Quaderni Cds #5 - Di nuovo al Mauriziano

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nel 150° dell'acquisizione    a patrimonio comunale

Circoscrizione Nordest

uaderno

2013

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di nuovo al

Mauriziano A cura di Carlo Baja Guarienti e Antonio Canovi



nel 150° dell'acquisizione    a patrimonio comunale

Circoscrizione Nordest

2013

5 uaderno

di nuovo al Mauriziano

A cura di Carlo Baja Guarienti e Antonio Canovi


Progetto culturale Centro Documentazione Storica di Villa Cougnet Impaginazione e stampa Servizio Comunicazione Comune di Reggio Emilia Il volume è promosso dalla Circoscrizione Nordest


Questo è un Quaderno strenuamente voluto, la Circoscrizione Nordest insieme al Centro Documentazione Storica di Villa Cougnet, per raccontare come se la passa il “Mauricïan”. In buona compagnia con quanti, amici del Poeta e del fresco Rio, tengono a una rigenerazione di questo sito.



INDICE

Introduzione 11 Giordano Gasparini, dirigente Servizi alla Persona, Comune di Reggio Emilia

Un posto magico, ed unico, della nostra città

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Roberta Pavarini, presidente Circoscrizione Nordest, Reggio Emilia

O bel “Mauricïan”, che mai vagheggi? Una nota geostorica per apprendere il Mauriziano alla città che cambia

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Antonio Canovi, geostorico, responsabile scientifico Centro Documentazione Storica di Villa Cougnet

«Pro bono malum». Ludovico Ariosto e il suo mondo

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Carlo Baja Guarienti, storico, professore a contratto Università di Ferrara

I luoghi della vita: L’Ariosto e il Mauriziano

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Aurelia Fresta, socio effettivo Deputazione di Storia Patria per le Antiche Province Modenesi - Sezione di Reggio Emilia

Camminare tra i luoghi ariosteschi

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Fabrizio Anceschi, socio effettivo Deputazione di Storia Patria per le Antiche Province Modenesi - Sezione di Reggio Emilia

Ariosteschi e Maggerini. Un dialogo

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Carlo Baja Guarienti, storico, professore a contratto Università di Ferrara Benedetto Valdesalici, responsabile Museo del Maggio di Villa Minozzo

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La principale area archeologica della città nei luoghi di Ludovico Ariosto

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Roberto Macellari, ispettore archeologo Musei Civici di Reggio Emilia “SI’ CARO ALL’ARIOSTO”, E A NOI? Una guida per appaesarsi nel Mauriziano e intendere l’Ariosto

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Il sito geostorico del Mauriziano

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Antonio Canovi, geostorico, responsabile scientifico Centro Documentazione Storica di Villa Cougnet

I Malaguzzi Valeri

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Carlo Baja Guarienti, storico, professore a contratto Università di Ferrara

Ludovico Ariosto. La vita e i luoghi

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Carlo Baja Guarienti, storico, professore a contratto Università di Ferrara

Il Mauriziano, villa di spasso

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Vida Borciani, guida turistica a Reggio Emilia

La possessione Malaguzzi Valeri

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Vida Borciani, guida turistica a Reggio Emilia

Le stanze di levante: il “cuore” del Mauriziano

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Vida Borciani, guida turistica a Reggio Emilia

I marmi dei Malaguzzi

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Vida Borciani, guida turistica a Reggio Emilia Antonio Canovi, geostorico, responsabile scientifico Centro Documentazione Storica di Villa Cougnet

La fortuna dell’Ariosto

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Carlo Baja Guarienti, storico, professore a contratto Università di Ferrara

Da “Casino Ariosto” a “Mauriziano”: l’elezione a patrimonio culturale della città Antonio Canovi, geostorico, responsabile scientifico Centro Documentazione Storica di Villa Cougnet

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Una macchina inutile

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Alessandro Ardenti, architetto

Ludovico e le “sue” donne. Discorsi sopra il genere, a partire dalla rilettura che ne fece Antonio Panizzi

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Sandra Palmieri, insegnante, presidente Associazione Eutopia Rigenerazioni territoriali

Onorate l’Altissimo Poeta e… Venerate nei secoli la Villa

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Enrico Manicardi, architetto

Casa Ariosto a Ferrara: un museo “compartecipato” voluto dalla Circoscrizione

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Girolamo Calò, presidente Circoscrizione Uno, Ferrara

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INTRODUZIONE Giordano Gasparini dirigente Servizi alla Persona, Comune di Reggio Emilia

Anche a seguito delle iniziative e delle nuove aspirazioni seguite all’Unità d’Italia, il Comune di Reggio Emilia, nel 1864, in occasione del 390° della nascita di Ludovico Ariosto, acquista la Villa del Mauriziano. Da questo momento si sviluppa un percorso, non senza inaspettate difficoltà, volto a valorizzare l’edifico, la figura e l’opera del poeta; in particolare già a partire dal 1882, Naborre Campanini, noto intellettuale reggiano e futuro Direttore dei Civici Musei, propone di istituire presso il Mauriziano una biblioteca specialistica, in grado di raccogliere il maggior numero di edizioni delle opere di Ludovico Ariosto e costituire una raccolta e un centro studi ariostesco. Il progetto non viene realizzato e bisogna attendere alcuni decenni, quando la proposta, ripresa da Vincenzo Ferrari e realizzata dal Direttore della Biblioteca Municipale Virgilio Mazzelli e dallo studioso reggiano Angelo Davoli, ottiene maggior fortuna. In occasione delle celebrazioni del quarto centenario della morte del poeta, avvenuta il 6 luglio 1533, si costituisce nel 1926 il Comitato per le Celebrazione Ariostesche, che accoglie favorevolmente l’iniziativa di costituire una raccolta delle edizioni delle opere di Ludovico Ariosto presso il Mauriziano e stanzia i fondi necessari Il progetto prevede: “… per degnamente collocarla nella Storica Villa del Mauriziano, e precisamente nelle medesime tre stanzette al piano rialzato, che accolsero il grande Ludovico durante quei soggiorni reggiani che tanto beneficiavano al suo spirito intrepido, e meglio e più tranquillamente gli permettevano di tessere la magistrale tela dei tanti episodi di battaglie e di amori cosparsi nel classico poema dell’Orlando Furioso”.1 1

“La Raccolta Ariostea della Biblioteca Municipale di Reggio Emilia”, Scuola di Bibliografia italiana, 1933

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Nella circostanza viene pubblicato nel 1933, il volume “La raccolta Ariostea della Biblioteca Municipale di Reggio Emilia”, che presenta l’esito dell’opera di raccolta delle edizioni entrate in possesso della città: in particolare il lavoro attento e competente di Angelo Davoli, fa acquisire al patrimonio pubblico, quasi cento nuovi volumi, che fanno salire a 196 le edizioni in possesso della comunità reggiana. La collezione delle 196 edizioni, realizzate tra il Cinquecento e il Settecento, è accuratamente descritta nel volume ricordato ed è conservata presso la Biblioteca Panizzi. Negli anni la raccolta ha continuato ad essere ulteriormente implementata, oggi è costituita da oltre 300 edizioni e rappresenta una delle più importanti collezioni ariostesche del nostro paese. “Inoltre sono stati pregati il Direttore della Biblioteca prof. Mazzelli e il maestro sig. Angelo Davoli, a formare una il più possibile completa Bibliografia Ariostea, che potrà essere la base di ulteriori sviluppi culturali e che per sé stessa potrà avere una grande importanza”.2 Nella pubblicazione del 1933 viene inoltre presentato un interessante e accurato progetto di allestimento e riordinamento delle tre stanzette del Mauriziano, con una dettagliata descrizione degli oggetti e della loro collocazione, prefigurando un vero e proprio percorso espositivo di documenti e oggetti ariosteschi. A causa delle diverse opinioni presenti all’interno del Comitato delle Celebrazioni sulle future destinazioni della villa, molti progetti, tra i quali l’allestimento espositivo, non vengono realizzati e la formazione della raccolta ariostesca, rimane l’unico significativo fatto delle celebrazioni del 1933, insieme al restauro dell’arco di ingresso sulla Via Emilia. La Villa del Mauriziano è strettamente legata alla Via Emilia. La solenne collocazione del cinquecentesco arco di Sigismondo, segna con evidenza la presenza dei luoghi ariosteschi, oggi inseriti in un progetto più ampio di valorizzazione storica e ambientale dell’area della città che si adagia lungo il torrente Rodano, toccando il complesso del San Lazzaro e il Parco campagna del Campovolo. 2

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Vincenzo Ferrari, “Il Solco fascista”, 7 aprile 1928


Su iniziativa della Fondazione Palazzo Magnani, si stanno elaborando per il 2014 una serie di manifestazioni che, proprio partendo dallo straordinario patrimonio documentario e artistico presente nella nostra città e nella nostra provincia, come pure questa pubblicazione mette in evidenza in maniera assai efficace, vuole riprendere e rilanciare gli studi, le ricerche, le iniziative culturali e didattiche dedicate all’opera di Ludovico Ariosto.

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UN POSTO MAGICO, ED UNICO, DELLA NOSTRA CITTÀ Roberta Pavarini presidente Circoscrizione Nordest, Reggio Emilia

Sfugge al veloce traffico della via Emilia l’Arco trionfale da cui si accede al parco del Mauriziano. È stato nel corso degli anni inglobato in quella città continua che segue lo snodarsi della nostra affezionatissima strada consolare romana. Spesso quindi il visitatore fa ingresso al sito monumentale dal retro. È un po’ come entrare per la prima volta in una casa che non si conosce dalla porta del garage: si avverte di perdere qualcosa, l’emozione che ti prende quando superi una soglia, ma una volta dentro il Mauriziano ci invade quella curiosità tipica dei percorsi “rovesciati”… Per me così è stato. Sono entrata la prima volta dal retro ed ho esplorato un luogo sconosciuto come colui che scopre un tesoro. Era l’autunno del 2009 quando assieme ad alcuni consiglieri di Circoscrizione e ad un nutrito gruppo di esperti con competenze differenti – storici, sociologi, insegnanti, artisti – abbiamo “preso possesso” del luogo per metterci in ascolto. Che fosse assunto come punto d’interesse cittadino era già stato scritto nei programmi di mandato che avevamo redatto in campagna elettorale, ma volevamo farci pervadere dall’atmosfera del luogo per dare sfogo – come in un libero brain storming – ai nostri pensieri, alle nostre idee. Avevamo bisogno di registrare le sensazioni che ci restituiva lo stare “nel” luogo. Del resto molti di noi venivano da una “scuola”, quella portata avanti dal progetto “Educa al luogo”, in cui l’approccio geostorico aveva già dato i suoi buoni frutti ed eravamo certi che quel momento di lavoro collettivo avrebbe prodotto un programma denso di proposte ed entusiasmo. Quali erano gli antecedenti? Per anni il Mauriziano è stato utilizzato dall’Amministrazione comunale come mera scenografia per eventi culturali tra loro scollegati, se non come semplice contenitore per incontri e riunioni di vario genere. Senza una visione d’insieme del sito, nell’incertezza cronica della sua funzione urbana, il Mauriziano si è ritrovato orfano, infine emarginato 15


dal circuito delle istituzioni culturali cittadine. Probabilmente ha concorso, in questo esito, il malinteso attuale del centro storico: come se tutto il bene o il male di Reggio originasse dal ristretto perimetro medievale! Il Mauriziano, con la sua storia che passa il mezzo millennio, sta lì a raccontarci di una città dai fili molto più lunghi, capace d’intessere un dialogo valoriale tra il centro urbano, il forese, la tradizione e la modernità. Altrimenti, la sindrome che affligge ora la vita del Mauriziano è quella della dimenticanza, di un disinvestimento valoriale da parte della città. Come Circoscrizione Nordest, abbiamo sentito e raccolto appieno la sfida di rigenerare questo luogo. Percorrere le stanze ampie dell’edificio, salire nelle stanzette del poeta finemente ricamate da deliziose pitture, aprire le finestre delicate del primo piano è stato sufficiente per prendere consapevolezza che questo luogo aveva e ha ancora molto da dire e da dare alla città, ai suoi cittadini e visitatori. Ed è con questo spirito di ricerca che ho voluto impegnarmi per restituire il Mauriziano alla cittadinanza, offrendo percorsi di rinnovata consapevolezza sulla sua importanza storica e civica. Dapprima si son rincorse nella mia mente immagini quasi oniriche sui possibili destini ed usi degli spazi: la vasca ripiena di fogliame autunnale, si è trasformata in una piscina abitata da colorate ninfee appoggiate a prendere l’ombra del grande salice, l’umida ghiacciaia è diventata ziqqurat interrata per osservazioni notturne delle stelle, le cantine buie androne di un nascosto passaggio segreto. L’eco poetica si è poi rapidamente incarnata in progetti e percorsi concreti: che mai ci debba essere troppa distanza in politica tra il dire e il fare! Concerti, rassegne cinematografiche, mostre, esposizioni artistiche, laboratori ambientali e didattici, seminari geostorici, performance teatrali, letture, esplorazioni guidate, animazioni per bambini, conferenze e feste popolari si sono prese il tempo e lo spazio di questo suggestivo luogo da abitare. Ricordare tutti gli appuntamenti sarebbe uno sforzo quantitativo di scarsa utilità; valga qui il riconoscimento delle direttrici che hanno guidato il nostro lavoro collettivo, partecipato e sostenuto da numerosi volontari. Innanzitutto abbiamo compiuto una scelta generativa che è stata quella di federare tutte le realtà, uffici, servizi, associazioni che da tempo – ma in maniera disorganizzata – utilizzavano, curavano, 16


abitavano questo luogo nella sua integrale complessità: casa dell’Ariosto, Palazzo Vecchio, Parco e cascinali semidistrutti. Credere alla bontà del lavoro corale non significa lasciarlo a se stesso; siamo intervenuti come Circoscrizione, in quanto Istituzione prossima al cittadino. Questa metodologia ci ha permesso, cosa non banale, di governare il calendario delle iniziative ottimizzando le risorse a disposizione, quindi di offrire pieno riconoscimento al lavoro delle associazioni che vi sono attive: dal “Gabbiano” al “Circolo degli artisti”, dall’Istituto filosofico “Banfi” ai singoli cittadini e “amici” del Mauriziano, dagli operatori dell’ufficio ambiente e dei Civici Musei ai volontari che garantiscono l’apertura quotidiana del sito. Parallelamente abbiamo pensato che andasse ripreso quel percorso partecipativo che si era interrotto durante il cambio di legislatura e che doveva riaccendere il senso di appartenenza affettiva ad un luogo cittadino depositario di una memoria importante. Grazie alla disponibilità dell’assessore all’urbanistica Ferrari si è avviato un percorso pubblico di ascolto e di elaborazione che ha dato piena legittimazione al nostro lavoro dal basso e ha riconosciuto ufficialmente gli interlocutori/attori di quella che doveva diventare una nuova stagione di investimento sul luogo concepito soprattutto nella sua valenza ambientale rappresentata dal Parco del Rodano. Va anche detto che la scarsezza delle risorse, con l’avvicendarsi e il perdurare della crisi, non ha permesso il completo finanziamento delle opere destinate alla manutenzione e alla cura del sito. Tuttavia gli indirizzi operativi sono stati indicati, in parte pure avviati. Un altro elemento che ha contraddistinto il nostro lavoro è stato quello di costruire un programma di eventi rispettosi della natura del luogo, misurati, ma di alta qualità. Iniziative legate all’apprendere, allo scambio di saperi e di linguaggi; tese a suscitare emozioni, ricordi, narrazioni. Suggestivo è stato l’incontro con lo storico Carlo Baja Guarienti, il quale, nel rappresentarci la biografia dell’Ariosto, ci ha portato ad immedesimarci in quel cambio di secolo tra ’400 e ’500 che offre interessanti spunti di riflessione. Scopriamo un Ariosto in veste di ufficiale di governo; costretto dalle circostanze a farsi cortigiano, e tuttavia interiormente libero, poeta. Insieme alla penna, era il cuore a scriver di “cavalieri, armi ed amori”! Da amministratrice pro tempore della cosa pubblica mi ha colpito 17


leggere di questa confessione: «…io non son uomo da governare altri uomini; ché ho troppa pietà e non ho fronte di negare cosa che mi sia domandata». Trasmettere questa dialettica tra fantasia e realtà, tra pensiero ed azione, tra stare ed andare rimanda alla condizione umana dell’abitare, sulla soglia di un presente che vogliamo vivo, partecipato, cui ci si aggrappa pur nelle difficoltà per avanzare verso prospettive nuove e di necessario cambiamento. Sta in questa tensione universale, avvertita nell’avvicinarmi alla Casa dei Malaguzzi, la ricchezza di un luogo poetico che cattura chiunque ne faccia esperienza: un luogo quindi che non solo merita attenzione, ma impegno e sogno. Questo libro raccoglie i contributi e la documentazione che abbiamo assemblato in questo ultimo lustro; inoltre si offre, ed è questo un valore particolare, in forma di guida al Mauriziano. Molti dei materiali preparatori provengono dai compleanni del Poeta che a partire dal 2011 abbiamo inteso non celebrare, ma rammemorare, con il concorso di valenti studiosi raccoltisi intorno al Centro di Documentazione Storica di Villa Cougnet. In particolare, nell’edizione del 2012, è stata prodotta la mostra storico-documentale permanente “Sì caro all’Ariosto… E a noi?”. Già, “e a noi”, che cosa importa davvero del Mauriziano? Nel 2014 – se lo è ricordato la Fondazione palazzo Magnani, e gliene siamo soverchiamente grati – ricorrerà il 540° anniversario della nascita di Ludovico Ariosto. Che sia la data di svolta per rilanciare il Mauriziano? Noi lo auspichiamo! Le città sono fatte di simboli che non devono diventare simulacri, né devono essere ricoperti da pelli che ne cancellino le trasformazioni. Le generazioni devono poter aggiungere, e non solo succedersi, nella cura e nel riconoscimento dei luoghi matrice; tra questi, a Reggio Emilia, è il Mauriziano. Non un destino, ma una scelta di cittadinanza: per compiersi avrà bisogno del nostro impegno, nella responsabilità di tutti. Ringrazio chi in questi anni ha colto la sfida e l’ha saputa condurre avanti con determinazione e spirito collaborativo. Esprimo un riconoscimento particolare, a nome del Consiglio della Circoscrizione, ad Antonio Canovi, co-curatore del presente volume, che ci ha accompagnato nella progettazione culturale di un posto unico e magico della nostra città. 18


O BEL “MAURICÏAN”, CHE MAI VAGHEGGI? UNA NOTA GEOSTORICA PER APPRENDERE IL MAURIZIANO ALLA CITTÀ CHE CAMBIA Antonio Canovi geostorico, responsabile scientifico Centro Documentazione Storica di Villa Cougnet

e un giorno, mostrandomi dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla spiaggia esclamò: così vien poetando l’Ariosto (Didimo Chierico, Ugo Foscolo)

QUEL CASINO OLTRE IL RODANO, UN ANNUNCIO DI CITTADINANZA

Nell’aprile 1848, in sosta a Reggio Emilia “città del Tricolore”, lo studente Carlo Livi, volontario nella Guardia Universitaria costituitasi presso la Normale di Pisa, scrive alla fidanzata: “Oggi alle undici hanno promesso di venirmi a prendere con la carrozza per andare a visitare il casino dell’Ariosto e il magnifico Istituto dei pazzi…”.1 Pensiamo al contesto di quei giorni. Il giovane Livi monta la guardia al proprio maggiore ospite di palazzo Trivelli (lo stesso dove avevano alloggiato Napoleone e Gioacchino Murat); di lì a poco con il proprio Battaglione Toscano si proietterà verso i sanguinosi siti di battaglia, passati nella storia risorgimentale, di Curtatone, Montanara e Goito. Il clima è di febbrile attesa, tuttavia Carlo non tralascia l’interesse scientifico (del manicomio S. Lazzaro diverrà poi direttore, nel 1873) e si prende il tempo per visitare (trovandovi l’ispirazione per dipingere alcuni disegni a matita lungo il percorso, segnatamente “Il molino della villa dell’Ariosto”) quello che all’epoca era ancora un “casino” di campagna in proprietà ai Malaguzzi.2

1

Maurizio porta la data del 18-19 aprile; avverrà in compagnia del maestro di equitazione della famiglia Corbelli, tedesco di origine. Cfr. C. Livi, Lettere del volontario Carlo Livi, ai famigliari (31 marzo - 2 luglio 1848), Pisa, Tip. Editoriale U. Giardini, 1948.

2

Il taccuino con i disegni a matita, e il corredo di appunti, è stato donato dalla famiglia Manicardi alla Biblioteca Panizzi [Mss. Regg. C504/1]; si veda, a questo proposito, R. Marcuccio, Dall’inedito taccuino di viaggio di Carlo Livi, Istantanee di Reggio nel 1848, Strenna del Pio Istituto Artigianelli, 2000, a. IX, n. 3, pp. 53-62.

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Si può ben dire: la suggestione umanistica dell’Ariosto! La medesima che aveva fatto presa sul generale napoleonico Sextius Alexandre François de Miollis, mezzo secolo prima, sino a spingerlo – lo testimonia un libretto uscito dalla Stamperia Michele Torreggiani – a celebrare in Reggio (alloggiava pure lui a palazzo Trivelli) una solenne “Festa… in onore dell’Ariosto”, per la cui scenografia si avvalse degli architetti Marchelli e Paglia.3 Scorrendo l’augusto libretto, prefato per vanità dei posteri in terza persona, colpisce l’investitura museale riservata al “Casino di campagna dell’ARIOSTO”, un “rustico albergo” mancante di “alcuna cosa rimarchevole”, se non forse – si rileva – per i “quattro antichi monumenti addossati ad una delle facciate”. Tuttavia il luogo emanava un fascino discreto, riflesso secolare di una condizione poetica d’esistenza: […] posto nella strada di Reggio e Modena quattro miglia distante da Reggio, in una situazione ridente e in mezzo a praterie, che innaffia un Ruscello cantato da questo Poeta […]. Appartiene ai Malaguzzi parenti dell’Ariosto, che hanno conservato con religioso rispetto la tavola sopra la quale scriveva questo Poeta, e alcune pitture a fresco, che credesi essere state fatte ai suoi tempi, e per sua opera […].

Se le argomentazioni paiono assai approssimative (gli affreschi sono in realtà posteriori all’Ariosto, e nemmeno si tratta delle stanze in cui fu “composto il celebre Poema di Orlando”), netta ne risalta la volontà di elevare questo angolo recondito di campagna a sito memorabile di una nuova geografia civile. La bella acquaforte che accompagna la pubblicazione, a firma dell’incisore parmense Luigi Rados – dal titolo: “Veduta della casa di campagna dell’Ariosto posseduta in oggi dal cittadino Malaguzzi di Reggio” – assolve alla precisa funzione di fissare il luogo nell’immaginario degli “ammiratori dell’ARIOSTO”, restituendolo ai propri contemporanei in quanto paesaggio della memoria (il casino, le lapidi, il prato antistante in declivio, la fuga dei pioppi cipressini sullo sfondo). 3

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Description de la Fête célébrée à Reggio le 20 vendemmiaire an IX. En l’honneur de l’Arioste Descrizione della Festa celebrata in Reggio al 20 vendemmiale anno IX. In onore dell’Ariosto, In Reggio, Anno IX, Dalla Stamperia di Michele Torreggiani; l’evento è ricordato in un arguto articolo di V. Nironi, Il monumento che i reggiani non innalzarono a Ludovico Ariosto, “il Pescatore Reggiano”, 1970, pp. 91-98.


Ma tanta amenità, si badi bene, non svapora in un sogno romantico. Miollis tiene bene a ricordarci come, sulla scorta del moto rivoluzionario scaturito dall’abbattimento della Bastiglia, fosse quello il tempo della “rigenerazione politica” (testuale). La bella “villa di spasso” che fu di Orazio Malaguzzi diventa parte scenica della più grande invenzione dei “francesi”, la festa “civica”: fissata per il 20 vendemmiaio dell’anno IX del nuovo calendario rivoluzionario (domenica 12 ottobre, l’anno è il 1800), il nuovo rito si propagherà – questa la metafora – “colla rapidità del fuoco elettrico”. La festa, ad uno sguardo retrospettivo, costituisce l’esito pianificato di una strategia geopolitica destinata a conquistare simbolicamente, per il tramite degli “Amministratori del Crostolo” (il Dipartimento), tutta la città. Il primo atto è sceneggiato nella “Casa, ove nacque l’epico italiano” (in realtà, ricordiamolo, Ariosto nacque con ogni probabilità entro il recinto delle mura della Cittadella che stava sotto il comando del padre, tutt’al più nella casa materna affacciatesi su piazza del Duomo). La dimora – “riccamente addobbata per tutto il giorno” – è eletta a luogo-matrice: “in essa sarà posta la prima pietra che indichi il luogo della sua nascita”. La solenne processione, intonata al passo di musica delle fanfare militari, si porta dentro e fuori le mura cittadine; qui, “innanzi alla Casa dove nacque il Celebre ARIOSTO”, viene elevato un “monumento in marmo figurato”. Il secondo atto è l’erezione “sulla Piazza Grande” di un “Albero della Libertà”. Il terzo è la posa della “prima pietra d’un monumento”, lungo lo “Stradone fuori di Porta Castello”. Il quarto, alle sette pomeridiane, è la riunione “nella Sala della Municipalità” dell’Accademia dei Letterati, al termine della quale si prevede l’esibizione del “Cittadino Paganini celebre suonatore di Violino nativo di Genova”. Il quinto dispone – contestualmente – “l’illuminazione per tutta la Città”, con l’espresso invito rivolto ad ogni cittadino di concorrere con luci e addobbi floreali. Dalla luce proiettata sul “casino” oltre il Rodano al corteo di fiaccole accese in città tutta la festa è all’insegna della metafora prometeica del fuoco. Già che ci si erano messi, infatti, gli organizzatori prendono il destro per ricordare insieme all’Ariosto lo scienziato di origine scandianese Lazzaro Spallanzani (morto nel 1799 a Pavia, verrà chiamato a rappresentarlo uno dei fratelli) e l’economista Agostino Paradisi (spentosi a Reggio Emilia nel 1783).

