Baldassarini Rettore di Gavassa.

Oggi di quella lapide ritrovata a Massenzatico non si troverebbe traccia nel Museo Archeologico cittadino, ma gli zelanti autori di Massenzatico, un millennio, un secolo, hanno rilevato nel Corpus Inscriptiorum Latinorum del Mommsen a p. 179 (n. 1000) la seguente citazione4: 1000 sasso macigno. Ritrov. Nell’escavamento d’una cantina nel palazzo feudo suo di Massenzatico l’a. 1715 sotto al capo di un morto in cassa di mattoni murati.

IATO C.N.B.S.

Queste due testimonianze archivistiche, riferite alla stessa lapide, sembrano confermare il fatto che già in periodo romano Massenzatico sia stata interessata dalla presenza di un insediamento civile – probabilmente di tipo rurale, una villa appunto – di una certa importanza. A confortare questa ipotesi sta anche l’altro reperto di tipo epigrafico ritrovato ai suoi confini verso Gavassa, nei pressi di “Castello Motti”.

3

F. G. Franchi, Memorie di Reggio di Lombardia, manoscritto , 1700, Misc. Regg. C. 71, Biblioteca Municipale “Panizzi”.

4

Mommsen, C.I.L., XI, 1000, Berlino, 1888, p. 179.

99


La traccia romana

Che Massenzatico fosse parte della centuriazione romana, nel territorio a nord della via Emilia, viene attestato anche dagli studi riportati dall’ingegner Otello Siliprandi nel suo Segni della centuriazione romana nel territorio reggiano5: Oltre il cardine e il decumano che passavano per l’abitato, si possono ora individuare: a) un cardine a oriente del medesimo, nella strada che iniziava a nord di Massenzatico, tra Bagnolo e Budrio; passando a levante della chiesa di Massenzatico, toccava Villa Curta, si dirigeva alla Via Emilia che attraversava a levante di San Maurizio, nei pressi del Ritiro, per proseguire per Gavasseto e raggiungere l’attuale provinciale per Scandiano ai piedi della collina.

Gli sconvolgimenti seguiti alla caduta dell’Impero Romano spiegherebbero, nella zona presa in esame, le ragioni della

5

100

O. Siliprandi, Segni della centuriazione romana nel territorio reggiano, estr. dal periodico “Studi e documenti”, Reggio Emilia, Tip. Costi, 1941 , p .6.


scomparsa di evidenti tracce di centuriazione, quali pure si ritrovano in altri contesti comunali (Villa Bagno) e della provincia (tra Poviglio e Brescello). Ulteriori informazioni risalgono poi al periodo carolingio. Ne scrive con dovizia il Tiraboschi6: Mazinzaticum o Maxenciatica, Massenzatico Villa e Chiesa Pievana col titolo di S. Donnino nel Reggiano, era fin dal principio del nono secolo almeno della Chiesa di Reggio. L’Imperadore Lottario I con quella facilità che allora aveasi a donare l’altrui, insieme con Luzzara, di cui già si è detto, donò in Beneficio a un certo Riccardo la Corte di Massenzatico colla Cappella in onore di S.Donnino. E per quanto i Vescovi di Reggio se ne dolessero, non poterono riaverla fino all’anno 840, in cui, morto Riccardo, la stesso Lottario con suo diploma rendettela al Vescovo Vitale. E ivi ancora l’Imp. Lodovico II donò l’anno 857 qualche terreno al Capitolo della Chiesa medesima. Quindi di Massenzatico si fa menzione in tutti i documenti, ne’ quali si annoverano i possedimenti del Vescovo, e i beni del Capitolo di Reggio, ed esso è pur nominato tra’ luoghi ne’ quali il Vescovo nel secolo XI teneva presidio. Il Comune di Reggio però credeva di poter sopra quella Terra esercitare la sua giurisdizione, e perciò nel 1329, essendo stato rappresentato che la Terra di Massenzatico a cagion delle guerre era rimasta del tutto disabitata e che se la Torre di quella Chiesa fosse stata fortificata, avrebbon potuto gli uomini colle lor bestie tornare ad abitarvi fa ordinato che a spese de’ terrazzani dovesser farvisi le proposte fortificazioni. Contuttociò i Vescovi di Reggio ne ritennero il dominio e quando nel 1361 il Vescovo Bartolommeo diede a Feltrino Gonzaga l’investitura di quasi tutti i Castelli della sua Chiesa, ne eccettuò Massenzatico. Nel 1465 Paolo II con sua Bolla segnata agli 3 dì Gennajo, e diretta al Proposto di S.Prospero, la qual si conserva nell’Archivio Segreto della Città di Reggio, ad istanza del Vescovo Giambattista Pallavicini unì la Chiesa di S.Donnino di Massenzatico alla Mensa Vescovile di Reggio.

Una prima fonte indiretta del rapporto che lega Massenzatico ai vescovi reggiani, in realtà, andrebbe fatta risalire al 774 d.C., l’anno in cui Carlo Magno – valicate le Alpi – scende in

6

G. Tiraboschi, Dizionario topografico storico degli stati estensi, rist. anast. eseguita sulla edizione del 1821-1825, Bologna, Arnaldo Forni, 1963, pp. 38-39.

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Italia per annettere il territorio governato dai Longobardi. Carlo Magno, durante la sua opera di dissoluzione di quel che restava dell’amministrazione Longobarda, farà prigionieri i vescovi di Lucca, Pisa e Reggio. Quest’ultimo, di nome Apollinare, risulta liberato per intercessione del pontefice Adriano I e reintegrato nella sua carica e nei suoi possessi con diploma del 781, redatto a Pavia. Se questo documento non cita espressamente la Villa, quello di Lotario conferma ciò che già Carlo Magno e Ludovico I avevano restituito ad Apollinare, tra cui appunto Massenzatico e la chiesa di san Donnino. Il possesso del feudo di Massenzatico ai vescovi reggiani verrà poi reiterato da re Berengario (898) e dagli imperatori Ottone II (980), Federico I (1160), Enrico VI (1196) e Federico II (1224). Tornando al testo del Tiraboschi, esso ci descrive in modo sintetico le vicende della Villa per un arco di circa sei secoli, le quali ruotano – come si è visto – attorno al rapporto “esclusivo” che già dal IX secolo si instaura tra Massenzatico e la Curia di Reggio. Tanto che il vescovo, in diverse occasioni, difende strenuamente i propri diritti esclusivi sul feudo di Massenzatico contro gli altri potentati locali: i Canossa prima e il Comune cittadino poi. Rossana Maseroli Bertolotti7: [...] ai primi del Mille, la vita della città di Reggio e delle sue campagne è in buona parte legata alla Curia Vescovile, formata di da membri del clero, funzionari della corte episcopale, giudici e monaci. Curia dotata di un grande potere se, in un contenzioso sulla divisione dei beni contro Bonifacio di Canossa, padre di Matilde, il Vescovo di Reggio si rifiuta di cedere proprio Massenzatico che verrà, anzi, da lui fortificata. Così come il 6 maggio del 1189, quando il Vescovo Pietro (1187-1210) concorda col Comune di Reggio di pagare un certo canone per tutte le terre che aveva nel Vescovado e di sottoporre a servizio militare i suoi uomini, esentando però Massenzatico da questi oneri.

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R. Maseroli Bertolotti, Massenzatico, documenti per mille anni di storia, Ed. Componendo, Reggio Emilia, 2000, p. 23.


Con questo atto il vescovo di Reggio afferma di voler esercitare un dominio esclusivo su terre che, evidentemente, dovevano costituire una fonte di introiti notevoli per la Curia. Questo particolare legame al territorio di Massenzatico si rtirova nei secoli successivi: ancora nella seconda metà del XIII secolo, il Vescovo si opporrà al tentativo dei possidenti di Massenzatico di accrescere la propria autonomia per avvicinarsi al libero Comune. Ne ha scritto estesamente la Maseroli8: Nella popolazione di Massenzatico, però, il desiderio di autonomia si fa sempre più pressante tanto che nel 1265 presta giuramento alla città di Reggio pensando di trovare maggiore libertà nell’ambito della giurisdizione comunale. Ma il vescovo, il battagliero ed energico Guglielmo Fogliani, reagisce prontamente minacciando di scomunicare Martino de Clechis e altri sette anziani del Comune che avevano accolto il “sequimentum”. Minaccia che sortisce il suo effetto ed il 13 febbraio Ugolino Fugazia, che aveva accettato di essere podestà di Massenzatico, si sottomette al Vescovo che ritira così la scomunica. [...] Il 14 aprile del 1265 una delegazione di venti uomini si reca nel palazzo vescovile per ricevere il perdono “sub giuramento ne cetero sequimentum facient”. Il giorno dopo, nella chiesa di San Donnino si riuniscono quaranta capifamiglia che giurano di sottomettersi all’autorità del vescovo per ottenere il perdono; la cerimonia è officiata dal “presbiter ecclesiae Masenciatici” di nome Gerardo.

