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LA PROVA

Porto Yokoya era una città che passava facilmente inosservata. Si trovava ai margini dello Stretto Whaletail e avrebbe potuto essere un importante punto di rifornimento per le navi in partenza da uno dei tanti porti che rifornivano Omashu. Ma i venti dominanti, forti e affidabili, rendevano troppo facile ed economico per i mercantili diretti a sud passarvi davanti e raggiungere l’Isola Grande di Shimsom senza fare soste.

Jianzhu si chiedeva se la gente del posto sapesse o si curasse del fatto che navi cariche di ricchezze navigavano allettanti nelle vicinanze, mentre loro avevano le braccia affondate fino ai gomiti nella cavità di un’altra carpa elefante. Solo uno strano scherzo del destino e del tempo impediva che mucchi d’oro, spezie, libri preziosi e pergamene finissero davanti alle porte delle loro case. A loro invece toccavano le interiora di pesce. Erano ricchi, di budelli e branchie.

L’entroterra era ancora meno promettente. Il terreno della penisola diventava sottile e roccioso man mano che si estendeva verso il mare.

Jianzhu era rimasto turbato, la prima volta che aveva attraversato la campagna per arrivare in città, nel vedere i campi coltivati così miseri e spogli. I terreni agricoli non avevano l’abbondanza selvaggia e vulcanica della Valle Makapu o la produttività accuratamente ordinata dell’Anello Esterno di Ba Sing Se, dove la crescita si piegava all’esigente volontà degli amministratori del re. Qui, un contadino doveva essere grato per qualsiasi fonte di sostentamento potesse trarre dalla terra.

L’insediamento si trovava all’intersezione di tre nazioni diverse: Terra, Aria e Acqua. Eppure, nessuna l’aveva mai rivendicato. I conflitti del mondo esterno avevano un impatto minimo sulla vita quotidiana degli yokoyani.

Per loro, le devastazioni della rivolta dei Colletti Gialli nelle profonde zone interne del Regno della Terra erano una storia meno interessante del bisonte volante che si era liberato dal Tempio dell’Aria e aveva scoperchiato qualche tetto la settimana prima.

Pur essendo marinai, probabilmente non avrebbero saputo nominare nessuno dei temuti capi pirata che solcavano le acque orientali in aperta sfida alla marina di Ba Sing Se.

Tutto sommato, Porto Yokoya avrebbe potuto benissimo non comparire neanche sulle carte. Il che per il piccolo esperimento disperato e sacrilego di Jianzhu e Kelsang, voleva dire che era perfetta.

Jianzhu arrancava in salita nella neve umida e fangosa, con il collo che pizzicava a causa del mantello di paglia arrotolato intorno alle spalle.

Passò davanti alla colonna di legno che segnava il centro spirituale del villaggio senza degnarla di uno sguardo. Non c’era nulla ai lati o in cima. Era solo un tronco spoglio conficcato in verticale nel pavimento

di un cortile circolare. Non era decorato in alcun modo, cosa che in una città in cui quasi tutti gli adulti avevano una conoscenza pratica della falegnameria sapeva un po’ di pigrizia.

Ecco, diceva di malavoglia la colonna a tutti gli spiriti di passaggio. Contenti, ora?

Le case segnate dalle intemperie costeggiavano l’ampio viale eroso, svettando ripide nell’aria come punte di lancia. La sua destinazione era la grande sala riunioni a due piani in fondo alla strada. Kelsang si era stabilito lì ieri, dicendo che aveva bisogno di più spazio possibile per la prova. Aveva anche detto che il luogo godeva di correnti propizie, in base al metodo solenne e sacro di leccarsi un dito e tenerlo in aria.

Andava bene tutto. Jianzhu rivolse una rapida preghiera al Guardiano del Ciocco Divino mentre si toglieva gli stivali da neve, li lasciava sul portico e si infilava tra le tende della porta.

L’interno della sala era sorprendentemente grande, con gli angoli più lontani immersi nell’ombra e le pareti a tavole spesse ricavate da quelli che dovevano essere stati alberi davvero imponenti. L’aria odorava di resina. Dieci strisce di stoffa gialla, molto lunghe e sbiadite, erano stese sulle assi del pavimento. Su ognuna era disposta una fila di giocattoli, distanziati in modo uniforme come un semenzaio.

Un fischietto da bisonte, una palla di vimini, una massa informe che poteva essere una tartanatra di peluche, una molla di osso di balena, uno di quei tamburelli che facevano rumore quando lo ruotavi tra i palmi delle mani. I giocattoli sembravano logori e malconci come l’esterno dell’edificio.

Kelsang era in ginocchio all’estremità delle strisce di stoffa. Il monaco Dominatore dell’Aria era impegnato a sistemare altri gingilli con un’attenzione e una precisione paragonabili a quelle di un agopunturista che piazza i suoi aghi. Come se la direzione della barchetta, verso est o verso ovest, avesse avuto importanza. Era carponi e

spostava di lato la sua grande mole, con le vesti arancioni svolazzanti e la barba nera e ruvida che pendevano così in basso da arrivare a spazzare un pavimento che era già stato pulito.

“Non sapevo che ci fossero così tanti giocattoli» disse Jianzhu al suo vecchio amico. Individuò una grande biglia bianca che sembrava troppo vicina al bordo del tessuto e, con un gesto aggraziato del polso, la fece levitare davanti a Kelsang con il dominio della terra. La biglia si librò come una mosca, in attesa della sua attenzione.