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L’Amministrazione Dipartimentale va persuasa, che i Cittadini di Reggio tocchi dall’amore della Patria renderanno brillante e giuliva questa giornata consacrata ad ornare le Scienze, e le Belle Arti negli uomini illustri, che formano l’ornamento, e il decoro della nostra Città, che loro diede i natali.

Dietro al velo iperbolico del linguaggio patriottico-rivoluzionario, si riconosce una precisa retorica del discorso: a tempi nuovi, nuove muse. Città tra le più giacobine d’Italia, municipio finalmente risorto alle libertà comunali, Reggio Emilia cercava genealogie adeguate ad una sua rigenerazione politica. In tale traiettoria si colloca il nuovo sguardo rivolto al casino Malaguzzi-Ariosto (destinato nelle intenzioni ad ospitare pure i busti di Spallanzani e Paradisi). Una prospettiva, si badi bene, che non era di “adattamento” ai tempi nuovi: ciò era stato pur vero per Orazio – nella seconda metà del '500, con la creazione dell’arco monumentale – o due secoli più tardi per Prospero, quando sventrerà la villa rinascimentale per creare un salone centrale alla moda di Versailles. Quegli interventi di radicale innovazione erano stati concepiti per ragioni (personali, familiari) di autorappresentazione. Con l’annuncio del mondo “nuovo”, e proprio assecondando quella dinamica circolare tra rivoluzione e reazione spiegata magistralmente da Reinhart Koselleck, lo sguardo rivolto a questo sito diventa, viceversa, conservativo.4 Al casino dei Malaguzzi si prende a guardare cercando l’antico, non l’ascendente familiare, bensì il tassello fondativo di cittadinanza. Il cambio di segno non solo è radicale, ma radicalmente moderno. La medesima operazione di rigenerazione genealogica, letteralmente operando sul “corpo” dell’Ariosto, viene compiuta a Ferrara nel 1801, quando si decide la dissepoltura del Poeta dalla chiesa di San Benedetto ove riposava da quasi tre secoli (il 6 luglio 1533 è la data della morte) per la nuova tumulazione nella sala maggiore della Biblioteca Ariostea a lui espressamente dedicata. Reggio, che all’Ariosto aveva dato i natali in virtù di un legame materno piuttosto che letterario, non fu pronta alla medesima operazione. Per arrivare ad una piena investitura in termini di cittadinanza occorrerà attendere l’esito della congiuntura risorgimentale, con l’elevazione della città finalmente al rango di 4

22

Rh. Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna, 1986.


Luigi Rados, Veduta della casa di campagna dell’Ariosto posseduta in oggi dal cittadino Malaguzzi di Reggio, in Description de la Fête célébrée à Reggio le 20 vendemmiaire an IX. En l’honneur de l’Arioste, Tip. Torreggiani, a. IX.

Maison de l’Arioste près de Reggio, in Hugo Abel, France Militaire, histoire des armées françaises et de mer, de 1792 à 1833, Delloye, Paris, 1833-1838 (collezione privata Paolo Dallari). 23


capoluogo di provincia (uno status conquistato troppo fuggevolmente al tempo del Dipartimento del Crostolo).

UNA CITTÀ IN CERCA DEL “SUO” MONUMENTO (E DEL SUO “FORESTIERO”)

Giuseppe Ferrari, nel comporre la prima Guida della città di Reggio nell’Emilia dopo l’avvento dell’unità d’Italia, giudica l’edificio detto Casino dell’Ariosto “il più prezioso monumento che noi possiamo con orgoglio additare al forestiero”.5 Si tratta di un commento espresso a ridosso dell’evento commemorativo orchestrato dal Comune di Reggio Emilia per il IV Centenario della nascita (1874). Il medesimo punto di vista, anzi rafforzato da un copioso numero di pagine volte a descrivere il sito, lo ritroveremo nelle guide successive edite da Enrico Ruozi (1890, 1896) ed ancora nella Italia descritta e illustrata edita dalla Sonzogno nel 1909, dove tra le otto pagine dedicate alla provincia di Reggio Emilia non si rintraccia ad esempio nessun riferimento alla Sala del Tricolore, mentre ci si prende la briga di andare “oltre Rodano” per visitare il casino dell’Ariosto.6 Cerchiamo la traccia dei ricordi ariosteschi: fuori di città, a circa due chilometri, presso un ponte sul Rodano, è una chiesetta, la pieve di San Maurizio; di fianco ad essa, dall’altro lato della strada, s’infossa il mulino, superbo nei versi dell’Ariosto, ricordati da un’iscrizione latina. Vicina, la villa che fu di Ludovico Ariosto. Squallida la carraia che vi conduce, non ombreggiata come era un tempo; nessun vestigio del giardino e del lucido vivaio. Solo il fresco rio continua ad innaffiare le erbe, fedele al suo passato, e a far girare la ruota del mulino. In una lapide murata a sinistra della porta d’accesso al villino si legge che “la città di Reggio – dov’ebbe la madre e i natali – l’immortale poeta – conoscente e superba di tanta gloria – n’acquistò la villa – che sarà in tutti i secoli venerata. Nell’interno altre iscrizioni: una ricorda la visita fattavi, nel 1841, dall’imperatrice Maria Anna Carolina, mentre era ospite in Reggio del duca Francesco IV; una seconda fa sapere che nella casa sono intatte o conservate sempre nel medesimo stato

5

G. Ferrari, Guida della città di Reggio Emilia, 1873, Tip. Calderini e c., p. 64.

6

E. Ruozi, Guida della città e provincia di Reggio nell’Emilai coll’indicatore generale di tutti gli istituti, uffici pubblici, professionisti e commercianti, Reggio Emilia, Stabilimento tipolitografico degli Artigianelli, 1890 (II ed. 1896). Per la citazione, che ricalca un passo di Naborre Campanini (cfr. nota 25) variamente plagiato nelle guide locali: L’Italia descritta e illustrata, Sonzogno, 1909, cit. p. 433-434.

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soltanto tre camerette a levante, le quali furono abitate dall’Ariosto. Ma due di esse sono ora affatto vuote; nella terza v’è una cassa, qualche sedia e un tavolo; su questo, un album pei visitatori.

Ora, si vede bene come il “forestiero” – traversando la terra reggiana – vi cercasse, alla stregua di un parente prossimo, tracce di vita ariostesca. Nulla di strano. Come ha osservato Rea Silvia Motti, fu il Poeta medesimo, nei versi della IV Satira rivolti al cugino Sigismondo Malaguzzi, a trasporre il bel “Mauricïan” dei cugini in memoria letteraria.7 Su quella matrice, dopo la sua morte, altri s’incammineranno: da Francesco Doni, che vi situa il modello della “villa di spasso”, ad Alessandro Miari il quale – seguendo una committenza di Orazio Malaguzzi – arriva a trasfigurare il luogo nelle vesti di Favola pastorale.8 A quella data (1583), con l’arco monumentale sulla via Emilia già eretto (e dedicato a se medesimo: Horatius Malagutius), il sito assume pienamente le sembianze di un paesaggio distinto. Ha una personalità e un nome: Il Mauritiano. Verseggiato da Ludovico, diventa con Orazio – uomo di indubbio successo: esponente di una famiglia aristocratica, poeta, filosofo, madrigalista, nonché ambasciatore presso Filippo II di Spagna – il luogo ove autorappresentare il lustro familiare, non più soltanto una dimora privata, non ancora un vero e proprio monumento pubblico. Se la memoria pubblica e letteraria del Poeta viveva, come vive tuttora, a Ferrara, l’intuizione di Orazio è quella di ereditare la memoria dell’Ariosto dandogli per così dire “casa”. Per altri versi, la costruzione dell’arco non faceva che iscrivere in una prospettiva architettonica la proiezione monumentale avviata da Sigismondo, con l’ideazione di una passeggiata antiquaria contornata di lapidi d’epoca romana rivisitate per l’occasione, la cui “dimensione semipubblica” è stata ricordata dallo studioso Claudio Franzoni.9 Considerazioni di natura patrimoniale a parte (vi ritorna in questo quaderno Roberto Macellari), interessa qui rilevare una coincidenza temporale: le due epigrafi rinascimentali volute da Sigismondo, oggi 7

R.S. Motti, Note letterarie intorno alla villa cara a Ludovico Ariosto, Estratto dalla “Strenna del Pio Istituto Artigianelli, Reggio Emilia, 1993, pp. 22-28.

8

A. Miari, Il Mauritiano. Favola Pastorale, Hercoliano Bartoli, Reggio Emilia, 1584.

9

C. Franzoni, Marmi antichi tra privato e pubblico agli inizi del Cinquecento, in Il “Portico dei Marmi”. Le prime collezioni a Reggio Emilia e la nascita del Museo Civico, a cura di Claudio Franzoni, Musei Civici di Reggio Emilia, 1999.

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conservate nel “Portico dei Marmi” presso i Musei Civici di Reggio Emilia, datano MDXVI (1516) e MDXXII (1522); la celebre Satira a lui rivolta dall’Ariosto data al 1523. Quello che era stato concepito come edificio “di spasso”, la dimora in cui ripararsi, viene investito di una tessitura narrativa affatto speciale. Proiezione monumentale, da un lato, rappresentazione poetica dall’altro: si dà al sito un’investitura in termini memoriali, lo si predispone a divenire, tout court, luogo di memoria. Tuttavia, anche nelle ristrutturazioni successive (pensiamo in particolare a quelle volute da Prospero alla metà del ’700), prevale il filtro familiare... Si può indovinare un indubbio piacere, presso i Malaguzzi, nel venire ricordati come parenti di un Poeta che nel corso dei secoli ha assunto il profilo universale di un “classico”. Ma ancora con i francesi, la messinscena di Miollis non mette in discussione il titolo proprietario, ovvero il carattere comunque familiare del “casino dell’Ariosto”. Per arrivare ad un cambio di segno, con l’apparecchiatura di una vera e propria scena pubblica, bisognerà attendere la congiuntura politica risorgimentale, e per altri versi la decadenza di questo ramo nobiliare. Sfogliando le carte municipali, si vede bene come la precaria situazione patrimoniale dell’ultimo erede dei Malaguzzi – il prevosto della basilica di S. Prospero, don Girolamo – ebbe il suo peso tra le circostanze che portarono all’acquisizione a patrimonio comunale del Casino Ariosto (con il fondo circostante). La condizione problematica della possessione nota come “Villa Maleguzzi detta il Casin dell’Ariosto” aveva trovato eco, con esplicito disappunto, nella Guida di Reggio Emilia composta da Prospero Fantuzzi nel 1857 (ma poi rimasta inedita fino al 2003).10 Vi si annotava infatti come l’edificio a fianco della “moderna abitazione da villeggiarvi delli ss.ri conti Maleguzzi (ovvero il Casino dell’Ariosto), fosse “tutto trascurato ed in rovina”, “sebben casino elegante pur esso, e con più elegante oratorio”. Nonostante lo stato materiale delle cose, quel luogo incarnava agli occhi di Fantuzzi una suggestione speciale: “Questo è il casino cui desidero si conduca con ansietà e venerazione il cittadino ed il forestiero”; qui, dove “dimorava nella sua giovinezza l’Ariosto” e, grazie alla nota Satira, “tutto egli stesso ne esprime la celebrità e la bellezza del luogo”. 10

26

P. Fantuzzi, Guida della città di Reggio (1857), a cura di Silvia Spaggiari, Diabasis, Reggio Emilia, 2003.


Fantuzzi, dunque, non soltanto compie l’elegia poetica del Casino, ma lo eleva – quando ancora era privata residenza – a sito rappresentativo dell’identità cittadina. Furono quelli, si badi bene, anni di grande fermento politico, cui corrispose una forte proiezione nello spazio che era della Cittadella, dalla sistemazione dei Giardini pubblici alla costruzione del nuovo teatro Municipale (inaugurato il 21 aprile 1857). Belle imprese di pianificazione urbana, buone a far moderna la città e perciò ben descritte nella Guida, tuttavia non era lì che Reggio andava cercando il “proprio” monumento. Servivano luoghi passibili di veicolare una nuova comunione spirituale fra la tradizione e i tempi nuovi; il Casino dell’Ariosto, se prestiamo ascolto alle parole Fantuzzi, rientrava fra questi.

Testo su cartone dedicato ai posteri, 1864 (in realtà dettato nel 1890), Archivio Storico Comune di Reggio Emilia, busta 442, cl. 11.6.31.

LAGGIÙ FUORI PORTA: “IL MAURIZIANO”, FORSE UNA STORICA “SECCATURA”…

Vania Strukelj, in un bel saggio dedicato alla rilettura delle “guide postunitarie”, ha provato a ricostruire un profilo storico delle aspettative che attraversavano Reggio Emilia una volta eletta a città 27


Sopra: testo su cartone riproducente i famosi versi dedicati a Sismondo, descrittivi della Villa Malaguzzi, Archivio Storico Comune di Reggio Emilia, busta 442, cl. 11.6.31. Sotto: la targa poi affissa alla facciata del Mauriziano (foto Daniele Castagnetti). 28


capoluogo di provincia.11 A proposito della guida Ferrari, ricorda che fu concepita come “breve indicazione delle cose più osservabili della città nostra”, quindi non la classica guida storico-artistica, come si soleva fare nelle vicine città-capitale, Parma e Modena. Sono le istituzioni cittadine, nota la studiosa, a guadagnarsi il primo piano: oltre che il Teatro Municipale, la Biblioteca Municipale, il Museo Spallanzani, quello di Storia Patria, la Scuola di Belle Arti, il Manicomio di San Lazzaro. In questo elenco, lo si avrà già notato, manca il Casino dell’Ariosto. Curioso, alla luce del giudizio sopra riportato; tanto più che il Ferrari risulta edotto della nuova condizione di pubblico monumento che stava allora investendo il sito: “Questo Casino è ora affidato alle cure del Municipio, il quale credo che abbia in animo di restaurare l’arco rispettandone scrupolosamente l’architettura”. E che la memoria del Poeta stesse assumendo il valore di vulnus per la nuova identità di Reggio capoluogo lo si vede bene dall’inserzione nella Guida del palazzo di città dei Malaguzzi, ma con l’appellativo di Casa dell’Ariosto e un velenoso commento in salsa patriottica: “Sulla porta sta una iscrizione, postavi, sia detto a nostra vergogna, dal francese generale Miollis” (passaggio che ritroveremo integralmente, senza alcuna nota, nel Ruozi). Ora, che tutto ciò sfugga al commento della studiosa, è dimenticanza che va indagata. Agli occhi (e alle orecchie) del microstorico della memoria sono piuttosto i silenzi a far la differenza: “spie di un paradigma indiziario”, le ha definite Carlo Ginzburg, un maestro. La Guida Ferrari, si apprende nella medesima nota, risulta redatta “nella fretta grandissima”, tuttavia lo studioso contemporaneo non sa gettar luce sulla circostanza e ci lascia con un pugno di mosche in mano… Eppure, è in faglie di questo genere che la “spia” si fa “paradigma”. Riprendiamo il filo del ragionamento. Con il 1861, annota Strukelj, scoccava “per una città come Reggio l’ora di rivendicare un proprio ruolo non subalterno nei confronti sia di Modena che di Parma”. Lì rintraccia, correttamente, la motivazione primaria della Guida Ferrari. E però non ci si avvede, un po’ come accade con la biblica trave nell’occhio, che le “cure municipali” avevano a che fare con un anniversario tondo ormai imminente: 1874, IV Centenario della nascita di messer Ludovico Ariosto. 11

V. Strukelj, Le guide postunitarie di “Reggio nell’Emilia”: il racconto della città tra miti e stereotipi, in P. Fantuzzi, Guida della città di Reggio (1857), a cura di S. Spaggiari, Diabasis, Re, 2003, pp. 11-32.

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Pur non avendo a tutt’oggi in mano gli elementi per stabilire qualche connessione plausibile tra la circostanza commemorativa e la “fretta” nella redazione della guida, conosciamo però la eco che quell’evento produsse nelle Guide successive. Scorrendo le due Guide Ruozi, infatti, si fa un balzo: il numero di pagine che gli vengono dedicate è superiore ai più noti monumenti artistici e religiosi della città!12 Numeri a parte, colpisce lo stile del Ruozi, affatto ortodosso per una Guida. Per un verso, sono posti in luce determinati aspetti monumentali: l’Arco (“Passiamo sotto l’arco che fu restaurato nel 1874, in occasione della festa che vi fu celebrata ricorrendo il quarto centenario della nascita di Ludovico”); la lapide murata alla porta del Casino dell’Ariosto (“la città di Reggio – dov’ebbe madre e i natali – l’immortale poeta – conoscente e superba di tanta gloria – n’acquistò la villa che sarà in tutti i secoli venerata”); gli ambienti interni (con dovizia di descrizione degli affreschi inseriti nelle “tre stanze del Poeta”). D’altro canto, non ci si perita di sottolineare gli elementi di degrado, a cominciare dalla via di accesso monumentale, tra l’Arco e il Casino, che appare ai suoi occhi una “carraia… squallida, non ombreggiata da nessuna pianta”. La siepe di bosso piantumata nel 1874 appare infatti “qua e là guasta per incuria, o rotta e squarciata dai porci che liberamente vanno a grattare la schiena contro i muri nudi e sgretolati”. La fotografia restituita brutalizza irrimediabilmente il contesto arcadico (il “lucido vivaio”) a suo tempo descritto dal Poeta, e a nulla vale sapere che “il fresco rio, fedele al suo passato, continua a rigar l’erbe e a fare il molino”. Non è finita. Una volta appresso alle lapidi monumentali murate a levante del Casino, l’estensore della Guida passa al dileggio aperto: “i ragazzi della scuola elementare che ha sede in una sala del Mauriziano, vanno a spandere ciò di che Giovenale voleva bagnata l’effigie del famoso liberto Domiziano”. Come mai, bisogna pur domandarselo, fu anche solo pensabile inserire quelle note di costume, o meglio scostumate, in una Guida volta a edificare la memoria della città, novello capoluogo? Una prima risposta va cercata, verosimilmente, nel profilo ancora incerto del sito: da Villa Malaguzzi, a Casino dell’Ariosto, a Mauriziano. Le cose acerbe, d’altra parte, suscitano piuttosto simpatia; mentre qui, sotto le parole di denuncia, si avverte un certo umor

12

30

Cfr., nella Guida Ruozi: per l’edizione del 1890, le pp. 100-110; per quella del 1896, le pp. 120-131.


nero, sintomo verosimilmente della frustrazione nei confronti di una città che pur aspirandovi non sapeva pensarsi “capitale”. Con il senno di poi. Appare francamente curioso che il più recente monumento appena conquistato alla città, un sito capace di attrarre romanticamente a sé letterati, patrioti e persino sovrani (Marianna Carolina Imperatrice d’Austria, nel 1841), i “forestieri” (Miollis, Livi) come i cantori della “reggianità” (Agostino Cagnoli, Prospero Viani), si trovi prontamente riadattato (appena dopo l’acquisizione) all’uso di scuola elementare.13 Di un tal scivolamento all’ombra della storia, proseguito sino ai giorni nostri nonostante qualche sussulto in prossimità degli anniversari tondi, testimonia per l’appunto la “dimenticanza” di cui si diceva sopra, riguardo alla centralità che il sito del Mauriziano conobbe nel non breve passaggio postunitario. Ché il mestiere dello storico, in ultima analisi, si forgia nel corpo a corpo con la memoria e assolve alla funzione sociale di esercizio comunitario di “riconoscimento”, decidendo volta a volta che cosa sia memorabile od obliabile.14 Se il luogo comune vuole che la Storia funga brutalmente da “pattumiera” in cui buttare ciò che, irrimediabilmente passato, non ha più da servire, il culto progressivo della modernità si alimenta di continue “riscoperte” storiche, ovvero di “contraddizioni” memoriali. La memoria funziona infatti come una spugna, la cui superficie rilascia – al di fuori di qualsivoglia meccanica prevedibile – liquidi assorbiti e depositati in precedenza nelle tante cavità che la compongono. Se nella storia noi cerchiamo un senso ultimo (historia magistra vitae), la memoria, quando debitamente interrogata, ci riserva sempre nuove sorprese. La prima orienta, la seconda disorienta. “Di fronte al passato – scrive Robert Darnton, ed è un pezzo di scuola – la nostra capacità di comprendere è minata nel profondo. Non facciamo che imbatterci in una serie di misteri – non semplicemente nell’ignoranza (un fenomeno comune), 13

Della visita al Casino dell’Ariosto dell’Imperatrice d’Austria ne dà conto l’articolo Casa e villeggiatura dell’Ariosto in Reggio di Lombardia, apparso sul n. 8, a. I, 1841 del periodico “Il Silfo”, poi ripreso nella Strenna del Pio Istituto degli Artigianelli, per l’anno 1904, Stab. Cromo-Tipo-Litografico nell’Istituto Artigianelli, 1904; nel medesimo articolo si dà conto di “alcune leggiadrissime stanze sulla Villa” cantate da Agostino Cagnoli, poi raccolte in P. Viani e A. Cagnoli, Ricordanze reggiane, Tip. Torreggiani e compagno, Reggio Emilia, MDCCCXXXXII.

14

Cfr. M. Halbwachs, La memoria collettiva, Milano, Unicopli, 1987 (PUF, 1950); Ch. Taylor, J. Habermas, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 1998.

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ma nell’insondabile estraneità della vita tra i morti”.15 Gli storici, continua lo studioso americano, “ritornano da quel mondo come i missionari che un tempo si proponevano di conquistare culture straniere e tornavano convertiti, vinti dalla diversità degli altri”, così che “Talvolta, riprendendo il trantran quotidiano, arringhiamo il pubblico con i nostri racconti. Ma pochi si fermano ad ascoltarci”. E ne conclude, con ironia magistrale: “Come il vecchio marinaio, abbiamo parlato ai morti, ma fatichiamo a farci ascoltare dai vivi. Per loro siamo una seccatura”.

Sull’acquisto del fondo e Casino detto dell’Ariosto ragioni Malaguzzi in Villa S. Maurizio, e proposta di una Società per la decorazione e arredamento di detto Casino, Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442, Fascicolo 1mo, cl. 11.6.31.

15

32

R. Darnton, Il bacio di Lamourette, Adelphi, Milano, 1994; cfr. le pp. 14-15.


Allegato E, Rogito 1864, il decreto di autorizzazione all’acquisto firmato da Vittorio Emanuele II, Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442, Fascicolo 1mo, cl. 11.6.31.

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Allegato F, Rogito 1864, l’orientamento geostorico del sito su cui insiste il Casino dell’Ariosto, Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442, Fascicolo 1mo, cl. 11.6.31. 34


IL MUSEO MANCATO: UNA QUESTIONE APERTA

Nell’aprile 1861 – narra il Bellocchi, citando la stampa cittadina coeva – prese a rimbalzare una notizia che aveva il sapore dello smacco per il novello capoluogo: la città di Ferrara era in procinto di “iniziare le trattative per l’acquisto del Casino dell’Ariosto”.16 L’onore virtualmente ferito fu argomento decisivo. Il 31 maggio dell’anno successivo (1862) “L’Ingegnere della Commissione delle acque e strade foresi del Reggiano”, Antonio Tegani, restituirà al sindaco Pietro Manodori la stima relativa al “fondo stabile detto l’Ariosto di ragione Malaguzzi”.17 Per approdare, il 18 gennaio 1864, dopo alcuni consigli comunali afflitti dalla scarsità dei denari necessari, alla firma del rogito relativo all’acquisizione della sola porzione “monumentale” di detto fondo: il Casino, la strada di accesso, l’Arco.18 L’esito istituzionale non corrisponderà d’altra parte ad un progetto consolidato di valorizzazione patrimoniale. Per arrivare alla ristrutturazione dell’Arco, secondo i canoni propri di un monumento, bisognerà infatti attendere il 1874; quanto al Casino, ci si metterà le mani negli anni ’90, peraltro scontando una perenne carenza di manutenzione.19 Le premesse culturali che preesistevano all’acquisizione della Villa a patrimonio comunale, tuttavia, erano di ben altro tenore; a cominciare dal modus operandi voluto dal sindaco Manodori, il quale aveva invitato tre intellettuali e professionisti cittadini, distinti per competenza disciplinare, a recarsi sul posto onde ricavarne una valutazione d’insieme. Ne dà conto una lettera al Sindaco del “dicembre 1862”, a firma del letterato 16

“Gazzetta di Reggio nell’Emilia”, 16 aprile 1861; cfr. anche il numero del 25 aprile: “Ricuserà la città e il Consiglio Comunale di fare acquisto di questo ultimo e sì prezioso possedimento di Casa Malaguzzi?”; articoli entrambi ripresi in U. Bellocchi, Il Mauriziano. Gli affreschi di Nicolò dell’Abate nel “nido” di Lodovico Ariosto, Reggio Emilia, 1967, cfr. p. 11.

17

Redazione di stima del fondo stabile detto l’Ariosto di ragione Malaguzzi, 31 maggio 1862, Archivio Storico Comunale di Reggio Emilia (Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia), busta 442, cl. 11.6.31.

18

Il rogito porta per intestazione: Reggio li 18 gennaio 1864 - Municipio di Reggio nell’Emilia coll’Ill.mo e Rev.mo Sig. Conte Canonico Girolamo Malaguzzi Valeri - Acquisto del Casino dell’Ariosto in Villa S. Maurizio pel prezzo di tariffali £ 7959,85. La seduta consiliare nella quale si vota (all’unanimità) l’acquisto data al 21 agosto; l’autorizzazione statale, per mezzo di “DECRETO di autorizzazione all’acquisto del Re d’Italia Vittorio Emanuele II”, giunge il 6 dicembre 1863; Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442.

19

I lavori di sistemazione del Casino dell’Ariosto rappresentano, tra l’altro, uno dei primissimi appalti affidati al costruendo sistema cooperativo reggiano a licitazione privata, sulla base della prima legge nazionale di “sistema”, introdotta nel 1889.