Le diatribe con il Comune di Reggio non finiranno qui, stante la volontà del Vescovo di non cedere in alcun modo la propria podestà sul feudo9: Il Comune di Reggio, però, credeva di poter sopra quella Terra esercitare la sua giurisdizione, e perciò nel 1329, essendo stato rappresentato che la Terra di Massenzatico a cagion delle guerre era rimasta del tutto disabitata, e che se la Torre di quella Chiesa fosse stata fortificata, avrebbon potuto gli uomini colle lor bestie tornare ad abitarvi, fu ordinato che a spese de’

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Ibid., p. 24.

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N. Tacoli, Memoriali, Tomo I, Reggio Emilia, pag. 338.

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terrazzani dovesser farvisi le proposte fortificazioni. Con tutto ciò i Vescovi di Reggio ne ritennero il dominio; e quando nel 1361, il vescovo Bartolommeo diede a Feltrino Gonzaga l’investitura di quasi tutti i Castelli della Sua Chiesa, ne eccettuò Massenzatico.

Il rapporto tra Curia e Villa resisterà così nella temperie delle successive guerre tra le diverse signorie in disputa per il dominio sulla terra reggiana (in particolare tra i Gonzaga, gli Estensi ed i Visconti).

Riproduzione del Liber Focorum

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Ma vediamo qualche dato sulla consistenza demografica di Villa Masenzatico. Secondo il Liber focorum – l’elenco dei “fuochi” redatto nel 1315 per censire la popolazione del distretto di Reggio Emilia – a Massenzatico vi erano circa una quarantina di famiglie, ai quali se ne debbono aggiungere venti in località Penizzo. Nell’ipotesi di circa sei persone per “fuoco”, si arriva a 360 “anime”. La peste, di lì a poco, ne farà scempio. Occorrerà oltre un secolo, e l’introduzione di coltivi innovativi, per ritrovare un certo equilibrio. Ne racconta ancora la Maseroli10: Se confrontiamo il numero degli abitanti del 1458 con quello del 1315, vediamo come, nel sec. XV, gli stessi siano stati falcidiati. Infatti, il morbo semina morte nel 1429, 1438, 1449, 1450; anni di carestia furono il 1432, 1442, 1443; di carestia e di epidemia il 1463, in cui si persero i grani seminati nell’autunno e l’abbondanza delle nevi non permise di seminare a primavera; lo stesso fu nel 1471 e nel 1476. Anche il Vescovo di Reggio, dunque, a causa della peste e della fame, e quindi di un calo di popolazione, è costretto a disfarsi di parte delle sue terre, o a fare permute. La scarsità di mano d’opera aveva fatto salire il valore del lavoro e per non perdere i censuari i, fu necessario, anche per lui, tornare agli affitti ereditari, che trattenevano i contadini sulla terra, oppure pluriennali o a vita. A datare, però, dalla seconda metà del secolo, inizia per l’economia del contado un periodo di progressiva ripresa; nelle terre afflitte dalla “fame di uomini” si diffonde l’uso del trifoglio e si migliora la tecnica della coltivazione della vite. Nelle piccole aziende prevale la cerealicoltura ed in particolare la coltivazione del frumento. La Villa, in breve, riprende vitalità, ed i suoi abitanti possono godere di un periodo di tranquilla pace, allietata da un fatto che la rende importante agli occhi dell’intero ducato.

Nel 1444, alla nomina del nuovo vescovo di Reggio – marchese Battista Pallavicino – la relazione tra Massenzatico e la Curia reggiana si fa, se possibile, ancora più stretto. Il Papa Eugenio IV, con bolla in data 1465, concede di unire la chiesa di San Donnino di Massenzatico ed i suoi beni alla Mensa

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R. Maseroli Bertolotti, op. cit., p. 38.

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Episcopale. Con il Vescovo Ugo Rangone (1510-1540) si giungerà all’edificazione del palazzo episcopale, a ridosso della parrocchiale. Si trattava di un palazzo adibito ad uso estivo, in bello stile rinascimentale; alcune tracce sono tuttora visibili sul lato destro della facciata, mentre all’interno è ancora visibile un grande camino in marmo rosso di Verona con l’iscrizione “1548 GE. AN. EPC. REG. ET PRINC. POSUIT”.

Pianta del Palazzo vescovile

Alla metà del Cinquecento risale poi l’incorporazione della chiesa di San Martino e della popolazione del “Penizzo”, una piccola comunità posta tra Massenzatico e Pratofontana (se ne 106


hanno notizie fin dall’XI secolo). L’annessione porta in dote nuove terre, arricchendo in questo modo il già ricco patrimonio vescovile di San Donnino. La fertilità delle terre, unita alla situazione di autonomia derivante dalla diretta potestà ecclesiastica, hanno fatto così parlare di Massenzatico come di un “feudo felice”. Difficile, in verità, pensare ad una migliore condizione delle condizioni di produzione e riproduzione per quanto riguardava il contado; mentre è vero che sino alla fine del XVIII secolo il Duca continuerà nella politica di esenzione fiscale per le rendite del Vescovo. Lo stato di cose muta, evidentemente, con l’avvento di Napoleone. Nel 1808 la Villa viene aggregata al comune di Reggio e, su decreto del Podestà di Reggio, cessano alcune prerogative amministrative assunte dalla parrocchia di Massenzatico. L’anagrafe, in modo particolare, passa all’Ufficio di stato civile del Comune. Nonostante la successiva Restaurazione, un’intera epoca finisce. Nel 1866, con la definitiva messa in liquidazione degli enti religiosi, la borghesia urbana farà il proprio ingresso nella proprietà fondiaria locale.

La Chiesa di Massenzatico agli inizi del Novecento.

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La Chiesa parrocchiale agli inizi del XX secolo

ANCORA SULLA CHIESA DI SAN DONNINO Le notizie a noi più note sull’attuale chiesa di San Donnino riguardano il periodo che coincide con la fabbricazione del palazzo vescovile e la coeva ricostruzione della chiesa medesima. Il primo intervento vescovile risale al 1615, con il vescovo Claudio Rangoni; di qualche decennio successivo è quello, più radicale, del vescovo Ottavio Picenardi (1701-1722). Picenardi amplia la chiesa quindi ne farà atterrare il campanile, per ricostruirlo separato, nella posizione attuale. Viene inoltre concepita l’abitazione parrocchiale. Nel settembre 1721 sono poi collocate le due campane, una delle quali da lui stesso rifusa nel 1705. Nel 1866, con vicario Don Mauro Cavezzani, la chiesa parrocchiale fu fatta decorare dal pittore Geremia Lanzini che si occupò delle pitture ancora oggi osservabili nelle cappelle laterali e alla base della facciata. Quest’ultima sarà nuovamente rifatta nel 1871, con l’edicola in posizione centrale (vi è tuttora) contenente la statua del Redentore. Interventi successivi – come si vede nelle cartoline d’epoca – hanno rimesso mano, in diverse riprese, agli spazi circostanti la chiesa. 108


Teatro Artigiano; inaugurazione cooperativa “Braguzza”, 1893.

