appendendo tutto il mio orgoglio alle lancette dell’orologio. Ogni secondo che passava, sentivo il cuore battere come un tamburo al rallentatore, il suono del rimbombo si dilatava nelle orecchie, pulsava dall’interno come qualcuno che batte per uscire da chissà dove. Un minuto era passato senza troppo accorgermene, tante volte avevo smesso di respirare un minuto. Dopo quei sessanta secondi, però, il mondo aveva iniziato a farsi via via più lontano. Avevo un bicchiere di acqua in mano, non avrei saputo dire perché, me l’ero semplicemente dimenticato lì. Lo lasciai cadere sul tavolo in malo modo. Mia madre mi guardò infastidita. Poi però il fastidio divenne spavento, mi venne accanto, mi scosse, cercò di parlarmi, doveva aver visto i polmoni fermi, l’addome piatto, mi chiese cos’avessi, se era lo stomaco, mi sollevò a qualche centimetro da terra per potermi scuotere meglio. Un fuscello di otto anni, muto e senz’aria. Ventuno, venti… Mio fratello era scattato in piedi, la sedia gli si era rovesciata all’indietro, cercò di scuotermi anche lui, in bilico tra il sospetto che fosse una scommessa o un malore. Delle parole sgraziate mi riportarono lì, al supermercato. Una donna, sulla sessantina arrivò e spinse il carrello davanti a un ragazzo. Disse che c’era prima lei, che stava solo guardando una cosa. Lui le rispose male. Il tono montava. Lei spinse un angolo del carrello nell’anca dell’altro. Sentii sfumare il mio ricordo. Fossi stato io a dover decidere, non avrei avuto dubbi. La donna era arrivata dopo. Quello dietro avrebbe avuto ragione a passarle davanti. In una gara di apnea c’è un giudice, vari profondimetri, regole chiare. Che sanno cosa devi fare, come lo devi fare, cosa è consentito e cosa no. Il ragazzo fece un passo indietro e mi sfiorò. Per qualche istante entrai in contatto con la sua pelle. I pesci, pensai, anche quando nuotano in branco compatto, non si toccano mai. Hanno un organo sensoriale che li tiene alla giusta distanza gli uni dagli altri. Mi guardai la 11