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Prospero Viani (sarà poi, in polemica con la sua città, preside del Regio Liceo di Bologna), del professore di belle arti e consigliere comunale Romualdo Belloli, dell’ingegnere Antonio Tegani.20 Illmo Signore […] ci portammo di nuovo al Mauriziano, volgarmente Casino dell’Ariosto, e quivi esaminato diligentemente il luogo e il viale che vi deve condurre, stabilimmo concordemente di farci dall’Arco che dalla strada maestra va diritto al Casino e prenderne terreno in 12 metri di larghezza per quanto è lungo; formarne di 12 metri la piazzetta a settentrione dove imbocca esso viale; farne di 8 metri di larghezza i due spazi di comunicazione laterali, e di 10 la piazzetta a meriggio […]. Così la villetta rimane in vista e, quando ivi intorno e lungo il viale correrà una siepe sempreverde, interpostivi qua e là massime presso il Casino allori e altri alberelli sempreverdi, darà sgombra e vaga vista ai passanti per la strada Emilia. Laonde noi pure desideriamo che per mezzo del nostro Municipio, ad onore d’Italia e di Reggio, quello storico luogo duri alla venerazione dei posteri.

Ci sono in questa lettera tre elementi connotativi, che ritroveremo nel corso degli anni: l’individuazione del Casino dell’Ariosto come di un “luogo storico” dotato di propria personalità, per l’appunto “Mauriziano”; la messa in valore, attraverso la riperimetrazione del “viale”, della prospettiva che dall’“Arco” (in maiuscolo, sarà poi chiamato nei regesti municipali “trionfale”) conduce a quella che, in sé, rimaneva agli occhi coevi una “villetta”; l’intento esplicito di interpretare il Mauriziano in quanto sito monumentale capace di offrirsi, “ad onore d’Italia e di Reggio”, “alla venerazione dei posteri”. Se le speranze erano tali, la situazione di fatto delle “fabbriche” insistenti sull’antica possessione dei Malaguzzi – riprendo qui la Stima del Tegani – risultava però decisamente problematica.21 Posto che tutti i “manufatti per un’eccessiva trascuratezza di manutenzione richiedono non lievi restauri”, il Casino si presenta “in condizione di solidità assai deteriorata e “bisognevole di radicali rappezzamenti particolarmente nei muri”. Vi sono da rifare, in modo particolare, “le volte che coprono i ricetti”, le quali vanno poi “rassicurate coi muri a cui si appoggiano col mezzo di opportune chiavarde e tiranti di ferro”; quanto agli “stanzini 20

Dicembre 1862, missiva indirizzata al Sindaco Manodori da Prospero Viani, Romualdo Belloli, Antonio Tegani, Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442.

21

31 maggio 1862, Redazione di stima, cit., Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442.

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dell’Ariosto”, poggiano su “pericolanti volte” e necessitano “seminterrire la sottostante cantina e rafforzare gli archivolti”. In buona sostanza, s’apprende come, nelle ultime generazioni, la famiglia avesse rinunziato alle funzioni di rappresentanza, per gli usi agricoli. L’“antico casino dell’Ariosto” risultava infatti per buona parte “abitato da cameranti”, così come l’edificio a fianco (il Palazzo Vecchio), con la variante al pianterreno di “un ambiente ad uso bottega da falegname” (mentre la “cappella con attigua sagristia” era già “disusata”). Tra le due “fabbriche”, continuava la narrazione, si trovavano – in “cattiva condizione” – “muri di cinta… chiudenti un appezzamento di terra ortiva”. La terza costruzione “più a levante”, in verità una “casetta” talmente precaria da presentarsi puntellata sul “muro occidentale esterno”, era “anch’essa destinata all’abitazione di cameranti”, con al pianterreno un “androne a guida di portico chiuso” e un’altra “bottega da falegname”. Per contro, il fondo agricolo (22 biolche, pari a circa 6,6 ettari, date in affittanza) risultava “nelle migliori condizioni” per “fertilità meccanica” e “qualità chimiche”, anche grazie alla ricchezza di acque di cui poteva godere, “circondato” com’era “a ponente dal torrente Rodano” (con un “contorno… guernito di piante diverse”) e “a levante dallo scolo pubblico detto il Riolo”; un torrente, quest’ultimo, che garantisce una piccola portata tutto l’anno, prendendo vita da importanti fontanazzi nei pressi di Gavasseto. L’Ariolo peraltro, “dirigendosi da levante a ponente”, allora come oggi “interseca il fondo” proprio sulla direttrice del viale monumentale, dove “avvi un ponte in cotto”. La qualità agronomica “prativo irrigua” del fondo presentava dunque i migliori caratteri per la produzione lattifera; con una “parte fra il Riolo e la Strada Nazionale… coltivata a caneparo”, e una bella piantumazione “in regolari filari” di “gelsi non adulti ma vegeti e rigogliosi in modo da somministrare una significativa quantità di foglia”. Va anche detto che, al momento dell’acquisizione comunale, i Malaguzzi non avevano più la piena potestà irrigua sull’intera area, tuttavia ancora gli appartenevano “il prato dell’Ariosto e parte del prato inerente al molino”. Sarebbe interessante, nella prospettiva qui auspicata di rigenerazione del sito patrimoniale del Mauriziano, condurre una puntuale comparazione tra la Stima del Tegani (1862) lo “Stato di Luogo” redatto il 30 giugno 1898 dall’Economo Comunale.22 In quel trentennio, 22

30 giugno 1898, Stato di luogo, Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442.

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lo spazio di una generazione, se ne consumò il destino di museo “mancato”; e a difettare, come si comprende dalle carte d’archivio, fu più l’asfissia del progetto culturale che non la ribadita, ad ogni pubblico avviso, carenza di risorse economiche. Vittorio Nironi ha ricordato, ad esempio, come la celebrazione del 1874 – l’anno del IV centenario della nascita di Ludovico Ariosto, quando fu restaurato l’arco trionfale – trovò un’Amministrazione comunale sparagnina al punto di concepire una “festa quasi di famiglia”, delegando il pranzo ufficiale al buon cuore della “sottosezione di Storia Patria”.23 In quegli anni l’andirivieni di lapidi e sculture, relativamente all’Ariosto e al Mauriziano, fu per lo meno confuso. Nel 1884, come recita la targa a tutt’oggi apposta sul lato di levante del Casino, s’involarono alla volta de Civici Musei (tra parentesi: dentro le mura, dove non erano mai state) le quattro stele di epoca classica lì posizionate agli inizi del XVI secolo da Sigismondo Malaguzzi.24 Nel 1896 è la volta del busto dell’Ariosto scolpito da Ilario Bedotti: donato al Comune dal farmacista Alessandro Negrelli per essere posto in piazza del Duomo (nei pressi della probabile Casa natale e della propria Farmacia), verrà dirottato alla volta del Casino. Quanto alla scultura di Riccardo Secchi (lo ricorda di seguito Enrico Manicardi), pur essendo pensata per un’allocazione interna (Palazzo Pratonieri), sempre per volere dell’Amministrazione comunale prenderà a emigrare, prima sotto gli archi del palazzo del Monte di Pietà e poi sotto il cielo del Parco del Popolo (i Giardini Pubblici). Non è semplice capire come mai Reggio Emilia, ad un certo punto, si “distrae” dal “suo” Ariosto; sta di fatto che l’ultimo personaggio di chiara fama ad occuparsene fu Naborre Campanini, il quale – spingendosi sino al Casino dell’Ariosto – non mancò a sua volta di rilevare le intime contraddizioni di quel sito monumentale, tra la retorica altisonante della “venerazione” per il Poeta e l’incuria quotidiana in cui era conservato il sito.25 È verosimile immaginare 23

V. Nironi, Il monumento che i reggiani non innalzarono a Ludovico Ariosto, cit.

24

Recita la targa: “Le quattro lapidi romane / dopo il soggiorno dell’Ariosto/ qui murate / ebbero custodia migliore / nel museo di storia patria / il giorno 2 dicembre 1884”. Il trasferimento, al di là delle argomentazioni relative allo stato d’incuria di quelle lapidi, in quanto esposte alle intemperie, avvenne nell’ambito del processo costitutivo della raccolta statuaria nota come “Portico dei Marmi”: cfr. A. Brighi e A. Marchesini, Il “Portico dei Marmi” di Gaetano Chierici: tempi e modi di formazione della raccolta, in Il “Portico dei Marmi”, cit., p. 163.

25

Cfr. N. Campanini, Note storiche e letterarie, Tip. L. Bondavalli, Reggio Emilia, 1883.

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che, una volta divenuta capoluogo, la città e i suoi amministratori si siano dedicati piuttosto alla prosa che alla poesia, preoccupandosi di consolidare l’economia del polo urbano, con i servizi relativi, allo scopo di competere sul terreno della modernità con le più illustri vicine. Un esito storico è tuttavia altro che destino; così come i processi di modernizzazione non per forza devono disseccare tutt’attorno i fili lunghi della tradizione. Scorrendo i consigli comunali tra il 1862 e il 1863 ritroviamo due punti di forza, che risulteranno però frustrati. Il primo attiene al volontariato intellettuale: la proposta generosa di Prospero Viani, socio fondatore della Deputazione di storia patria, disposto in prima persona a formare “una Società che assumerebbe di ammobiliare e rifornire di Manoscritti e delle Opere dell’Illustre Poeta le stanze già da lui abitate”. Romualdo Belloli, direttore della Scuola d’Arte di Reggio nonché consigliere comunale, avanzerà da par suo la proposta di trasferire qui l’Orto Agrario, “permutando l’uno col altro fondo, poiché per tal modo sarebbe dato di conservare anche l’attuale disposizione del sito circostante al quale alludono alcuni versi dell’Ariosto, e potrebbe ivi in luogo ben degno tenere le sue sedute la Società e il Comizio Agrario, e si potrebbero ivi ancora tenere le decretate esposizioni agricole”.26 Non vi poteva essere proposta più “moderna”. Nell’immaginarsi la nuova vocazione del Mauriziano, non monumento periferico bensì sito museale integrale, Belloli metteva a confronto, in modo pionieristico, la cultura umanistica con il concetto geostorico di paesaggio. Il parere della Società Agraria, ancorché di generico apprezzamento, fu tuttavia negativo, in ultima analisi perché essendo condotto a prato irriguo “il Fondo, detto l’Ariosto, non potrebbe prestarsi al precipuo scopo, quello cioè di istituire coltivazioni esperimentali”. In tal modo, oggi siamo in grado di comprenderlo, si decretò una frattura tra arte e scienza, fra una monumentalità quanto mai flebile – in una Reggio che abitava a “mezzadria” con il suo forese – e l’invenzione di una nuova ruralità proiettata nelle “magnifiche sorti e progressive”, il cui seme germinava “fuori porta” (la Regia Scuola di Agraria, poi “Zanelli”).

26

La proposta di Viani diventerà una sorta di “corredo” fisso nelle diverse sedute comunali; quanto alla proposta di Belloli, fu avanzata nella seduta del 9 luglio 1862, anche apprezzata dai colleghi, per ritrovarsi affondata dalla Società Agraria.

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Iscrizione dei Malaguzzi (1516), Reggio Emilia, Musei Civici. Tratto da: Il Portico dei Marmi, a cura di C. Franzoni, Musei Civici di Reggio Emilia, 1999 (foto G.M. Codazzi).

Cippo di etĂ romana adattato da Sigismondo Malatuzzi (1522), Reggio Emilia, Musei Civici. Tratto da: Il Portico dei Marmi, a cura di C. Franzoni, Musei Civici di Reggio Emilia, 1999 (foto G.M. Codazzi). 40


Sezione Casino dell’Ariosto in Villa S. Maurizio (acquisizione e ristrutturazione da parte del Comune), Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442.

La facciata del Casino dell’Ariosto, vista dai quattro punti cardinali (acquisizione e ristrutturazione da parte del Comune), Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442. 41


LUOGO NON LUOGO: L’ARITMIA DEL MAURIZIANO

“E allora il suo Mauriziano, raccolto e chiuso come in un estatico sogno di pace, cullato al suono di un vicino ruscello e lieto della variopinta meraviglia di un fiorito giardino, sorgeva fra il rimpianto infinito delle memorie come l’asilo della sua giocondità perduta e delle sue speranze svanite”. Con parole di questo tenore il 27 febbraio 1927, aprendo con largo anticipo il ciclo commemorativo per il IV Centenario della morte dell’Ariosto (6 luglio 1933), lo studioso Giulio Bertoni si rivolse alla città di Reggio dal pulpito della Sala del Tricolore.27 Ad invitarlo era stato il Podestà, Gr. Uff. Giuseppe Menada, a nome del Comitato per le celebrazioni ariostesche nominato appositamente. In realtà sin dal 1924 la prima amministrazione fascista guidata dal Sindaco Paolo Petrazzani, in cerca di allori simbolici, aveva puntato le proprie carte sul riordino del “Mauriziano” (nella letteratura dell’epoca risulta in disuso l’appellativo di “Casino dell’Ariosto”).28 Questo insigne testimone di gloria cittadina è lasciato in vergognoso abbandono; e non è la prima Amministrazione Comunale Fascista che possa assumersi la colpa di ignorarlo. […] E sarà un giorno di vera gloria quello nel quale uno dei più grandi geni avrà il rinnovato omaggio dei nipoti e della Città che ebbe l’altissimo onore di dargli i natali. Potrebbe in quell’occasione essere inaugurato anche, come simbolico parto della rimembranza per tutti i Caduti del Comune, un viale di allori tra l’arco esistente e il Mauriziano […].

Gli argomenti retorici utilizzati sono gli stessi di sempre: per un verso la denuncia della trascuratezza, ovviamente da imputarsi alle amministrazioni precedenti, dall’altro canto la promessa di un avvenire “onorato”, da ancorarsi in questo caso (siamo nel ciclo monumentale seguito alla Vittoria, ancorché “mutilata”) al ricordo dei “Caduti”. C’era però un asso nella manica pronto ad essere calato, in sede di bilancio comunale: la costruzione di un edificio scolastico per la Villa di S. Maurizio, in modo da liberare i locali 27

27 febbraio 1927, Giulio Bertoni, Ludovico Ariosto. Conferenza tenuta nella Sala del Tricolore di Reggio Emilia il 27 Febbraio 1927, Quaderni de “La Provincia di Reggio”, Istituto Editoriale Librario Emiliano, Reggio Emilia, 1927.

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Documento dattiloscritto senza data né titolo, porta il timbro del 25 gennaio 1924, Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442.

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del Mauriziano occupati ormai da decenni per questo uso. Non rimasero parole al vento. All’inaugurazione – “per l’illuminata volontà di Chi ora regge i destini della nostra Patria”, si legge nel resoconto ufficiale del discorso vescovile – si arriverà nel giugno 1926.29 Ma se la presenza nel Mauriziano della scuola e degli scolari, come volle sottolineare il Sindaco nel proprio discorso pronunciato nel corso della adunanza del 7 dicembre 1924, costituiva la “completa negazione di ogni norma di igiene e di proprietà scolastica”, l’accento fu posto piuttosto sulla circostanza che tale convivenza danneggiava “gravemente” l’edificio medesimo.30 Il Mauriziano aveva da essere svuotato per dar vita – sulla scorta di quanto si stava facendo con Dante a Roma, come spiegò a più riprese l’Assessore alla pubblica istruzione Vincenzo Ferrari – alla “Casa dell’Ariosto”.31 Uno tra gli argomenti utilizzati al fine di perorare la causa museale – ancorché, si teneva a precisare, non un “museo chiuso, un’istituzione statica” – fu quello di rifarsi agli antecedenti; “l’idea di avere un Conservatore”, argomenta Ferrari nel corso di un’adunanza del Comitato per le celebrazioni del IV Centenario della morte di Ludovico Ariosto, “venne ventilata fino dal 1867”.32 In effetti, lo si evince da una serie di missive particolarmente critiche sullo stato del sito indirizzate ai sindaci, dopo l’acquisizione comunale fu insediato nel Mauriziano il “Maestro Elementare” Attilio Bovardi; il quale si fregiava però, in coerenza con le sue funzioni, del titolo di insegnante ed anche custode, non di conservatore.33 Nonostante le premesse, e pure le solenni promesse, l’esito museale – come già era accaduto nella congiuntura politica unitaria – verrà mancato pure da un fascismo che, se tutto poteva sulla carta, dal 29

Discorso di S. E. il Vescovo Cottafavi, dattiloscritto, s.d., Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442.

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Seduta consiliare del 7 dicembre 1924, Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442.

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Si vedano due documenti d’indirizzo posti all’attenzione del Sindaco (non ancora Podestà) Menada in data 16 luglio e 27 novembre 1926, Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442.

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9 maggio 1928, Seduta del Comitato per le celebrazioni del IV Centenario della morte di Ludovico Ariosto; Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442.

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Le criticità sullo stato del “Casino dell’Ariosto” segnalate dal Bovardi – che si firma “Custode” e non conservatore – toccano i più svariati argomenti, dalla manutenzione dell’edificio, allo stato degli scoli idraulici, alla convivenza con le proprietà vicine e allo stesso parroco. Vale qui di richiamare una missiva inviata al Sindaco in data 15 aprile 1868: “Molti forestieri che hanno visitato il luogo hanno fatte le meraviglie, come l’illustre Municipio lo lasci andare in tal modo dopo che lo ha comperato collo scopo di onorare l’insigne poeta di Reggio”.

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punto di vista culturale nel IV centenario riuscirà giusto a produrre una Mostra documentaria e (per gli “intervenuti”), una Guida al Mauriziano.34 Il fallimento sostanziale di quel ciclo commemorativo si manifestò nonostante l’investimento politico e l’insieme non banale delle risorse finanziarie poste a disposizione, sia per l’edificio scolastico sia per la nuova decorazione dell’Arco e il restauro degli ambienti interni. La circostanza domanda un momento di meditazione. Una prima fragilità va ascritta alla retorica impugnata. Nell’argomentare di Ferrari, preoccupato di organizzare una dimora ove raccogliere “l’essenza spirituale”, come dello storico Antonio Balletti assai compreso nel perorare la “italianità” dell’Ariosto – giusto per citare due tra gli intervenuti all’adunanza del Comitato – emerge infatti un genere di discorso pertinente più ai morti che ai vivi. Quando la suggestione del Mauriziano vive, ieri come oggi, nel respiro chiaroscurale che intercorre tra letteratura e geografia, ovvero nel paesaggio. Il Mauriziano non è un posto da venerare, ma da abitare: lì è il solo canone possibile, e l’ha fissato a suo tempo l’Ariosto in persona. Ciò che spiega come ogni suo trattamento in chiave topologica risulti sempre suggestivo, anche quando si tratti di un semplice avvicinamento al luogo.35 In altri termini. Se al Mauriziano si va cercando la rivelazione del genius loci, occorre assecondare una postura che domanda di camminarvi dentro, consapevoli che non vi è nulla da “acchiappare”, ma solo da ascoltare per incontrare. L’aritmia di un respiro, nell’immagine sopra evocata, si “sente” nei silenzi come nelle voci. Forse risiede qui, piace pensarlo, il motivo profondo che ha fatto di questo – a varie riprese: prima come scuola elementare, nel secondo dopoguerra come scuola d’infanzia gestita straordi-

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Il Mauriziano, Guida alla visita del monumento e alla mostra, Omaggio del Comune di Reggio nell’Emilia agli intervenuti alla celebrazione Ariostesca – 18 giugno 1933-XI, Officine Grafiche Fasciste, Giugno 1933 – XI. In compenso, e va annoverato tra i tanti risvolti umoristici di un Regime che non si peritò di coprirsi di ridicolo, il Fascio Giovanile di Combattimento di Villa S. Maurizio nel 1935 avrà la costanza di impegnare per mesi le burocrazie politiche e ministeriali allo scopo di utilizzare il cortile appresso al Mauriziano per le esercitazioni del Sabato Fascista (missione compiuta!); cfr. Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442.

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Rientra in questo nuovo “gusto” per il luogo la scelta da parte del medesimo Bertoni di illustrare la propria lezione con l’incisione del Rados. Si veda poi l’articolo di Aldo Cerlini, Dove nacque l’Orlando Furioso, “Le Vie d’Italia”, Rivista mensile del Touring Club Italiano, a. XXXVII, n. 1, gennaio 1931 (anno IX), pp. 31-38, nel quale l’autore, proprio lavorando sul gioco di specchi tra rivelazioni e misconoscimenti, riesce a ricreare una poetica del luogo anche laddove s’imbatte in un presente desolato (come nel caso del “ponte pelato”, sulla via Emilia).

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nariamente dal Comitato di Liberazione Nazionale – un luogo di educazione. La bellezza del Mauriziano, non canonica, soggioga senza disvelarsi: è un bene sostenibile, da rigenerare.

Villa, Casino o Mauriziano se ne sono occupati fior di notabili: il Sindaco Manodori, 1864 e il Sen. Prampolini, 1933, Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 442. 45


“Continuazione al maestro Attilio Bovardi dell’incarico di Custode del Casino dell’Ariosto in S. Maurizio”, Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, busta 443, Fascicolo 3°.

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“Progetto per lavori di consolidamento e di adattamento nel fabbricato detto dell’Ariosto – Rinnovazione dell’affittanza col Consorzio delle Bonificazioni Reggiane”, Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia, Busta 418, Fascicolo d’archivio: Fascicolo 3°, 11.5.38.

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«PRO BONO MALUM». LUDOVICO ARIOSTO E IL SUO MONDO Carlo Baja Guarienti storico, professore a contratto Università di Ferrara

La generazione di Ludovico Ariosto assiste alla fine di un mondo. Se è vero che quasi ogni generazione vive almeno un momento storico che per qualche circostanza – politica, sociale, economica, ambientale – sembra preludere a radicali mutazioni nell’ordine delle cose, in alcune occasioni questo senso di precarietà, quasi un’Apocalisse permanente, ha trovato un drammatico riscontro negli eventi. E la generazione di Ludovico Ariosto, nato nel 1474, ha realmente assistito alla fine di un mondo: quello dell’Italia del Quattrocento, culla del Rinascimento. Nel 1494 la discesa di Carlo VIII di Francia, intenzionato a prendere possesso del regno di Napoli risolvendo con la forza una crisi dinastica, disgrega nel giro di pochi mesi il delicato sistema politico italiano, quell’equilibrio – sancito dalla pace di Lodi del 1454 e perfezionato dall’intervento di Lorenzo il Magnifico – in cui ognuno dei piccoli stati costituisce un necessario contrappeso al potere degli altri; quando, oltre sessant’anni più tardi, le Guerre d’Italia si concluderanno, il volto geopolitico dell’Italia sarà radicalmente cambiato con la supremazia della Spagna e la scomparsa di buona parte delle piccole signorie rinascimentali. Il sogno vissuto dall’Italia quattrocentesca, che ha visto la rinascita della classicità attraverso le scoperte dei filologi e una fioritura delle arti mai osservata in precedenza, finisce così con un brusco risveglio: l’esercito francese, il più avanzato dell’epoca sul piano della tecnologia bellica, travolge le città e conquista le fortezze avvalendosi di un’innovazione destinata a mutare per sempre il volto delle guerre in Europa e nel mondo, l’artiglieria pesante. È un risveglio di cui tutti, dall’élite intellettuale al popolo preda dei soldati sbandati nelle campagne, percepisce la drammaticità: l’ultima ottava dell’Inamoramento de Orlando, il poema che inaugura la grande stagione della poesia epica rinascimentale, 49


rappresenta il poeta intento a posare la penna senza sapere se avrà mai la possibilità di riprenderla. Mentre che io canto, o Iddio redentore, Vedo la Italia tutta a fiama e a foco Per questi Galli, che con gran valore Vengon per disertar non so che loco; Però vi lascio in questo vano amore De Fiordespina ardente a poco a poco; Un’altra fiata, se mi fia concesso, Racontarovi il tutto per espresso. (III, 9, 26)