MASSENZATICO “ROSSA” Con l’Asta dei beni ecclesiastici (legge del 7 luglio 1866) cambia radicalmente la storia di Massenzatico. Qui troveranno terreno fertile, per una serie di condizioni storiche favorevoli e l’“apostolato” dei primi socialisti – Camillo Prampolini in testa, la cui madre, una Paglia, era della Villa – e i primi istituti associativi e sindacali dei lavoratori. 109


Su quel passaggio epocale si è concentrato un figlio di questa terra: il contadino e quadro comunista Aldo Ferretti, meglio noto con il nome partigiano di “Toscanino”11: Il comune di Reggio aveva allora poco più di 50 mila abitanti, dei quali circa 21 mila nel centro cittadino. Massenzatico si calcolava contasse intorno alle 2500 unità che saliranno intorno al ‘900 a poco meno di 3 mila, per arrivare al 1919 a 3089. In questa frazione prevaleva la piccola e media azienda contadina condotta per lo più a mezzadria, anche se incominciavano a diffondersi l’affittanza e la coltivazione diretta da parte dei proprietari stessi. La più grande proprietà agraria capitalista era quella denominata «Cort dal Genvèis» (Corte del Genovese), situata ad est del centro e confinante con Lemizzone, frazione del comune di Correggio. Vi erano anche altre grosse proprietà come quelle dei Levi, dei Camuncoli, della vedova Gatti, dei Ferrari, dei Righi, dei Paglia (nonni di Prampolini), ecc., ma erano quasi tutte suddivise in poderi concessi a mezzadria. I rispettivi padroni abitavano in città e solo alcuni venivano in Villa a «far campagna» nel periodo estivo.

Soffermiamoci ora su Camillo Prampolini, universalmente reputato l’ispiratore del “metodo reggiano” che connoterà sul piano nazionale il movimento socialista locale e la stessa Villa “rossa” di Massenzatico.

Camillo Prampolini, giovane “profeta” socialista

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A. Ferretti, Massenzatico nella Reggio Rossa, Edizioni Libreria Rinascita, Reggio Emilia, 1973, pp. 5-8.


Nasce a Reggio Emilia il 27 aprile del 1859. La sua origine è borghese: il padre, ragioniere, era un impiegato del comune; la madre era figlia del medico Paglia, il quale aveva alcuni poderi a Villa Massenzatico. I familiari e i parenti più prossimi erano tutti conservatori e credenti, ma di idee liberali e patriottiche. In questo ambiente il piccolo Camillo cresce e viene educato all’osservanza di principi sociali, morali e religiosi rigidamente praticati con onestà, lealtà e convinzione. Massenzatico vi riveste un ruolo importante, in quanto la casa dei nonni materni diviene la dimora delle sue estati, e qui può osservare la vita nelle campagne e la condizione sociale dei contadini. Aldo Ferretti ne ha tracciato un ritratto quasi agiografico12: In gioventù abitò spesso, specialmente nei mesi di buona stagione, presso i nonni materni che risiedevano al centro della Villa di Massenzatico in una casa signorile dove oggi vivono i contadini Poli. Essi ebbero gran parte nella sua educazione, soprattutto la nonna che veniva considerata donna intelligente e buona. Camillo era di costituzione gracile e forse proprio per questo il nonno, dottore, gli faceva fare spesso dei bagni di sole ritenuti, allora, una cosa fuori da tutte le consuetudini mediche. Prampolini visse dunque a Massenzatico insieme ai ragazzi dei contadini diventati via via sempre più suoi amici e, dopo gli studi, suoi compagni di fede e di lotta. Perciò Massenzatico si può ritenere, a buon diritto, la sua «Villa Materna». Egli da ragazzo osservò e praticò, da convinto credente, gli insegnamenti religiosi, ma verso i 12 13 anni cominciarono a sorgere in lui i primi dubbi sulla fede religiosa, pur mantenendosi fermo nelle idee liberal conservatrici e ligio ai doveri che queste comportavano; tanto da confessare. più tardi, ad un compagno di liceo che non avrebbe esitato a fare anche il boia se fosse stato « necessario all’ordine sociale ». Ultimati gli studi liceali si trasferì all’università di Roma continuando, come facevano in generale tutti gli studenti, la sua vita di giovane borghese. Fu proprio a Roma che ebbe inizio la sua rivoluzione interiore; assistendo ad una lezione udì l’affermazione, fatta e sostenuta dal suo professore con rigore giuridico, che il diritto di proprietà

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A. Ferretti, op. cit., pp. 11-13.

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escludeva il diritto al lavoro. Perché argomentavano del resto tutti i conservatori del tempo ammettere il diritto al lavoro vorrebbe dire negare il diritto di proprietà che sta alla base di tutta la società e dell’«ordine» costituito. Pertanto concludevano il diritto al lavoro non è mai esistito, non esiste e non potrà mai esistere. Questa tesi apparve subito allo studente Prampolini una mostruosità, perché negando il diritto al lavoro si negava il diritto alla vita per la maggioranza dei componenti della società. La teoria del solo diritto di proprietà scatenò nella mente del giovane Prampolini come una tempesta al termine della quale si trovò illuminato da una luce nuova e con idee del tutto diverse: solo il diritto al lavoro può esistere, perchè «il diritto di proprietà è inumano ed iniquo, contrasta con gli interessi e la volontà delle masse, e perciò deve fatalmente cadere». Questo fu l’argomento sostenuto con forza nella sua tesi di laurea presentata all’università di Bologna, nella quale si era trasferito e dove si laureò a pieni voti con lode. «La questione del diritto al lavoro dirà Zibordi – fu come l’apertura di una finestra su tutto il panorama delle iniquità del sistema capitalista». Avendo ben presente questo panorama e la necessità di sostituire il regno delle ingiustizie con quello della giustizia, egli sviluppa tutta la sua concezione del socialismo gradualista. Tornato nella sua Reggio e nella sua Massenzatico, con tutto l’entusiasmo del neofita, comunica a tutti gli amici ciò che già da Bologna aveva scritto al padre: la bellezza dell’ideale socialista che fatalmente si concretizzerà in un prossimo mondo di pace, di giustizia, di uguaglianza e di fratellanza. Da qui l’urgente necessità di far conoscere la verità, di espanderla, di propagandare l’idea socialista. In questa prima fase la cosa più importante è la propaganda orale e scritta: predicare a tutti gli assetati di giustizia il verbo della nuova fede.

Castello popolare Arbizzi. 112


A Massenzatico prende corpo una prima Società di Mutuo soccorso (1884), cui segue – in risposta – la Congregazione dei Sacerdoti Missionari. Il conflitto tra socialisti e cattolici si fa infatti radicale ed investe – a differenza di quanto si predicava nei testi marxisti – proprio le campagne. I riflettori, e qui sta la grande novità introdotta dai socialisti, vengono accesi fuori dalle città. Prampolini fonda persino un quotidiano, “La Giustizia”, il cui sottotitolo porta la dizione “organo degli sfruttati” e dove si “suonano” sinfonie di questo genere13: A Massenzatico, signor Benevelli pagava, prima dello sciopero, i suoi braccianti a lire 1,25 al giorno. Dopo lo sciopero, si è messo anche lui a non pagarli che un franco. Siccome il Benevelli gode fama essere un buon uomo, così i braccianti della villa assicurano che questo ribasso gli è stato imposto da una camorra di tre o quattro proprietari che si sono concertati per non dare ai poveri braccianti neppure un centesimo di più. Simili concerti sono proibiti dal Codice Penale; ma volete scommettere che l’autorità, tanto feroce contro gli scioperanti, non se ne occuperà? – Ai padroni - dice un contadino – è lecito fare accordi per metterci il laccio al collo, a noi non è lecito unirci per tirarlo via. Noi dobbiamo lasciarci strangolare!”; e più sotto: “Arbizzi. Arbizzi Domenico, un al capo maestro arricchito col lavoro de’ suoi ex compagni di fatica, tanto per aiutare la sua ari per risparmiare qualche centesimo fa lavorare da muratore un contadino, suo genero, che venire tutte le mattine sino da Massenzatico (salvo errore) e che paga non sappiamo con quanti centesimi!”.

Sempre nel 1886 nasce a Massenzatico la Cooperativa di consumo detta “l’Artigiana”, una delle prime della provincia. La dirige Alfonso Salsi e vi è collegata la Lega di resistenza dei lavoratori, diretta da Spero Casoli assieme agli stessi fratelli Salsi, a Giacomo Fontanesi, ai fratelli Giuliani e ad Alfonso Davoli. La cooperativa allora occupava una piccola casa rettangolare nei pressi delle attuali scuole elementari (sorte nel 1908), vicino alla casa dei contadini Losi ed ebbe come suo primo

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“La Giustizia”, 26 aprile 1886.