Kelsang non alzò lo sguardo mentre strappava la biglia dall’aria e la rimetteva al suo posto. «Ce ne sono migliaia. Ti chiederei di aiutarmi, ma non faresti le cose come si deve.»

Quella risposta diede il mal di testa a Jianzhu. A questo punto erano ben lontani dal fare le cose come si deve. «Come sei riuscito a far cambiare idea all’abate Dorje sulle reliquie?» chiese.

«Nello stesso modo in cui tu hai convinto Lu Beifong a lasciarci fare la prova del Nomade dell’Aria nel Ciclo della Terra» disse Kelsang con calma mentre ricentrava un piano di legno. «Vale a dire che non l’ho convinto.»

Come diceva sempre un loro amico della Tribù dell’Acqua, era meglio chiedere perdono che aspettare il permesso. E per quanto riguardava Jianzhu, il tempo dell’attesa era già finito.

Quando l’Avatar Kuruk, il custode dell’equilibrio e della pace nel mondo, il ponte tra gli spiriti e gli esseri umani, era morto alla bella età di trentatré anni (trentatré! L’unica volta in cui Kuruk era stato in anticipo su qualcosa!) il dovere dei suoi amici, insegnanti e altri dominatori di rilievo era diventato quello di trovare il nuovo Avatar, reincarnato nella prossima nazione del ciclo degli elementi. Terra, Fuoco, Aria, Acqua e poi ancora Terra, un ordine immutabile come le stagioni. Un processo che risaliva a quasi mille generazioni prima di Kuruk e che, si sperava, sarebbe andato avanti per altre mille.

Solo che questa volta non stava funzionando. Erano passati sette anni dalla morte di Kuruk. Sette anni di ricerche infruttuose. Jianzhu aveva esaminato tutti i documenti disponibili delle Quattro Nazioni, risalenti a centinaia di anni prima, e la caccia all’Avatar non era mai stata così fallimentare nella storia. Nessuno sapeva perché, anche se i venerati anziani, in privato, si scambiavano ipotesi. Il mondo era impuro ed era stato abbandonato dagli spiriti. Il Regno della Terra mancava di coesione, o forse erano le Tribù dell’Acqua nei poli a doversi unificare. I Dominatori dell’Aria dovevano scendere dalle loro montagne e sporcarsi le mani invece di predicare. Il dibattito andava avanti.

A Jianzhu non importava tanto attribuire delle colpe, quanto piuttosto il fatto che lui e Kelsang avessero deluso di nuovo il loro amico. L’unica seria volontà di Kuruk prima di lasciare il mondo dei vivi era stata che i suoi amici più stretti trovassero il prossimo Avatar e si comportassero bene. E finora avevano fallito. In modo spettacolare.

In questo momento, ci sarebbe dovuto essere un Avatar della Terra di sette anni, felice e baldanzoso, affidato alle cure della sua amorevole famiglia, sorvegliato da un gruppo dei migliori e più saggi dominatori del mondo. Un bambino che si stava preparando per le responsabilità che lo attendevano all’età di sedici anni. Invece c’era solo un vuoto incolmabile che diventava ogni giorno più pericoloso.

Jianzhu e gli altri maestri avevano fatto del loro meglio per mantenere il segreto sull’Avatar mancante, ma era stato inutile. I crudeli, gli assetati di potere, i senza legge (cioè tutte le persone che normalmente avevano più da temere dall’Avatar) stavano iniziando a sentire che l’ago della bilancia pendeva a loro favore. Come squali della sabbia che rispondevano alle minime vibrazioni per puro istinto, mettevano alla prova i loro limiti. Sondavano nuovi territori. Il tempo stava per scadere.

Kelsang finì di preparare tutto quando suonò il gong di mezzogiorno. Il sole era abbastanza alto da sciogliere la neve dal tetto e l’acqua gocciolava sul terreno come una pioggia leggera. Le sagome degli abitanti del villaggio e dei loro figli in fila per il test si distinguevano all’esterno attraverso le finestre di carta. L’aria era piena di chiacchiere eccitate.

Basta con l’attesa, pensò Jianzhu. È il momento

Gli Avatar della Terra venivano tradizionalmente identificati tramite la geomanzia direzionale, una serie di rituali studiati per passare al setaccio la più grande e popolosa delle Quattro Nazioni nel modo più efficiente possibile.

Ogni volta che una serie speciale di trigrammi ossei veniva lanciata e interpretata dai maestri dominatori della terra, metà del Regno della Terra veniva esclusa come possibile luogo in cui si trovava l’Avatar neonato. Poi, dal territorio rimanente, si escludeva un’altra metà, e poi ancora un’altra metà. I luoghi possibili continuavano a ridursi, finché i cercatori si ritrovavano davanti alla casa del prossimo Avatar della Terra.

Era un modo rapido per coprire lunghe distanze e perfettamente adatto allo stato d’animo del dominio della terra. Una questione di logistica, semplice al punto da essere brutale. E di solito funzionava al primo tentativo. Jianzhu aveva fatto parte di spedizioni inviate dalle ossa in campi aridi, caverne di gemme vuote sotto Ba Sing Se, una zona del deserto di Si Wong così arida che nemmeno i dominatori della sabbia se ne occupavano. Lu Beifong aveva letto i trigrammi, Re Buro di Omashu aveva fatto un tentativo, Neliao la Giardiniera aveva fatto il suo turno. I maestri si erano succeduti nella gerarchia dei dominatori

della terra, finché anche Jianzhu non aveva collezionato la sua bella serie di errori. La sua amicizia con Kuruk non gli procurava privilegi speciali quando si trattava del prossimo Avatar.