Matteo Maria Boiardo, in effetti, non potrà mai proseguire la sua opera in quanto morirà proprio nel 1494, poco dopo aver assistito all’inizio della guerra. Quando Ludovico Ariosto intraprende la scrittura del suo poema, la guerra è ormai da diversi anni lo sfondo delle vite di buona parte delle popolazioni che vivono sul suolo italiano. Ariosto vive con intensa partecipazione le vicende politiche e culturali del ducato di Ferrara. Il padre Niccolò, amministratore dalla reputazione non proprio cristallina, è portato dai suoi incarichi in ogni zona del complesso dominio estense – da Ferrara a Reggio, dalla Romagna a Modena a Rovigo – e Ludovico stesso avrà modo di osservare ogni angolo dello stato, dagli splendidi palazzi della capitale alla selvaggia frontiera della Garfagnana; questa visione d’insieme, favorita dagli incarichi di corte e da un acuto senso d’osservazione della realtà circostante, si fonderà con le suggestioni cavalleresche per forgiare un’opera in cui si intrecciano invenzione fantastica e richiamo alla tragica contemporaneità. Alla morte di Niccolò, nel 1500, il dramma privato della famiglia Ariosto si inserisce in quello dell’Europa e Ludovico si trova a dover fronteggiare l’evidenza della distanza fra vita e letteratura. Niccolò lascia la moglie Daria Malaguzzi e i dieci figli in cattive condizioni economiche e il poeta, primo della numerosa prole, deve mettere in secondo piano la letteratura per dedicarsi ai primi incarichi di governo e infine mettersi, 50


nel 1503, al servizio del cardinale Ippolito d’Este; nonostante gli impegni pressanti al seguito del cardinale – uomo noto per la durezza e la scarsa sensibilità artistica – sono proprio questi gli anni della scrittura delle prime commedie (La Cassaria e I Suppositi) e, soprattutto, dell’Orlando Furioso. La prima stesura del poema, che vede la luce a Ferrara nel 1516, riflette un immaginario sospeso fra la celebrazione della gloria dei sovrani che si contendono il mondo e la realtà di una guerra combattuta con pezzi d’artiglieria i cui colpi falciano indistintamente uomini e cavalli nella mischia della battaglia: Francesco I, il giovane re di Francia cui gli Este sono legati nelle sorti del conflitto, è imbevuto di ideali cavallereschi celebrati dai suoi poeti di corte, ma lo stesso duca Alfonso I ha nella propria impresa un ordigno fiammeggiante, simbolo incontrastato dell’evoluzione tecnologica in atto. Il Furioso del 1516 – un capolavoro troppo spesso trascurato, come già sottolineava Carlo Dionisotti e come ha ribadito il curatore della nuova edizione critica Marco Dorigatti – trova in Francesco I il suo eroe: all’apparire del re di Francia ogni cavaliere, anche i più valorosi, devono farsi da parte «come cede / tosto ogn’altro splendor, ch’el Sol si vede» (XXIV, 43, 7-8). Francesco incarna il modello della regalità sacra ed eterna, colui che con il proprio valore e la propria nobiltà può rimettere ordine nel caos in cui è caduta l’Europa. Nella profezia esposta da Malagigi nel canto XXIV il re, già nel primo anno del suo regno (1515), dopo aver ucciso il mostro spaventoso che ha devastato l’Europa – l’avidità di ricchezze che è madre di tutti i vizi e origine di ogni male – valicherà le Alpi e percorrerà l’Italia in lungo e in largo mettendo fine alle discordie e piegando inesorabilmente ogni nemico; le sue armi saranno il coraggio di Giulio Cesare, la prudenza di Annibale, la fortuna di Alessandro Magno e la sua «honorata spada». Questa spada, simbolo dei cavalieri antichi, nella realtà cederà il posto alla bomba celebrata dall’impresa di Alfonso I d’Este, ma gli ideali cavallereschi continueranno a lungo a esercitare il loro fascino sui contendenti: ne è la prova più clamorosa la sfida a duello lanciata dall’imperatore Carlo V allo stesso Francesco I un decennio più tardi, dopo 51


la sconfitta francese a Pavia e la vergognosa prigionia del sovrano-eroe in Spagna. Gli echi della guerra presente, filtrati nelle ottave del poema fin dalla prima stesura, diventano più insistenti e assumono toni più drammatici con il passare degli anni. Nei Cinque Canti, che non saranno mai inseriti nel Furioso, la desolazione delle coscienze domina il paesaggio umano e contamina quello fisico: i personaggi, avvolti in un’atmosfera cupa e disperata, tramano nell’ombra sotto l’influsso delle peggiori passioni e il lato più buio della natura umana diventa il tessuto stesso della narrazione. Il destino del mondo non sembra più essere in mano agli eroi, ma alle forze oscure che – spesso attraverso mezzi soprannaturali – tramano per condurre gli uomini alla rovina. L’anno successivo alla pubblicazione dell’Orlando Furioso, il 1517, è l’anno della rottura fra Ariosto e Ippolito d’Este: quando il cardinale si trasferisce a in Ungheria, dove detiene l’arcivescovato di Eger, il poeta raccoglie tutto il coraggio di cui dispone e si rifiuta di seguirlo. Il passaggio al servizio del duca Alfonso I, fratello di Ippolito, rappresenta certamente un miglioramento nella condizione del poeta, ma gli agognati ozi letterari sono ancora lontani. È proprio il duca, infatti, a infliggere a Ludovico un incarico a lui estremamente sgradito, il trasferimento in Garfagnana nelle vesti di commissario. I tre anni (dal gennaio 1522 alla primavera 1525) trascorsi nella regione più arretrata del ducato, la più lontana dalla capitale in termini sia geografici sia culturali e sociali, mettono a dura prova i nervi del poeta: non solo i continui pericoli cui è esposta la sua vita – in una terra in cui i banditi pongono taglie sulla testa degli ufficiali di governo – lo tengono costantemente in allarme, ma l’ufficio è contrario alla sua stessa natura. «Io gli ho compassione», scrive già nell’ottobre 1522 al duca, «io ‘l confesso ingenuamente, ch’io non son homo da governare altri homini, ché ho troppa pietà, e non ho fronte di negare cosa che mi sia domandata». 52


Dall’esilio garfagnino Ariosto dedica al cugino Sigismondo Malaguzzi la Satira IV, in cui l’infanzia reggiana diventa nel ricordo un’oasi di pace nel deserto delle delusioni che la vita gli riserva: Il tuo Mauricïan sempre vagheggio, la bella stanza, il Rodano vicino, da le Naiade amato ombroso seggio, il lucido vivaio onde il giardino si cinge intorno, il fresco rio che corre, rigando l’erbe, ove poi fa il molino.

Il Mauriziano, dimora di campagna della famiglia materna, si trasfigura in un’età dell’oro perduta. Un’età dell’oro in cui i benestanti cugini Malaguzzi, dediti al fiorente commercio della seta, ancora possono vivere in un giusto equilibrio fra attività economiche, prestigio sociale e ozi umanistici. Annibale – proprietario terriero e commerciante, dedicatario delle Satire III e V e nominato nell’Orlando Furioso – ricopre a Reggio diverse importanti magistrature e suo figlio Orazio – cortigiano a Ferrara, ambasciatore in Spagna presso Filippo II e poi uomo di fiducia di Pio V – scriverà un Discorso sopra i cinque maggiori potentati del mondo e una De turcico imperio dissertatio, mentre il già citato Sigismondo è colui che crea nel parco del Mauriziano una celebre passeggiata antiquaria in cui il signore e i suoi colti amici possono conversare di filosofia e letteratura attorniati dalla natura e dai monumenti sepolcrali solo recentemente emersi dal sottosuolo e fatti oggetto di un raffinato collezionismo. A Ludovico questa vita da gentiluomo agiato non sarà mai del tutto accessibile, ma gli ultimi anni sono – paragonati a quelli trascorsi al servizio del cardinale Ippolito e in Garfagnana – sereni. Nel 1525, finalmente ritornato a Ferrara, il poeta è investito di cariche non troppo gravose a corte e può fare ritorno alla vita che gli è più congeniale: cura festeggiamenti e allestisce spettacoli teatrali, trascorre le serate in banchetti e conversazioni con gli umanisti riuniti nella capitale, accompagna 53


il duca Alfonso in visite ufficiali e incontra anche l’imperatore Carlo V. Soprattutto, ha il tempo e la serenità necessari per dedicarsi alla redazione definitiva del suo capolavoro: l’Orlando Furioso esce nella terza e ultima versione (una seconda è stata completata nel 1521) a Ferrara nel 1532 e va incontro a un rapido e duraturo successo. Non solo diverrà subito un modello imprescindibile per la poesia epica successiva, ma viaggerà in lungo e in largo per l’Europa venendo ristampato, tradotto in diverse lingue, rielaborato, riassunto, cantato dai cantastorie girovaghi nelle piazze e imparato a memoria da artigiani e contadini. Gli anni di guerra, tuttavia, hanno nel frattempo lasciato un segno indelebile sull’Italia, sui suoi abitanti e sul poeta. Nel 1525 Francesco I di Francia, grande alleato dei duchi d’Este ed eroe del Furioso, è stato sconfitto a Pavia e portato prigioniero in Spagna da Carlo V, nel 1527 la capitale della cristianità ha subito per mano dei lanzichenecchi imperiali un oltraggio – il «sacco di Roma» – destinato a rimanere come un trauma nella memoria della città eterna e nel 1530 lo stesso Carlo V, già re dei romani dal 1519, riceve la solenne incoronazione da parte di papa Clemente VII nella chiesa di San Petronio a Bologna: le Guerre d’Italia dureranno ancora a lungo, fino alla pace di Cateau Cambrésis del 1559, ma è già chiaro chi sarà a dominare la scena politica italiana. Il nobile e cavalleresco Francesco I è ormai, sostanzialmente, un sovrano sconfitto. Il 6 luglio 1533, pochi mesi dopo la pubblicazione del Furioso, Ludovico Ariosto muore lasciando due figli, Giovanni Battista e Ludovico, entrambi nati dagli amori extraconiugali con due domestiche. Se la chiusura del poema di Boiardo era stata segnata dall’irrompere della guerra, quella dell’Orlando Furioso è uno scontato e quasi obbligato lieto fine con una punta di amarezza. Ruggiero e Bradamante si sposano dando un mitico inizio cavalleresco alla genealogia estense e gli ultimi versi sono dedicati all’uccisione in duello del feroce moro Rodomonte, la cui anima «che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa» fugge bestemmiando «alle squalide ripe d’Acheronte», ma le tre parole latine che seguono l’annuncio della fine sono un amaro epitaffio per il poeta e per l’uomo: «pro bono malum», come a dire che in ogni tempo – ma particolarmente in alcuni – non c’è gratitudine per chi dona bellezza al mondo. 54


LUOGHI DELLA VITA: L’ARIOSTO E IL MAURIZIANO Aurelia Fresta socio effettivo Deputazione di Storia Patria per le Antiche Province Modenesi - Sezione di Reggio Emilia

Il Mauriziano, la villa di campagna di proprietà della famiglia Malaguzzi alla quale apparteneva la madre di Ludovico Ariosto, ospitò il poeta nei mesi estivi dell’infanzia e della fanciullezza e, ancora, intorno al 1502-1503 in occasione del suo soggiorno a Canossa come capitano della rocca per mandato degli Estensi. L’edificio rappresentò quindi, da parte del poeta, un’esplicita scelta affettiva, che si manterrà costante nel tempo, attestando come, indipendentemente dalla nascita, Ariosto appartenga in effetti e di diritto alla storia reggiana. Tra i luoghi della sua vita, il Mauriziano è uno dei monumenti più significativi per chi voglia osservare da vicino la sensibilità del poeta e comprendere ciò che unisce il suo estro creativo alla mentalità dell’epoca. La citazione nella satira IV, diretta al cugino Sigismondo Malaguzzi e scritta nel 1523 quando il poeta, su incarico di Alfonso d’Este, rivestiva il governatorato della Garfagnana, rimpiangendo una precisa età della sua esistenza sviluppa, intorno al Mauriziano, il tema del luogo ideale, ricco di affetti e memorie, che influenzò la formazione dell’artista come simbolo dell’ambiente famigliare, del ceto sociale in cui si sviluppò la sua educazione, della vita culturale che vi si svolse per volontà dei Malaguzzi. Il conte Nicolò Ariosto, ferrarese, di antica e illustre casata, al servizio della corte estense, nel 1472 assumeva l’incarico di capitano della Cittadella di Reggio per conto del duca Ercole. Il soggiorno reggiano avrebbe segnato la sua vita. Si sposò nel 1473 con Daria Malaguzzi, che aveva circa la metà dei suoi anni, nobile, ricca, appartenente a una delle migliori famiglie della città, negli anni una presenza preziosa al suo fianco. Figlia di Gabriele, dottore in filosofia e medicina, la troviamo iscritta, con parenti e servitù, in un censimento dell’agosto di quell’anno, come abitante nella parrocchia di S. Maria Maddalena (che comprendeva la zona intorno alla chiesa e al convento che erano posti nell’attuale 55


piazza Fontanesi), nel quartiere di Porta Castello (nell’area tra le vie Squadroni, del Folletto e del Cristo), in un palazzo che era stato di proprietà di Valerio Valeri, uomo di grande disponibilità economica e nonno di Daria, avendone Gabriele Malaguzzi sposato la figlia Taddea. A Reggio, inoltre, Nicolò Ariosto fece fortuna accumulando denaro che investì in case e terreni ad Albinea, Minozzo, Gavasseto e nella zona di S. Maurizio, vicino alle proprietà dei cognati, tra le quali era compreso anche il Mauriziano, giunto loro proprio attraverso l’asse ereditario del Valeri. Ma fu l’otto settembre 1474 che accadde l’evento per il quale il conte Ariosto sarebbe stato più ricordato: gli nacque, probabilmente nel palazzo di Cittadella, il primogenito Ludovico, che avrebbe dunque soggiornato nelle prime estati della vita nella villa di campagna dei parenti materni. Negli anni reggiani Nicolò e Daria ebbero altri quattro figli: Taddea Giovanna, Gabriele, Laura Margherita e Giulia Giovanna. Nel gennaio 1481 Nicolò Ariosto, alla scadenza del suo mandato, lasciava Reggio e alla fine della primavera di quell’anno era nominato capitano della rocca di Rovigo. Ludovico aveva sette anni e, con la famiglia, si sarebbe fermato nella nuova città giusto il tempo per vivere un’esperienza di guerra. Nel maggio del 1482, infatti, Venezia attaccava lo Stato estense per conquistarne territori; Ferrara, pur potendo contare su una larga rete di alleanze, giungeva impreparata allo scontro. Venezia era invece forte: aveva dalla sua parte, tra gli altri, il Papa e, al suo soldo, le più valenti compagnie di ventura e i più abili condottieri, uno dei quali si diresse proprio verso Rovigo. Per Nicolò Ariosto la situazione si fece complicata, avendo pochi soldati a disposizione e perché il Duca, al quale aveva chiesto rinforzi, di fatto non lo ascoltò. Gli abitanti, alla fine di agosto, si arresero a Venezia e lo stesso fece il capitano che, in fretta, lasciò Rovigo per Ferrara, mentre Daria e i figli, intanto aumentati di numero e diventati sei, si rifugiavano a Reggio, forse proprio nella grande casa del Mauriziano, dove più tardi li avrebbe raggiunti Nicolò, in attesa di tempi più tranquilli, che arrivarono alla metà di gennaio del 1484, quando venne nominato tesoriere generale della milizia e si trasferì con la moglie e i figli a Ferrara. 56


Dopo una vita e una carriera da funzionario ducale, il vecchio conte Ariosto morirà durante il carnevale del ‘500, lasciando al primogenito Ludovico la responsabilità di una numerosa famiglia. Le rendite dei poderi paterni si rivelarono inadeguate e, cercando nuove fonti di guadagno, il poeta ottenne dal Duca l’incarico di capitano della rocca di Canossa, che avrebbe raggiunto nell’estate dell’anno seguente. Ariosto tornava così nel reggiano, in un periodo di pace che riduceva i suoi impegni, consentendogli, quando scendeva in città, di sostare, nella campagna vicina, proprio al Mauriziano, ospite dei Malaguzzi, dove ritrovava un ambiente che invitava alla poesia, iniziata a coltivare a Ferrara. Più avanti nel tempo, con rimpianto e gratitudine annoterà Già mi fur dolci inviti a empir le carte/ li luoghi ameni, scrivendo, come lui stesso dirà, in più d’una lingua e in più di un stile, non solo versi latini quindi, ma anche rime in volgare, e leggendo, con i classici antichi, storie di cavalieri, così vicine alla sua fantasia. E nella memoria del poeta il soggiorno a Canossa e il tempo trascorso al Mauriziano diventeranno un unico ricordo, un tempo lieto da rammentare con nostalgia e piacere (Erano allora gli anni miei tra aprile/ e maggio belli), un periodo della giovinezza certo rallegrato anche da esperienze d’amore, delle quali però ben poco sappiamo. Forse proprio al Mauriziano conobbe la seducente Lidia, giovane reggiana dagli occhi incantevoli, a cui il poeta dedicherà un epigramma e un carme, quest’ultimo attribuito ai primi tre anni del ’500, quindi in coincidenza con il periodo canossano, e che consente, in qualche modo, di ricostruire la storia d’amore vissuta nella nostra città tra Ludovico e la ragazza, partita poi improvvisamente, senza preavviso, e alla quale Ariosto chiede di tornare. E poi Teresa, in cui qualcuno ha voluto riconoscere Ippolita Teresa Malaguzzi, cugina del poeta e forse identificabile con Lidia stessa, e Giulia, di nobile famiglia reggiana, appassionata di musica e canto. Nel 1502 ebbe un figlio da una serva di nome Maria. Nel giugno 1503, alla fine del suo incarico, Ariosto lasciò Canossa. Lo attendeva ancora un soggiorno a Reggio e un periodo gioioso al Mauriziano; poi, il ritorno a Ferrara, dove inizierà per 57


Ludovico una nuova storia, spesa frequentemente nelle incombenze e fatiche quotidiane, però con la consapevolezza, che mai abbandonerà il poeta, che la poesia era un’altra cosa, separata dalla vita e dai suoi fastidi, e da ritrovare altrove, così come era successo un giorno nella pace del suo Mauriziano.

NOTA BIBLIOGRAFICA ESSENZIALE AA.VV., Lodovico Ariosto: il suo tempo, la sua terra, la sua gente. Atti del Convegno di studi organizzato dalla Deputazione reggiana di Storia Patria per le antiche province modenesi, Sezione di Reggio Emilia, nel quinto centenario della nascita del Poeta, Reggio Emilia 1974, e Catalogo della Mostra documentaria, Reggio Emilia 1974. M. Catalano, Vita di Ludovico Ariosto, Ginevra 1931. N. Campanini, Di Lidia, in “Il Solco Fascista”, giugno 1933. A. Baldini, Ariosto e dintorni, Palermo 1958. A. Flamini, R. Marangoni, Ariosto. Una biografia esemplare, Milano 1989.

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CAMMINARE TRA I LUOGHI ARIOSTESCHI Fabrizio Anceschi socio effettivo Deputazione di Storia Patria per le Antiche Province Modenesi - Sezione di Reggio Emilia

Non ha lasciato molte tracce di sé Ludovico Ariosto nel Reggiano. Possiamo provare a ripercorrerne i luoghi, sulla scia di orme talora labili, ma le urgenze del presente e il trascorrere delle generazioni rendono evanescenti in terra reggiana la presenza e le frequentazioni del nostro più insigne letterato. Tanto che, se qualcosa vogliamo sapere, è usuale ritornare a quanto di sé scrisse lui stesso nella Satira IV. Già ci sfugge dove nacque. Conosciamo con precisione la data di nascita, l’8 settembre 1474, ne custodiamo l’atto di battesimo nell’Archivio della Cattedrale e ci è noto che la madre, la giovane reggiana Daria Malaguzzi, appartenente ad una delle famiglie nobili di maggior lustro in città, si era sposata l’anno prima con Nicolò Ariosto, ma il luogo del parto ci sfugge. C’è chi sostiene che il futuro poeta non potesse vedere la luce se non in Cittadella, il recinto fortificato ora occupato dai giardini pubblici, che Feltrino Gonzaga aveva fatto erigere nel 1339 per “difendersi dai Reggiani” e che aveva comportato l’atterramento di un intero quartiere popolato da cittadini (da questo momento sudditi) di estrazione popolare, infliggendo la ferita più profonda all’assetto urbano che Reggio dovette subire nell’ultimo millennio. Qui, infatti, nel palazzo antico sopravvissuto alla distruzione dei Gonzaga per ospitare il signore della città, dimorava oltre un secolo dopo il Capitano della Cittadella, Nicolò Ariosto appunto, a capo di una modesta guarnigione di soldati per conto del duca estense. Qui, dunque, e non in quel “palazzo nuovo” che sarà costruito dopo il 1480, quando ormai Nicolò era stato assegnato ad altri incarichi e che forse fu pensato da Biagio Rossetti, l’autore a Ferrara dell’“addizione erculea” che raddoppiò la superficie urbana dell’allora capitale ducale. Ma, si obietta, è credibile che una giovane reggiana, di nobile famiglia, si accingesse al suo primo parto in un ambiente militare, fra soldatesche rozze e volgari? La Cittadella, in ogni modo, con la sua osteria, il mulino, il forno, le stalle, i depositi e con una 59


officina per le armi nutrì di certo la fantasia del piccolo Ludovico, che farà tesoro di quelle immagini della sua infanzia quando proporrà alla corte estense i duelli dei suoi “cavallieri antiqui”. Un cippo ignoto ai più e le statue dell’Ariosto e del Boiardo, opere dello scultore reggiano Riccardo Secchi, un tempo sotto il loggiato di Palazzo del Monte, restano a ricordare i secoli passati, prima che la Cittadella venisse demolita a metà Ottocento. Ma, se non in Cittadella, dove nacque Ludovico? Forse in casa Valeri, in un edificio non più esistente all’angolo tra le attuali vie Fornaciari e Squadroni, che già era stato abitato dal nonno di Daria, Valerio Valeri, un ricco gentiluomo reggiano il cui padre era stato mercante e banchiere a Parma, e dove ancora la madre Taddea avrebbe potuto assistere con agio la partoriente. La stessa Daria del resto figura residente in quel palazzo poco prima di sposarsi e, per le riserve prima avanzate a riguardo della Cittadella, potremmo pensarlo come “culla” più accogliente per il nascituro, protetto da serve e domestici di una ricca famiglia. Però, per chi era dotato di buone disponibilità economiche, le alternative non mancavano e, in assenza di riscontri sicuri, non si può escludere una terza possibilità, che peraltro i biografi del poeta ritengono la più debole. Taddea Valeri aveva sposato Gabriele, dottore in filosofia e medicina, membro della famiglia Malaguzzi, che era proprietaria di un palazzo trecentesco, ristrutturato nel corso dei secoli ma ancora oggi in bella evidenza, con il suo prospetto di colore giallo in piazza del Duomo. Una dimora importante, dunque, che le fortune della famiglia consentirono di ampliare, congiungendolo con un’altra casa lungo l’attuale vicolo delle Rose, e che si innalzava proprio nel cuore della città, dove il potere civile e quello religioso trovavano la loro usuale collocazione. E ci piace pensare che il piccolo Ludovico, affacciandosi talvolta da una delle finestre del piano nobile, fosse attratto dal vociare dei mercanti reggiani che, sotto un portico quasi doppio rispetto a quello attuale, facevano affari vendendo pesce e granaglie sul lato settentrionale della piazza, sorvegliati in modo discreto dalla cattedrale, la cui facciata era decorata di altorilievi e di affreschi dai colori vivaci nella parte superiore, mentre la base, di grigio macigno, si offriva alla vista massiccia e uniforme.


A fianco, la chiesa di S. Giovanni Battista custodiva l’unica vasca battesimale cittadina; non era però ancora inglobata nel palazzo vescovile quando Ludovico neonato vi fu portato per il Battesimo, ma sorgeva isolata, al centro di quella “platea parva” che i banchi dei venditori animavano quotidianamente. Solo sul finire del secolo XV il vescovo Arlotti innalzerà il nuovo palazzo dell’episcopio allineandolo con la facciata della cattedrale e inserendovi il Battistero, trasformando il lato orientale della piazza come è tuttora, ma come poté vederlo anche l’Ariosto quando tornava a Reggio, soprattutto nei primi anni del ’500. E se nel vicino palazzo del Podestà la tortura della corda, cui potevano essere sottoposti i malcapitati che finivano sotto gli artigli della giustizia, fece talora rabbrividire Ludovico bambino, era certo motivo di gioioso stupore l’orologio pubblico che dal 1481, ben visibile dalla piazza, ritmava il tempo della città: allo scoccare di ogni ora, infatti, gli automi dei re Magi uscivano processionalmente per inchinarsi davanti alle figure a tutto tondo della Madonna e del Bambino, preceduti da un angelo che suonava la tromba. Del Mauriziano e dei motivi che spinsero il poeta a frequentarlo da bambino e, con scelta autonoma e cercata, da adulto si scrive in altro articolo del volume e non fa conto ripeterlo qui. Così come delle cause, indigeste ma necessarie, che lo condussero fin su a Canossa, per presidiare una rocca le cui glorie erano ormai definitivamente alle spalle, a tal punto che sul finire del Trecento l’allora castellano visconteo aveva profanato la tomba di S. Apollonio, a cui erano intitolati la chiesa del castello e il monastero benedettino, asportandone per breve tempo le reliquie. Erano, però, quelli che l’Ariosto visse a Canossa, anni di relativa pace e la guardia armata che proteggeva la fortificazione di conseguenza poco numerosa; scarsi dunque gli effettivi impegni, relativi all’amministrazione della giustizia, alla riscossione delle tasse, alla vigilanza sui briganti. Restava tempo per scendere di frequente al Mauriziano o comporre rime in latino e in volgare oppure ancora leggere i classici e quella letteratura romanza a lui tanto cara in virtù delle storie cavalleresche che il Boiardo aveva raccontato nell’Orlando Innamorato.

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Nel raggiungere da Canossa il Mauriziano, l’Ariosto avrà però gettato uno sguardo anche verso Albinea. Qui, in località Montejatico, tra il castello e la chiesa vecchia, i cugini Malaguzzi erano proprietari di una bella possessione, con terre “vinate” e “oleate”, condotte cioè queste ultime a oliveto, che dava frutti in questa parte della collina reggiana. Sono “le vigne e i solchi del fecondo Jaco” che il poeta ricorderà con nostalgia negli anni bui della Garfagnana. Nella villa al centro del podere Ludovico si fermava nei mesi estivi, ospite dei parenti, a contemplare la pianura che si stendeva davanti ai suoi occhi, interrotta dal profilo della “ben posta torre”, forse una torre colombaia o un belvedere, che sorgeva isolata a settentrione della dimora signorile e le cui fondazioni talvolta intralciano le arature ancora ai giorni nostri. Ma furono anche motivi economici a legare l’Ariosto al territorio albinetano. Alla soglia dei trent’anni ricevette gli ordini minori, grazie a cui poteva accedere ad esenzioni fiscali e rendite parrocchiali. Fu così che nel 1506 venne investito del beneficio di S. Maria dell’Uliveto, dipendente dalla plebana di Albinea, di cui però non si interessò mai in prima persona, delegando in sua vece un procuratore. Del beneficio stesso peraltro usufruirà per pochi anni: diritti sulla chiesa vantava il conte Ercole Manfredi e per dirimere la controversia Ludovico preferì rinunciarvi, anche perché si stava profilando per lui la possibilità, poi divenuta realtà, di ottenere la più ricca rendita dell’arcipretura di S. Agata, nella diocesi di Ferrara. Ma era ormai il tempo in cui Reggio sempre più si stava allontanando dalle frequentazioni e dagli affetti di Ludovico Ariosto.