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presidente l’ingegnere socialista Pier Giacinto Terrachini. La presidenza fu poi assunta anche dallo stesso Prampolini, quindi dal noto pittore Cirillo Manicardi14. Nel 1893 verrà poi inaugurata la nuova sede – come “Casa del Popolo” – in centro a Massenzatico (spazio che occupa tuttora). Le cronache dell’epoca ricordano una grande manifestazione, alla presenza dei parlamentari socialisti Camillo Prampolini, Filippo Turati, Enrico Ferri e del dirigente belga Vandervelde. La cooperativa, nel volgere di pochi anni, diverrà per ordine di grandezza la seconda in Provincia (dopo quella di Fabbrico).

Teatro Artigiano, oggi.

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Cfr. A. Ferretti, op. cit., pp. 30-31.


Cooperativa “Braguzza”, oggi.

Il nome popolare della cooperativa (la “Braguzza”), deriva dallo scutmaj, il soprannome imposto al vicepresidente della stessa Giacomo Fontanesi, detto “Bragúz” per via dei calzoni larghi da contadino che usava portare. Fontanesi sarà di fatto il vero dirigente della cooperativa, essendo più nominativa che reale la presidenza assunta via via dai vari Terrachini, Prampolini, Manicardi. A lato della Cooperativa, fu inaugurato anche il Teatro Artigiano, splendido esempio di edificio in stile liberty che una sciagurata ristrutturazione “modernista” ha privato, nel secondo dopoguerra, della sua magnifica facciata originale. Nel 1901 è poi la volta della Latteria sociale cooperativa (dove attualmente c’è il distributore Tamoil), la quale fungerà da “incubatore” per diversi quadri cooperatori. Quindi nel 1902, alla costituzione tra i contadini della Cooperativa Provinciale di Miglioramento, ne sarà nominato presidente ancora un socialista di Massenzatico, Pietro Fantuzzi (da cui discende una genealogia di uomini politici: Silvio, senatore della repubblica e Giulio, sindaco di Correggio e Reggio Emilia quindi parlamentare europeo). Ma nella famiglia socialista di Massenzatico non erano tutte rose e fiori. Nel 1904 – annus orribilis per il socialismo reggiano, sconfitto alle elezioni amministrative dalla “Grande

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armata” liberal-conservatrice e a quelle politiche dal neo costituito asse cattolico-conservatore – si consuma a livello locale una rottura insanabile. Spero Casoli, a capo di un folto gruppo di dissidenti, esce dal partito in polemica con Fontanesi e fa una cooperativa in autonomia dal nome decisamente accattivante: la “Chicchera”. Lo racconta, con arguzia, il “Toscanino” 15. Ma le cose erano arrivate a un punto tale che non era più possibile: casoliani e fontanesiani, come «guelfi e ghibellini» si facevano una vera e propria «guerra» senza esclusione di colpi; tanto che i casoliani decisero e costruirono, in breve tempo, una nuova cooperativa che chiamarono «Amore e Libertà» e che in gergo paesano sarà chiamata «Chicchera», perché pare che nella cena della sua inaugurazione i soci avessero dato di gomito al “chicchero” (al bicchiere). Da qui la definizione di “chiccheriani” ai frequentatori di questa cooperativa, ai quali si contrapponevano i “braguzziani” frequentatori dell’altra. La costituzione della nuova cooperativa indicava come ormai non vi fosse più nessuna possibilità di risolvere la brutta questione e la « Giustizia » fu indotta a fare una dura requisitoria contro i secessionisti casoliani; requisitoria che per la sua forma, la sua sostanza, la sua chiarezza e la sua fermezza merita di essere qui riportata per esteso, perché meglio di qualsiasi altra argomentazione chiarisce tutta la questione. «Come è noto inizia il lungo articolo il dissidio fra i casoliani e i fontanesiani chiamiamoli così per intenderci – anziché diminuire, si era acutizzato al punto, che i casoliani avevano deciso di istituire in Massenzatico un’altra cooperativa di consumo. Fu allora che la Camera del Lavoro intervenne proponendo che una Commissione di arbitri da essa nominata dovesse decidere una volta per sempre e inapellabilmente la controversia. Ma mentre i fontanesiani, cioè i componenti il Circolo socialista di Massenzatico, accettarono di buon grado l’onesta Pratica Proposta, i casoliani invece la respinsero. […] Così i casoliani, in onta all’invito della rappresentanza di tutte le organizzazioni proletarie della nostra provincia, e quantunque seguitino a chiamarsi socialisti, si procurano un pezzo di terra, vi fabbricano una casa facendola costruire da un appaltatore e in quella casa si aprirà la bottega della loro sedicente cooperativa!

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A. Ferretti, op. cit., pp. 82-88.


Ad aggravare la situazione per i socialisti di Massenzatico, oltre alla nascita della Cooperativa di consumo scissionista detta “Chicchera” diretta dal Casoli, avvenne che proprio nel 1904 – vuoi perché i tempi erano maturi, vuoi per approfittare delle sventure degli avversai politici – anche i cattolici fondarono la loro cooperativa, la “Cattolica” (posta nell’attuale via Beethoven, nei pressi del Centro sociale “La Paradisa”). Massenzatico, manifestando un tasso di mobilitazione con pochi pari, si trovò così con tre luoghi “sociali” tra loro in competizione politica. Ciascuno dei quali - l’Artigiana, la Cattolica e la Chicchera – svolgevano attività di aggregazione culturale, con filodrammatiche, spettacoli teatrali, feste di ballo ma anche corsi scolastici per alfabetizzare i contadini e far loro acquisire il diritto al voto. Di fatto – per quanto si comprende dalla cronaca storica che ne ha fatto il “Toscanino” –, in un paese circoscritto come Massenzatico la connotazione politica tra parti distinte, lungi dal rimarcare una indifferenza reciproca, finirà per divenire il “sale” di un sistema locale fortemente coeso.

Il Campanile della Chiesa con la lapide ai caduti della Prima Guerra Mondiale. 117


NEL FUOCO DEL NOVECENTO La prima guerra mondiale ha lasciato un lungo elenco di caduti. Se ne serba memoria (ed è questa una particolarità) in due luoghi distinti: sulla lapide marmorea, ormai stinta dal tempo e dal sole, posta sul lato che volge a sud del campanile della chiesa; ai piedi del bronzo scultoreo elevato con stile “guerriero” nei pressi (lato strada) delle scuole elementari di “Massenzatico Centro”. Questo l’elenco dei quaranta nomi, tra morti e dispersi nativi della Villa16: MORTI: Enrico Ferretti, Cesare Salsi, Enrico Valentino, Adeodemo Turci, Giuseppe Lasagni, Italino Bigi, Ildebrando Boselli, Luigi Casoli, Roberto Fantuzzi, Camillo Incerti Burani, Giuseppe Magnani, Socrate Pergetti, Clodoveo Piccinini Donnino Ronzoni, Armando Tirelli, Aronne Zanichelli, Angelo Ronzoni, Dario Foracchi, Giuseppe Guerrieri, Valentino Galeotti, Aristodemo Anceschi, Luigi Bolognesi, Taddeo Bruschi, Oreste Cocconcelli, Domenico Lanzoni, Domenico Magnani, Umberto Menozzi, Vando Pezzi, Ettore Rabitti, Afro Salsi, Roberto Valentini, Cirillo Pezzi, Antonio Rustichelli, Senen Rinaldi, Giacomo Bondavalli, Alfredo Montanari, Alessandro Diacci; DISPERSI: Alfonso Ortolani, Roberto Fantuzzi, Ildebrando Cilloni, Camillo Bergetti.

A Massenzatico la fine della guerra porta la colomba della pace stretta in seno al partito socialista tra l’Artigiana e la Chicchera (riunita nella cooperativa “Amore e Libertà). Ma il passo della rivoluzione bolscevica porta a nuove scissioni. Massenzatico ha la sua cellula comunista. Tra i primi ad aderirvi: Narsete Delmonte, Oreste Corbelli, Rino Vergnani, Venuto Badodi e poi Rovacchi, Ronzoni, Fontanesi, Bagnacani, Gozzi, Nello Reverberi e Riziero Vecchi. Quest’ultimo risulta essere tra i primi aggrediti dal fascismo nascente: un fascista di Massenzatico lo trae fuori dall’Artigiana, nel giugno 1921, quindi viene bastonato, mentre un colpo di pistola viene sparato in aria a mo’ di avvertimento generale.