Dopo che l’ultimo tentativo lo aveva collocato su un iceberg al Polo Nord, con solo le foche-tartaruga come potenziali candidati, Jianzhu si era aperto a suggerimenti più radicali. Un momento di autocommiserazione alcolica con Kelsang aveva fatto nascere una nuova idea promettente. Se le vie del Regno della Terra non funzionavano, perché non provare il metodo di un’altra nazione? Dopo tutto, l’Avatar, l’unico dominatore di tutti e quattro gli elementi, non aveva forse la cittadinanza onoraria di tutto il mondo?

Ecco perché i due si stavano pulendo il naso con la tradizione e stavano provando il metodo dei Nomadi dell’Aria per identificare l’Avatar. Yokoya sarebbe stata una prova pratica, un luogo sicuro lontano dal tumulto della terra e del mare dove avrebbero potuto prendere appunti e risolvere i problemi. Se Yokoya fosse andata bene, avrebbero potuto convincere gli anziani a estendere la prova a tutto il Regno della Terra.

Il metodo dei Nomadi dell’Aria era semplice, in teoria. Dei molti giocattoli disposti, solo quattro appartenevano ad Avatar di epoche passate. Ogni bambino di sette anni del villaggio sarebbe stato portato davanti a quella abbagliante esposizione. Chi avrebbe scelto i quattro giocattoli speciali, ricordando le sue vite passate, era l’Avatar reincarnato. Un processo elegante e armonioso come gli stessi Dominatori dell’Aria.

In teoria.

In pratica, era il caos. Puro e senza limiti. Era un disastro di cui le Quattro Nazioni non erano mai state testimoni.

Jianzhu non aveva pensato a quello che sarebbe potuto accadere dopo che ai bambini scartati fosse stato detto di abbandonare le

selezioni per fare spazio al candidato successivo. Le lacrime! I pianti, le urla! Cercare di sottrarre i giocattoli a bambini ai quali solo pochi istanti prima era stato promesso che avrebbero potuto scegliere? Non c’era forza più potente della giusta furia di un bambino derubato.

I genitori erano anche peggio. Forse i custodi dei Nomadi dell’Aria gestivano il rifiuto dei loro piccoli con grazia e umiltà, ma le famiglie delle altre nazioni non erano composte da monaci e monache. Soprattutto nel Regno della Terra, dove ogni remora saltava quando entravano in ballo i legami di sangue. Gli abitanti dei villaggi con cui aveva condiviso un saluto amichevole nei giorni precedenti la prova si trasformavano in rabbiosi insetti del canyon quando venivano a sapere che il piccolo Jae o la preziosa Mirai non erano in realtà i bambini più importanti del mondo, come avevano segretamente saputo da sempre. Più d’una persona giurava di aver visto i propri figli giocare con spiriti invisibili o dominare la terra e l’aria allo stesso tempo.

Kelsang rispondeva con delicatezza. «Siete sicuri che vostro figlio non stesse solo dominando la terra mentre c’era vento? Siete sicuri che il bambino non stesse semplicemente... giocando?»

Alcuni non riuscivano a capire l’antifona. Soprattutto la capitana del villaggio. Non appena sua figlia (Aoma, o qualcosa del genere) era stata scartata, aveva rivolto loro uno sguardo di totale disprezzo e aveva chiesto di vedere un maestro di rango superiore.

Mi dispiace, signora, pensò Jianzhu dopo che Kelsang aveva passato quasi dieci minuti a convincerla. Non possiamo essere tutti speciali.

«Per l’ultima volta, non ho intenzione di negoziare uno stipendio con te!» gridò Jianzhu a un contadino particolarmente schietto. «Quella dell’Avatar non è una posizione retribuita!»

L’uomo tarchiato alzò le spalle. «Mi sembra una perdita di tempo, allora. Prendo mia figlia e me ne vado.»

Con la coda dell’occhio, Jianzhu vide Kelsang che agitava freneticamente le mani, facendogli segno di tacere. La bambina si era avvicinata al giocattolo volante che un tempo aveva fatto divertire un antico Avatar e lo stava fissando con attenzione.

Oh. L’idea non era di avere un risultato concreto già oggi. Ma scegliere correttamente il primo oggetto era improbabile, troppo per rischiare di fermarsi ora.

«Va bene» disse Jianzhu. Avrebbe dovuto pagare di tasca sua. «Cinquanta monete d’argento all’anno se è l’Avatar.»

«Sessantacinque fiorini all’anno se è l’Avatar e dieci se non lo è.»

«PERCHÉ DOVREI PAGARTI SE NON È L’AVATAR?» ruggì Jianzhu.

Kelsang tossì e batté forte sul pavimento. La bambina aveva raccolto la trottola e stava osservando il tamburo. Due su quattro corretti. Su migliaia.

Santo Shu.

«Certo» disse rapidamente Jianzhu. «Affare fatto.»

Si strinsero la mano. Sarebbe stato ironico, uno scherzo degno del senso dell’umorismo di Kuruk, se il ritrovamento della sua reincarnazione fosse stato il risultato dell’avidità di un contadino. E per di più dell’ultima bambina in fila per il test. Jianzhu quasi ridacchiò. Ora la bambina aveva anche il tamburo tra le braccia. Si avvicinò a un maiale scimmia di peluche. Kelsang era fuori di sé dall’eccitazione e il suo collo minacciava di scoppiare sotto le perline di legno che lo avvolgevano. Jianzhu si sentiva stordito. La speranza gli batteva forte contro la cassa toracica, implorando di uscire dopo tanti anni di prigionia.