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ARIOSTESCHI E MAGGERINI Carlo Baja Guarienti storico, professore a contratto Università di Ferrara Benedetto Valdesalici responsabile Museo del Maggio di Villa Minozzo

[C] Nella sua vita di Ludovico Ariosto, scritta verso la fine del XVI secolo, il ferrarese Girolamo Garofalo racconta che nel febbraio del 1522 il poeta, mentre percorreva tristemente la strada che dalle comodità della città lo portava al governo dell’impervia Garfagnana, si trovò presso Roteglia a passare accanto a un gruppo di uomini armati e dall’aspetto minaccioso. Transitato tutto il corteo, il capo dei masnadieri chiese all’ultimo valletto chi fosse il gentiluomo che attraversava le montagne con un tale seguito e, udito il nome di Ludovico Ariosto, corse «armato di corazza e di ronca» a presentarsi: era Filippo Pacchioni, il noto bandito, e desiderava conoscere di persona il famoso poeta. Poi, «fattogli cortesi inviti, umilmente da lui si licenziò». In anni vicini a Garofalo un testimone d’eccezione, Michel de Montaigne, durante il suo viaggio in Italia si stupisce dei contadini di Empoli che cantano strofe durante il lavoro e racconta che le pastorelle recitano a memoria versi dell’Orlando furioso. Più tardi, giunto ai Bagni di Lucca, il letterato francese conosce una contadina, Dovizia, che pur essendo priva di ogni attrattiva – povera, brutta, di salute cagionevole e analfabeta – compone versi epici alla maniera ariostesca. Interrogata sull’origine di quella vena poetica, la donna apre per un attimo uno spiraglio sulla vita di una famiglia di bassa estrazione sociale nel Cinquecento italiano: Dovizia ricorda che da bambina era solita ascoltare uno zio che leggeva spesso ad alta voce, in casa, l’Orlando furioso. La frequenza di quegli ascolti, quasi una ruminatio ariostesca, aveva plasmato il vocabolario poetico della donna consentendole di comporre a voce versi epici pur non sapendo né leggere né scrivere. L’episodio narrato da Garofalo, dal sapore romanzesco e quasi certamente apocrifo, e le testimonianze di Montaigne ritraggono Ludovico Ariosto così come il suo stesso secolo l’ha visto: un poeta i cui versi non sono noti solamente nelle corti frequentate dai letterati, ma anche e soprattutto sulle strade, nelle campagne 63


e fra le valli appenniniche. Un poeta capace – come già Dante nei secoli precedenti – di viaggiare di bocca in bocca grazie alla lettura ad alta voce e, soprattutto, all’opera di diffusione svolta nelle piazze cittadine e nelle fiere contadine da cantastorie e saltimbanchi. Ma non sono solamente le strofe originali dei poemi ariosteschi a rendere celebri i paladini e il poeta. Nel Settecento a Napoli i cantastorie recitano versi ariosteschi in dialetto, ma già nei decenni che seguono la pubblicazione dell’Orlando furioso l’opera di Ariosto è rielaborata, volgarizzata, adattata alle esigenze di un pubblico vastissimo: i «lamenti» dei singoli personaggi o i compendi – che portano titoli come Bellezze del Furioso – sono letti e ascoltati da artigiani, mercanti e prostitute, ma figurano anche nelle biblioteche di principi e sovrani come Enrico III di Francia, nella cui biblioteca figurano versioni in prosa del capolavoro di Ariosto. Anche Giulio Cesare Croce – l’autore delle storie di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno – compone un Lamento di Bradamante in lingua bolognese e altre opere d’ispirazione ariostesca. Ludovico Ariosto, lettore onnivoro nutritosi dei classici come dei cantari popolari, con la sua opera e con la sua stessa formazione mette in crisi l’idea di una netta distinzione fra cultura «alta» e «bassa» nella prima Età moderna. L’Orlando furioso, del resto, è destinato a rimanere a lungo – assieme ai Reali di Francia, al Guerrin Meschino e ad altre opere d’argomento epico – nel patrimonio di storie condivise e raccontate dalle famiglie, quelle storie che compongono il patrimonio d’immagini e il lessico narrativo del popolo italiano. [B] Una figura simile a quella incontrata da Montaigne a Lucca è ricordata da Niccolò Tommaseo, che nella sua raccolta Canti popolari toscani corsi illirici greci (Venezia 1881) racconta il suo incontro con la poetessa pastora Beatrice Bugelli (1803-1885): benché analfabeta, Beatrice improvvisava con sorprendente facilità ottave in rima. Ed è ancora Tommaseo a fornirci una testimonianza preziosa su come arrivassero alla conoscenza dei grandi poemi questi montanari dell’Ottocento, come il «contadino del Melo che sa pure a mente le ottave del Tasso e versi contro i francesi, e altre cosucciacce stampate». Il riferimento è ai fogli volanti di cui ci parlerà un giornalista pistoiese, Giuseppe Arcangeli, che si 64


trovavano presso tutti i venditori ambulanti, «i panieri dei merciai, che vanno pei castelli e per le borgate […] a vendere le indiane e le mussoline e i fisciù di tutti i colori […]. In quei panieri accanto alle stringhe, ai bottoni da camicia […] trova un posto onorato la letteratura del basso popolo» della quale i poveri montanari fanno tesoro. L’Orlando furioso, così come molti altri poemi epici, entra nella memoria dei lettori e degli ascoltatori, come si è visto per le popolane Dovizia e Beatrice, anche grazie al suo schema metrico: l’ottava rima toscana, composta da otto endecasillabi a rima ABABABCC. Una forma metrica facilmente memorizzabile, che imprime alle parole un andamento ritmico replicabile indefinitamente ed è per questo particolarmente adatta alla recitazione e al canto. Anche se l’ottava rima in sé è relativamente poco usata nel maggio, i maggi di argomento ariostesco – come l’anonimo Rodomonte – con i loro echi puntuali testimoniano l’intensa e precisa presenza del poema nella memoria degli autori. Ma il rapporto fra l’epica ariostesca e la cultura popolare procede in entrambe le direzioni: i desideri e le paure dei popoli – come la paura dei Turchi che attraversa l’Europa mediterranea nel Medioevo – modellano immagini, storie ed eroi che poi sono ripresi nella produzione poetica colta. Come durante la Reconquista gli spagnoli venerano l’immagine di Santiago Matamoros («San Giacomo uccisore dei Mori»), modellata su un’antica leggenda, così in Francia e in Italia le gesta di Carlomagno e dei paladini riemergono nel Rinascimento rivisitate e filtrate attraverso la mutevole sensibilità del pubblico. Incarnando così efficacemente il sentire popolare, l’epica, là dove sopravvive all’avanzare della globalizzazione delle culture, diventa parte integrante dell’identità comune. Così avviene nel maggio, esperienza talmente profonda e condivisa da costruire identità epiche nella gente comune e una genealogia parallela a quella registrata dall’anagrafe: colui che interpreta Carlomagno nel maggio può rimanere «il Re» anche nella vita di tutti i giorni e ci sono persone chiamate dai conoscenti «figli di Gano» in ricordo di una memorabile interpretazione del paladino traditore da parte di un padre o di un nonno. La pratica del maggio, un’esperienza in cui attori e pubblico sono legati dalla comune appartenenza a un sistema culturale, crea così una genealogia sotterranea e una realtà epica parallela a quella – spesso molto meno gratificante – della quotidianità. 65


[C] Il rapporto fra letteratura popolare e letteratura colta fin dall’alba dell’Età moderna è effettivamente fondato su una reciproca osmosi continua: gli autori che scrivono nelle corti leggono nei manoscritti e ascoltano nelle strade l’epica dei cantastorie e questi, a loro volta, leggono gli autori colti restituendo al pubblico dei mercati e dei pellegrinaggi un po’ della stessa materia inventiva, trasformata e rinnovata attraverso il passaggio dalle corti. In alcuni casi questa osmosi è evidente: oltre alle riletture popolari di Ariosto già citate, si pensi a capolavori come il Baldus di Teofilo Folengo o il Gargantua e Pantagruel di François Rabelais con il loro gusto per i lazzi osceni e le abbuffate di cibi da Paese della Cuccagna. In altri casi, l’intarsio di citazioni e suggestioni è meno evidente: un autore cortigiano del Cinquecento può trarre la propria materia da cantari quattrocenteschi che, a loro volta, attingono a leggende agiografiche, storie orientali o lontane reminiscenze classiche. Un gioco di rimandi in cui le grandi storie confermano la propria capacità di sopravvivere attraverso il mutare dei secoli e dei contesti culturali. Un gioco che, in ultima analisi, invita a interrogarsi sui confini del ruolo degli «autori». [B] Questo interrogativo è particolarmente valido per il maggio. Gli «autori» dei maggi hanno sempre attinto alle storie radicate nella cultura dell’Appennino e a quelle consacrate dalla letteratura; allo stesso modo, chi scrive un maggio oggi si ispira spesso alla lettura di un libro o alla visione di un film. Anche gli «autori» di tanti fra i maggi più antichi ancora conservati erano in realtà rielaboratori di componimenti raccolti sul versante toscano dell’Appennino. Ma non solo: durante la stessa rappresentazione il testo del maggio può mutare, subire piccole rielaborazioni a opera del suggeritore o del singolo maggerino. Dunque, con il maggio il concetto stesso di «autorialità» – concetto da noi percepito come centrale nella letteratura colta, che ci appare come una galleria di autori – entra costantemente in crisi. Al centro di questa esperienza collettiva non è l’autore, ma la storia. E le storie, quelle popolari come quelle colte, confluiscono in un grande sistema carsico i cui rivoli a volte scompaiono per lunghi tratti prima di riemergere alla luce del sole ed essere raccolti; per poi, magari, scomparire di nuovo nel sottosuolo per mischiarsi con altre storie e prepararsi a riemergere rinnovati. A 66


questo grande sistema carsico si sono sempre abbeverati tanto i poeti quanto gli autori dei maggi. La conservazione di questo patrimonio di storie era facilitata, fino a pochi decenni fa, da una capacità mnemonica che all’uomo del XXI secolo può sembrare prodigiosa. L’abitudine a narrare e rinarrare, ascoltare e riascoltare costituiva una grammatica della memoria estremamente efficace: si pensi – oltre ai casi già citati da Montaigne e Tommaseo – a Pasquale Marchetti di Sant’Anna Pelago, il cui patrimonio letterario personale era costituito dalla somma di Orlando innamorato, Orlando furioso e Gerusalemme liberata, poemi che era in grado di citare interamente a memoria verso per verso. Oggi la sovrabbondanza di informazioni e la rapidità della loro assimilazione – quotidiani, televisione, radio, internet – ha mutato profondamente il nostro patrimonio mnemonico: alla conoscenza esatta e profonda di un numero limitato di oggetti si è sostituita una conoscenza caotica e superficiale di una miriade di nozioni. Alla nostra mente, abituata ad acquisire con grande rapidità informazioni poi destinate a decadere altrettanto rapidamente, la traccia mnemonica persistente dei versi in rima – imparati spesso durante le lunghe veglie nelle stalle – appare più simile a uno stupefacente virtuosismo che a una conoscenza vera e propria. Il maggio, dunque, è un’eredità di storie e gesti fissati nella memoria popolare da una lunghissima consuetudine. Rintracciarne le origini non è facile: i primi maggi giunti fino a noi risalgono al massimo al Settecento, ma si può ipotizzare che già prima esistessero forme analoghe di rappresentazione. Oltre al dato cronologico, anche il patrimonio genetico del maggio solleva interrogativi cui ancora cerchiamo di dare una risposta. Alcuni ritengono che derivi dai «misteri» o dalle «sacre rappresentazioni», forme teatrali sviluppatesi durante il Medioevo, ma le ipotesi sono molte e, talvolta, decisamente fantasiose. Una scherzosa poesiola sull’argomento recita: Si dice che chi scrisse il primo maggio fu un prete di Gazzano, e lo compose in modo che ogni singol personaggio rappresentasse scene religiose.

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Si cantava alla festa del sacrato e in chiesa dopo la benedizione, ma poi col tempo il maggio s’è cambiato: ora si canta amor, giostra, tenzone. Ma che di noi prima il cantò i toscani vi fu prova a Firenze dai Salani. «Guarda che quel che scrivi non è vero», mi accusa uno, e poi continua e dice: «il maggio a noi provien da quel Ruggiero che degli Estensi fu poi la radice.» «Il nostro maggio», un altro mi dicea ed io mi accingo ad ascoltar con noia quello prosegue, mi parla di Enea e lo fa derivare fin da Troia. Ahi, quanta illusïon guida il pensiero! Ma chi potrà mai dir dove sia il vero?

La poesia cita il filone più diffuso, quello epico, e anche quello – oggi meno frequente, ma un tempo molto rappresentato – religioso: sono numerosi, infatti, i maggi ispirati alle Sacre Scritture e alle leggende cristiane. Ma nel XX secolo il maggio si apre ad altri argomenti: negli anni Venti compaiono i primi maggi d’argomento politico come Il presente e l’avvenire d’Italia, composto nel 1923, che parla del Biennio rosso (1919-1921), degli scioperi e delle battaglie per i diritti condotte da operai e contadini. Tutto ciò che colpisce l’immaginazione popolare può diventare storia e, quindi, maggio. [C] Il maggio dunque è un capitolo, interessante quanto nascosto, nella millenaria storia della trasmissione in forma narrativa di saperi all’interno delle comunità. Il poeta ellenistico Arato di Soli, parlando della nascita delle costellazioni, scrive che se le stelle fossero rimaste puntini luminosi isolati non sarebbe stato possibile dare loro un nome e riconoscerle: 68


per questo qualcuno decise di unirle in forme e collegare queste forme in storie e queste storie in cicli epici. Le storie sedimentate in una comunità racchiudono, spesso, un sapere che attraverso gli artifici mnemonici già citati – la struttura metrica, la rima – sono tramandate di generazione in generazione. L’intreccio di rimandi fra letteratura «alta» e «bassa», «colta» e «popolare», può forse essere inquadrato in questa vicenda più ampia. Ludovico Ariosto e gli anonimi maggerini – ma anche narratori come Giuseppe Pederiali e Raffaele Crovi che in anni più vicini a noi si sono nutriti di queste suggestioni – si lanciano a vicenda una palla che è in gioco da millenni: quella del patrimonio culturale (immagini, trame, aspirazioni, paure) della loro gente.

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LA PRINCIPALE AREA ARCHEOLOGICA DI REGGIO EMILIA NEI LUOGHI DI LUDOVICO ARIOSTO Roberto Macellari ispettore archeologico Musei Civici di Reggio Emilia

Nel contesto del Mauriziano, il tema archeologico non dico sia centrale, ma certo importante. Ci troviamo infatti al centro della più importante area archeologica della città, ancorché invisibile, senza segni esteriori, un’area archeologica misteriosa, che tuttavia ci riconsegna nuove scoperte a cadenze quasi periodiche. Questo ritornare alla luce del passato romano ha radici antiche, essendo iniziato nel Medioevo, e non si è mai interrotto. Uno degli episodi più significativi di questa riscoperta si data proprio ai tempi del poeta, di Ludovico Ariosto, pertanto è mio intento porre l’accento sulla necessità di non dimenticare il ruolo dell’archeologia in qualsivoglia iniziativa volta a valorizzare la memoria dell’Ariosto. Mi rifaccio naturalmente ad altri studi: fondamentale è il lavoro di Mario Degani che, proprio nel cinquecentesimo anniversario della nascita del poeta, in un convegno organizzato dalla Deputazione di Storia Patria riportò per la prima volta l’attenzione sui marmi che abbellivano questa dimora al tempo di Ludovico Ariosto.1 Molti altri lavori ne sono seguiti, fra cui è imprescindibile l’opera curata da Claudio Franzoni sulla storia del collezionismo archeologico nel reggiano, ed alcune tesi di laurea.2 In questa mia sintesi tenterò di fornire un quadro delle conoscenze, invitando gli interessati ai necessari approfondimenti attraverso la consultazione degli studi ora richiamati. Siamo dunque al centro della più importante area archeologica della città, che si prolunga per almeno tre chilometri, prendendo le mosse dall’attuale centro storico. In età romana, l’area occupata attualmente dalla chiesa di San Pietro era già extraurbana e forse già da quel punto iniziava una cortina di monumenti funerari 1

M. Degani, La necropoli romana di Reggio nei luoghi ariosteschi, in “Bollettino Storico Reggiano”, 25, 1974, pp. 61-67.

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C. Franzoni (a cura di), Il “Portico dei Marmi”. Le prime collezioni a Reggio Emilia e la nascita del Museo Civico, Reggio Emilia, 1999.

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lungo la via Emilia, che commemoravano i personaggi più in vista della città, proiettandosi verso Ospizio, San Lazzaro, fino a San Maurizio. È proprio lungo questo asse che le scoperte si sono ripetute già a partire dal Medioevo. Ce ne tramanda la memoria il codice epigrafico di Michele Fabrizio Ferrarini, del XV secolo, una copia del quale si conserva nella Biblioteca “Panizzi”. In esso troviamo la raffigurazione di un sarcofago iscritto di Caius Decimius Philargyrus, rinvenuto con ogni probabilità nell’area di San Maurizio e risalente al I secolo dopo Cristo; in un momento non determinabile del Medioevo, dal luogo del ritrovamento confluì nel convento extramuraneo di San Prospero per servire forse come sepoltura di un personaggio eminente. In effetti l’antica chiesa di San Maurizio era tributaria di San Prospero extra moenia. Da là poi le peregrinazioni di questo pezzo sarebbero continuate fino ad approdare alle collezioni del nostro Museo. L’iscrizione commemora i quattro membri di una famiglia che immaginiamo autorevole, se uno dei suoi esponenti aveva ricoperto la carica sacerdotale di “Apollinare”. Ma arriviamo a tempi più vicini a quelli di cui ci si occupa in questa sede, cioè gli inizi del Cinquecento. È sotto il pontificato di Giulio II, in un terreno di proprietà dei fratelli Erasmi nella zona di San Maurizio, che viene alla luce un altare funerario dedicato da due membri della famiglia dei Metellii, Florus e Florentinus, al padre Caius, un veterano dell’esercito imperiale, ed alla madre Aebutia Priscilla, ma anche al fratello minore, Florinus, scomparso ad appena ventidue anni (il quale, per inciso, si direbbe fosse la celebrità di famiglia, essendosi arruolato nella XII coorte urbana, un corpo di polizia molto scelto nella Roma del II secolo). La circostanza pertinente è che, dopo il ritrovamento, questo altare anziché andare distrutto, come solitamente avveniva in quei tempi, e cioè bruciato per ricavarne calce, fu trasportato nel cuore della città e quindi murato come cantonale nel palazzo degli Erasmi, che sorgeva presso la Basilica di San Prospero. Si potrebbe trattare quindi di un primo esempio, – e, si badi, molto antico, in questo Reggio Emilia era all’avanguardia – di musealizzazione all’aperto. L’intento dei fratelli Erasmi era quello di far godere ogni viandante che passasse nel centro della città di questa memoria di un passato tanto remoto. Addirittura disposero che al testo antico ne fosse aggiunto un altro, sempre in latino, per commemorare 72


le circostanze della scoperta e il ruolo da loro stessi giocato in questa vicenda. Ma veniamo a noi, cioè ai tempi di Sigismondo Malaguzzi, il cugino dell’Ariosto, a cui si deve un’iniziativa ancor più interessante, che in qualche modo si collega ad altri episodi di valorizzazione delle antichità classiche che avvenivano a quei tempi soltanto a Roma. Le ville dei principi della Chiesa, fra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, andavano adornandosi di pezzi antichi: sculture, elementi architettonici, iscrizioni, ma anche monumenti funerari. È proprio questa la moda che Sigismondo, uomo di raffinata cultura, volle importare nella sua piccola ma colta Reggio Emilia. Intese cioè creare un giardino antiquario alla maniera dell’Urbe, dettando addirittura norme e scopi della propria iniziativa, la lex hortorum, a cui si è tentati di collegare una iscrizione che conserviamo in Museo: si voleva regolare l’accesso degli illustri visitatori a questo luogo così evocatore di un’antichità millenaria. In che cosa consisteva l’iniziativa di Sigismondo? Nell’arredare, noi diremmo, il viale di accesso al Mauriziano – quasi che gli spazi fra un pioppo e l’altro fossero assimilabili agli intercolumni di un porticato – con monumenti antichi, gli stessi che venivano alla luce in quegli anni nei terreni di proprietà dei Malaguzzi, o al Mauriziano o nell’area del vicino complesso del San Lazzaro, di cui Sigismondo sarebbe stato rettore nell’anno 1527. Dei quattro monumenti funerari e del miliario che componevano questo arredo, tuttora conservati nelle collezioni del Museo ad eccezione del miliario, uno, molto interessante, è un cippo limitaneo, che doveva cioè permettere al viandante antico di leggere le dimensioni del recinto funerario destinato alla sepoltura dei membri di una stessa famiglia. Nella sua parte superiore leggiamo appunto le misure di questo recinto, dodici per dodici piedi romani, cioè un quadrato di circa tre metri e mezzo di lato. Sigismondo vi aveva fatto aggiungere, nella parte inferiore dello specchio epigrafico, un suo testo in latino, che imita il corpo grafico antico; per ricordare che, questo monumento e gli altri di cui andiamo ad occuparci, erano stati allestiti, noi diremmo, per allietare le passeggiate degli amici.

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Gli amici cui si fa cenno erano i letterati, gli artisti, gli intellettuali, i politici che frequentavano questo luogo nel 1522, perché il cippo è anche datato. Quanto agli altri monumenti del giardino Malaguzzi abbiamo la memoria di un Septimius Nicepor, la tabella che commemora una madre e una figlia, Quincta Nonia e Nonia Quinctula, ma soprattutto la stele a forma di edicola della famiglia dei Pettii, innalzata per volontà di una donna, una liberta, Pettia Ge, di non sappiamo se recenti o remote origini greche, la quale aveva dedicato il monumento a se stessa, al marito, Caius Clodius Antiochus e al patrono Caius Pettius Pylades. Il marito era un marmorarius, come ci documentano fra l’altro gli strumenti del suo lavoro raffigurati sullo zoccolo dell’edicola. Questi quattro monumenti dal viale antistante al Mauriziano sarebbero stati trasferiti sulla sua facciata orientale, quella che guarda verso Modena, la capitale del Ducato, ma anche verso Roma, e lì sarebbero rimasti fino al 1884, quando don Gaetano Chierici decise di trasferirli nel suo Museo di Storia Patria: una lapide all’esterno del Mauriziano ricorda questo episodio. Un’incisione del XVIII secolo, del parmense Luigi Rados, fotografa questa realtà. Le scoperte si sarebbero ripetute. Già nel XVI secolo, probabilmente, la famiglia Favalli, che aveva interessi in questi luoghi (Antonio Favalli fu rettore del San Lazzaro), riporta alla luce cinque monumenti funerari, due dei quali si conservano in Museo, mentre gli altri sono noti solo attraverso la letteratura. Uno dei due tuttora conservati commemora un augustalis, cioè un addetto al culto dell’imperatore, Lucius Herennius Ianuarius. E arriviamo al XIX secolo, quando l’area, che si stava sempre più caratterizzando come luogo di cura con l’ospedale di San Lazzaro, continua a manifestare le sue potenzialità archeologiche. Nel 1845 proprio durante la costruzione dei vari padiglioni del San Lazzaro, in questo caso il padiglione Chiarugi, viene alla luce la stele che commemora una donna, Cornelia Melapio, rinvenuta ancora eretta, cioè ancora in piedi e rivolta alla via Emilia, però a due metri e settanta dal piano di campagna ottocentesco. Fu don Gaetano Chierici a occuparsi di questa scoperta e in seguito a curarne il trasferimento in Museo. Stesso discorso vale per un altro, e più spettacolare, monumento funerario, venuto alla luce nel 1857. Entrambi, ed un terzo cui si accennerà fra un istante, 74


provengono dai terreni del professor Prospero Cugini, un intellettuale del tempo, in stretta relazione con Chierici. Si tratta di un altare funerario che commemora Caius Fundanius Eucharistus, un claudialis, cioè un addetto al culto di Claudio, imperatore benemerito nei confronti dei Regienses, i reggiani di età romana, che non se ne sarebbero dimenticati. Il terzo, altrettanto importante, sia per dimensioni che per qualità, è la stele del seviro Quintus Petronius Felix, che fa seppellire nella sua stessa tomba il fedele liberto Habilis. E con ciò si conclude la parentesi ottocentesca. Ma le scoperte probabilmente più spettacolari risalgono al XX secolo, e sono quelle legate alla costruzione del nuovo edificio scolastico, la scuola elementare Ludovico Ariosto. In quell’occasione l’ingegner Otello Siliprandi, che dirigeva i lavori per conto del Comune, poté rilevare una struttura in pietra di dimensioni straordinarie che ha fatto molto discutere. L’opinione prevalente è che si tratti di un’opera idraulica, cioè una sorta di muro, paragonabile a quello che nel 1865 era stato scoperto a Bologna, il cosiddetto muro del Reno, al Pontelungo, costruito con stele funerarie e altri blocchi in pietra di età romana. L’interpretazione di questa struttura è tutt’altro che univoca: c’è anche chi pensa a tutt’altra destinazione. Una cosa pare certa: questa struttura fu realizzata nell’età tardoantica, più probabilmente nell’alto medioevo, utilizzando blocchi in pietra, o addirittura in marmo, di demoliti monumenti funerari, ma si direbbe anche di altro. L’intento potrebbe essere stato di creare una sorta di “presa d’acqua” per l’irrigazione dei campi circostanti, per di più servita da una strada larga niente meno che cinque metri. Lo smontaggio di questo muro, costruito nell’alto medioevo con pezzi antichi, ha consegnato agli archeologi anche frammenti architettonici che si stenta a ricondurre a tombe, per quanto monumentali esse potessero essere state. Un enorme capitello ionico, dei soffitti a lacunari, cornicioni, addirittura un frammento di arco, si direbbe trionfale, fanno pensare a edifici pubblici e civili, che saremmo indotti a riferire alla città dei vivi piuttosto che alla città dei morti, anche se questo non si può dimostrare. Siamo nel 1925 e lo smontaggio del muro consegna al Museo molte altre meraviglie, fra cui l’epigrafe metrica, un componimento poetico dedicato a una giovane, evidentemente di aspetto molto aggraziato, Tinuleia Musa, che era cresciuta all’ombra di un ricco 75


patrono. Le scoperte in quegli anni si ripetono: nel ’33, questa volta a ovest della chiesa di San Maurizio, viene alla luce una stele dedicata a una donna, Petronia Grata, mentre un’altra stele analoga, scoperta poco prima, dedicata a Lucius Pomponius Felix, commemora un illustre rappresentante del collegio professionale dei cardatori di lane. La lavorazione della lana era una delle grandi risorse di questa città in età imperiale romana. E poi di nuovo, nel ’35, frammenti architettonici di ogni tipo, che vengono alla luce sempre in relazione con il famoso muro. Le celebrazioni per il bimillenario della nascita di Augusto, previsto nel 1937, indurranno le autorità politiche a favorire nuove indagini e quindi nuovi scavi, volendo valorizzare i trascorsi romani di questa città. Fra queste novità una è senza dubbio di grande impatto, un poderoso monumento cilindrico a tamburo, che è stato poi oggetto di successive ricostruzioni nel chiostro del Museo. È la tomba di un militare, di un veterano, forse di un centurione, al quale si è tentati di riferire un’iscrizione che gli restituirebbe un nome, Publius Attiedius, assieme a quello di Salia, la consorte, membri della tribù Pollia, cioè della circoscrizione amministrativa elettorale a cui era ascritta Regium Lepidi. Fra le altre nuove acquisizioni è un bel rilievo con una coppia di coniugi, frammento di un monumento funerario. Gli scavi alle Case Vecchie restituiscono una stele che commemora un intero gruppo famigliare, gli Audaeii, con padre, madre e figli, ma anche i liberti. Ormai siamo giunti ai giorni nostri. Nel 1986, qui in via Pasteur, viene alla luce una stele, di Caius Lucilius e della moglie Saenia Sabina, che conservava ancora e conserva tuttora la base in pietra sulla quale era stata fissata per mezzo di tenoni in piombo. Gli scavi più recenti sono stati condotti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna, in un primo momento nel ’92, poi più continuativamente fra il 1998 e il 2000 proprio di fronte all’ingresso del San Lazzaro e cioè in via Tamburini. In questo ambito sono venute alla luce circa cinquecento tombe, la maggioranza delle quali allineate lungo la via Emilia, con i monumenti funerari rivolti a nord, ma in parte, ed è questa la grande novità, lungo una stradina perpendicolare alla via consolare, diretta a sud, accuratamente selciata, con due file di monumenti funerari che si affacciavano su di essa. Il primo nucleo, quello 76


lungo la via Emilia, conta 219 tombe, il secondo 179. Entrambi i riti funebri, la cremazione e la inumazione vi sono attestati. Molti dei corredi funerari si trovano nei depositi del Museo, in gran parte già restaurati, in attesa di una sede che possa raccogliere questo materiale. Una piccola selezione è già esposta al pubblico in una sala del Mauriziano. Fra i monumenti funerari rinvenuti in questa occasione è la stele figurata con una coppia di coniugi e quella che ricorda un liberto circumlator, cioè noi potremmo dire un “venditore ambulante”, entrambi del I secolo dopo Cristo. La necropoli orientale era sicuramente quella più monumentale, ma non l’unica: dobbiamo immaginarci che qualcosa di analogo – ma sicuramente meno spettacolare – si trovasse lungo la via Emilia verso Parma. La necropoli verso Mutina voleva anche dire verso Roma e quindi il viandante che provenisse dall’Urbe veniva accolto da cortine di monumenti che richiamavano i personaggi più illustri della città. Possiamo dire poco di più sull’organizzazione di questo cimitero: forse che si articolava in grandi nuclei, uno dei quali era all’Ospizio, uno a San Lazzaro e uno a San Maurizio.