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R. Maseroli Bertolotti, op. cit., p. 216.


L’episodio, al di là della dinamica dei fatti, rivela la capacità di penetrazione del nuovo pensiero totalitario in una comunità che, pure, il fascismo non riuscirà mai davvero a conquistare. Certo le ferite vi furono, e laceranti. Il primo segretario del Fascio locale sarà Enea Casoli, figlio del socialista Spero, il fondatore della “Chicchera”. Con lui, secondo quanto riportato dal “Toscanino”: Gemmi (Rampèin), Donato Veroni, Alberto Bertani, Alfredo Bigi, Guido Formentini, Francesco Losi, Ettore Miselli, Lindo Vezzani. L’attacco alla Massenzatico “rossa” vede, in quella prima fase ancora instabile di “conquista” fascista, una serie di interventi collegati alla vita civile della comunità locale. Scendono in campo anche i cattolici. Nel 1924 il Comune – da cui i socialisti sono stati cacciati ma dove non ha ancora fatto il suo ingresso la figura del Podestà – inaugura le case popolari, costruite nel piccolo viottolo a fianco del Castello Arbizzi. La gestione viene affidata a don Anselmo Morsiani, coadiuvato da alcuni volontari dell’Unione Popolare. Questa associazione era nata nel 1913, per volere di Paride Lanzoni con lo scopo di realizzare i valori cristiani in tutti i settori della vita individuale ed associata. L’anno seguente vengono poi inaugurate – nella palazzina posta di fronte al Teatro Artigiano – la farmacia e, al suo fianco, una filiale della Banca Commerciale. Sarà poi la volta, in occasione del “decennale della Marcia su Roma”, di una casa del Fascio nuova di zecca, costruita proprio a fianco dell’Artigiana con le sovvenzioni “volontarie” (virgolette d’obbligo!) imposte alle famiglie di Massenzatico.

Casa Littoria a Massenzatico, oggi parcheggio. 119


Ex Casa Littoria, oggi parcheggio.

Ma era al “cuore” cooperativo di Massenzatico che il fascismo mirava. L’episodio forse più clamoroso – balzato alle cronache con l’epiteto dei “fatti di Massenzatico” – riguarda le elezioni alla Latteria Sociale svoltesi nel 1929 (l’anno del primo Plebiscito). In quell’occasione ebbe la meglio, con grande scorno dei fascisti, la lista degli antifascisti, con a capo Francesco Franchi. Le elezioni vengono fatte annullare. Quindi vi è l’omicidio eccellente, quanto confuso nella sua dinamica, di Celso Lasagni, il proprietario terriero che aveva capeggiato la lista avversa. Ovviamente vengono arrestati, con lo stesso Franchi, alcuni “sovversivi”. Cui seguono condanne, peraltro miti dal momento che non esiste alcuna concreta prova a carico; i veri responsabili, tutti squadristi di Villa Sesso, verranno fermati l’anno seguente. Dopo di che il fascismo locale prende atto che, per governare Massenzatico, oltre all’olio di ricino serve una politica di negoziazione con la parte che fascista non sarà mai. E sarà questa, sotto la guida di Pietro Fantuzzi, a rivincere nel 1933 le elezioni nella Latteria Sociale. Passati gli anni della depressione economica, nel vivo dell’esaltazione “imperiale”, si tornerà ad utilizzare la leva dei grandi investimenti economici. Nel 1937 viene costruita una nuova, imponente cantina sociale; a visitarla, nel 1939, verrà pure il ministro dell’agricoltura bulgaro. Inopinatamente anche 120


questa struttura – simbolo di una fase storica nella vita di Massenzatico: dopo la Liberazione era per tutti “la Grande” – è caduta di recente sotto le ruspe. Ma ancora una volta Massenzatico darà prova della propria dialettica cooperativa e politica: nel 1938, in risposta, viene inaugurata la cantina sociale Massenzatico “Centro”. Nel frattempo, di tanto in tanto, giovani e meno giovani – con una fortissima prevalenza tra di essi della componente comunista – finiscono nelle retate: tra di essi, contiamo diversi tra i futuri quadri della Resistenza e poi della vita politico-sindacale negli anni della Repubblica. Oltre ai nomi sopra citati i Fantuzzi, i Ferretti, gli Zaccarelli - basti ricordare Walter Sacchetti e Celso Giuliani. Con loro, furono numerosi i contadini disposti a rischiare la vita prestando la propria casa per usi di “latitanza”. Tra tante sofferenze imposte dalla guerra “in casa”, non vanno dimenticati coloro che caddero su altri fronti. Tra di essi, tantissimi furono i “dispersi”, soprattutto in Russia. Li ricorda una lunga stele di nomi, a corredo del monumento resistenziale posto nel dopoguerra a fianco dell’altro – ma stavolta senza retorica guerriera – nei pressi della scuola elementare.

I Funerali di “Mauser”, 1945.

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Monumenti della 1a e 2a Guerra Mondiale davanti alla scuola elementare. 122


La chiesa della Madonna dell’Olmo vista anche dall’interno.

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Centro Sociale “La Paradisa”.

Casa protetta “I tulipani”.

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PRATOFONTANA

Canale dei Ronchi a Pratofontana.

Ponte della Sbarra.

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Bocche del Rodano

“PARTO DI FONTANA IN CRUSTULO VETERI” La più piccola tra le Ville del forese della Circoscrizione 7 è Pratofontana, compresa tra Mancasale a ovest, Massenzatico a est e Bagnolo a nord. L’origine di Pratofontana si lega strettamente, al pari di Massenzatico, alle migrazioni del Crustulus Magnus: in un documento del 1057, per indicare un alveo del Crostolo che anticamente passava per la Villa, viene riportato il toponimo “Crustulo Veteri”1. L’insediamento originario, tra l’altro, era denominato “Partofontana”: sembra a causa di un documento medievale (del 1066) dove viene riportata la dicitura “parto de fontana prope Castellaro et fluvio Rodano”. Il “Castellaro” in questione coincide con la località “Castello”, come ancora oggi viene chiamato il quadrilatero formato dalle case del borgo centrale della frazione. L’ipotesi più verosimile è che si trattasse di una postazione, sotto

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Cfr. W. Baricchi, Insediamento storico e beni culturali del Comune di Reggio Emilia, a cura dell’Amministrazione Comunale di Reggio Emilia e IBC della Regione Emilia Romagna, Reggio Emilia, Tecnograf, 1985, p. 141.


la potestà di Reggio, in difesa della “Vecchia strada per Reggiolo”. Di qui, attraversando il Rodano, ci si portava sulla direttrice medievale corrispondente alle attuali via Petrella, via delle Ortolane, via Veneri. Quanto al passaggio sul Rodano (il cui alveo, lo ricordiamo, venne spostato nel XV secolo), risulta tuttora agibile per via ciclopedonale o con mezzi trattoristici il Ponte della Sbarra, un suggestivo manufatto a schiena d’asino che risale al XVIII secolo (porta al centro un’iscrizione del Comune di Reggio Emilia, datata al 1871). Quanto alla “fontana” compresa nel toponimo, fa senz’altro riferimento ai numerosi affioramenti d’acqua presenti nella zona. Si tratta di fenomeni risorgivi dovuti alla presenza di gas che, dal sottosuolo, spinge il liquido verso la superficie.