La bambina alzò il piede e calpestò il peluche più forte che poteva.

«Muori!» urlò con la sua vocina acuta. Lo schiacciò sotto il tallone, i punti si strapparono in modo udibile.

La luce si spense sul volto di Kelsang. Sembrava che avesse assistito a un omicidio.

«Dieci monete d’argento» disse il contadino. «Fuori» scattò Jianzhu.

«Vieni, Suzu» disse il contadino. «Andiamo.»

Dopo aver strappato gli altri giocattoli dalle mani della Macellaia di maiali scimmia, prese in braccio la bambina e uscì dalla porta: tutta la sua bravata non era stata altro che una transazione commerciale. Uscendo, per poco non travolse un’altra bambina che stava spiando la scena dall’esterno.

«Ehi!» disse Jianzhu. «Hai dimenticato l’altra figlia!»

«Quella non è mia» disse il contadino mentre scendeva le scale.

«Quella non è di nessuno.»

Un’orfana, dunque? Jianzhu non aveva notato la ragazzina incustodita in giro nei giorni precedenti, ma forse aveva sorvolato su di lei, pensando che fosse troppo vecchia per essere una candidata. Era molto, molto più alta di tutti gli altri bambini che erano stati portati dai genitori.

Quando Jianzhu si avvicinò per esaminare ciò che gli era sfuggito, la ragazzina ebbe un leggero sussulto, come se avesse voluto fuggire, ma la sua curiosità vinse sulla paura. Rimase dov’era.

Malnutrita, pensò Jianzhu aggrottando la fronte mentre osservava le guance incavate e le labbra screpolate della ragazza. Sicuramente un’orfana. Aveva visto centinaia di bambini come lei nelle province interne, dove i fuorilegge daofei scorrazzavano incontrollati; spesso i loro genitori erano stati uccisi dalla banda criminale di turno in ascesa nel territorio. Doveva aver vagato fin nella zona più relativamente tranquilla di Yokoya.

Alla notizia della prova per l’Avatar, le famiglie del villaggio avevano vestito i loro figli candidati con gli abiti più belli, come se fosse un giorno di festa. Ma questa bambina indossava un cappotto logoro con i gomiti che spuntavano dai buchi delle maniche. I suoi piedi troppo grandi minacciavano di rompere le cinghie dei sandali troppo piccoli. Nessuno dei contadini locali la nutriva o la vestiva.

Kelsang, che nonostante il suo aspetto temibile era sempre più bravo con i bambini, si chinò verso di lei. Un sorriso lo trasformò da un’intimidatoria montagna arancione in una versione a grandezza naturale di uno dei peluche dietro di lui.

«Ma ciao» disse, aggiungendo un ulteriore nota di cordialità al suo vocione. «Come ti chiami?»

La ragazzina lo guardò con diffidenza per un lungo momento.

«Kyoshi» sussurrò. Le sue sopracciglia si inarcarono come se rivelare il proprio nome fosse una concessione dolorosa.

Kelsang osservò il suo stato ed evitò per ora l’argomento dei suoi genitori. «Kyoshi, vuoi un giocattolo?»

«Sei sicuro che non sia troppo grande?» disse Jianzhu. «È più alta di alcuni degli adolescenti.»

«Zitto, tu» disse Kelsang. Fece un ampio gesto verso la sala piena di reliquie, a beneficio di Kyoshi.

Lo svelamento di così tanti giocattoli in una volta sola di solito incantava la maggior parte dei bambini. Ma Kyoshi non sussultò, né sorrise, né mosse un muscolo. Mantenne invece il contatto visivo con Kelsang finché questi non sbatté le palpebre.

Rapida come una frusta, gli sfuggì, prese un oggetto dal pavimento e tornò di corsa al punto di prima. Osservava Kelsang e Jianzhu con la stessa attenzione con cui loro guardavano lei.

Kelsang lanciò un’occhiata a Jianzhu e inclinò la testa verso la tartaruga d’argilla che Kyoshi stringeva forte al petto. Una delle

quattro vere reliquie. Oggi nessuno dei bambini ci si era neanche avvicinato.

Avrebbero dovuto essere elettrizzati come per la piccola e malvagia Suzu, ma il cuore di Jianzhu era offuscato dal dubbio.

Era difficile credere a una tale fortuna dopo la precedente delusione.

«Ottima scelta» disse Kelsang. «Ma ho una sorpresa per te. Puoi averne altri tre! Quattro giocattoli, tutti per te! Non ti piacerebbe?»

Jianzhu percepì un cambiamento nella postura della ragazzina, un tremito nelle sue fondamenta che si sentiva attraverso le assi di legno del pavimento.

Sì, avrebbe tanto voluto altri tre giocattoli. Quale bambino non lo vorrebbe? Ma nella sua mente la promessa di qualcosa di più era pericolosa. Una menzogna progettata per ferirla. Se avesse allentato la presa sull’unico premio che aveva in mano in questo momento, si sarebbe ritrovata senza nulla. Punita per aver creduto nella gentilezza di questo sconosciuto.

Kyoshi scosse la testa. Le sue nocche si strinsero intorno alla tartaruga d’argilla.