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“Si’ caro all’Ariosto” e a noi? Una guida per appaesarsi nel Mauriziano e intendere l’Ariosto



IL SITO GEOSTORICO DEL MAURIZIANO Antonio Canovi geostorico, responsabile scientifico Centro Documentazione Storica di Villa Cougnet

Il Mauriziano se ne sta adagiato “fuori porta”, al di là dal torrente Rodano, la soglia storica che contrassegna a ovest il passaggio dalla città al forese. Prende il nome dalla Villa in cui sorge, con la bella chiesa parrocchiale dedicata a San Maurizio: “di guardia” sul lato nord della statale n. 9 “Emilia”, nei pressi del ponte sul Rodano, tradizionale posto di sorveglianza della città. Non a caso il luogo riverbera la memoria di armigeri e battaglie, da quella combattuta tra austro-napoletani e napoleonici (tuttora ne sono visibili i segni sulla facciata della chiesa) agli scontri consumati nell’imminenza della Liberazione tra partigiani e nazifascisti. Sul lato sud della statale, in sinistra Rodano, sorgeva un importante mulino (detto “dell’Ariosto”) e magazzini di granaglie, quindi la borgata popolare detta “Venezia” per via dei canaletti che la solcavano. Siamo in un territorio storicamente ricco di risorgive e fontanili, come testimonia tuttora la sopravvivenza dell’Ariolo (che funge a ovest da confine del Mauriziano). La collocazione geostorica liminale – alla via consolare che ha generato la regione, al sistema anfibio matrice dell’insediamento padano, alla proiezione storica della città medievale – fa del Mauriziano un luogo baricentrico in relazione alla morfologia della città contemporanea. Qui sta la suggestione primaria del sito: un luogo che si offre al visitatore, nonostante le reiterate significazioni monumentali perseguite dall’Unità ad oggi, come “non finito”. Al Mauriziano, sospesa o incompiuta che ne sia la narrazione pubblica, si continua ad andare. Questa è la notizia. Si va come ad una sorgente pietrificata di poetiche grandezze, verso cui serbare silenziosa ammirazione; ma poi, quando si abbia modo di prestare orecchio all’aritmia di quel respiro, vi si ritorna. Abitare una geografia di confini spazio-temporali. Farne esperienza. Il “non finito” insito nella narrazione del Mauriziano va accolto come il connotato più autentico e originale di un luogo matrice generativo, che sa farsi metafora e proiezione della città contemporanea, per definizione cangiante. 81


ACCESSI AL SITO

L’accesso storico al sito del Mauriziano è sul lato nord, dalla via Emilia, percorribile in via ciclopedonale tra pioppi cipressini: rimane un punto di vista imperdibile, per chi voglia lasciarsi conquistare dal respiro geostorico del luogo. Un secondo accesso ciclopedonale, realizzato a sud-ovest, ha il merito di operare il raccordo “gentile” – per tramite del ponticello in legno che scavalca il Rodano – del Mauriziano con il sistema storico circostante delle risorgive.

Vi è ancora un terzo accesso, a sud-est, pensato per la mobilità su gomma: s’incunea a ridosso del Parco come strada di servizio dei lotti edilizi ivi edificati nel corso degli anni ’70 e ’80. In prospettiva, con la ristrutturazione del fabbricato rurale acquistato dal Comune di Reggio Emilia, costituisce un elemento di criticità che domanderà un intervento di riqualificazione paesistico.

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I MALAGUZZI VALERI Carlo Baja Guarienti storico, professore a contratto Università di Ferrara

Nel 1473, sposando la ventenne Daria, il ferrarese Niccolò Ariosto si lega a una delle più illustri famiglie reggiane: i Malaguzzi Valeri. Il censimento di quell’anno ritrae i Malaguzzi nella casa, ora scomparsa, della vicinia di Santa Maria Maddalena, fra le attuali vie Fornaciari, Squadroni, del Cristo e del Folletto. Il padre di Daria, Gabriele, dottore in medicina e filosofia e poeta laureato, è già morto lasciando un cospicuo patrimonio ai cinque figli avuti dalla moglie Taddea Valeri: Girolamo, Lodovico, Valerio, Matteo e Daria, unica femmina. Assieme a Daria vivono tre dei quattro fratelli con le rispettive famiglie, la nonna Giovanna (vedova del nobile parmigiano Valerio Valeri), la madre Taddea, tre cameriere, quattro servi, la moglie e le tre figlie di un domestico, un fattore e un precettore. Famiglia antica e agiata, i Malaguzzi occupano da tempo un posto di rilievo nella società cittadina, segnalato anche dalla posizione del trecentesco palazzo di famiglia, che guarda l’ingresso del Duomo dal lato opposto della grande piazza. Pietro Malaguzzi, padre di Gabriele e nonno di Ludovico Ariosto, ha fatto parte del consiglio degli Anziani di Reggio fin dal 1402 e anche i fratelli di Daria manterranno alto il nome della famiglia: Lodovico sarà podestà in varie città italiane e Valerio sarà sepolto nel Duomo di Reggio in un pregevole monumento realizzato nel 1510 dal massimo scultore reggiano dei tempi, Bartolomeo Spani. I Malaguzzi conservano per tutto il Cinquecento, grazie alle fiorenti attività commerciali e all’eredità di Valerio Valeri, un’agiatezza e un prestigio sociale sconosciuti alla famiglia Ariosto. I cugini di Ludovico Ariosto sono, al pari di tanti loro antenati, uomini di successo. Annibale, nato nel 1482 da Valerio – fratello di Daria – e da Antonia Tacoli, dedicatario delle Satire III e V e nominato nell’Orlando Furioso, ricopre incarichi di responsabilità a Reggio (tesoriere della comunità, membro del Consiglio degli Anziani, presidente del Monte di Pietà) e prende parte attiva agli 83


scontri fra guelfi e ghibellini dei primi anni del Cinquecento; sposato con Lucrezia Pio, appartenente alla famiglia dei signori di Carpi, muore probabilmente nel 1545. Sigismondo, fratello di Annibale e dedicatario della Satira IV in cui Ludovico Ariosto rievoca con nostalgia le estati trascorse durante l’infanzia al Mauriziano, esercita con successo il commercio di panni in seta, ma è anche podestà di Carpi dal 1519 al 1521; nel 1522, ponendo nel giardino della villa un monumento funebre di epoca romana rinvenuto in un suo possedimento (oggi conservato ai Musei Civici di Reggio), dà inizio alla creazione della passeggiata antiquaria che diventerà uno dei tratti caratteristici del Mauriziano. Nella generazione successiva Orazio, vissuto fra il 1531 e il 1583, è conte di Monte Obizzo e conte palatino; figura di rilievo della corte estense, letterato e cultore di filosofia politica e teologia, viaggia come ambasciatore presso Filippo II di Spagna ed è uomo di fiducia di papa Pio V. A lui si devono importanti restauri al Mauriziano e, probabilmente, la costruzione dell’arco d’ingresso. Orazio è ricordato come uno dei membri più illustri della famiglia Malaguzzi e la sua ambasciata presso la corte spagnola è oggetto di uno degli affreschi che decorano le stanze al piano terra del Mauriziano, voluti nel Settecento da Prospero Malaguzzi per celebrare le glorie proprie e della famiglia. Gli altri affreschi raffigurano l’investitura dello stesso Prospero a cavaliere dell’Ordine di Malta e dell’Ordine di San Giorgio di Baviera, lo scontro sanguinoso fra Malaguzzi e Ruggeri avvenuto nel 1233 nella piazza del Duomo di Reggio, Lodovico Malaguzzi intento ad amministrare la giustizia come podestà di Siena e di Firenze nel Quattrocento e Alfonso Malaguzzi generale delle truppe spagnole imbarcate sulle galee cristiane nella battaglia di Lepanto combattuta contro i turchi nel 1571. Allo stesso intervento settecentesco sono riconducibili alcuni medaglioni con ritratti di avi illustri, fra i quali spicca Ludovico Ariosto.

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LUDOVICO ARIOSTO. LA VITA E I LUOGHI Carlo Baja Guarienti storico, professore a contratto Università di Ferrara

Già mi fur dolci inviti a empir le carte li luoghi ameni di che il nostro Reggio, il natio nido mio, n’ha la sua parte. Il tuo Mauricïan sempre vagheggio, la bella stanza, il Rodano vicino, da le Naiade amato ombroso seggio, il lucido vivaio onde il giardino si cinge intorno, il fresco rio che corre, rigando l’erbe, ove poi fa il molino. [...] Erano allora gli anni miei fra aprile e maggio belli, ch’or l’ottobre dietro si lasciano, e non pur luglio e sestile. (L. Ariosto, Satira IV, vv. 118-123, 130-132)

Così Ludovico Ariosto descrive nella Satira IV, composta nel 1523 in forma di lettera al cugino Sigismondo Malaguzzi, i giorni trascorsi durante l’infanzia al Mauriziano: un’infanzia ormai lontana che il poeta rappresenta come una primavera felice contrapposta all’autunno del presente. Durante la scrittura delle Satire Ariosto si trova, suo malgrado, a governare per ordine del duca Alfonso I d’Este la Garfagnana: il possedimento più remoto, selvaggio e turbolento del ducato di Ferrara, un luogo «vuoto d’ogni iocundità, d’ogni orror pieno» dove il poeta è costretto a occuparsi di «furti, omicidii, odi, vendette et ire», a tenere le redini di una terra dove le bande di predoni sono tanto numerose e agguerrite che i drappelli di soldati durante le ronde non osano neppure «trar del sacco la bandiera». 85


Ludovico Ariosto nasce a Reggio l’8 settembre 1474, primo di dieci figli, dal ferrarese Niccolò Ariosto e dalla reggiana Daria Malaguzzi. Il padre, che ha un passato di intrighi politici orditi fra Ferrara e Mantova, si trova in città dal 1472 come capitano della guarnigione stanziata nella cittadella: un incarico ottenuto grazie alla fedeltà dimostrata a Ercole d’Este l’anno precedente, durante la lotta per la successione al trono ferrarese seguita alla morte del duca Borso. Ludovico nasce forse proprio nella casa del capitano entro le mura della cittadella, che sorgeva nell’area oggi occupata dai giardini pubblici e dal teatro Valli, oppure in una delle case della famiglia materna: il palazzo sulla piazza del Duomo, dove il generale francese Miollis fece apporre una lapide commemorativa il 12 ottobre 1800, o più facilmente quello – ora scomparso – situato nella vicinia di Santa Maria Maddalena fra le attuali vie Squadroni, Fornaciari, del Cristo e del Folletto. L’infanzia di Ludovico è segnata dai trasferimenti dovuti alla tumultuosa carriera del padre: Niccolò Ariosto, infatti, appare come una figura non del tutto limpida e più di una volta è costretto a lasciare gli incarichi prima del tempo. Dopo il periodo alla cittadella di Reggio Niccolò è inviato con un incarico simile a Rovigo, ma deve fuggire quando i Veneziani attaccano la città nel 1482. È poi giudice dei Savi a Ferrara dal 1486 al 1488, ruolo che gli attira l’odio della cittadinanza e accuse di corruzione; capitano a Modena, nel 1496, commissario in Romagna, è sollevato da questo incarico per l’eccessiva durezza nei confronti della popolazione governata. Muore nel 1500. A Ferrara il giovane Ludovico intraprende senza entusiasmo gli studi di legge. Sono gli anni degli studi e delle amicizie con i letterati che frequentano la corte estense, piccolo ma splendido centro di fioritura della cultura rinascimentale: uomini come Alberto Pio da Carpi, Ercole Strozzi e Pietro Bembo. Il ritorno a Reggio è legato alla morte del padre e alle conseguenti difficoltà economiche della famiglia: Ludovico è costretto a trascurare la poesia per accettare i primi incarichi di governo e nel 1501 è capitano della rocca di Canossa. Questo gli dà l’occasione per frequentare nuovamente le case dei cugini Malaguzzi e in particolare il Mauriziano, dove il poeta è ospitato nell’estate del 1503. 86


Alla fine dell’incarico, nel 1503, l’Ariosto ritorna a Ferrara dove prende gli ordini minori ed entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este, fratello del duca Alfonso I, con il quale avrà un rapporto estremamente tormentato. Proprio durante il servizio presso il cardinale, uomo dal carattere difficile e poco incline alla poesia, l’Ariosto lavora alla prima stesura del suo capolavoro, l’Orlando Furioso. Dalle righe di questa prima redazione del poema, pubblicata nel 1516, esce con drammatica evidenza il ritratto di un’età di guerra e violenza che lascerà un segno indelebile nella memoria degli italiani: il poeta appartiene infatti a quella generazione che assiste, con l’invasione francese del 1494, alla fine di un intero sistema politico e culturale d’avanguardia, l’Italia del Quattrocento. Per conto del cardinale Ludovico Ariosto svolgerà difficili missioni diplomatiche, soprattutto a Roma presso papa Giulio II: quando l’Italia è divenuta il terreno dello scontro fra le due maggiori potenze europee del tempo, Francia e Spagna, e la politica filofrancese dei duchi di Ferrara costituisce un rischio costante per la stessa sopravvivenza dello stato. Ma nel corso degli anni trascorsi al servizio di Ippolito d’Este l’Ariosto ha anche modo di rivedere i luoghi della sua infanzia: è a Reggio nell’estate del 1507, nell’autunno del 1510 – come testimoniano sue lettere dalla cittadella un tempo governata dal padre – e nel 1517. In quell’anno Ippolito d’Este si trasferisce a Buda, in Ungheria, ma l’Ariosto si rifiuta di seguirlo: è la rottura e il poeta, in difficoltà economiche sempre maggiori, passa alle dirette dipendenze del duca Alfonso I. Per suo ordine, nel gennaio del 1522, dopo aver fatto testamento l’Ariosto partirà per la Garfagnana dove rimarrà fino alla primavera del 1525. Ritornato a Ferrara, investito di cariche non troppo gravose, può finalmente ritornare alla vita di corte e alla letteratura: come cortigiano sovraintende a festeggiamenti e rappresentazioni teatrali, accompagna il duca in visite ufficiali incontrando anche l’imperatore Carlo V, ma soprattutto cura la redazione definitiva dell’Orlando Furioso. Questa terza versione del poema (una intermedia è stata completata nel 1521) esce a Ferrara nel 1532 e diviene subito un punto di riferimento imprescindibile per la poesia rinascimentale e per la stessa lingua italiana. 87


Pochi mesi dopo, il 6 luglio 1533, l’Ariosto muore lasciando due figli: Giovanni Battista, nato nel 1502 o 1503 da Maria, forse una domestica amata durante il soggiorno a Canossa, e Ludovico, figlio prediletto e poeta a sua volta, nato nel 1509 dalla domestica Orsolina Sassomarino.

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IL MAURIZIANO, VILLA DI SPASSO Vida Borciani guida turistica a Reggio Emilia

… quel podere che fa per i dotti, di questa maniera se lo eleggono i letterati, et vuole essere una mezza giornata, et non più lontano dalla città, et non avere in tutto del selvatico, ma misto…per i forestieri, per il Castaldo et famiglia sua, con le stalle, magazzini, et luoghi agiati per tenere le cose in uso di tutta la casa … v’è l’entrata di casa poi una comoda et breve scala da salire nelle honorate stanze…orti, frutti, pergole, et boschetti, attorno alla casa…

Così il fiorentino Anton Francesco Doni (1513/1574) nel 1565 descrive nella sua opera ”Le Ville” – dedicata a Orazio Malaguzzi …splendor della città di Reggio…, come si legge nel manoscritto recante data 3 novembre 1565, ora conservato presso la Biblioteca Municipale Panizzi – il “Podere di Spasso”, la residenza di campagna deputata agli svaghi di nobili e cortigiani, in cui trascorrere il tempo tra musica, letteratura, arte. La possessione del Mauriziano ha origine dalle acquisizioni di Valerio Valeri, ricchissimo gentiluomo di Reggio, il quale nel 1432 è investito del feudo di Bazzarola dai marchesi Este di Ferrara e costruisce, o più facilmente ricostruisce, magari su preesistenze a carattere difensivo di epoca tardo medievale, come starebbe ad indicare la stretta feritoia sul muro di ponente del Palazzo Vecchio, la corte nota poi come Mauriziano. Quel che oggi permane della villa, è frutto in buona parte dell’intervento di due personalità importanti della famiglia Malaguzzi: Orazio Conte di Monte Orbizzo, vissuto tra 1531 e 1583 e Prospero, vissuto tra 1698 e 1750.

IL PALAZZO DI ORAZIO

A pianta rettangolare, con copertura a spioventi e paramenti esterni in mattoni a vista, all’epoca di Orazio e dell’Ariosto il Mauriziano fu soprattutto un “luogo ameno”: per descriverlo ci serviamo delle rime del poeta reggiano vissuto tra XVI e XVII secolo, 89


stimatissimo dai suoi contemporanei, Alessandro Miari, autore tra le altre, di una Favola Pastorale in cinque atti qui ambientata e intitolata “il Mauritiano”: …per se stesso vago, idoneo ad ospitar ogni spirito gentile... …per gli aprici campi regna Cerere altera e Bacco scorre di maturi racemi coronato per larghi piani e su per gli alti colli, Meraviglia non è, s’ancor d’Arcadia Hor qui si vede boscareccia schiera…

IL PALAZZO DI PROSPERO

Prospero eredita il palazzo dal padre Valerio e decide di intervenire in modo sostanziale sulla struttura architettonica; annulla completamente le preesistenze in tutta la parte centrale, possiamo immaginare per uniformare il palazzo alle mutate esigenze abitative e di gusto. I piccoli ambienti cinquecenteschi, infatti, mal si accompagnavano ai nuovi stilemi improntati alla grandiosità (a fungere da modello era la reggia di Versailles). Si sacrificano così i due piani della struttura originaria per ricavare un doppio volume per il salone dei ricevimenti chiuso da un’unica volta a botte. Anche le finestre sono modificate, diventano più ampie, alte e incorniciate, così come le porte. L’abitabilità, la “misura d’uomo” vi sono dunque sacrificate per esigenze di rappresentanza (come testimoniano gli affreschi che adornano tuttora le pareti del salone d’ingresso del Mauriziano, e di quello a fianco, i due ambienti più vasti tra quelli esistenti).

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LA POSSESSIONE MALAGUZZI VALERI Vida Borciani guida turistica a Reggio Emilia

I possedimenti dei Malaguzzi Valeri nel Reggiano erano numerosi. La possessione in località San Maurizio si estendeva a nord e a sud della via Emilia, con il Palazzo Vecchio, la chiesuola, il Palazzo Nuovo, la fornace, il mulino, la bottega della ferraia attaccata al mulino, diversi casamenti per i mezzadri e per il giardiniere, diversi ricetti per le masserizie e gli animali. Nelle fonti del secolo XVIII il sito prende il nome di “Olmara”, dal contesto alberato nel quale si trovava immerso (all’olmo, nelle campagne emiliane, era tradizionalmente “maritata” la vite).

MULINO

Viene così descritto nell’inventario del 1583, steso dal notaio Claudio Gabbi alla morte di Orazio: ... un molino nella villa di San Maurizio presso il ponte del Rodano con casa et mezza biolca di terra livi attaccata confina le ragioni di M. Paolo Raimondi da mattina et la strada regale de sotto, et de sopra et da sirail detto M. P. Raimondi…con duoi rodi, et un arbore de rota, et tre palmenti et molle numero quattro da macinare, et due altre molle desmisse, et con tre pali de ferro da molino…

ARCO TRIONFALE

Costruito per volere di Orazio a somiglianza di quelli romani, si affaccia per oltre nove metri di altezza sulla via Emilia. Sulla trabeazione, sostenuta da quattro lesene doriche in cotto, originariamente si leggeva “Horatius Malagutius”.

CHIESA

Si dà notizia dell’esistenza di un edificio preposto alle funzioni religiose sia nelle cronache della parrocchiale di San Maurizio che negli atti notarili di famiglia. Leggiamo dal testamento di Gerolamo (1788):

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…un palazzo posto nella villa di San Maurizio, con Casetta da Ortolano, Ghiacciaia e colombario, come pure il Palazzo Vecchio con la Cappella Pubblica…

GHIACCIAIA

Manufatto essenziale per l’autonomia agronomica della possessione, fondamento del ciclo produttivo in grado di conservare le derrate alimentari deperibili, non sempre è citata in quanto probabilmente considerata una presenza ovvia. L’attuale struttura, ricostruita nei decenni scorsi, riprende la forma e la dimensione di quella originale, con la sua struttura circolare ipogea e l’apertura rivolta a nord per garantire all’unico lato fuori terra ed esposto al caldo dei mesi estivi l’affaccio più fresco (l’originale porta d’accesso era un semplice pertugio). Così per la pavimentazione: oggi ricostruita in piano, all’origine dobbiamo supporla concava in modo da permettere il riempimento con ghiaccio e neve anche sotto il piano d’accesso, probabilmente costituito da una passerella lignea.

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LE STANZE DI LEVANTE: IL “CUORE” DEL MAURIZIANO Vida Borciani guida turistica a Reggio Emilia

Franca Manenti Valli, che del Mauriziano ha fatto uno studio approfondito, descrive le tre stanzette di levante come un perfetto esempio di tipologia edilizia cinquecentesca, con forme pure che a differenza di quelle in voga fino a pochi decenni prima rispondono a canoni metrici razionalizzanti, ritmi classici scanditi dalle coperture a vela che poggiano su quattro unghie per lato, creando lunette chiuse da capitelli pensili. Si tratta di tre stanze completamente affrescate: non sono mancati, nel tempo, i conflitti di attribuzione. In un primo tempo, gli studiosi si sono trovati d’accordo nell’attribuirle al noto pittore di origine modenese Nicolò dell’Abate. Ne scrive Naborre Campanini, nel 1883. Vi ritorna sopra Adolfo Venturi, che nel 1933 si dice certo dell’attribuzione per via delle piccole figure che adornano le lunette, così inusuali nella tecnica ad affresco, ma così caratteristiche in Nicolò. Anche la Soprintendenza, con Augusta Ghidiglia Quintavalle, nel 1935 li attribuisce all’Abate. Da ultime arrivano le conferme dell’attribuzione di Armando Quintavalle, nel 1960, con la piena adesione del Bellocchi e di altri studiosi locali. In effetti, grande è la somiglianza con gli affreschi, certamente abateschi, di casa Fiordibelli (in città) e della rocca Boiardesca di Scandiano (qui, in particolare, con il ciclo delle lunette nel “camarino dè poeti” dove si racconta la vicenda di Griselda, tratta dal Decamerone di Boccaccio. Tuttavia la ricostruzione filologica condotta dalla Manenti Valli smentisce tali ipotesi: i lavori furono avviati nel 1552, mentre Nicolò è attestato a Reggio tra il 1540 e il 1542 (quando Orazio era ancora bambino), quindi prenderà la via della corte di Francia (dove morirà, a Fontainebleau, nel 1571).