Tipologia abitativa rurale

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La Chiesa

Il Cimitero

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NOTE STORICHE Paolo Diacono, storico di Matilde di Canossa, narra di un grande fatto d’arme che sarebbe avvenuto proprio nei pressi di Pratofontana. Siamo nel 956: a contendersi lo scettro d’Italia sono l’Imperatore Ottone I di Sassonia e Berengario, duca della Marca del Friuli. Lo scontro, favorevole all’imperatore, segnerà la fine delle velleità italiane di crearsi un regno indipendente dalla Germania. Secondo una credenza popolare, il nome delle “Rotte” – che dal XV secolo sta ad indicare la confluenza del Rodano nel Naviglio, dove sono tuttora visibili alcuni resti di un manufatto in cotto – deriverebbe in origine proprio dalla località in cui avvenne quella sconfitta2. Le notizie reperite non dicono per la verità molto della vita civile di Pratofontana. Nel 1315 (Liber Focorum) la Villa è citata come “pendice” del Comune di Reggio, con 22 fuochi (circa 150 abitanti); alla fine del XVIII secolo, secondo altre fonti, si sarebbe portata a 399 abitanti. Durante il periodo della Repubblica Cispadana, Pratofontana si trova sballottata tra i Comuni vicini: aggregata prima al territorio di Bagnolo, poi a quello di Correggio, nel 1801 diviene parte integrante del Comune di Reggio. L’edificio storico più antico visitabile a Pratofontana è la chiesa parrocchiale. Sorge a sud-ovest del “Castello”, sulla strada che porta al Ponte Alto sul Naviglio, nei pressi del vecchio alveo del Crostolo. L’edificio risale alla prima metà del settecento e venne elevato sopra i resti di una cappella privata, donata da una coppia di proprietari terrieri al Monastero di San Prospero. Consacrata alla madonna fin dal 1091, diviene parrocchia nel 1590. Ricostruita per l’appunto nel 1723, è stata successivamente restaurata nel 1820 e poi nel 1931.

2

Sull’esigenza di studiare approfonditamente questi manufatti ha richiamato l’attenzione N. Cassone, a seguito di un recentissimo rilevamento affidatogli dal Comune di Reggio Emilia nell’ambito delle opere collegate all’Alta Velocità (Km 129 Reggio Emilia Territorio Esteso).

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Lapide ai caduti di tutte le guerre

UN EPISODIO NELLA RESISTENZA Aldo Ferretti “Toscanino” ha ricordato un episodio collegato alla Resistenza nella Villa: il disarmo degli avieri avvenuto nell’agosto 19443.

Due parole a parte merita il disarmo del presidio di Pratofontana, per la qualità delle armi trovate e per il modo in cui andarono le cose. Ad un certo punto parve che alcuni avieri fossero disposti a collaborare con noi nell’azione di disarmo, ma non si decidevano mai. Disponemmo di dare ugualmente il colpo. La famiglia Cattani ci fornì le più dettagliate informazioni. Facemmo il piano che non fu diverso da altri, il presidio, tra l’altro, non aveva nessuna sentinella esterna; era però ben guardato e difeso all’interno. Si sapeva che gli avieri stavano tutti sul ponte delle scuole a chiacchierare con alcune ragazze

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A. Ferretti, Ricordi e lotte antifasciste, in “Quaderni del Cinquantenario del Pci”, 1971, Ed Rinascita, Reggio Emilia, p. 147-149.


fino all’ora della ritirata, perciò bisognava prenderli sul ponte un attimo prima che si ritirassero. Per la sera decisa le brave ragazze, sorelle e cugine Cattani, Baricchi, Rossini ed altre organizzarono una conversazione speciale con gli avieri per intrattenerli fino al nostro arrivo. Furono mobilitati un distaccamento GAP e tre di SAP: quello di Mancasale aveva il compito di tagliare i fili del telefono e di bloccare la strada proveniente da Reggio; con gli altri tre l’appuntamento era fissato ai confini del poderetto dei Cattani un quarto d’ora prima della ritirata. In quattro (Luigi, Brenno Fulmine, Toscanino) si portarono nelle vicinanze di Pratofontana la notte precedente. La sera successiva ci recammo all’appuntamento. Ci incamminammo verso le scuole convinti che saremmo stati raggiunti dagli altri […]. Di fronte a noi gli avieri conversavano con le furbe ragazze che tenevano loro compagnia. Erano tutti disarmati. Non potevamo lasciarci scappare l’occasione. Quando sentimmo qualcuno dare la “buona notte”, saltammo di fronte a loro spianando le armi, intimando “alto le mani” e aggiungendo categoricamente: “Non muovetevi perché ci sono dietro gli alberi cento fucili puntati su di voi!”. Nessuno si mosse. Facemmo allontanare rapidamente le ragazze. Mancavano però il tenente e il sergente; stavano chiacchierando sul ponte della casa vicina. Rapidamente due di noi, Brenno e Fulmine, andarono a catturarli. Si sollevò un certo battibecco perché il tenente (un meridionale) per una questione di onore non voleva alzare le mani. L’ufficiale mi disse: “Senta comandante, per una questione di dignità non mi faccia alzare le mani. Per il resto venite dentro e prendete quello che volete” – “D’accordo risposi, a condizione che nel presidio entriamo prima noi e ci sia l’impegno d’onore da parte sua di mantenere fermi e disciplinati i suoi uomini”. […] nel frattempo erano arrivati i distaccamenti e sbucavano partigiani da tutte le parti […]. Entrammo e lavorammo tutta la notte per portare solo a pochi km di distanza, in rifugi d’emergenza, l’ingente quantità di materiale che vi trovammo […]. Nel corso dell’operazione il tenente,tiratomi in disparte, mi espresse il desiderio di andare in montagna con tutti i suoi uomini. Lui si impegnava a non fare rappresaglie ed io dovevo impegnarmi nel giro di 10-12 giorni a portargli tutte le istruzioni per la partenza. Stabilimmo una parola d’ordine di riconoscimento nel caso che non potessimo ritornare noi personalmente. Dopo di che, rivolto un amichevole discorso ai soldati, ce ne andammo. Tutti eravamo contenti del ricco bottino, che per buona parte fu poi trasferito in montagna. […]

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Circolo Arci “la Fontana”

Scuola dell’infanzia Centro Verde “C. Prampolini”

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LA SCUOLA In accordo con i principi illuministici e democratici dell’istruzione pubblica estesa alle campagne, diffusa a Reggio dagli amministratori socialisti, anche Pratofontana – nonostante la dimensione ridotta della Villa – nel 1915 arrivò a dotarsi di una propria scuola elementare autonoma. Si trattava di pluriclassi, cioè di classi frequentate contemporaneamente da scolari di diversa età. L’ubicazione venne scelta nei pressi del “Castello”, proprio di fronte al bel caseificio a pianta esagonale restaurato negli ultimi anni per accogliere il locale circolo Arci “La Fontana”. Durante la seconda guerra mondiale l’edificio si trovò ad ospitare un distaccamento militare tedesco. A partire dagli anni Cinquanta, la scuola diventerà testimone melanconico dello spopolamento delle campagne: le famiglie mezzadrili si scompongono in nuclei unifamiliari e le case sparse sono abbandonate per inurbarsi nel centro urbano od in centri comunque maggiori. Tale fenomeno, comune a tutto il forese ma a Pratofontana persino più accentuato, porterà negli anni Settanta alla chiusura della scuola elementare; un evento che ha generato una riflessione critica sui destini di questa piccola Villa. Si è così deciso, in accordo con l’Amministrazione comunale, di riqualificare il sito salvaguardandone la vocazione originaria. Oggi la struttura è divenuta un punto di riferimento educativo nel territorio. Ospita la scuola comunale dell’infanzia “C. Prampolini” e funge da Centro Verde; al piano superiore è visitabile una raccolta etnografica permanente dedicata alla civiltà contadina.

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La fermata della linea storica Reggio-Bagnolo.

La nuova fermata della Metropolitana di Superficie.

Pratofontana. Cantiere nuovo insediamento CCFS. 134


MANCASALE

Parrocchia di Mancasale, anni Sessanta.

“MAGNUM CASALE“ Come le Ville limitrofe, anche Mancasale trova la sua origine nell’alto medioevo (VIII-X sec.) in un periodo in cui – dopo l’abbandono del territorio seguito alla caduta dell’Impero Romano e alle invasioni barbariche – lentamente l’uomo riprende l’opera di conquista della pianura paludosa a nord della città.