«Non ti preoccupare» disse Kelsang. «Non devi ridarcelo. È proprio questo il punto: si possono scegliere diversi... Ehi!»

Lei fece un passo indietro, e poi un altro, e poi, prima che loro potessero reagire, stava correndo giù per la collina con la reliquia dell’Avatar, unica nel suo genere e vecchia di secoli, tra le mani. A metà della strada, fece una brusca virata come una fuggitiva esperta che si libera di un inseguitore e scomparve nello spazio tra due case.

Jianzhu chiuse le palpebre contro il sole. La luce proiettò macchie scarlatte all’interno. Poteva sentire il battito del suo cuore. La sua mente era altrove in questo momento.

Invece di Yokoya, si trovava al centro di un villaggio senza nome nelle regioni interne del Regno della Terra, appena “liberato” da Xu Ping An e dai Colletti Gialli. In quel sogno a occhi aperti, il fetore della carne in decomposizione impregnava i suoi vestiti e le grida dei sopravvissuti infestavano il vento. Accanto a lui, un messaggero ufficiale che era stato trasportato lì da un palanchino leggeva da una pergamena, passando minuto dopo minuto a elencare i titoli onorifici del Re della Terra solo per poi dire a Jianzhu che i rinforzi dell’esercito di Sua Maestà non sarebbero arrivati in loro aiuto.

Cercò di liberarsi da quel ricordo, ma il passato lo aveva agganciato. Ora sedeva a un tavolo di trattative fatto di puro ghiaccio e dall’altra parte c’era Tulok, signore dei pirati della Quinta Nazione. L’anziano corsaro faceva risuonare la sua risata tisica all’idea di poter onorare la promessa di suo nonno di lasciare in pace le coste meridionali del continente. Le sue convulsioni spargevano sangue e catarro sugli accordi redatti dall’Avatar Yangchen con la sua santa mano, mentre sua figlia-luogotenente lo osservava, con uno sguardo senz’anima che scrutava Jianzhu come se fosse stato una preda.

In questi tempi, e in molti altri, lui sarebbe dovuto stare alla destra dell’Avatar. L’autorità suprema che poteva piegare il mondo alla sua volontà. Invece era solo. Affrontava le grandi bestie della terra e del mare, le cui fauci si chiudevano, avvolgendo il regno nell’oscurità.

Kelsang lo riportò nel presente con una pacca devastante sulla schiena. «Andiamo» disse. «Con l’aspetto che hai, la gente penserebbe che hai appena perso il più importante manufatto della tua nazione.»

Il buon umore e la capacità del dominatore dell’aria di affrontare le battute d’arresto con disinvoltura erano di solito di grande conforto

per Jianzhu, ma in questo momento avrebbe dato volentieri un pugno alla stupida faccia barbuta del suo amico. Si ricompose.

«Dobbiamo andare a cercarla» disse.

Kelsang strinse le labbra. «Sarebbe brutto togliere la reliquia a una bambina che ha così poco. Può tenersela. Tornerò al tempio e affronterò l’ira di Dorje da solo. Non c’è bisogno che tu ne sia coinvolto.»

Jianzhu non sapeva cosa contasse come “ira” tra i Dominatori dell’Aria, ma non era questo il problema. «Rovineresti la prova dei Nomadi dell’Aria per rendere felice una ragazzina?» disse incredulo.

«La reliquia troverà la strada per tornare al suo posto.» Kelsang si guardò intorno.

Poi il suo sorriso si spense, come se questa piccola macchia di città fosse una dura dose di realtà che stava facendo effetto solo ora.

«Prima o poi.» Sospirò. «Forse.»

NOVE ANNI DOPO

Per Kyoshi, era molto chiaro: si trattava di una situazione con ostaggi.

Il silenzio era la chiave per passare dall’altra parte. Attesa con completa e totale passività. Jing neutro.

Kyoshi camminava con calma lungo il sentiero che attraversava il campo incolto, ignorando l’erba che si piegava e le faceva il solletico alle caviglie, il sudore che le imperlava la fronte e le pizzicava gli occhi. Non fece rumore e fece finta che le tre persone che le si erano affiancate come scippatori in un vicolo non fossero una minaccia. «Allora, come stavo dicendo agli altri, mia madre e mio padre pensano che dovremo dragare i canali dal lato della cima all’inizio di quest’anno» disse Aoma, tirando fuori intenzionalmente mamma e papà, esibendo ciò che mancava a Kyoshi. Mise le mani nella posizione del Ponte Corto, mentre batteva con decisione i piedi a terra. «Una delle terrazze è crollata durante l’ultima tempesta.»

Sopra di loro, in alto, fuori portata, fluttuava l’ultimo prezioso barattolo di alghe piccanti in salamoia che l’intero villaggio avrebbe visto quest’anno. Quello che Kyoshi era stata incaricata di consegnare alla villa di Jianzhu. Quello che Aoma aveva strappato dalle mani di Kyoshi e che ora prometteva di far cadere da un momento all’altro. Il grande recipiente di terracotta si muoveva su e giù, facendo sbattere la salamoia contro il sigillo di carta cerata. Kyoshi dovette soffocare un guaito ogni volta che il barattolo sbatteva contro i limiti del controllo di Aoma. Non fare rumore. Aspetta. Non dare loro nessun appiglio. Parlare non fa che peggiorare la situazione.

«Non gliene importa» disse Suzu. «Alla preziosa servetta non importa nulla delle questioni agricole. Ha il suo comodo lavoro nella villa di lusso. È troppo brava per sporcarsi le mani.»