IL “CAMARINO DE’ POETI”

E’ la stanza centrale, cui si accede per una scaletta in cotto. Fu dedicata all’esaltazione dei grandi protagonisti della letteratura: su dolci declivi poeti e scrittori, divisi per genere letterario praticato (lirica, epica, tragedia, commedia, satira), sono seduti ad altezze 93


diverse; purtroppo in numerosi casi l’originale nome sul cartiglio è stato modificato, probabilmente perché nel corso dei secoli si sente l’esigenza di aggiornare questa “classifica” letteraria. La favola pastorale del Miari, redatta alla morte di Orazio, documenta la presenza dell’Ariosto in ben tre generi letterari.

IL “CAMERINO DELL’ARIOSTO”

È la stanzetta posta sul lato nord (a sinistra), la preferita di Ludovico che vi soleva dormire, perciò dedicata alla sua memoria già nell’inventario Gabbi redatto alla morte di Orazio (1583). Gli affreschi parietali, come appare dal confronto con le restituzioni grafiche realizzate nel 1820 dall’incisore e artista Prospero Minghetti, appaiono ampiamente rimaneggiati nel corso degli interventi di ristrutturazione seguiti all’acquisto del Comune di Reggio Emilia. Migliore la corrispondenza con gli originali (e anche lo stato di conservazione) delle lunette.

LA STANZA DEGLI “ORAZI”

Anche di questa stanza si conserva un repertorio restitutivo, sempre degli anni venti del 1800, per mano dell’architetto Domenico Marchelli. Completamente rifatto, ad esempio, è l’albero genealogico della famiglia Malaguzzi Valeri (ma qui vi sopperisce l’analoga documentazione conservata presso l’Archivio di stato di Reggio Emilia). Ad una disamina storico-artistica, inoltre, è apparso che due tra i riquadri parietali (presentano rovine tra la vegetazione) sono di stampo settecentesco.

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I MARMI DEI MALAGUZZI Vida Borciani guida turistica a Reggio Emilia Antonio Canovi geostorico, responsabile scientifico Centro Documentazione Storica di Villa Cougnet

In epoca romana nella zona dell’attuale San Maurizio, fuori dal perimetro cittadino, era ubicata la necropoli orientale di Regium Lepidi, la città nata a partire dall’arrivo dei militari romani intorno al 187 a.C. lungo la direttrice della via Emilia, all’epoca in corso di pianificazione. Possiamo solo immaginare, sulla base di testimonianze coeve relative ad altre zone della penisola, quali fossero le condizioni della necropoli dopo la caduta dell’Impero romano e nell’alto Medioevo: i monumenti funerari, in parte interrati e in parte scoperti, come tutte le altre vestigia delle città romane venivano riconquistati dalla vegetazione e dalla fauna selvatica e il materiale costruttivo era riutilizzato per i nuovi edifici. Tuttavia, sul finire del Medioevo si iniziò ad apprezzare gli antichi frammenti di sculture e le iscrizioni che affioravano dal suolo; questi resti dell’antichità, raccolti da appassionati o da veri e propri mercanti specializzati, in molti casi furono introdotti nel circuito del collezionismo rinascimentale. Anche i Malaguzzi, uomini facoltosi e intrisi di cultura umanistica, poterono dedicarsi al collezionismo grazie alle estese proprietà di famiglia nella zona di San Maurizio. Nel 1516 Sigismondo Malaguzzi decise, seguendo la moda di Roma dove i giardini antiquari erano il corredo fondamentale delle ricche dimore di signori e cardinali, di adattare e sovrascrivere per leges hortorum un marmo di epoca romana rinvenuto nella sua proprietà. Il pezzo in origine era un cippo delimitante un’area funeraria, ma il padrone di casa lo riutilizzò come epigrafe augurale nei confronti dei propri amici e ospiti. Sul frammento, ora conservato presso i Civici Musei di Reggio Emilia, leggiamo: …/MALAGUTII SUO(RUM)/AMICORUM Q(UE)/COMMODO/ PROSPICIEN(TEM?)… (M)DXVI

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Il frammento ci informa inoltre della originaria disposizione dei reperti lungo il viale del giardino. Oltre a questo marmo, presso i Musei Civici sono conservati altri tre reperti provenienti dal Mauriziano: la stele figurata di Pettia Ge, un cippo con iscrizione e un miliario frammentario in marmo macigno. Successivamente Orazio Malaguzzi, conte di Monte Obizzo, aspirando ad affermarsi come punto di riferimento della vita culturale cittadina decise di spostare sull’esterno della facciata rivolta a oriente i reperti precedentemente dislocati nel giardino. Due secoli più tardi il generale napoleonico Miollis, come si evince esaminando l’acquaforte dell’incisore parmense Luigi Rados, li avrebbe ritrovati nella medesima posizione, poggianti su basamenti in muratura. Solo sul finire del XIX secolo, dopo l’acquisto del sito da parte dell’Amministrazione comunale di Reggio Emilia, i marmi avrebbero trovato la loro collocazione definitiva presso i Civici Musei per volere dell’allora direttore Gaetano Chierici. Oggi i marmi della passeggiata antiquaria di Sigismondo Malaguzzi sono esposti nel Portico dei Marmi, all’interno del palazzo dei Civici Musei.

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LA FORTUNA DELL’ARIOSTO Carlo Baja Guarienti storico, professore a contratto Università di Ferrara

I contadini di Empoli, annota nel 1581 Michel de Montaigne nel suo Viaggio in Italia, hanno sempre il liuto in mano e le pastorelle di quella terra conoscono il poema dell’Ariosto a memoria. «Questo», chiosa il grande letterato francese, «si vede in tutta l’Italia». Non c’è dunque da meravigliarsi se la contadina Divizia, conosciuta dallo stesso Montaigne ai Bagni di Lucca, pur essendo povera e analfabeta compone e recita versi di sorprendente eleganza ed erudizione: durante l’infanzia, in casa del padre, ha ascoltato e amato i versi ariosteschi letti ad alta voce da uno zio. L’Orlando Furioso è, fin dalla sua prima comparsa nella redazione definitiva nel 1532, una delle opere più lette e celebrate della letteratura italiana. Concepito da un aristocratico per un pubblico di aristocratici, il poema esce subito dai saloni affrescati della corte ferrarese per conquistare il volgo che vive e lavora nelle strade delle città e della campagna; e dalla capitale estense viaggia insieme alle merci dei commercianti, risale sul Po tutta la Lombardia e attraversa l’Appennino con i carrettieri. Letto ad alta voce e recitato, probabilmente cantato dai cantastorie ambulanti, il capolavoro ariostesco diviene presto un serbatoio di storie cui la letteratura popolare ama attingere. Nascono così le parafrasi, le sintesi e le prosecuzioni, le riscritture dei singoli episodi e i «lamenti» dei personaggi più amati dal pubblico. Appaiono opere come il Lamento di Bradamante cavato dal libro dell’Ariosto al suo canto, e tradotto in lingua bolognese del grande cantastorie bolognese Giulio Cesare Croce – l’inventore delle gesta di Bertoldo e Bertoldino – che a cavallo fra XVI e XVII secolo traduce nel dialetto della sua terra le imprese di Orlando e dei paladini per il pubblico delle fiere e delle piazze. Anche Bernardo Tasso, padre dell’autore della Gerusalemme Liberata e poeta a sua volta, testimonia la passione del popolo per l’opera di Ariosto e in anni vicini lo stampatore veneziano Comin da Trino afferma che il volgo ama ascoltare le gesta di Orlando. Capita anche che siano gli stessi lettori a dichiarare, come la Divi97


zia conosciuta da Montaigne, la propria ammirazione per l’Ariosto. A Venezia un apprendista spadaio, una prostituta e un mercante di seta confessano all’Inquisizione di aver letto l’Orlando Furioso; nella Ginevra di Calvino un viaggiatore italiano è denunciato per aver definito il poema «la sua Bibbia». Ma le rielaborazioni ariostesche non circolano solamente presso un pubblico popolare: il re di Francia Enrico III possiede nella sua biblioteca un’opera intitolata Bellezze del Furioso, probabilmente un’antologia di passi tratti dal poema, e probabilmente molti cortigiani e signori leggono le gesta dei paladini in versioni rielaborate e reinventate dalla vena poetica di volgarizzatori e cantastorie. Anche nel resto d’Europa l’Orlando Furioso è accolto con favore e le ottave ariostesche sono presto tradotte quasi in ogni lingua: nei due decenni successivi all’edizione ferrarese del 1532 compaiono una traduzione in prosa francese e una in spagnolo, opera del poeta Jerónimo de Urrea, cui segue la versione inglese di John Harington. Nel secolo successivo arrivano quella in tedesco di Diederich von dem Werder e quella in fiammingo di Everart Siceram. Attraverso i secoli e le molte versioni – italiane e straniere, in poesia e in prosa, fedeli all’originale o reinventate – l’Orlando Furioso, celebrato dai letterati come uno dei più alti esempi di poesia rinascimentale, assume dunque un posto di grande rilievo nella cultura popolare. In particolare, nell’Appennino emiliano il poema ariostesco diviene una delle fonti privilegiati del «maggio», antica forma teatrale che fonde recitazione, poesia e musica: per i più importanti autori di maggi fra Otto e Novecento il Furioso è – come ha scritto lo studioso e «maggiarino» Romolo Fioroni «sillabario, manuale, testo sacro». Ultimo, ma solo in ordine di tempo, fra i grandi rielaboratori dell’Orlando Furioso, nel 1970 Italo Calvino – dopo aver preso in prestito l’universo narrativo dei paladini di Carlo Magno per Il cavaliere inesistente (1959) e aver dedicato al poema una serie di trasmissioni radiofoniche – lavora alla sua rilettura del capolavoro di Ariosto: il suo Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, sospeso fra la narrazione e l’esegesi, è un viaggio nel testo, un volontario perdersi nei labirinti letterari del poema, un errare simile a quello degli stessi personaggi ariosteschi. Un atto d’amore di un narratore novecentesco – uno dei più grandi del secolo – nei confronti di un testo che più di quattro secoli prima ha cambiato irreversibilmente il paesaggio letterario europeo. 98


DA “CASINO ARIOSTO” A “MAURIZIANO”: L’ELEZIONE A PATRIMONIO CULTURALE DELLA CITTÀ Antonio Canovi geostorico, responsabile scientifico Centro Documentazione Storica di Villa Cougnet

Attraverso il grande arco trionfale prospiciente la via Emilia, scorrendo il lungo viale di pioppi cipressini, l’occhio guadagna il primo scorcio della casa ove dimorò l’Ariosto. La realizzazione dell’impianto monumentale che sostiene tale scelta prospettica risale a Orazio Malaguzzi (morto nel 1583). Sostanzialmente immutato per tre secoli, all’arco rimette mano l’Amministrazione comunale di Reggio Emilia nell’occasione celebrativa del quarto centenario della nascita dell’Ariosto (1874). Ne risulterà, come d’uso all’epoca, un intervento di radicale restauro, con la costruzione del cornicione che gira tutt’attorno e la sovrapposizione di un attico. Per l’occasione sono apposte alcune iscrizioni. In sostituzione dell’originale, viene apposto un verso commemorativo: “VIII settembre MDCCCLXXIV/Commemorazione della nascita/di/ Ludovico Ariosto”; quindi i due vasi in marmo bianco di Verona in linea classica, con manici, ricolmi di frutta, opera dello scultore reggiano Riccardo Secchi; mentre negli sfondati sovrastanti le nicchie sono poste le famosissime terzine della IV Satira, indirizzata nel 1523 al cugino Sigismondo Malaguzzi per raccontare della grande malinconia che di quel luogo prova, trovandosi lontano dalla famiglia in un luogo che reputa ostile (Castelnuovo Garfagnana, dove era stato inviato come commissario ducale). Nel riordino decorativo c’è un elemento innovativo che va sottolineato. Viene dipinta sul fregio la scritta “ONORATE L’ALTISSIMO POETA”, poi sostituita per deterioramento nel 1933, in occasione del quarto centenario della morte dell’Ariosto, con la targa marmorea che si legge oggi: IL MAURIZIANO. Non è un semplice aggiornamento. Questa targa rappresenta l’indizio di un mutamento semantico intervenuto nel frattempo: consegnate alla storia le odi al Poeta, si approda nel presente al riconoscimento nominale di questo luogo, attribuendogli il valore patrimoniale di sito culturale. Ciò che, peraltro, già si era cominciato a riconoscere dalla fine del XIX secolo negli apparati storico-artistici dedicati al “tour” del Bel Paese. 99


Il cambio di paradigma, dalla retorica classicista delle “rovine” alla loro riorganizzazione urbanistica in chiave “patriottica”, aveva preso avvio dopo l’Unità. Se guardiamo ai materiali e alle soluzioni decorative utilizzate per tale restauro, ritroviamo una sostanziale analogia con l’intervento di radicale restauro realizzato qualche anno prima alla Porta S. Croce. Medesimo è anche il committente, l’Amministrazione comunale, la quale era entrata in possesso del complesso del Mauriziano nel 1863 (con rogito 18 gennaio 1864). Il Consiglio Comunale venne infatti riunito in seduta pubblica per votarne l’acquisto – sotto la presidenza del Sindaco Pietro Manodori, dopo aver raccolto il parere favorevole del Re d’Italia Vittorio Emanuele II –, accordandosi con il Conte don Girolamo Malaguzzi Valeri, prevosto della basilica di San Prospero (pagandolo quasi 8.000 lire). La procedura pubblica scelta per l’acquisizione è un indizio chiaro della centralità accordata al Mauriziano, nel momento in cui il comune di Reggio veniva ad assumere il ruolo di capoluogo provinciale. In una città lungamente sottomessa a Modena, e pure mai davvero subalterna, l’unità d’Italia rappresentava la prima reale prospettiva (dopo la breve stagione napoleonica) di un riscatto. Per questo sito fu dunque prescelta una ristrutturazione in sintonia “monumentale” con le esigenze solenni del momento storico; tra l’altro con la preoccupazione (mai sopita) di richiamarne la reggianità, quando era noto al mondo come “ferrarese”. Il decoro paesistico del viale conferma questa intenzione: lungo 250 metri, era costituito (prima della gelata del 1956) di siepi di bosso, in perfetta simmetria con la residenza rinascimentale dell’Ariosto, questa tuttora ombreggiata da due platani secolari.

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Mappa Carandini, detta Carta Austriaca, anni 1821-1827. Si noti il sito geostorico del Mauriziano (indicato come “Casino dell’Ariosto”). Sezione n. 18, colonna n. XI.

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18 gennaio 1864, acquisto del Casino dell’Ariosto in Villa San Maurizio. Archivio Storico Comune di Reggio Emilia, busta 442. 102


Arco d’ingresso al Casino detto dell’Ariosto, 1890 circa. Archivio Storico Comune di Reggio Emilia, busta 442.

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Marzo 2011, il Tricolore del 150째 (foto Christian Vergalli).

Il viottolo alberato che conduce al Mauriziano (foto Christian Vergalli). 104


Il Mauriziano con il Palazzo Vecchio, vista da nord-est (foto Roberta Pavarini).

Il Mauriziano visto da sud-ovest (foto Daniele Castagnetti). 105


Frammento di un affresco perduto (foto Roberta Pavarini).

Affresco settecentesco raffigurante l’ambasciata di Orazio Malaguzzi presso la corte spagnola retta da Filippo II (foto Roberta Pavarini). 106


La stanza degli Orazi, particolare (foto Pierino Taddei).

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Lunetta nel camerino dell’Ariosto, probabilmente raffigurante la chiesa di S. Domenico in Reggio (foto Pierino Taddei).

Ariosto tra i poeti, particolare. Camerino de’ poeti (foto Pierino Taddei). 108


Il camino con lo stemma dei Malaguzzi Valeri (foto Pierino Taddei).

Particolare dell’arco trionfale (foto Daniele Castagnetti). 109


La “macchina inutile�, parco del Mauriziano (foto Alessandro Ardenti).

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8 settembre compleanno dell’Ariosto !

Di nuovo... al Mauriziano dal 30 agosto al 9 settembre 2012 con il contributo di

eutopia

Esposizioni, eventi, visite, narrazioni dedicate al sito geostorico del Mauriziano

Eutopia ۞ Ri ̴ generazioni territoriali

In collaborazione con Circoscrizione Nordest Centro di Documentazione Storica - Villa Cougnet Associazione Eutopia

... o v o u n i D al

Mauriziano Dal 30 agosto al 9 settembre 2012

Esposizioni, eventi, visite, narrazioni dedicate al sito geostorico del Mauriziano Il Mauriziano (via Pasteur, 11 - Reggio Emilia) Orari di apertura al pubblico: tutti i giorni 9:00 - 12:00 (in altri orari solo su appuntamento) Per informazioni:

Circoscrizione Nordest 0522.585596

circoscrizione.nordest@municipio.re.it

C IN R AVE R DE TU

villacougnet.it

Rigenerando: il compleanno dell’Ariosto, 8 settembre 2012. 111



UNA “MACCHINA INUTILE” CONSIDERAZIONI SU DI UNA NUOVA INSTALLAZIONE NEL PARCO DEL MAURIZIANO Alessandro Ardenti architetto

L’installazione, in arte, consiste in un’opera composta da vari elementi od oggetti disposti in uno spazio. Sempre in maniera didascalica, astratta, si potrebbe definire tale opera, soprattutto a partire dagli anni ’80, come sintesi concreta di linguaggi e mezzi espressivi. Quando l’installazione viene progettata appositamente per uno spazio, allora la specificità del contesto entra attivamente e indissolubilmente a far parte dell’opera medesima. Se poi lo spazio tenderà a farsi Luogo, anche l’opera lascerà l’Umore del singolo per radicarsi definitivamente nella moltitudine del Paesaggio. Il modo sghembo che l’installazione del Mauriziano usa nel sollevarsi dal suolo, la fa apparire ai miei occhi come se stesse immobile ad “osservare” con fiducia l’alternanza dei cambiamenti all’orizzonte. Ciò che fin dall’inizio ritenevo importante, era proprio di riuscire a comunicare il senso di fiducia che porta in dote l’arte dell’osservazione sul comportamento dei luoghi. Vi è, poi, la ragione anche pratica che si segue nel fare le cose, ossia quella espressa dalle verità che si raccolgono attorno alle varie attività precise e progressive eseguite sulla materia nelle sue differenti forme e nei suoi diversi stati. Il passaggio riguardante l’attualizzazione del significato di un’installazione come quella svolta al Mauriziano – e qui potrei dire dal nostro gruppo di lavoro –, credo coincida con l’evento germinativo di tutta l’esperienza fatta. Infatti, il definitivo innesto dell’oggetto nel suo nuovo habitat di destinazione mi ha sicuramente permesso di scoprire la reale proporzione nonché l’effettiva distanza che da allora esiste tra esso e le sue prossimità. Fino alla fine ho poi cercato di ammonticchiare parti tra loro apparentemente eterogenee: questo per annullare la cosità di quello stesso oggetto; negare una possibile visione unitaria di una dura forma isolata e malinconicamente bloccata; espressa solo da un punto di vista ingenuamente stilistico. Come sosteneva Roland Barthes: lo stile ha sempre qualcosa di grezzo: è una forma senza uno scopo, è il prodotto di un impulso, non di un’intenzione, è come una dimensione verticale e solitaria del pensiero. 113


La perdita di quella statuaria unitarietà sapevo quindi che avrebbe contribuito a limitare un’eventuale reazione di carattere centripeto, quell’attrazione convergente e involontaria verso un indesiderato non centro. Ogni strato di questa “macchina inutile”, nella successione verticale dei temi materiali scelti e proposti, dovrebbe invece rimandare alle dicotomie a lungo immaginate fra tetto e suolo, villa e campagna, luci della città e buio silente proveniente dai campi. Il confine tracciato da queste “rive” concettuali volevo pertanto che si legasse al pensiero viandante di chi osserva passando e coltiva la capacità di riconoscere nel Mauriziano la presenza di un cosmo vasto. L’utilità dell’installazione al Mauriziano, in effetti, non deve esistere. Essa può essere agita, perciò in qualche maniera anche consumata. Con una certa convinzione penso che camminare esplorando, mettersi in gioco, quindi ridestare le proprie risorse spirituali nel compiere la naturale esperienza dello “sguardo”, avvicini alla magia di certe figure inutili, progettate e non. Forse, proprio questo era il punto di massima tensione che mi sentivo di esprimere; il diletto, cioè, di chi lavora per inseguire il senso fuggevole ma anche pieno di uno scorcio ben goduto.

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LUDOVICO E LE “SUE” DONNE DISCORSI SOPRA IL GENERE, A PARTIRE DALLA RILETTURA CHE NE FECE ANTONIO PANIZZI Sandra Palmieri insegnante, presidente Associazione Eutopia - Rigenerazioni territoriali

8 settembre, compleanno dell’Ariosto. Per festeggiare, vorrei rendere omaggio – insieme a Ludovico, mi piace chiamarlo per nome – ad un altro personaggio insigne, di nascita reggiana, che è Antonio Panizzi. La ragione è che Panizzi ha composto una biografia notevole dell’Ariosto, concepita negli anni di un lungo esilio che trasmuterà poi in un vero e proprio progetto migratorio (nel 1832 si naturalizzerà inglese, nel 1869 la regina Vittoria gli conferirà l’alta onorificenza di Knight Commander of the Bath). Panizzi nasce infatti a Brescello nel 1797, ma già nel 1822 deve riparare in Svizzera per ragioni assolutamente politiche, in quanto ha aderito alle sette carbonare. Nel 1823, processato in contumacia e condannato a morte, quindi espulso da Ginevra, approda in Inghilterra. Qui conosce il Foscolo, che lo introduce al circuito degli esuli, un piccolo mondo dove s’intrecciavano – come per ogni contesto di esilio – grandi idealità e altrettanta precarietà. L’Inghilterra, in verità, darà modo a Panizzi di esprimere al meglio se stesso, offrendogli la straordinaria opportunità (dopo tutto nasceva italiano e liberale per orientamento) di diventare direttore del British Museum. Metto ora da parte la biografia di Panizzi, ma ne traggo un motivo d’ispirazione: l’intreccio tra arte (autorialità) e vita; un intreccio che ritroviamo mirabilmente rappresentato nell’approccio da lui scelto per raccontare il Poeta. C’è un modo moderno di vedere la biografia, anche piacevole: non è incline all’aneddotica, che può essere anche sterile, quando incede nel soddisfare curiosità immediate, mentre cerca di leggere al contempo più relazioni, quindi le maniere attraverso le quali gli elementi di una vita privata compongono il quadro delle concause con cui si producono e affiorano le opere letterarie. Va anche ricordato come Panizzi avesse per la narrazione cavalleresca una passione e una competenza che venivano da lontano; prima ancora del suo ingresso al British in qualità di as115


sistente bibliotecario, lo studioso ed esule riuscirà infatti a proporre al pubblico inglese (tra il 1830 e il 1834) l’edizione integrale dell’Orlando Innamorato e dell’Orlando Furioso (in nove volumi). Tuttavia al momento di affrontare la vita dell’Ariosto mostra la convinzione che, per leggere un fenomeno letterario, non si possa assolutamente prescindere da quella che è la biografia dell’autore; in quanto, sostiene, inevitabilmente tutto ciò che ti accade, e ti accade come uomo di quel momento, cambia anche la tua arte, la tua poetica. Panizzi sceglie di passare attraverso una porta differente, più sentimentale. Ci suggerisce ad esempio di guardare alle Satire: in quanto, nonostante non posseggano un registro alto come quello che possiamo trovare in molte parti del Furioso, sono connotate da quella che lui chiama “semplice, leggera e speciale noncuranza”, identificando in questa una chiave interpretativa per leggere tra le pieghe dell’Ariosto. Lì ritiene di rintracciare un tratto del suo carattere, dove si rispecchiano certe scelte in vita e anche un determinato modo di raccontarsi, mantenendosi in relazione epistolare con amici e congiunti. Delle Satire, sottolinea la piacevolissima leggerezza, da lui ritenuta indice di estrema intelligenza, tanto più che nel comporle l’Ariosto non aveva la presunzione di produrre un’opera letteraria assolutamente alta. Intreccio tra arte e vita, “speciale noncuranza”, leggerezza… Sono altrettanti sintomi di un’esistenza condotta con grande cura per le relazioni interpersonali, insomma “le donne e… gli amori”. Ludovico si sposò solo in tarda età, con Alessandra Benucci, mantenendo questo matrimonio segreto – la data rimane infatti incerta: tra il 1522 e il 1527 – per ragioni, pare, che avevano a che fare con le economie dell’uno e dell’altra, visto che la Benucci era vedova Strozzi, e lui pure avrebbe perduto altri benefici. Ma oltre a quella ragione, sicuramente concreta e quindi anche plausibile, c’era il fatto che Ariosto aveva rispetto alle sue relazioni amorose, ai suoi sentimenti, un senso della discrezione e un assoluto piacere del segreto. Rammento qui un dettaglio, può essere anche un divertissement: sul coperchio del suo calamaio, conservato presso la Biblioteca di Ferrara, c’è un cupido con un dito sulle labbra… Fa dunque segno di tacere, di non narrare. E sembra pure che una penna nera ornata d’oro, da lui utilizzata in diverse circostanze, alludesse quasi come un emblema all’abito di 116


seta nera che Alessandra Benucci indossò quando lui la vide per la prima volta a Firenze, nel 1513, e se ne innamorò. Ludovico era molto sensibile all’animo femminile. Conduceva incontri, relazioni, anche piacevoli intrighi; sappiamo che ebbe due figli, da due domestiche differenti, Giovanbattista il primo (che non riconobbe), Virgilio il secondo (che fu riconosciuto dopo alcuni anni). Quello che conduceva con le donne era un gioco di segreti e nascondimenti, di piacevoli allusioni. Ammette la propria - entre guillemet – debolezza per questo fascino che del femminile subiva, dicendo che però in verità non uccideva alcuno, né rubava, e quindi invocava ci fosse per questi suoi comportamenti una giusta e sensata tolleranza, poiché lui proprio non poteva farvi nulla. All’amico e congiunto Annibale Malaguzzi, in procinto di sposarsi, indirizzò una lunga Satira a proposito del matrimonio, ponendogli le sue scuse formali, dal momento che vi si raccomandavano cose a cui egli stesso non sa attenersi… Ma leggiamo ora qualche brano. Ma fui di parer sempre, e così detto L’ho più volte; che, senza moglie a lato, non puote l’uomo in bontade esser perfetto.