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In realtà questa zona – pur insalubre e soggetta a frequenti inondazioni nelle stagioni più piovose – vanta da tempi remoti l’ingresso di gruppi umani. A Mancasale, ad esempio, sono state rinvenuti reperti (per l’esattezza pugnali) della tarda età del bronzo, in epoca cosiddetta “civiltà terramaricola” (XVXIII sec. a.C.). Un altro reperto archeologico – un ago crinale in bronzo, ritrovato in località “Fornace” – va fatto risalire all’età del ferro. Sono tracce di una presenza antropica molto antica, precedente alla colonizzazione da parte di popolazioni meglio documentate quali gli etruschi (sempre a Mancasale è stato ritrovato un corredo funerario di grandissimo valore), i galli cenomani, i romani. Con l’insediamento romano, l’area di Mancasale viene interessata alle classiche procedure di bonifica e centuriazione. Del resto questa porzione di territorio si è trovata, proprio tra l’età romana e l’alto medioevo, ad essere compresa tra due degli antichi alvei del torrente Crostolo: il Crustulus Scauri e il Crustulus Magnus (come li ha nominati nel proprio studio all’inizio dello scorso secolo Rino Rio). Mancasale si collocava proprio ai limiti occidentali dell’antico e vastissimo specchio d’acqua denominato Bondenum, in una posizione relativamente più difendibile dalle alluvioni rispetto agli insediamenti limitrofi; ancora oggi, leggendo una carta storica del territorio, si ritrova con una certa precisione la sua posizione rispetto alla maglia ortogonale centuriata. Siamo in sostanza proprio sull’asse Reggio-BagnoloNovellara che costituiva il prolungamento dell’antico cardo massimo della città: una direttrice fondamentale per ogni successiva parcellizzazione del territorio. Non è quindi difficile immaginare come, già in epoca imperiale, vi potesse qui essere impiantato un qualche insediamento significativo.

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Corte Rocca Saporiti oggi.

Arnaldo Tincani, nella sua opera di “cronica” storica dedicata alla Villa di Mancasale, riporta con dovizia di particolari le prime documentazioni storiche riferibili al toponimo. A suo parere, il primissimo documento alto-medievale in cui viene nominato il luogo – come “Magnicasale” – risale all’inizio della dominazione franca nell’Italia settentrionale, ovvero al decennio 781-791. Secondo quanto riportato nel cosiddetto “Inventario della corte di Milliarina”, il Monastero di Santa Giulia aveva qui potestà su

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di un «complesso poderale e boschivo di 4300 iugeri sottratto al bosco pubblico reggiano (gagium regiense)»1. “Magno Casale” consisteva in una grande estensione poderale, probabilmente costituita da aggregazioni sparse costituenti la pars massariciae, ovvero quelle non di diretta pertinenza del signore della “corte” (la pars dominica)e. Erano in sostanza terreni a conduzione autonoma, gestiti da uomini liberi. Il fatto che nel testo del documento si citi la parola “vico” ha fatto ritenere che Magnicasale fosse più di una semplice azienda agricola ma già si conformasse con l’aspetto di un piccolo centro agricolo. La seconda citazione documentata precede di poco l’anno Mille (è datata 7 marzo 989) e tratta di una permuta di terreni posti in Magnocasale, avvenuta tra la Canonica di Santa Maria e San Michele con la potentissima Canonica cittadina di San Prospero. Sempre soggetto a San Prospero, in questa area, era il villaggio con annessa cappella di Vico Disbragato (la cui collocazione è stata ipotizzata in corrispondenza della Possessione Rocca Saporiti, nei terreni costeggianti via Petrella fino a via Cavallotti). Quanto alla possessione detta de Il Paradiso, si può collocare in corrispondenza dell’antico viazzolo del Paradiso che, dalla zona prospiciente Porta Santa Croce, arrivava – costeggiando i terreni agricoli tra Mancasale e San Prospero – fin quasi alla chiesa di Mancasale. Mentre più a sud di Vico Disbragato, tra il Naviglio e la località Sant’Omobono (più a est, all’imbocco del Chionso con la strada per Massenzatico, c’è tuttora una edicola che ne porta il nome) correva l’antico Vico Mozzozore, nominato nelle carte fin dal 1006.

1

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A. Tincani, Mancasale, Reggio Emilia, 1984. pp. 10-11; vi si recita: “habet domo cultele casas in vico qui nominatur Magnicasale cum terra et vineas et abet massarii V…”.


Chiesa di Mancasale prima del restauro.

LA PARROCCHIALE DI SAN SILVESTRO E L’ORATORIO DI SAN MICHELE IN BOSCO Stretti, se non strettissimi, furono i rapporti intrattenuti nel periodo alto medievale tra la Villa e il grande monastero di San Prospero fuori le mura. Ed è sui terreni del monastero che risulta presente, fin dal 1057, un manso con annessa cappella dedicata a San Silvestro. 139


La parrocchia, essendo soggetta al monastero di San Prospero, non possedeva un rettore fisso ma l’abate, il quale assolveva le funzioni di arciprete e nominava direttamente un monaco o un prete per i servizi parrocchiali. Come racconta Tincani, San Silvestro non era – fino a quando la parrocchia non verrà affidata alla famiglia Zoboli, nel XV secolo – che «una pallida emanazione del monastero di San Prospero»2. Gli Zoboli erano una ricca famiglia reggiana, sin dal XIII secolo censuaria del Monastero di San Prospero. Il rapporto con il monastero e la famiglia fu intenso e fruttuoso, soprattutto per gli Zoboli che ne ottennero in cambio benefici e terre. Nel 1431, in modo particolare, un pesante debito contratto con Francesco Zoboli venne ricambiato con la cessione di possessioni proprio a Mancasale. In questo modo ricaddero sotto la loro diretta influenza sia San Prospero che San Michele in Bosco; nell’arco di qualche decennio, grazie anche all’assenso del nuovo abate di San Prospero – il quale, guarda il caso, portava il cognome Filippo Zoboli - papa Pio II acconsentì all’unione dei due benefici. In tal modo il parroco di Mancasale divenne rettore di San Silvestro e San Michele3. L’assetto definitivo della parrocchia di Mancasale data al XVI quando – dopo la “Tagliata” imposta dagli Estensi nel 1551 – ai possedimenti che facevano capo a San Silvestro, San Michele in Bosco, Vico Disbragato venne unita parte della zona suburbana della parrocchia di San Biagio, la cui chiesa si trovava appena fuori la Porta Santa Croce. Ancora qualche notizia sui due edifici di culto. L’attuale chiesa di San Silvestro risulta riedificata nel 1793, su precedente progetto dell’architetto reggiano Piero Armani (l’impianto precedente, molto degradato, datava al XV secolo). Il cimitero sarà poi completato nel 1840, mentre il restauro della canonica (ad opera di don Luigi Cervi) data al 1909.

2

Ibid., p. 20.

3

Il Tincani racconta come, a titolo di beneficio perpetuo, gli Zoboli dovettero al monastero di San Prospero, sino alla sua cessazione nel 1783, 5 libbre di cera bianca lavorata.

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Cimitero con monumento seconda guerra mondiale.

Quanto alla chiesetta di San Michele – che si trova a nordovest della zona industriale, in posizione oggi decisamente decentrata rispetto alla parrocchiale – la sua esistenza accertata data al 1150 ma pare risalire ad un periodo ancora antecedente. Sentiamo Tincani4: […] I vari cronisti della storia reggiana ritengono ben più antica, facendola risalire addirittura, secondo la leggenda, al periodo del primo vescovo di Reggio. S.Prospero, il quale vi si recava a pregare, lasciando le impronte delle ginocchia su di una pietra a forma di piccolo altare.

Si tratta di un oratorio prezioso, abbellito di affreschi e ristrutturato sempre dagli Zoboli nella prima metà del XV secolo, a lungo meta di pellegrini – per l’occasione della festa dell’8 maggio – provenienti da contrade anche lontane. Le fonti ecclesiastiche testimoniano di un culto proseguito in modo affezionato sino al XVIII secolo, quando ancora si ha notizia di restauri e interventi di riparazione.

4

A. Tincani, op. cit., p. 50.

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All’inizio del secolo scorso il rettore don Eligio Bedogni vendette il beneficio di San Michele al senatore Alberto Pansa, proprietario della splendida villa settecentesca già appartenuta ai Calcagni e ai Guicciardi (poi nota come villa Prampolini) sulla strada per Bagnolo. Oggi l’oratorio, ulteriormente ridimensionato rispetto alle modifiche secentesche, è affidato alle cure di don Ercole Artoni, fondatore della comunità terapeutica per tossicodipendenti Giovanni XXIII.