«E anche per salire su una barca» disse Jae. Invece di approfondire il discorso, sputò a terra, mancando per poco i talloni di Kyoshi. Aoma non aveva mai avuto bisogno di un motivo per tormentare Kyoshi ma, come per gli altri, il risentimento genuino andava benissimo. Era vero che Kyoshi passava le sue giornate sotto il tetto di un potente saggio, invece di rompersi le unghie contro le pietre dei campi. Di certo non aveva mai rischiato le acque agitate dello Stretto per inseguire una preda.

Ma ciò che Jae e Suzu trascuravano opportunamente di dire era che ogni appezzamento di terra coltivabile vicino al villaggio e ogni barca adatta al mare giù al porto apparteneva a una famiglia. Madri e padri, come amava dire Aoma, trasmettevano il loro mestiere a figlie e figli in una linea ininterrotta, il che significava che era impossibile che un estraneo ereditasse i mezzi per sopravvivere. Se non fosse stato per Kelsang e Jianzhu, Kyoshi sarebbe morta di fame per strada, sotto gli occhi di tutti.

Ipocriti.

Kyoshi premette la lingua contro il palato, più forte che poteva. Oggi non era il giorno giusto. Un altro giorno, forse, ma non oggi.

«Lasciatela stare» disse Aoma, acquisendo la posizione del Ponte che divide. «Ho sentito dire che fare la donna di servizio è un lavoro duro. Per questo stiamo aiutando con le consegne. Non è vero, Kyoshi?»

Per sottolineare il concetto, spedì il vaso in una stretta fessura tra i rami di un albero. Tanto per ricordare chi comandava.

Kyoshi rabbrividì mentre il contenitore piombava verso il suolo come un falco, prima di risalire in picchiata verso la salvezza. Solo un po’ più in là, pensò mentre il sentiero prendeva una brusca svolta intorno alla collina. Ancora qualche passo silenzioso e senza parole fino…

Ecco. Finalmente erano arrivati. La tenuta dell’Avatar in tutto il suo splendore.

Il palazzo che il Maestro Jianzhu aveva costruito per ospitare il salvatore del mondo era stato progettato a immagine di una città in miniatura. Un alto muro formava un quadrato perfetto intorno al terreno, con una divisione al centro per separare gli austeri campi di addestramento dai vivaci quartieri abitativi. Ogni sezione aveva un’imponente portineria rivolta a sud, più grande della sala riunioni di Yokoya. Le massicce porte rinforzate dell’ingresso residenziale erano spalancate, offrendo un piccolo scorcio delle siepi elaborate all’interno. Un branco di placidi cani-capra pascolava sul prato, brucando l’erba in modo uniforme.

Gli elementi estranei erano stati accuratamente integrati nella progettazione del complesso, il che significa che draghi dorati inseguivano orche polari scolpite lungo i bordi delle pareti. La disposizione

delle tegole in stile Regno della Terra corrispondeva abilmente ai principi della numerologia dei Nomadi dell’Aria. Tinture e vernici autentiche erano state importate da tutto il mondo, per garantire che i colori di tutte e quattro le nazioni fossero esposti in modo equo e completo.

Quando Jianzhu aveva comprato la terra, aveva spiegato agli anziani del villaggio che Yokoya era il luogo ideale per educare l’Avatar, un posto tranquillo e sicuro, lontano dal territorio devastato dai fuorilegge, nell’interno del Regno della Terra e sufficientemente vicino sia al Tempio dell’Aria del Sud che alla Tribù dell’Acqua del Sud. Gli abitanti del villaggio erano stati abbastanza felici di accettare il suo oro all’epoca. Ma dopo che la villa era stata costruita, si erano lamentati che era un pugno nell’occhio, una creatura aliena che era spuntata da un giorno all’altro dal suolo nativo.

Per Kyoshi era la vista più bella che potesse mai immaginare. Era una casa.

Dietro di lei, Suzu sbuffò con sdegno. «Non so cosa abbiano pensato i nostri genitori, vendendo questi campi a un ganjinese.»

Le labbra di Kyoshi si serrarono. Il maestro Jianzhu proveniva effettivamente dalla tribù dei Gan Jin, su al nord, ma era il modo in cui Suzu l’aveva detto.

«Forse sapevano che la terra era inutile e improduttiva come i loro figli» mormorò Kyoshi sottovoce.

Gli altri smisero di camminare e la fissarono.

Ops. L’aveva detto un po’ troppo forte, vero?

Jae e Suzu strinsero i pugni. Si ricordarono di cosa avrebbero potuto fare mentre Aoma teneva Kyoshi inerme. Erano anni che nessuno dei ragazzi del villaggio riusciva ad avvicinarsi a lei, ma oggi era un’occasione speciale, no? Magari qualche livido, in ricordo dei vecchi tempi.

Kyoshi si preparò al primo colpo, alzandosi sulle punte dei piedi

nella speranza di poter almeno tenere il viso fuori dalla mischia, in modo che zia Mui non se ne accorgesse. Un paio di pugni e di calci e poi l’avrebbero lasciata in pace. In realtà, era colpa sua se aveva lasciato cadere la sua solita maschera.

«Cosa credete di fare?» ringhiò una voce familiare. Kyoshi fece una smorfia e aprì gli occhi.

La pace non era più un’opzione. Perché ora era arrivata Rangi.