Ludovico in questa Satira vi racconta com’è che dovrebbe condursi un matrimonio; tra l’altro cita anche Reggio e lancia una stoccatina a Modena, infine arriva a suggerire come occorra essere prudente con la propria moglie, e ben trattarla. E qui in verità vediamo anche quale punto di vista sul genere avesse il nostro Ariosto. Falle carezze, ed amala con quello Amor, che vuoi che ella ami te; aggredisci, e ciò che fa per te paiati bello. Se pur talvolta errasse, l’ammonisci senza ira, con amor; e sia assai pena che la faccia arrossir senza por lisci. Meglio con la man dulce si raffrena che con la forza il cavallo; e meglio i cani le lusinghe fan tuoi, che la catena.

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Questi animal, che son molto più umani, corregger non si den sempre con sdegno, né, al mio parer, mai con menar di mani. Ch’ella ti sia compagna abbi disegno; non, come comperata per tua serva, reputa aver in lei domio e regno. Cerca di soddisfarle, ove proterva non sia la sua domanda; e, compiacendo, quanto più amica puoi te la conserva. Che tu lasci far, non ti commendo, senza saputa tua, ciò ch’ella vuole; che mostri non fidarti, anco riprendo. Ire a conviti e pubbliche carole non le vietar; né, alli, a suo tempi, a chiese dove ridur nobiltà si suole... Abbile sempre, ai chiari tempi e agli atri dietro il pensier; né la lasciar di vista, che il bel rubar suol far gli uomini latri. Studia che compagnia non abbia trista; a chi ti vien per casa abbia avvertenza, che fuor non temi, e dentro il mal consista; Ma studia farlo cautamente; senza saputa sua; che si dorrìa a ragione, se in te sentisse questa diffidenza.

Ludovico, ricorda il Panizzi, ha un modo “piacevole ed onesto” di porsi nei confronti dell’amico. Mentre gli parla di mogli, senza essere ammogliato, in verità riflette sul rapporto tra i sessi, nonché sulla propria inclinazione ad amare, sia pur nella più grande incostanza. Attraverso le Satire Ludovico si dichiara, come fa nella terza (databile al 1517). Io né pianeta mai, né tonacella, né mai vuo’ che in capo mi si pona; Come né stole, io non vuo’ ch’anco anella Mi leghin mai, che in mio poter non tenga di elegger sempre o questa cosa o quella. Indarno è, s’io son prete, che mi venga

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disir di moglie; e quando moglie io tolga, convien che d’esser prete il desir si spenga. Or perché so com’io mi muti e volga di voler tosto, schivo di legami, donde, se poi mi pento, non mi sciolga.

Così Antonio Panizzi rilegge Ludovico Ariosto, come di un uomo assolutamente compagno, leggero di vicende che sono quelle che attraversano il cuore di tanti.

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ONORATE L’ALTISSIMO POETA E… VENERATE NEI SECOLI LA VILLA Enrico Manicardi architetto

“Non molto lontano dalla città (passato di circa un chilometro il manicomio di San Lazzaro), frequentato dagli amatori della nostra lingua e delle nostre glorie, sorge fra amene pianure il casino ove dimorò e s’ispirò l’immortale poeta. Questa villa, posseduta anticamente dalla famiglia dei conti Malaguzzi, fu acquistata dal municipio colla lodevole intenzione di restaurarne l’architettura e salvarne i dipinti dagli insulti atmosferici, appagando così il desiderio di tutto il paese e di coloro che amano tutto ciò che appartiene al genio ed all’arte.” Così il conte Rinaldo Cassoli (nel 1893) inizia ad illustrare, a p. 81 del volume Le cento città d’Italia, il Casino dell’Ariosto (ai più noto come il Mauriziano), acquistato appunto, dal nostro Comune, 150 anni orsono, per sottrarlo all’ingiuria del tempo e dell’oblio e offrirlo all’Italia e agli amanti del genio e delle arti. Cassoli, nobile colto e raffinato, prosegue affidandosi alla penna del Vate reggiano, Naborre Campanini, che così scrive, fra l’altro, nelle “Note storiche e letterarie”, a proposito del complesso monumentale del Mauriziano: “Passiamo sotto l’arco che fu restaurato nel 1874 in occasione della festa che vi fu celebrata ricorrendo il quarto centenario della nascita di Lodovico; sov’resso nel fregio si leggeva il verso; ONORATE L’ALTISSIMO POETA” e più avanti riporta la lapide fatta apporre dal municipio, a lato della porta, in cui si legge: “LA CITTÀ DI REGGIO … N’ACQUISTÒ LA VILLA CHE SARÀ IN TUTTI I SECOLI VENERATA”. Dunque, il Comune, lascia ai posteri (e quindi anche a noi) l’impegno di onorare l’altissimo Poeta (Lodovico) e venerare nei secoli la Villa (il Mauriziano) sì cara all’Ariosto. Eredità lasciataci dal Comune a soli tre anni dall’unità d’Italia, per proclamare, nel pieno fervore risorgimentale e patriottico, la gloria nazionale del Poeta cresciuto al servizio di quel Ducato di Modena e Reggio, abbattuto dal voto popolare, nel 1859. 121


In casa mia siamo cresciuti così, educati a nutrirci delle ataviche memorie frequentando i Musei, i palazzi storici, le insigni Basiliche cittadine e anche il Mauriziano laggiù, nella campagna, delimitato dal torrente Rodano e dal rio (o cavo) Ariolo. Negli anni ’50 dell’immediato dopoguerra, dopo il terribile dramma della guerra militare e civile, la Città e la campagna erano a portata di “bicicletta” senza quel caotico mescolarsi di corpi e ruote che oggi invadono piazze, vicoli e strade in permanente conflitto fra la “sovranità dei pedoni” (tanto cara a Le Corbusier) e le “vacche sacre” a due ruote a cui nulla è impedito (come ai fortunati bovini indiani). Naturalmente la bicicletta (in latino Birota o Machina Birotularis) è una macchina ecologica meravigliosa, oggi come allora, quando era il più accessibile fra i mezzi di trasporto e i ladri di biciclette (poverissimi) le rubavano ai più poveri, mentre oggi si rubano a tutti, ricchi e poveri indistintamente… Con mio padre Carlo, si usciva la Domenica verso la campagna, con le biciclette di casa: la Edoardo Bianchi e l’Umberto Dei (da uomo) e la Ganna per le signore. Più o meno 20 chilogrammi di piacere pedalato con morbidezza e la catena protetta dal carter per non sporcare di “morchia” il risvolto dei pantaloni. A parte Albinea, dove si andava in Villa Catellani, ora Arnò (per passare l’estate), nelle altre stagioni si andava lungo il Crostolo o attraverso i campi per raggiungere zii e cugini nella Villa della Pappagnocca, magari passando per Rosta Nuova, il Buco del Signore e la Bazzarola, alla ricerca del bel paesaggio con le querce dipinto da Paolo Ferretti e conservato nella Galleria Fontanesi. La campagna reggiana – com’era fra ottocento e novecento – era ancora lì negli anni ‘50, con l’affascinante via Gattalupa, le Acque Chiare limpide e pescose e il rio Ariolo alimentato dai fontanili di Fogliano e dell’Ariolo a Gavasseto. Seguendo l’Ariolo si scendeva fino al Mauriziano dove “il fresco rio che corre rigando l’acque, ove poi fa il mulino” si getta nel torrente Rodano, tanto caro all’Ariosto e a Naborre Campanini, immortalato dal suo fedele amico e seguace Cirillo Manicardi (mio Nonno), con le sembianze di fauno conteso dalle Najadi fra le fronde del mitico torrente, in una grande tela del 1887. Naborre Campanini sarà fino alla metà degli anni ‘20, del primo novecento, la guida “Virgiliana” dei reggiani appassionati di storia, di musei, di archeologia, di letteratura; fondatore della so122


cietà del Pito, dell’Università Popolare, del primo sodalizio di temerari cicloturisti ed altro: presente ovunque si evocasse la cultura, ha lasciato tracce incancellabili nella città e nel territorio. E Campanini, come Andrea Balletti e Adolfo Venturi, era sempre presente nei ricordi di casa e nelle visite alla Città. Così come Palazzo Pratonieri, già storica sede della Cassa di Risparmio e della Fondazione Pietro Manodori, evocava il giovanissimo Ariosto intento a poetare in latino nella cameretta della sua dimora estiva al Mauriziano, piuttosto che nell’incerta casa natale di Città, di cui poco si diceva, e tutto verteva intorno al poema ariostesco così intensamente figurato nei saloni della rinnovata Cassa di Risparmio dedicata, appunto, a Lodovico Ariosto. Infatti, nel 1916, ricorrendo il quarto centenario dalla pubblicazione della prima edizione dell’Orlando Furioso, la commissione amministratrice della Cassa di Risparmio, inaugurò la prestigiosa sede rinnovata dalla maestria del Cav. Prof. Edoardo Collamarini, del Cav. Guglielmo Boni, Ingegnere e del Prof. Cirillo Manicardi, pittore (e scultore) sotto la direzione artistica del Comm. Prof. Naborre Campanini, dedicandola, come segue, a Lodovico Ariosto: “QUESTO PALAZZO ERETTO NEL SEC. XVI DA ALBERTO PRATONIERI LA CASSA DI RISPARMIO ACQUISTO’ E RESTAURO’ PER PROPRIA SEDE L’ANNO MDCCCLXXXII E QUANDO LO RICOSTRUSSE ESSENDO PRESIDENTE L’AVVOCATO ALESSANDRO COCCHI VOLLE CHE L’ARTE LO CONSACRASSE MONUMENTO DELLA CITTA’ NATALE A LODOVICO ARIOSTO MCMXVI”.

Ludovico e Naborre, o meglio le gesta di Orlando e il letterato Campanini erano diventati, in quei primi anni del novecento, una cosa sola. Il poeta e il suo cantore (Ariosto e Campanini), vivevano in simbiosi, nella ricerca degli episodi da divulgare attraverso l’opera di artisti reggiani, scelti e guidati da Campanini. L’esempio più evidente è quello della trasformazione del vetusto palazzo Pratonieri nell’allora moderna sede della Cassa di Risparmio, di cui ho detto sopra. Altro esempio è l’ammodernamento del teatro Ariosto nel 123


1927, con la cupola affrescata dal Prof. Anselmo Govi, dedicata all’Orlando Furioso. La passione dei reggiani per l’Ariosto era, in quegli anni, travolgente, inchinandosi alla gloria dei due maggior poeti di casa nostra: Il Boiardo e l’Ariosto. Lo scultore Riccardo Secchi aveva da poco terminato le solenni statue di Matteo Maria e di Lodovico, subito collocate in Palazzo Pratonieri, poi trasferite sotto gli archi del palazzo del Monte di Pietà, per finire infine a guardia del lato meno frequentato dei giardini pubblici: quello a nord, temuto e malfamato. A coronare l’idillio fra Naborre e Ludovico arrivarono gli scavi e le ricerche archeologiche sulla rupe di Canossa, volute e guidate dal Campanini. La Rocca di Canossa aveva avuto quale suo Capitano il ventottenne Lodovico Ariosto (1502) e già questo bastava per immergersi a fondo nella vicenda Ariostesca. È di quegli anni l’uscita della Guida storica di Canossa, interamente curata da Naborre Campanini. Ma tornando a Palazzo Pratonieri, la Commissione Artistica incaricata di seguirne i restauri – composta da: Cav. Uff. Prof. Gaetano Chierici Pittore, Presidente, Cav. Prof. Edoardo Collamarini Architetto, Direttore dei lavori, Comm. Prof. Adolfo Venturi (storico dell’arte, direttore nazionale delle Belle Arti), Comm. Prof. Naborre Campanini – desiderò che l’Arte abbellisse gli uffici e che “questa derivasse dal poema di Lodovico Ariosto i motivi e le forme principali della ornamentazione nella Sala maggiore destinata al pubblico. E si propose di creare un monumento al Poeta nella città che gli diede la madre e i natali, dove ancora nessuna memoria degna ne celebrava la gloria”. Così scrive Naborre Campanini nella prima GUIDA ILLUSTRATA alla visita dell’inauguranda Cassa di Risparmio, nel 1916. Le iscrizioni, i motivi e le forme principali derivate dall’Orlando Furioso nei fregi e nei capitelli della Sala centrale sono tutti di Naborre Campanini e di Cirillo Manicardi. Di Naborre val la pena ricordare la seguente iscrizione: “QUIVI NEL NIDO NATIO DI CUI SI PIACQUE CHIAMI IL RICORDO GLI ANIMI DEVOTI OVE IL DIVINO SPIRTO A LUNGO TACQUE LE LIETE FANTASIE COMPIANO I VOTI”.

Lasciati i culti Ariosteschi di palazzo Pratonieri che, dopo l’acquisto da parte del Comune della Villa Malaguzzi del Mauriziano nel 124


1864, rappresentano il più alto tributo dei reggiani alla memoria del maggior poeta Italiano del rinascimento, torno, con ben altro stato d’animo, alla considerazione in cui è tenuto il “Casino dell’Ariosto” dalla proprietà Comunale e dalla Città di Reggio nel suo insieme. Passati da tempo i due eventi di maggior interesse per i luoghi Ariosteschi, il complesso Monumentale del Mauriziano costituito dalla Villa, dall’adiacente palazzo Vecchio (dell’oratorio non v’è più traccia), dalla vicina casa colonica e dalle pertinenze del Parco compreso fra il Rodano, l’Ariolo e il trionfale arco d’ingresso sulla via Emilia, è sempre stato un luogo importante, ma residuale. Un luogo “sacro ai cultori della storia e delle arti” guidati in loco dalle loro personali passioni piuttosto che dai rari eventi promossi in Villa dalle competenti Istituzioni. Campanini, nelle Note storiche e letterarie, così descrive il suo ingresso al Mauriziano: “La carraja che conduce alla villa è squallida, non ombreggiata da nessuna pianta; del lucido vivajo e del giardino neppur un vestigio, solamente il fresco rio, fedele al suo passato, continua a rigar l’erbe e a fare il mulino”. Uno stato di semi abbandono testimoniato dai due oli coevi, l’uno di Giovanni Fontanesi, dal lato est della ghiacciaia, e l’altro di Paolo Ferretti dalla carraia di accesso, a nord, provenendo dal ponticello sul rio Ariolo. Dispiace constatare che ai primi dell’ottocento, in piena Repubblica Cispadana, una incisione eseguita per gli ufficiali napoleonici riportante la scritta Maison de l’Ariosto près de Reggio ci mostri il parco e il viale d’ingresso a sud (la carraia) nel pieno vigore, con due filari di alberi d’alto fusto (sicuramente pioppi cipressini) in linea retta continua dall’arco trionfale alla Villa. E quale meraviglia l’incisione ad acquaforte dell’ufficiale parmense Luigi Rados, anch’essa eseguita per l’esercito napoleonico. L’incisione di Rados, gli oli di Fontanesi e Ferretti, il paesaggio agrario della vecchia Gattalupa, le querce della Bazzarola, il Rodano e le Acque Chiare (come si diceva allora, negli anni ‘50), erano “il carburante” per spingersi fino al Mauriziano, avvolto in un’atmosfera magica che è venuta meno, anno dopo anno. Nel secondo novecento, la poesia ha abbandonato il “Casino dell’Ariosto” che, dopo aver vissuto di luci e ombre, si è spento sotto i colpi della cultura dei con125


sumi. L’Ariosto campeggia nei centri commerciali e il Mauriziano nelle pizzerie: è già qualcosa. Un curioso destino mi ha portato dalle gite in bicicletta degli anni ’50, alla guida recente del Circolo degli Artisti che ha la sede in palazzo Vecchio, a lato della Villa ariostesca, offrendo frequenti occasioni di appuntamenti culturali organizzati anche con i Musei Civici e la Circoscrizione Nordest, ma per quanto il luogo sia bello e affascinante, e i novelli visitatori ne rimangano entusiasti, si avverte sempre la fatica di promuoverlo adeguatamente. Mancano le risorse finanziarie, è vero; ma è anche vero che il baricentro dell’attenzione si è spostato altrove, quasi dimenticando i palazzi dei Musei e il complesso del Mauriziano. Il connubio fra gli edifici carichi di storia e l’ambiente circostante, incluso nel Piano di Riqualificazione Urbana del Rodano e delle Acque Chiare, offre oggi, nel rinnovato amore per l’ambiente naturale e la nuova progettazione del paesaggio, opportunità straordinarie che la nuova Amministrazione comunale dovrà far proprie. Per consolarmi, concludendo, penso alle migliori condizioni in cui è tenuta e gestita la Casa dell’Ariosto a Ferrara, da lui costruita a sue spese e abitata dal 1529 al 1533 (anno della morte): lì nasce nel 1532 la terza edizione del Furioso arricchita da sei canti in più. La Casa costruita a misura delle esigenze del Poeta (probabilmente su progetto di Girolamo da Carpi) in occasione della rinascimentale Addizione Erculea di Ferrara realizzata da Biagio Rossetti, è sicuramente più “gestibile” del periferico Mauriziano, trovandosi nel cuore della prestigiosa Città estense, e questo fatto non va taciuto. Tuttavia, alle Istituzioni reggiane, presentandosi l’occasione di celebrare i 540 anni dalla nascita del nostro illustrissimo concittadino, Lodovico, si offre l’occasione di completare il percorso delle quattro residenze ariostesche di cui tre sono ben note (il Mauriziano, la rocca di Canossa e la casa di via Ariosto 67 a Ferrara), mentre la casa natale, nel cuore della città, è ancora avvolta nel dubbio. Facciamo appello agli studiosi reggiani della Deputazione di storia patria affinché si possa scegliere fra le diverse opzioni in campo, magari auspicando che il piccolo Lodovico abbia visto la luce nelle piazze civili, anziché in quella militare della Cittadella. 126


CASA ARIOSTO A FERRARA: UN MUSEO “COMPARTECIPATO” VOLUTO DALLA CIRCOSCRIZIONE Girolamo Calò presidente Circoscrizione Uno, Ferrara

Vorrei raccontare, per questo compleanno (8 settembre 2013) dell’Ariosto, una storia poco conosciuta anche a Ferrara. Si tratta della battaglia – una vera battaglia culturale – avvenuta nel 1998 attorno all’edificio detto “Casa dell’Ariosto”. Sapete, qualcuno a Ferrara è rimasto allibito quando ho detto loro di esser stato invitato a Reggio Emilia per un convegno sull’Ariosto, il giorno del suo compleanno! I libri di storia, naturalmente, documentano la circostanza della sua nascita a Reggio Emilia; tuttavia l’Ariosto è reputato di cittadinanza “ferrarese”, e Ferrara si fa ben vanto di aver dato i natali al suo Poema più grande. Stava scritto nell’epigrafe che adornava la Casa dell’Ariosto in città, tuttora custodita nel salone a piano terra: “Casa dell’Ariosto dove il poeta compose parte del suo poema cavalleresco Orlando Furioso”. Questo edificio, molto elegante – forse lo conoscete –, si compone di tre piani. Al piano terra abbiamo 3 saloni più un saloncino, mentre al primo piano troviamo un grosso salone e un salone medio; poi ci sono due giardini esterni, davvero molto belli. Questi giardini sono stati completamente ristrutturati, con la compartecipazione dei diversi enti preposti alla cura del sito, la Circoscrizione (che lo gestisce), i lavori pubblici del Comune di Ferrara, la Sovrintendenza Regionale ai beni monumentali. Ora vi racconto la battaglia. Fino al 1998 l’edificio di casa Ariosto era sede di uffici circoscrizionali, non era il museo che oggi voi avete modo di visitare. Vi si erogavano servizi di vario genere, tranne paradossalmente il servizio di visita culturale. Ne fruivano solo alcune scolaresche, dietro autorizzazione dell’Amministrazione comunale. Nel 1998, la Circoscrizione che rappresento (la numero uno) pose un tema all’Amministrazione comunale dell’epoca, al sindaco e alla città tutta: se fosse giusto mantenere quello status o non, altrimenti, ristrutturare l’edificio con i giardini per consegnarlo alla comunità, nella convinzione che non fosse 127


patrimonio solo dei ferraresi, ma della cittadinanza tutta. Lì si aprì un dibattito, animato va detto dalla Circoscrizione, risolutamente favorevole a spostare i propri uffici in un luogo più idoneo. La nostra idea, che poi abbiamo portato a esito felice, era di ristrutturare la Casa non solo per renderla visitabile ai turisti stranieri e alle scolaresche (che pure lo domandavano), ma principalmente di trasformare questo come un luogo a tutti gli effetti della cultura. La nostra idea era di fare attività culturale tutto l’anno: utilizzando il salone al primo piano per le esposizioni (pittoriche, fotografiche, di scultura), mentre il giardino si presta particolarmente all’attività concertistica nella stagione primaverile ed estiva. E tutto l’anno, ci teniamo particolarmente, la presentazione di libri. Va detto che, se una parte della cittadinanza ferrarese e del mondo della cultura si schierò a favore, ce ne fu un’altra, come posso dire, inattiva. C’era anche chi, coltivando il proprio “orticello”, aveva paura di essere danneggiato dalla nostra possibile concorrenza. Ovviamente non era la nostra idea, e credo che in questi anni, con la trasformazione della Casa Ariosto in museo, abbiamo dimostrato la felicità di quell’intuizione. Tenete presente che la Circoscrizione in questa partita ci ha investito una somma considerevole, se consideriamo le risorse di questo ente: 100 mila euro. Diciamo che ha dato l’esempio. Così l’Amministrazione comunale ce ne ha messi altri 100 mila euro, e insomma siamo riusciti ad attrezzare la Casa anche per le attività espositive. All’interno, tengo a ricordarlo, abbiamo un custode, che per me è un padre putativo, una persona integerrima che da una vita abita nella Casa e con la sua presenza fisica riassume bene il senso di questa operazione: trasformare la Casa non in un luogo di eventi, ma acquisirlo nella sua integrità al patrimonio monumentale della città. Non è stato semplice, ma i numeri ci hanno dato ragione: nel 2011 abbiamo registrato 17 mila visitatori, 18 mila l’anno seguente. Vedremo il bilancio per il 2013, sapendo che siamo in una congiuntura più sfavorevole, soprattutto per le scuole.

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Credits Fotografie Trama copertina Mappa Carandini, detta “Carta Austriaca”, anni 1821-1827 Inserti copertina Particolare dell’Arco Trionfale del Mauriziano (Daniele Castagnetti) Frammento di un affresco perduto, riproduzione a cura della Circoscrizione Nordest (Roberta Pavarini) Ritratto dell’Ariosto, olio conservato nel Mauriziano (Pierino Taddei) Facciata del Mauriziano (Roberta Pavarini) Particolare del busto dell’Ariosto scolpito da Ilario Bedotti (Daniele Castagnetti) Vida, la guida del Mauriziano (Roberta Pavarini) Interno volume a tutta pagina p. 10 Rigenerando: si va e si viene tra il Mauriziano e l’Arco (Daniele Castagnetti) p. 14 Finestra a ghigliottina e targa a memoria del trasloco dei marmi ai Civici Musei - lato est del Mauriziano (Daniele Castegnetti) p. 48 Il busto dell’Ariosto scolpito da Ilario Bedotti (Roberta Pavarini) p. 70 La chiesa di S. Maurizio vista dall’Ariolo (Christian Vergalli) p. 78 Astolfo sale nel cielo della luna a riprendere il senno di Orlando (da un disegno del Doré), in Alfredo Galletti, Ludovico Ariosto (1474-1533), Le Vie d’Italia. Rivista mensile del Touring Club Italiano, anno XXXIX, n. 6, giugno 1933 (A. XI), pp. 433-445 p. 80 Particolare dell’Arco Trionfale del Mauriziano (Daniele Castagnetti) p. 112 Il parco del Mauriziano visto dalla mongolfiera (Roberta Pavarini) p. 120 Il portale d’ingresso del Mauriziano (Pierino Taddei) p. 129 Rigenerando: si pensa e si scrive, si sogna (Daniele Castagnetti) p. 131 Dove nacque l’Orlando Furioso (disegno di V. Zimelli), in testa all’omonimo articolo di A. Cerlini, Le Vie d’Italia. Rivista mensile del Touring Club Italiano, n. 1, gennaio 1931, a. XXXVII (IX dell’Era Fascista)

Si ringraziano Paolo Dallari “Dollaro” e Giancarlo Canova, uomini di cura del sito del Mauriziano Laura Serafini e Maurizio Salami, insieme alle donne e agli uomini che credono negli archivi storici Raffaele Malinconico e Carolina Di Maria, operatori generosi della Circoscrizione Nordest La scuola “Gulliver” per le notizie relative alla propria carta d’identità storica Daniele Castagnetti, Christian Vergalli e Pierino Taddei, per la documentazione iconografica E tutti coloro che hanno creduto a questo progetto di restituzione editoriale, pronti a farsi trovare “Di Nuovo… al Mauriziano”



Centro di Documentazione Storica Circoscrizione Nordest Villa Cougnet via Adua, 57 42124 Reggio Emilia tel. 0522 585596 fax 0522 516695 circoscrizione.nordest@municipio.re.it www.municipio.re.it/circoscrizionenordest www.villacougnet.it



Finito di stampare presso il Centro Stampa del Comune di Reggio Emilia nel dicembre 2013


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