Gli impianti di sollevamento di Mancasale e della “Nave”. 142


Il Mulino di Mancasale, ieri e oggi.

MANCASALE: UNA PERIFERIA DA ESPLORARE Si tratta di un territorio agricolo che ha cominciato a trasformarsi in periferia industriale a partire dalla fine degli anni Cinquanta, quando – con la costruzione dell’autostrada A1 – venne scelto per il posizionamento del Casello di Reggio Emilia (proprio nei pressi della sua parrocchiale, dove è rimasto sino al 2006). 143


Aggirarsi per Mancasale significa fare esperienza, ad ogni passo, della transizione nella modernità. Vediamo di individuare alcuni “luoghi di memoria”. Il primo, baricentrico alla vita di Mancasale, è l’antico Mulino Zoboli. Come sappiamo dal libro Memorie del Tacoli, il mulino era di proprietà degli Zoboli addirittura per atto di infeudazione. Il 9 luglio del 1357, grazie ad un privilegio accordato dall’imperatore Carlo IV a Francesco Zoboli (furono numerosi i membri della famiglia a fregiarsi di questo nome) fu loro concesso pleno iure – con facoltà di poterne costruire altri e con diritto di irrigazione delle proprie terre di Mancasale – il mulino di Mancasale sul Naviglio nei pressi della chiesa di San Silvestro. Il privilegio sarà poi esteso ai loro successori. Con l’epoca moderna avvengono mutamenti nella struttura proprietaria. Alla fine del XIX secolo il mulino di Mancasale risulta di proprietà del Conte Guicciardi. Nella prima metà del XX, la sua conduzione passa alla famiglia Forti; vi rimarrà fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando volge al termine l’attività molitoria e la struttura inizia un declino inarrestabile.

Castello Brado, abitato storico di Mancasale.

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La fermata ferroviaria.

La Scuola “Balletti”.

Attorno al mulino e alla chiesa si è via via sviluppata la frazione. Senza quasi soluzione di continuità, verso sud, c’è la Lumaca, agglomerato di case che rappresenta un po’ il centro della Villa. Qui, passato un piccolo ponte sul Naviglio, si trova uno splendido casello a pianta quadrata con luci a traforo in laterizio.

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Lungo via Cavallotti, a poche decine di metri dal mulino, troviamo il cosiddetto “castello” di Mancasale, detto altrimenti Brado dagli anziani del luogo. Si tratta di uno fra i tanti castelli popolari che costellavano le Ville del forese: una lunga teoria di edifici, tra di essi collegati senza soluzione di continuità. Qui abitavano i cosiddetti casànt, avventizi, braccianti e salariati agricoli dalle famiglie spesso numerose e costretti a vivere stipati in stanze senza servizi igienici. Presso il “castello” si collocava poi tutta una serie di piccole attività artigiane e commerciali, le quali contribuivano a dargli l’aspetto di un vero centro di aggregazione sociale. Oggi l’agglomerato – pur avendo conservato il medesimo profilo rettangolare, estendendosi lungo l’asse est-ovest – risulta ristrutturato per usi esclusivamente residenziali. A poche decine di metri, la vecchia Latteria sociale è stata trasformata in una moderna azienda di confezioni. Oltrepassato il passaggio a livello – dove un piccolo casotto funge da fermata ferroviaria, lungo la linea Reggio-Guastalla – si incontra un paesaggio misto di case rurali, capannoni, pioppeti coltivati. La commistione tra tipologie edilizie, qui così spiccata, rinvia alla peculiarità di questa come una frazione di transito. Tra i diversi edifici, sempre su via Cavallotti, merita una scorsa il severo edificio della scuola elementare “Balletti”. Costruita nel secondo decennio del XX secolo, questo edificio si inserisce nel piano di alfabetizzazione delle campagne promosso all’inizio del secolo dalle prime amministrazioni socialiste. Ritornando ora verso il centro della Villa, un breve cenno va dedicato all’Impianto di sollevamento della Bonifica Parmigiana Moglia-Secchia costruita negli anni Trenta sul Canale Naviglio. Il suo scavo fu decisivo, in epoca comunale, per attirarvi il flusso dei transiti tra la pianura e la città, prima imperniato sulla Strada Vecchia per Reggiolo (lungo la direttrice tra Santa Croce e Pratofontana, traversante le attuali via Veneri, via delle Ortolane, via Petrella). La rilevanza assunta dalla nuova via di comunicazione, in comunicazione diretta con il territorio soggetto ai Gonzaga, venne confermata dalla decisione – operata dal

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libero Comune, all’inizio del XIV secolo – di far erigere una “rosta” difesa da uomini armati al livello della chiesa (utilizzando l’elevamento del campanile). La messa in opera del grande Canale consentì infatti l’introduzione per il trasporto della tecnica detta dell’alaggio, con la strada alzaia usata per il traino dei barconi carichi di merci. Sempre a questo scopo, nel XV secolo, il duca Borso fece deviare il corso del Rodano – dove confluiscono risorgive attive anche durante l’estate – più a sud, dalle Rotte di Bagnolo alla località oggi conosciuta come le Bocche del Rodano (al confine tra Pratofontana e Mancasale). Con ciò, nonostante le molte energie investite nei secoli dalla città di Reggio, il Naviglio reggiano non riuscirà mai a divenire una via stabile di trasporto fluviale. La storia di Mancasale in quanto crocevia di comunicazioni si arricchirà di un nuovo capitolo nel 1888, con l’attraversamento ad opera della tratta ferroviaria Sassuolo-ReggioGuastalla. Quanto al casello autostradale (il completamento del tratto Parma-Reggio sulla A1 data al 1959), la sua prossimità si rivelerà decisiva nella scelta – completata tra gli anni Sessanta e Settanta – di costruire sul lato nord il più vasto Villaggio industriale del capoluogo. Con la diffusione, insieme, dell’industria e dell’automobile Mancasale cambierà drasticamente la propria fisionomia. Se l’area a nord è stata prescelta in modo univoco per ospitare le industrie, la sezione più a sud – compresa tra la Chiesa e la “Nave”, lungo via Gramsci – ha visto cambiare negli anni le proprie destinazioni d’uso. Prima i vecchi castelli popolari sono caduti per far posto ai capannoni; poi vi si è inserita, valicandoli, la nuova tangenziale; mentre in anni più recenti sono stati edificati alberghi e centri direzionali (il più noto prende il nome dalle Cantine Riunite che vi avevano posizionato lo stabilimento principale). L’ultima “grande opera” prevista a Mancasale – ed è storia in corso – sarà la nuova stazione mediopadana posta sulla linea ferroviaria dell’Alta Velocità (TAV).

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Stadio Giglio, cantiere 2007.

Mancasale. Stadio Giglio, 2007.

Mancasale. Il ponte di Calatrava. 148


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Hanno collaborato i consiglieri eletti nella Circoscrizione 7 per la legislatura 2004-2009 ROBERTA PAVARINI (presidente) Benedetti Mario (consigliere) Bertani Fernando detto Pippo (consigliere) Bigi William (consigliere) Bozza Giovanni (consigliere) Catellani Fabio (consigliere) Cenini Daniele (responsabile Comm.ne Cultura, Sport, Tempo Libero)

Ferraroni Carlo (capogruppo Laboratorio per Reggio) Franzoni Alfonsina (consigliera) Molteni Riccardo (capogruppo Lega Nord) Orlandini Marco (responsabile Comm.ne Urbanistica, Ambiente) Pellini Alfredo (capogruppo PDCI) Reggiani William (responsabile Comm.ne SanitĂ e Sicurezza Sociale)

Ruggiero Pierluigi (capogruppo AN) Scardova Franco (consigliere) Spaggiari Leda (responsabile comm.ne Scuola) Spaggiari Marina (consigliera) Tapognani Silvano (capogruppo Uniti per il Centrosinistra) Valeriani Maria Teresa (capogruppo PRC) Violi Shira (consigliera)



Centro di Documentazione Storica Circoscrizione 7 Villa Cougnet via Adua, 57 42100 Reggio Emilia Tel. 0522 516860 Fax 0522 516695 circoscrizione7@municipio.re.it


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