Rangi doveva averli visti da lontano e aver attraversato il grande prato senza farsi notare. O essere rimasta in agguato per tutta la notte. O si era calata da un albero come un leopardo palmato. Kyoshi non avrebbe escluso niente di tutto questo, quando c’era in ballo quella Dominatrice del Fuoco militarmente addestrata.

Jae e Suzu indietreggiarono, cercando di ingoiare le loro intenzioni ostili come bambini che si infilano in bocca caramelle rubate. A Kyoshi venne in mente che forse quella era la prima volta che vedevano da vicino qualcuno della Nazione del Fuoco, per non parlare di una rappresentante minacciosa come Rangi. Con quella corazza aderente del colore dell’onice e del sangue secco avrebbe potuto essere uno spirito vendicativo venuto a ripulire dai vivi un campo di battaglia.

Aoma, va detto a suo merito, tenne duro. «La guardia del corpo dell’Avatar» disse con un lieve sorriso. «Pensavo che non dovessi lasciare mai il suo fianco. Non è che stai battendo la fiacca?»

Guardò a destra e a sinistra. «O è qui da qualche parte?»

Rangi guardò Aoma come se fosse un mucchio di sporcizia che la Dominatrice del Fuoco aveva calpestato durante il tragitto.

«Non siete autorizzati a stare su questo terreno» disse, con la sua voce ruvida come il carbone. Indicò il vaso di alghe sospeso in aria. «Né

a mettere le mani sulla proprietà dell’Avatar. Né ad avvicinare il suo personale domestico, se è per questo.»

Kyoshi notò la sua posizione in fondo all’elenco.

Aoma cercò di darsi un tono. «Questo contenitore è enorme» disse, scrollando le spalle per sottolineare la sua esibizione di controllo degli elementi ancora in corso. «Ci vorrebbero due uomini adulti per sollevarlo senza esercitare il dominio della terra. Kyoshi ci ha chiesto di aiutarla a portarlo in casa. Giusto?»

Fece a Kyoshi un sorriso radioso. Un sorriso che diceva: Se fai la spia ti ammazzo. Kyoshi aveva già visto quell’espressione un’infinità di volte quando erano più piccole, ogni volta che un adulto si imbatteva in loro due che “giocavano” in città, vale a dire in Kyoshi piena di graffi e Aoma con una pietra in mano.

Ma oggi era diverso. La sua recitazione, di solito impeccabile, aveva un che di lagnoso e sincero. Kyoshi capì improvvisamente cosa stava succedendo.

Aoma voleva davvero aiutarla con la consegna. Voleva essere invitata all’interno della villa e vedere l’Avatar da vicino, come faceva Kyoshi ogni giorno. Era gelosa.

Un sentimento simile alla compassione si insinuò nella gola di Kyoshi. Tuttavia, non fu abbastanza forte da trattenere Rangi.

La Dominatrice del Fuoco fece un passo avanti. La sua mascella sottile si indurì e i suoi occhi color bronzo scuro erano carichi di aggressività. L’aria intorno al suo corpo si increspò come un miraggio vivente, facendo fluttuare verso l’alto, nel calore, le ciocche di capelli neri che le sfuggivano dalla crocchia sopra la testa.

«Metti giù il vaso, vattene e non tornare» disse. «A meno che tu non voglia sapere che odore ha la cenere delle tue sopracciglia.»

L’espressione di Aoma si sgretolò. Si era imbattuta in un predatore con zanne molto più grandi delle sue. E, a differenza degli adulti del

villaggio, con Rangi non avrebbe funzionato né il suo fascino né nessun altro trucco.

Ma questo non significava che un ultimo colpo fosse da escludere.

«Certo» rispose lei. «Pensavo che non me l’avresti mai chiesto.» Con un gesto fulmineo delle mani, il vaso schizzò in aria, oltre le cime degli alberi.

«È meglio che troviate qualcuno autorizzato a prenderlo.» Si mise a correre lungo il sentiero con Suzu e Jae alle calcagna.

«Piccola...» Rangi fece per inseguirli, con i pugni istintivamente già pronti a infliggere una dose di dolore bruciante, ma si controllò. La vendetta avrebbe dovuto aspettare.

Scosse la mano e guardò il vaso che si stava rapidamente rimpicciolendo in lontananza. Aoma l’aveva lanciato molto, molto forte. Non si poteva dire che la ragazza non avesse talento.

Rangi diede una gomitata decisa a Kyoshi sul fianco. «Prendilo» disse. «Usa il dominio della terra e prendilo.»

«N-non posso» disse Kyoshi, tremando di sgomento. Il suo povero vaso, condannato alla caduta, raggiunse l’apice del suo volo. Zia Mui si sarebbe infuriata. Un disastro di questa portata potrebbe arrivare al Maestro Jianzhu. La sua paga sarebbe stata ridotta. O sarebbe stata licenziata in tronco.

Rangi non mollava. «Come sarebbe a dire che non puoi? Nei libri mastri del personale sei indicata come Dominatrice della Terra! Prendilo!»

«Non è così semplice!» Sì, Kyoshi tecnicamente lo era, ma Rangi non sapeva del suo piccolo problema.

«Fai quella cosa con le mani, come ha fatto lei!» Rangi formò i doppi artigli del Ponte Corto, come se mancasse soltanto un rozzo richiamo visivo da parte del dominatore di un elemento completamente diverso.

«Attenta!» urlò Kyoshi. Si gettò su Rangi, proteggendo con il suo corpo la ragazza più piccola dal missile in caduta libera. Caddero a terra, con le membra intrecciate.

Non ci fu alcun impatto. Nessun frammento di ceramica o esplosione di salamoia.

«Mollami, idiota» mormorò Rangi. Pestò con i pugni contro l’abbraccio protettivo di Kyoshi, come un uccello che batte le ali contro la gabbia. Kyoshi si inginocchiò e vide che il suo viso e le sue orecchie erano rossi quasi quanto la sua armatura.

Aiutò Rangi a mettersi in piedi. Il vaso fluttuava accanto a loro, all’altezza della vita. Sotto il controllo di Aoma aveva vacillato e tremato, seguendo gli schemi della respirazione e i movimenti involontari di lei. Ma ora era completamente immobile nell’aria, come se fosse stato posto su un robusto piedistallo di ferro.

I ciottoli del sentiero polveroso tremarono. Cominciarono a muoversi e a rimbalzare davanti ai piedi di Kyoshi, diretti da un potere invisibile dal basso, come se fossero stati sparsi sulla superficie di un tamburo battente. Marciarono in direzioni apparentemente casuali, piccoli soldati ubriachi, fino a quando non si disposero in una scritta.

Non c’è di che

Kyoshi alzò la testa di scatto e guardò verso la villa lontana, stringendo gli occhi. Conosceva solo una persona capace di un’impresa del genere. I sassolini ricominciarono a danzare, ma questa volta si stabilizzarono in parole molto più velocemente.

A proposito, sono Yun. Sai, l’Avatar Yun.

Come se potesse essere chiunque altro. Kyoshi non riusciva a individuare il punto da cui Yun li stava osservando, ma poteva immaginare il sorriso malizioso e allegro sul suo bel viso mentre eseguiva l’ennesimo stupefacente atto di dominio come se nulla fosse, incantando le rocce fino alla completa sottomissione.

Non aveva mai sentito parlare di qualcuno capace di usare la terra per comunicare a distanza in modo leggibile. Yun era fortunato a non essere un Nomade dell’Aria, altrimenti la trovata gli avrebbe procurato un tatuaggio per festeggiare l’invenzione di una nuova tecnica.

Cosa fanno oggi le mie gonne preferite?

Kyoshi ridacchiò. Be’, forse non perfettamente leggibile.

Sembra divertente. Vorrei poter venire anch’io.

«Sa che non possiamo rispondere, vero?» disse Rangi.

Ravioli, per favore. Di qualsiasi tipo, tranne quelli ai porri.

«Basta!» gridò Rangi. «Lo stiamo distraendo dal suo allenamento! E tu sei in ritardo per il lavoro!» Spazzò via i sassolini con il piede, più preoccupata di seguire il programma giornaliero che dei nuovi strabilianti esperimenti nel mondo del dominio della terra.

Kyoshi prese il vaso dalla piattaforma invisibile e seguì Rangi fino alla villa, camminando lentamente per non superarla. Se i doveri domestici erano l’unica cosa che contava per la Dominatrice del Fuoco, allora la cosa sarebbe finita lì e non ci sarebbe stato bisogno di dire altro. Invece sentì il silenzio di Rangi compattarsi in una forma più densa all’interno della sua esile struttura.

Erano a metà strada verso il cancello quando la situazione divenne troppo pesante da sopportare.

«È patetico!» disse Rangi senza voltarsi. L’unico modo in cui riusciva a gestire il suo disgusto per Kyoshi era non guardarla. «Ti fai calpestare! Tu servi l’Avatar! Abbi un po’ di dignità!»

Kyoshi sorrise. «Stavo cercando di stemperare la tensione» mormorò.

«Stavi per lasciare che ti colpissero! L’ho visto! E non osare provare a sostenere che stavi facendo jing neutro o quelle vostre buffonate di dominio della terra!»

Rangi si era trasformata sotto i suoi occhi da Guardiana professionale dell’Avatar, pronta a bruciare le ossa degli intrusi senza battere

ciglio, nell’adolescente non più grande di Kyoshi che perdeva facilmente le staffe con le amiche, e per di più era una specie di chioccia.

«E a proposito di dominio della terra, quella figura te l’ha fatta fare una contadina! Com’è possibile che tu non abbia ancora imparato le basi? Ho visto bambini nello Yu Dao gestire rocce più grandi di quel vaso!»

Lei e Rangi erano amiche, nonostante le apparenze. Quando la villa era in costruzione, mentre Kyoshi stava imparando i suoi doveri all’interno dello scheletro della casa incompiuta, le ci erano volute settimane per capire che quella ragazza autoritaria che si comportava come se fosse ancora nei corpi minori dell’Esercito del Fuoco urlava solo contro le persone che lasciava entrare nel suo guscio. Tutti gli altri erano feccia che non valeva lo sforzo.

«… Quindi la linea d’azione più efficace sarebbe stata quella di sorprendere la capa… Aoma, giusto?... da sola da qualche parte e poi distruggerla in modo così totale che gli altri recepiscano il messaggio di non disturbarti più. Mi stai ascoltando?»

Kyoshi si era persa la maggior parte del piano di battaglia. Era stata distratta dal colletto dell’armatura di Rangi, che nella caduta si era ripiegato e doveva tornare a posto, in modo da coprire di nuovo la pelle delicata della sua nuca. Ma la sua risposta fu la stessa.

«Perché ricorrere alla violenza?» disse. Toccò delicatamente con il vaso la schiena della Dominatrice del Fuoco. «Ho eroi forti come te che mi proteggono.»

Rangi simulò un conato di vomito.

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